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sabato 28 maggio 2016

Tombstone

Regia: George P. Cosmatos
Origine: USA
Anno: 1993
Durata:
130'







La trama (con parole mie): Wyatt Earp, ex sceriffo noto in tutto il West per la sua inflessibilità, ritiratosi come Uomo di Legge, decide con i suoi fratelli Virgil e Morgan di trasferirsi nella città di frontiera di Tombstone e mettersi in affari iniziando una nuova fase della sua vita.
Inizialmente tutto pare andare per il verso giusto, con il nuovo ruolo da uomini d'affari che funziona, l'amico ritrovato Doc Holliday, le famiglie presenti accanto a loro, ma per gli Earp i guai sono sempre in agguato: una banda di criminali da tempo insediata in quei territori, infatti, minaccia la sicurezza non solo di Tombstone, ma dei cari di Wyatt.
Quando il sangue comincerà ad essere versato, dunque, l'ex sceriffo sarà costretto a vestire di nuovo i panni dello spauracchio dei criminali e mescolare proiettili, vendetta e coraggio per ripulire le strade di Tombstone una volta per tutte.








Se avessi raccontato a me stesso davanti allo specchio neanche fossi il Travis di Taxi driver che mi sarei trovato, nel giro di pochi mesi, a scoprire di dover recuperare la visione di non uno, ma due Western che non avevo mai visto al contrario di Julez, mi sarei trovato decisamente più vicino alla Fantascienza classica che non alla Frontiera.
E invece, è proprio quello che è accaduto.
Archiviato - e con discreto successo - il simpatico Maverick, è stata la volta di Tombstone, solida grande produzione firmata dal vecchio mestierante George Cosmatos con un cast assolutamente all star - e con la signora Ford grande mattatrice nel riconoscere anche un Billy Bob Thornton giovane e di una trentina di chili sovrappeso rispetto a quello ora noto a tutti - pronto a rivisitare e rinverdire il mito del West di Wyatt Earp, una delle figure più leggendarie che l'epoca e la Storia americana conobbero, già portato sullo schermo in numerose occasioni - con risultati ovviamente differenti -, su tutte l'indimenticabile classico di John Ford Sfida infernale, nel quale a vestire i panni del mitico sceriffo fu l'altrettanto mitico Henry Fonda.
Ovviamente, a partire da Kurt Russell - che nel ruolo di Earp sfodera palle d'acciaio tali da far apparire anche altri storici personaggi interpretati nel corso della carriera dei pusillanimi neanche fossero il Cannibale - tutto in questo film mi ha convinto: il respiro classico e la cornice da grande epopea, un setting che ho sempre adorato e che rappresenta una delle colonne della mia formazione cinematografica e culturale, l'importanza dei concetti di amicizia e famiglia - con tutti gli alti e bassi del caso -, l'alcool e la voglia di sfidare la vita fino all'ultimo istante - fantastico il personaggio di Doc Holliday, segnato dalla malattia eppure sempre pronto a battersi forse per esorcizzare e, chissà, per cercare la morte "con gli stivali addosso" invece che in un letto d'ospedale - che non potrò mai non sentire come miei.
A prescindere, dunque, dal divertentissimo - e ricchissimo - gioco dell'identificazione dei futuri volti noti di piccolo e grande schermo - o ripescaggi come quello di Jason Priestley, all'epoca della realizzazione del film star di Beverly Hills 90210 -, un prodotto tosto e convincente, in grado di unire l'atmosfera da grande blockbuster hollywoodiano alla filosofia di un genere considerato quasi per natura "old school", la biografia e la leggenda, il quotidiano e le grandi imprese in grado di andare oltre ogni confine pur essendo scaturite dal caso, da un'ispirazione folle del momento o semplicemente dal fatto che chi le ha realizzate non aveva intenzione di mollare, che si trattasse di un nemico sul campo, o della vita in genere.
Del resto, il West non era certo il posto migliore per nutrire aspettative particolarmente alte, che si parli di sogni o di mera sopravvivenza, e la convivenza tra tutori dell'ordine e criminali, predatori e prede era così fragile ed incerta da condurre spesso e volentieri a scontri feroci e senza ritorno, o "senza perdono", come direbbe Clint: del resto, le vicende così simili e così diverse di Wyatt Earp e Doc Holliday rendono bene l'idea di quello che doveva essere lottare per la propria pelle a quei tempi ed in quei luoghi, pistola in pugno o palle d'acciaio che fossero.
E rende bene l'idea anche questo Tombstone, in grado di trasmettere il fascino e la crudeltà del West pur essendo, a conti fatti, una grande produzione e non un titolo d'autore come Dead Man o, in parte, lo stesso Gli spietati: lungo quella Frontiera si è dovuto lottare, amare, combattere e morire in modo da costruire qualcosa che sarebbe nato soltanto una volta che la polvere si fosse depositata una volta per tutte, le fondamenta di una società che i Wyatt Earp hanno potuto solo sognare, o quasi.
Non credo, infatti, che tra una pallottola, una sbronza ed una malattia, avessero il tempo di fare troppe altre cose se non sopravvivere.





