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sabato 28 maggio 2016

Tombstone

Regia: George P. Cosmatos
Origine: USA
Anno: 1993
Durata:
130'







La trama (con parole mie): Wyatt Earp, ex sceriffo noto in tutto il West per la sua inflessibilità, ritiratosi come Uomo di Legge, decide con i suoi fratelli Virgil e Morgan di trasferirsi nella città di frontiera di Tombstone e mettersi in affari iniziando una nuova fase della sua vita.
Inizialmente tutto pare andare per il verso giusto, con il nuovo ruolo da uomini d'affari che funziona, l'amico ritrovato Doc Holliday, le famiglie presenti accanto a loro, ma per gli Earp i guai sono sempre in agguato: una banda di criminali da tempo insediata in quei territori, infatti, minaccia la sicurezza non solo di Tombstone, ma dei cari di Wyatt.
Quando il sangue comincerà ad essere versato, dunque, l'ex sceriffo sarà costretto a vestire di nuovo i panni dello spauracchio dei criminali e mescolare proiettili, vendetta e coraggio per ripulire le strade di Tombstone una volta per tutte.








Se avessi raccontato a me stesso davanti allo specchio neanche fossi il Travis di Taxi driver che mi sarei trovato, nel giro di pochi mesi, a scoprire di dover recuperare la visione di non uno, ma due Western che non avevo mai visto al contrario di Julez, mi sarei trovato decisamente più vicino alla Fantascienza classica che non alla Frontiera.
E invece, è proprio quello che è accaduto.
Archiviato - e con discreto successo - il simpatico Maverick, è stata la volta di Tombstone, solida grande produzione firmata dal vecchio mestierante George Cosmatos con un cast assolutamente all star - e con la signora Ford grande mattatrice nel riconoscere anche un Billy Bob Thornton giovane e di una trentina di chili sovrappeso rispetto a quello ora noto a tutti - pronto a rivisitare e rinverdire il mito del West di Wyatt Earp, una delle figure più leggendarie che l'epoca e la Storia americana conobbero, già portato sullo schermo in numerose occasioni - con risultati ovviamente differenti -, su tutte l'indimenticabile classico di John Ford Sfida infernale, nel quale a vestire i panni del mitico sceriffo fu l'altrettanto mitico Henry Fonda.
Ovviamente, a partire da Kurt Russell - che nel ruolo di Earp sfodera palle d'acciaio tali da far apparire anche altri storici personaggi interpretati nel corso della carriera dei pusillanimi neanche fossero il Cannibale - tutto in questo film mi ha convinto: il respiro classico e la cornice da grande epopea, un setting che ho sempre adorato e che rappresenta una delle colonne della mia formazione cinematografica e culturale, l'importanza dei concetti di amicizia e famiglia - con tutti gli alti e bassi del caso -, l'alcool e la voglia di sfidare la vita fino all'ultimo istante - fantastico il personaggio di Doc Holliday, segnato dalla malattia eppure sempre pronto a battersi forse per esorcizzare e, chissà, per cercare la morte "con gli stivali addosso" invece che in un letto d'ospedale - che non potrò mai non sentire come miei.
A prescindere, dunque, dal divertentissimo - e ricchissimo - gioco dell'identificazione dei futuri volti noti di piccolo e grande schermo - o ripescaggi come quello di Jason Priestley, all'epoca della realizzazione del film star di Beverly Hills 90210 -, un prodotto tosto e convincente, in grado di unire l'atmosfera da grande blockbuster hollywoodiano alla filosofia di un genere considerato quasi per natura "old school", la biografia e la leggenda, il quotidiano e le grandi imprese in grado di andare oltre ogni confine pur essendo scaturite dal caso, da un'ispirazione folle del momento o semplicemente dal fatto che chi le ha realizzate non aveva intenzione di mollare, che si trattasse di un nemico sul campo, o della vita in genere.
Del resto, il West non era certo il posto migliore per nutrire aspettative particolarmente alte, che si parli di sogni o di mera sopravvivenza, e la convivenza tra tutori dell'ordine e criminali, predatori e prede era così fragile ed incerta da condurre spesso e volentieri a scontri feroci e senza ritorno, o "senza perdono", come direbbe Clint: del resto, le vicende così simili e così diverse di Wyatt Earp e Doc Holliday rendono bene l'idea di quello che doveva essere lottare per la propria pelle a quei tempi ed in quei luoghi, pistola in pugno o palle d'acciaio che fossero.
E rende bene l'idea anche questo Tombstone, in grado di trasmettere il fascino e la crudeltà del West pur essendo, a conti fatti, una grande produzione e non un titolo d'autore come Dead Man o, in parte, lo stesso Gli spietati: lungo quella Frontiera si è dovuto lottare, amare, combattere e morire in modo da costruire qualcosa che sarebbe nato soltanto una volta che la polvere si fosse depositata una volta per tutte, le fondamenta di una società che i Wyatt Earp hanno potuto solo sognare, o quasi.
Non credo, infatti, che tra una pallottola, una sbronza ed una malattia, avessero il tempo di fare troppe altre cose se non sopravvivere.





MrFord





"And the whirlwind is in the thorn tree.
The virgins are all trimming their wicks.
The whirlwind is in the thorn tree.
It's hard for thee to kick against the pricks.
In measured hundredweight and penny pound.
When the man comes around.
And I heard a voice in the midst of the four beasts,
and I looked and behold: a pale horse.
And his name, that sat on him, was Death.
And Hell followed with him."
Johnny Cash - "The man comes around" - 






martedì 23 ottobre 2012

Killer Joe

Regia: William Friedkin
Origine: USA
Anno: 2011
Durata: 102'




La trama (con parole mie): Chris Smith ha un sacco di problemi. Vive in un buco di culo di provincia del Texas, la sua vita non decolla, deve