MrFord





"And the whirlwind is in the thorn tree.
The virgins are all trimming their wicks.
The whirlwind is in the thorn tree.
It's hard for thee to kick against the pricks.
In measured hundredweight and penny pound.
When the man comes around.
And I heard a voice in the midst of the four beasts,
and I looked and behold: a pale horse.
And his name, that sat on him, was Death.
And Hell followed with him."
Johnny Cash - "The man comes around" - 






mercoledì 8 ottobre 2014

Sin City - Una donna per cui uccidere

Regia: Robert Rodriguez, Frank Miller
Origine: USA
Anno:
2014
Durata:
102'




La trama (con parole mie): a Sin City le cose non vanno mai per il verso giusto, e anche quando ci vanno, state pur certi che qualcosa finirà per andare storto. E mentre Marv, tra uno scontro e l'altro, osserva Nancy dimenarsi sulla pista, Johnny, giocatore d'azzardo dal talento sopraffino progetta di mettere all'angolo Roark, conscio che la posta in gioco sia ben più alta di qualche pigna di fiches.
E intanto Dwight, pronto a lottare contro i suoi demoni così come contro le ingiustizie, finisce per cadere nella trappola della donna che ha sconvolto la sua vita ed il cuore, Ava, pronta a manovrarlo come un burattino per poi sbarazzarsi di lui.
Ma la vendetta è un piatto che va gustato freddo, e sanguinolento: e così come Dwight stesso risorgerà dalle sue ceneri per togliere di mezzo l'amore della sua vita, Nancy si ispirerà ai ricordi di Hartigan per chiudere i conti con il passato ed il Potere.
Con l'aiuto sempre ben accetto di Marv.






Ricordo, anche se vagamente, il periodo in cui uscì il primo Sin City.
Probabilmente, ai tempi, la speranza dei distributori - e di Frank Miller, che tra graphic novels e diritti cinematografici dev'essersi fatto dei bei soldi - era quella di cavalcare l'onda del successo di Kill Bill e della moda tarantiniana mai davvero passata per dare origine ad un nuovo fenomeno di massa, sfruttando anche soluzioni visive ai tempi per certi versi innovative.
Ricordo anche - e molto meno vagamente del resto - che la visione mi lasciò parecchio indifferente, e che, oltre a non rendere giustizia alle pagine del fumetto, mi parve priva del carattere necessario per assurgere al ruolo di cult: le idee c'erano, il cast anche, eppure l'intera operazione pareva decisamente posticcia, senza dubbio lontana anni luce da cose enormi come Pulp fiction, tanto per rimanere in tema di sesso, violenza e turpiloquio.
Da allora sono passati quasi dieci anni, e onestamente, di un sequel di Sin City non sentiva l'esigenza praticamente nessuno: certo, il cast è stato rinnovato alla grande - soprattutto dal punto di vista femminile, dalla vecchia conoscenza Jessica Alba alla mia favorita Rosario Dawson, che nonostante un pò di vistoso inquartamento fa ancora una figura decisamente notevole, passando per una Eva Green che, non doma del recente sequel altrettanto inutile di 300 mostra generosamente le generose tette per gran parte del suo minutaggio on screen -, l'utilizzo di personaggi in piena rampa di lancio come Gordon-Levitt o vecchie glorie mai dome come Powers Boothe funziona, il fascino dell'hard boiled e delle scelte visive resta, eppure il tutto risulta ancora più inutile e posticcio di quanto non risultasse nei primi Anni Zero.
Nonostante, però, un ritmo decisamente lento e la sensazione che la visione non dia e non tolga assolutamente nulla, quasi come se non esistesse, rispetto al percorso di uno spettatore, non me la sento di volere male a questo film quanto ad altre schifezze che mi è capitato di dover sopportare di recente: certo, è una bieca operazione commerciale - peraltro naufragata, a quanto pare dai primi risultati al botteghino -, non ha alcuna carta in regola per essere in qualche modo ricordato in futuro, è piuttosto sonnolento e slegato nella narrazione - capisco le storie ad incastro, ma decidere di optare per due tronconi quasi distinti funziona proprio male, dal punto di vista della sceneggiatura e dei tempi -, ma a suo modo è quasi innocuo, un giocattolone di serie b finto autoriale buono giusto come fosse una lettura estiva, di quelle che si fanno senza preoccuparsi troppo di chi potrebbe vederci dedicare loro del tempo sotto l'ombrellone, o una bellezza mozzafiato pronta a catturare l'attenzione di qualsiasi maschio presente mantenendo la coscienza di non ricordare nessuno di loro almeno quanto loro non ricorderanno il viso di lei.
Del resto, penso che nessuno tra gli ometti che hanno approcciato quest'ultimo lavoro della premiata - ma neppure troppo - ditta Rodriguez/Miller si sia concentrato troppo sul viso ormai almeno in parte segnato dall'età di Eva Green, distratti non tanto dagli occhi resi smeraldo sul bianco e nero quanto da una delle coppie di tette forse più importanti del panorama cinematografico attuale - anche se Rosario Dawson, in questo caso, avrebbe da dire la sua, senza citare Jennifer Lawrence -.
Sin City - questo secondo capitolo anche più del primo - è un pò così, come quei porno che si guardano quando si ha voglia di sfogarsi un pò e poi finiscono nel dimenticatoio senza neppure passare dal via.
Del resto, se città del peccato deve essere, una sveltina - anche se cinematografica - non scandalizzerà certo nessuno.



MrFord



"Every damn time I walk through that door,
it's the same damn thing
That bitch bends over, 
and I forget my name - ow!"
Kiss - "Domino" - 




sabato 12 ottobre 2013

24: redemption

Regia: Jon Cassar
Origine: USA
Anno: 2008
Durata: 84'




La trama (con parole mie): Jack Bauer, al termine delle vicende della sesta stagione di 24, si trova nel cuore dell'Africa presso la scuola amministrata da un ex agente delle Forze speciali suo vecchio amico, rifugio presso il quale ha trovato una sua dimensione da mesi dopo aver viaggiato praticamente in ogni continente.
Quando un sedicente generale pianifica un colpo di stato sfruttando bambini soldato e armamenti forniti da un misterioso finanziatore di Washington, il ruvido Jack si troverà di nuovo costretto ad imbracciare le armi in modo da salvare i giovani allievi della scuola, e garantire loro una via di fuga verso un futuro di speranza negli States, in procinto di salutare l'elezione di un nuovo Presidente.




I frequentatori più assidui del Saloon ben conoscono, ormai, la predilezione ed il profondo rispetto che suscitano nel sottoscritto gli action heroes, personaggi destinati ad entrare nell'Olimpo dei preferiti fordiani di sempre nonchè a costutuire l'ossatura di quelle che saranno le prime visioni del Fordino non appena comincerà a desiderare qualcosa di diverso dai cartoni animati.
Negli ultimi anni, complice la crisi "cinematografica" del genere, in soccorso a questo vecchio cowboy è giunto uno dei charachters più tosti del genere, il reazionario Jack Bauer, protagonista di una serie cult - 24, di ritorno nel 2014 con una nuova stagione - dal ritmo serratissimo e sempre in grado di divertire grazie ad una mancanza di ironia dal curioso potere di assumere una valenza positiva proprio perchè pronta a prestare il fianco a commenti e riflessioni a proposito di problematiche quali la stupidità dei terroristi di turno che, dopo aver constatato di aver a che fare con il suddetto Bauer, continuano a sperare che i loro piani possano andare a buon fine.
Avendo da non troppo tempo terminato la visione della sesta stagione, ed avendo appreso dell'esistenza di un film per la tv realizzato come raccordo con la settima - prossimamente su questi schermi -, ho recuperato in men che non si dica 24: redemption, che racconta una disavventura nel cuore dell'Africa dilaniata dalle guerre civili e dal problema dei bambini soldato vissuta dal vecchio Jack, convinto a non fare più ritorno negli States.
Badate, però: non siamo nei paraggi del bellissimo Rebelle, o di un titolo di genere come potrebbe confezionarlo Michael Mann.
A dire il vero non siamo neppure vicini a Michael Bay, o a Blood diamond.
Purtroppo, quello che pare una sorta di episodio tirato per le lunghe - seppur sempre narrato in tempo reale - della serie è un prodotto di qualità decisamente bassa, reso divertente solo dai commenti e che neppure le gesta come di consueto al limite dell'incredibile di Bauer riescono a rendere interessante.
Uniche segnalazioni degne di nota sono la partecipazione di Robert Carlyle e l'introduzione di un Presidente degli Stati Uniti donna, segno di quanto in qualche modo avveniristica è stata questa serie: dopo aver anticipato i tempi inserendo il charachter del Presidente afroamericano Palmer, infatti, è la volta dell'ex senatrice Allison Taylor segnare un'epoca che, dalla nostra parte dello schermo, non si è ancora trasformata in realtà - anche se sono convinto che non manchi poi molto, a quel momento -.
Per il resto parliamo di un action movie scontato e piuttosto bolso che senza dubbio non risultava necessario al brand di 24, e che ha il solo merito di preparare il terreno alla visione della già citata settima annata, attesissima dal sottoscritto e che, spero, si rivelerà all'altezza di quella che è stata la saga di Jack Bauer fino ad ora.
Redemption, ovviamente, escluso.


MrFord


"It's gonna take a lot to drag me away from you
there's nothing that a hundred men or more could ever do
I bless the rains down in Africa
gonna take some time to do the things we never had."
Toto - "Africa" - 


mercoledì 7 agosto 2013

Straight A's

Regia: James Cox
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 85'




La trama (con parole mie): Scott, ribelle poco più che trentenne dalla vita sregolata con un ricovero in un istituto di igiene mentale alle spalle, sotto la pressione del fantasma della madre morta torna dopo anni a far visita al fratello, uomo d'affari di successo che vive in una villa da favola con la moglie Katherine ed i figli Charles e Gracie non lontano dalla proprietà del loro padre, che a seguito della scomparsa della moglie pare avere sviluppato l'Alzheimer.
Peccato che Charles sia lontano qualche giorno per un viaggio d'affari, ed il fascino da "maledetto" di Scott cominci a farsi sentire non solo con Katherine - che ai tempi del liceo era stata sua fidanzata -, ma anche con i piccoli nipoti, attratti dall'approccio completamente disorganizzato e senza peli sulla lingua di quello strano zio comparso all'improvviso cavalcando come un cowboy.
Cosa accadrà alla famiglia?




Onestamente, avevo ben poche aspettative rispetto a questo film: recuperato praticamente per caso e per il momento privo di una data d'uscita italiana, era da parecchio tempo diventato una sorta di eventuale tappabuchi per una serata da visione più interessante clamorosamente mancata: dunque, nonostante Julez mi spingesse ad avere fiducia, ammetto di aver approcciato Straight A's il più battagliero possibile.
E, altrettanto onestamente, devo ammettere che il fascino dello "zio maledetto" Scott interpretato da Ryan Philippe - attore che, peraltro, neppure considero troppo, e che in fondo trovo abbia avuto soltanto un vero, grande ruolo nella sua carriera, quello offertogli da Clint per Flags of our fathers - nel corso della prima parte della pellicola aveva finito quasi per far ricredere perfino il sottoscritto: sarà per il fare da cowboy moderno - arrivo a cavallo, battuta pronta, comportamento scombinato, alcool facile - o il rapporto costruito con i piccoli Gracie e Charles - mitico il secondo -, ma mi pareva di essere di fronte ad una probabile ammissione all'indirizzo della già citata Julez che, per incoraggiarmi, aveva supposto che potesse rivelarsi uno di quei titoli "alla Sundance" in grado di soddisfare il sottoscritto - questo nonostante, nel frattempo, lei stessa si fosse addormentata -.
Così, una sequenza dopo l'altra, ho assistito con ottimismo crescente a questo ritratto di famiglia atipico girato - anche se con un approccio decisamente più patinato - nello stile del famoso Festival figlio prediletto di Robert Redford, con il parallelo tra l'impatto che la presenza di Scott provoca nel presentarsi di punto in bianco a casa del fratello e le vicende d'affari - ma non solo - di quest'ultimo - un imbolsitissimo Luke Wilson, che pare essersi fagocitato l'intera famiglia -.
Ammetto anche che giunto a metà film ero perfino pronto a rivedere la mia posizione iniziale dando credito a James Cox e al suo lavoro, quando d'improvviso la strada per il finale - giunto, fortunatamente, dopo poco più di un'ora e venti - assume le connotazioni del tipico prodotto da sabato sera su Mediaset per famiglie neppure ci ritrovassimo di fronte a schifezze atomiche come Ho cercato il tuo nome, in un'escalation di retorica e sconvolgimenti studioapertiani da fare venire i brividi e confermare che, evidentemente, la serata - almeno a livello cinematografico - sarebbe stata ben lontana dall'essere un successo.
A salvare il voto dalla debacle assoluta giusto la prima parte ed il personaggio di Ryan Phillippe dal suo arrivo alla sconvolgente - e telefonatissima - rivelazione sulla sua situazione, capace di illudere il sottoscritto di essersi inaspettatamente trovato di fronte ad un discepolo dell'hankmoodysmo: ma è poca roba, e quello che resta non basta per considerare Straight A's come un'alternativa anche solo per una visione d'intrattenimento a neuroni spenti.
Il Cinema ammmeregano tanto osteggiato dai critici - o pseudo tali - radical chic nasce e si sviluppa senza dubbio in prodotti come questo, capaci di illudere di avere il coraggio di presentare storie e vicende se non credibili, almeno coinvolgenti e minuto dopo minuto in grado di trasformarsi in polpettoni sentimentali della peggior specie, demolendo di fatto anche quel poco del lavoro con un senso portato avanti dagli sceneggiatori.
Se a questo unite una Anna Paquin ormai specializzata in personaggi odiosi e così difficili da sopportare da richiedere un cocktail extra, la frittata è fatta: se questa è l'ottica dei primi della classe intenzionati a prendere "tutte A", allora è molto meglio essere quelli dell'ultima fila, i casinisti che dovranno lottare fino all'ultimo giorno di scuola.


MrFord


"Don't wait for me
'cause I'll be running late 
by the flowers upon my grave
don't wait for me
'cause I'll be coming home 
don't wait for me
long by the telephone."
Ryan Bingham - "Don't you wait for me" - 


giovedì 30 maggio 2013

24 - Stagione 6

 Produzione: Fox
Origine: USA
Anno: 2007
Episodi: 24



La trama (con parole mie): gli Stati Uniti, sotto la guida di Wayne Palmer, fratello del compianto ex Presidente David, sono da settimane sotto attacco. Una misteriosa organizzazione terroristica, infatti, ha preso di mira le principali città del Paese seminando vittime e panico, ed una delle richieste del suo leader, Abu Fayed, è che Jack Bauer sia liberato dalla prigionia in Cina per essergli consegnato personalmente.
Il ritorno sul suolo americano dell'agente più spaccaculi del piccolo schermo innescherà una serie di vicende che porteranno all'esplosione di un ordigno nucleare nella periferia di Los Angeles, ad un avvicendamento alla guida degli USA e al confronto finale tra lo stesso Jack ed una serie di suoi vecchi nemici, dallo stesso Fayed al generale russo Gredenko, passando per i cinesi prima di finire con il suo stesso padre.
Ma non abbiate dubbi. Bauer sistemerà tutti come solo lui sa fare.




Nel corso degli ultimi anni poche serie sono state in grado di incarnare l'idea di action meglio di 24: prodotto in bilico tra la tamarrata selvaggia e lo specchio delle paure figlie degli States negli anni del "bushismo", poggiato sulle spalle di un Kiefer Sutherland monoespressivo e di stagione in stagione sempre più reazionario, girato sempre "in tempo reale" ed ambientato nell'arco di una giornata, le soddisfazioni regalate dallo stesso agli occupanti di casa Ford sono state molteplici, in particolare con le stagioni quattro e cinque, vere e proprie chicche del genere e non solo.
La sesta annata, chiamata a mantenere un livello ugualmente alto, ha rappresentato al contrario il primo passo indietro qualitativo - e soprattutto di idee - della serie, con una catena di situazioni già affrontate da Jack Bauer - e dagli spettatori - nel corso delle stagioni precedenti riciclate o amplificate in modo da sopperire, di fatto, alla mancanza di un plot che fosse legato a doppio filo ad un unico villain di rilievo - come fu l'indimenticabile Abib Marwan della season four - o ad una situazione nuova che coinvolgesse il granitico protagonista: personalmente l'idea di vedere Jack alle prese con l'evasione dal carcere cinese all'interno del quale era stato rinchiuso nel finale del suo quinto giro di giostra avrebbe regalato un appeal decisamente più alto rispetto all'ennesimo gruppo terroristico di matrice islamica intento a complottare con i russi in modo da destabilizzare gli equilibri mondiali di potere minacciando gli States ed il loro Presidente destinato ad essere ovviamente sgominato dal buon Bauer, che pronti via, dopo essere stato scarcerato su richiesta proprio dei terroristi riprende in mano il suo (sporco) lavoro di agente come se non fosse passato un solo giorno dei due anni in cui i cinesi paiono essersi divertiti un mondo ad infliggergli una tortura dietro l'altra.
Sicuramente l'inserimento della vicenda legata al fratello e al padre di Jack dona un pò di spessore umano ad un personaggio certo non noto per i suoi sentimenti - per quanto ad ogni stagione continui ad essere presente ben più di una donna pronta a dare la vita, volente o nolente, per l'agente più tosto ed insubordinato del CTU -, ed il confronto finale con il vecchio, spietato genitore - un ottimo James Cromwell - funziona alla grande, eppure l'impressione è quella di un deja-vù di ventiquattro episodi, all'interno dei quali anche i tipici twist e colpi di scena cui gli spettatori della serie erano ormai abituati tendono a latitare.
Il risultato è e resta, comunque, profondamente godibile, e rimbalzando tra l'ormai storico suono del telefono del CTU e l'ironia a proposito delle scelte dei nemici di Bauer - in casa Ford ci si è chiesto, almeno un paio di volte a puntata, per quale misterioso motivo nessuno di quelli che potrebbero volere Jack morto non riesce a decidersi a piantargli una pallottola dritta nel cervello, invece che insistere per catturarlo, finendo ovviamente per essere ripagato con un trattamento spesso peggiore dal Nostro -, anche questa volta si è assistito al tiratissimo e consueto ripasso da parte del protagonista di tutti i potenziali nemici degli USA, da Abu Fayed al generale ribelle Gredenko, dai carcerieri cinesi fino al padre e al fratello - l'interrogatorio di Jack a quest'ultimo, ancora più duro del solito per gli standard già piuttosto convincenti dell'agente è senza dubbio uno dei pezzi cult dell'annata -, senza risparmiare anche colleghi incautamente disposti ad intralciare ordini - o insubordinazioni - del suddetto Bauer - è il caso di Curtis, uomo d'assalto che resisteva già da qualche anno accanto all'alter ego di Kiefer Sutherland, impresa davvero titanica, considerate le defezioni di ogni genere e le morti che puntualmente colpiscono tutti quelli che hanno a che fare con lui -.
Molto del divertimento del sottoscritto e di Julez è stato legato anche alla continua mancanza di fiducia che colleghi, superiori e Presidenti vari continuano a riporre nel protagonista, che per sei stagioni non ha fatto nient'altro che continuare a togliere le castagne dal fuoco a tutti agendo sempre e comunque come voleva, sbattendosene di regole, restrizioni e quant'altro quando queste gli impedivano di fare qualsiasi cosa desiderasse: fossi in un casuale direttore del CTU, infatti, lascerei fare a Bauer esattamente tutto quello che vuole, e senza dubbio troverei il tempo di uscire a cena, schiacciare un pisolino, farmi qualche robusto drink e forse anche prenotare un bel weekend alle terme senza avere il minimo dubbio che l'operazione, alla fine, possa riuscire.
L'ipotesi di Julez è che in realtà Jack Bauer, decisivo in un giorno su trecentosessantacinque, passi in realtà i restanti trecentosessantaquattro a collezionare fallimenti colossali e plateali figure di merda, e proprio per questo motivo tendenzialmente i suoi capi finiscono per non essere mai sicuri delle sue scelte: questo, purtroppo, resterà un mistero.
Quello che mistero, invece, non è, è che nonostante una stagione leggermente sottotono rispetto alle precedenti al Saloon attenderemo fiduciosi le ultime due annate - precedute da un film che ovviamente verrà recuperato - di quello che è stato uno dei titoli di riferimento del piccolo schermo in questo inizio di Nuovo Millennio, confidando che Jack Bauer possa regalarci numerose altre perle e che la prossima volta il cattivo di turno sia di nuovo di una sostanza adeguata a questo insolito, spigoloso eroe "buono".


MrFord


"China decorates our table
funny how the cracks don't seem to show
pour the wine dear
you say we'll take a holiday
but we never can agree on where to go."

Tori Amos - "China" -




lunedì 24 dicembre 2012

Frailty - Nessuno è al sicuro

Regia: Bill Paxton
Origine: USA
Anno: 2001
Durata:
100'




La trama (con parole mie): Fenton Meiks, un giovane in apparente stato confusionale, si reca alla sezione locale dell'FBI per confessare all'agente Wesley Doyle i delitti che prima suo padre e dunque suo fratello minore Adam avrebbero commesso a partire dall'estate del 1979 guidati dal volere di Dio, che avrebbe loro indicato attraverso visioni alcuni demoni mascherati da uomini e donne che i due hanno il compito di eliminare in vista dell'imminente Giorno del giudizio.
Fenton, ormai adulto, rivela all'investigatore il perchè non si sia deciso fino a quel momento a rivelare i dettagli della raccapricciante serie di sparizioni che hanno investito il Texas nel corso degli anni, rievocando la propria infanzia e promettendo all'uomo di fronte a lui di portarlo nel luogo in cui sono seppellite le vittime che hanno mietuto i suoi.
Ma un terribile segreto incombe sulle vittime stesse, su Fenton e sull'agente Doyle. Un segreto mortale. O divino, a seconda dei punti di vista.




A volte è curioso come si vengano a scoprire titoli validi ed interessanti come questo: un paio di mesi fa, in ospedale per l'ormai noto intervento alle tonsille, divorai in pochi giorni Serial killer: storia, sangue, leggenda - che fu a dire il vero abbastanza deludente -, che in realtà aveva i suoi momenti migliori proprio nelle sezioni atte ad indicare quelle che sono le opere più interessanti legate al mondo degli assassini seriali nella Letteratura, nella Musica e nel Cinema.
Avendo già dato rispetto a pietre miliari del genere quali Seven, Henry pioggia di sangue, Manhunter o Il silenzio degli innocenti, spinto anche dalla curiosità di Julez sono andato a recuperare questo  Frailty, thriller dai risvolti quasi horrorifici - anche se profondamente reale nella sua rappresentazione - intriso del sudore e della terra del Texas fotografato anche da Lansdale o dalla magnifica Friday night lights, impregnato di lavoro manuale e fede in Dio: il risultato è stato una vera e propria rivelazione rispetto all'esordio dietro la macchina da presa di Bill Paxton, attore spesso sottovalutato - ma non per questo meno in gamba di molti suoi colleghi più noti al grande pubblico - che si è rivelato un regista attento e profondamente artigiano nell'accezione decisamente positiva nel termine alle prese con uno script assolutamente interessante che si pone - anche grazie all'utilizzo dello stesso protagonista - come una sorta di deviato fratellino del meraviglioso Killer Joe.
Per un appassionato in materia di serial killers come il sottoscritto, un film come questo risulterebbe interessante anche soltanto per il rapporto tra il padre - lo stesso Paxton - ed i due figli costretti ad assistere al suo inarrestabile delirio fino ad arrivare ad accettarlo come fosse loro: spesso e volentieri, nella storia degli assassini seriali, si sono infatti verificate situazioni attraverso le quali è stato relativamente semplice, per psicologi e criminologi, dare una spiegazione a proposito dell'origine delle nature violente degli stessi.
Abusi, situazioni limite, costrizioni e rapporti malati con i genitori o le persone che si sono occupate della crescita dei futuri responsabili di omicidi e violenze sono spesso una causa scatenante della loro stessa sete di vendetta verso il mondo: da Edmund Kemper a Charles Manson, non si contano i casi in cui gli squilibri dell'infanzia e della giovinezza hanno pesato come macigni sulla progressiva formazione della mente criminale e della sua conseguente e distruttiva esplosione.
Ad un elemento già interessante come questo viene aggiunta la componente religiosa, in grado di far riflettere sulla delicata questione degli estremismi analizzata anche in pellicole notevoli quali The woman e Red state, e sicuramente importante nell'analisi di alcuni aspetti deviati della società a stelle e strisce che tanto spesso si preoccupa di venderci - e vendersi - ritratti perfetti che possano celare buchi neri come questo.
Ottima la scelta di non mostrare mai esplicitamente le violenze ma giocare più che altro sulla pressione e la tensione dei momenti che precedono e seguono ogni omicidio rispetto alle reazioni dei piccoli Adam e Fenton, così come interessante la scelta di mostrare i "demoni" come colpevoli meritevoli di una punizione - una cosa in stile Dexter, per intenderci - ed assolutamente perfetto il crescendo finale, beffardo e terribile neanche ci trovassimo proprio in un film di Friedkin, che per il suo già citato Killer Joe, oltre che rispetto a Matthew McConaughey protagonista, pare aver attinto dal background di questa pellicola neanche l'avesse visionata il giorno prima di iniziare le riprese.
Certo, non mancano le sbavature soprattutto rispetto ad alcuni passaggi dello script e alla scelta di costruire la quasi totalità della vicenda sui rapporti tra padre e figli senza preoccuparsi troppo della logica delle catture e degli occultamenti dei cadaveri, eppure l'insieme funziona soprattutto per le riflessioni legate ai concetti di Famiglia e Fede, certamente non estranei a tutti noi occidentali, nati in Texas oppure no.
Un titolo tosto e sorprendente, una piccola gemma nascosta che, se vi capita, consiglio caldamente di recuperare: se poi siete attratti in qualche modo dal "lato oscuro della forza", potrebbe addirittura diventare un piccolo cult imperdibile.


MrFord


"You can run on for a long time
run on for a long time
run on for a long time
sooner or later God'll cut you down
sooner or later God'll cut you down."
Johnny Cash - "God's gonna cut you down" -


mercoledì 28 novembre 2012

Hatfields&McCoys

Produzione: History
Origine: USA
Anno: 2012
Episodi: 3




La trama (con parole mie): Anse Hatfield e Randall McCoy sono due amici pronti a proteggersi l'un l'altro nel corso della sanguinosa Guerra di Secessione americana. Quando il primo decide di disertare per tornare a casa tra i due si crea una frattura resa ancora più profonda dall'uccisione da parte di Jim Vance, fedele ad Hatfield, di un parente stretto di McCoy.
L'episodio accende la miccia di una disputa che vedrà le due famiglie darsi battaglia senza esclusione di colpi per più di un ventennio, dalle aule di tribunale alle risse di strada, e che costerà lacrime e vite di figli, fratelli, parenti vicini e lontani da entrambe le parti.
I due patriarchi, Anse e Randall, dovranno dunque trovare il modo di risolvere la questione prima che il conto delle esistenze spezzate diventi troppo caro per entrambi: ma soltanto uno tra loro riuscirà, con la vecchiaia, ad abbandonare i propositi di lotta.




Non sarebbe un vero Saloon, questo, se non amassi il western alla follia.
Ricordo quando, da bambino - parliamo del pieno degli anni ottanta - la sera capitava che, dopo cena, scendessi di due piani per andare a trovare i miei nonni materni, che abitavano nel nostro stesso palazzo: mio nonno, reduce della Seconda Guerra Mondiale, carattere orribile, aggressivo e litigioso con quasi tutto il mondo, giocatore di carte incallito - e discreto baro -, con me - ai tempi mio fratello era appena nato - diventava un pezzo di pane, viziandomi in ogni modo e permettendomi qualsiasi cosa.
Così, quando approfittavo di quel breve tempo prima che i miei richiamassero perchè tornassi a casa e andassi a letto, finì per acconsentire a tutte le mie richieste - soprattutto in materia di caramelle - mentre io guardavo ammirato un mondo alla tv che mi fece, di fatto, scoprire lui: dalla lotta libera - il mio amore per il wrestling nacque in quei primi giorni di incontri del leggendario Antonio Inoki - a tutta la filmografia di John Wayne, idolo di mio nonno soprattutto per i suoi ruoli lungo la Frontiera, da Ombre rosse a Sentieri selvaggi, da Rio Lobo a I quattro figli di Katie Elder.
Da allora, i miei sentimenti per il western non sono cambiati, anzi: con l'ingresso nella mia vita de Gli spietati di Clint Eastwood, tutto quello che era il mito, la leggenda, i ricordi di quelle sere magiche nella sala dei miei nonni che ispiravano poi durante il giorno la costruzione di improbabili capanne in stile indiano con coperte, sedie e oggetti di vario genere divenirono il lato onirico di un'epoca difficile, dura, sporca, che non fece sconti a nessuno: sotto questi segni è nato il romanzo che spero a breve di pubblicare, e si sono accumulate visioni sempre nuove.
Da Dead man a Il grinta targato Coen, la Frontiera non era più qualcosa di perfetto e tirato a lucido, ma un luogo di sangue e lotta, segnato nel profondo come chi l'aveva vissuta: Hatfields&McCoys, miniserie in tre episodi targata History, produzione firmata dal Kevin Reynolds che fu regista di Robin Hood - Il principe dei ladri e Waterworld, ne è una rappresentazione perfetta.
Ispirato ad una faida che vide opposte due famiglie e che è divenuta storica negli States, questo lavoro fotografa con un piglio decisamente autoriale - ma non per questo poco fisico - la sensazione di precarietà e continuo "lavoro di gomito" che era prerogativa di luoghi e tempi in cui, fondamentalmente, valeva spesso e volentieri la legge del più forte, e l'alternativa alla morte o ad una schiavitù mascherata da quieta sudditanza era data dall'imparare a difendersi, ad ogni età e senza alcun riguardo per nessuno.
In questo senso un plauso va senza dubbio agli autori, in grado di portare avanti uno script che, seppur reso a tratti ostico a causa dell'elevato numero di personaggi, presenta alla perfezione lo spirito di profonda volontà di lottare che animava uomini, donne ed intere famiglie, senza contare l'equilibrio con il quale vengono presentati personaggi clamorosamente discutibili ed altri sicuramente più nobili d'animo da una parte e dall'altra di questa rivalità che ricorda, pur se legata a diverse motivazioni, quella degli shakespeariani Montecchi e Capuleti.
Così, a tratti e a seconda dei differenti charachters, si finisce per parteggiare per l'una o l'altra parte, ben consci che, in casi come questi, poco importa ed importerà chi avrà davvero iniziato, o chi avrà rifiutato di porre la parola fine quando avrebbe potuto, che "non ci saranno meriti" - e neppure perdono -, e che sangue e morte avranno le redini saldamente in pugno, fino alla fine.
Preparatevi dunque ad una cavalcata che non porterà niente di buono se non qualche pallido momento di felicità che basterà un'occhiata a spazzare via: Hatfield o McCoy, non importa quale sarà il nome che porta il vostro prediletto, perchè il Destino avrà segnato per lui una pagina speciale del suo taccuino.
E non è deciso a fare sconti.
Un lavoro dunque pazzesco, girato con perizia, coinvolgente e tesissimo, con un cast stellare ed in forma smagliante - strepitoso Kevin Costner nel ruolo del ruvido Anse Hatfield, ottimo Bill Paxton in quello di Randall McCoy, ed una spanna su tutti un fantastico Tom Berenger a prestare fisicità ed anima allo "spietato" Jim Vance - che invito davvero tutti a recuperare: tre episodi che paiono film uno migliore dell'altro, una corsa attraverso due decadi che mostra la potenzialità distruttiva del rancore e del desiderio di rivalsa e che è diventata un simbolo nella Storia dei "giovani" Stati Uniti che, per qualità e forza, non esiterei ad associare a cose pregevoli come Game of thrones.
Dunque, che siate abituati alla Frontiera, oppure no, Hatfields&McCoys è un ottimo modo per affrontarla: perchè almeno una volta nella vita, tutti dobbiamo percorrerla almeno per un tratto.


MrFord


"I am what I create
believing in my fate
integrity is my name
all that I am doing
can never be ruined
my song remains insane
eye for an eye
eye for an eye
eye for an eye."
Soulfly - "Eye for an eye" -


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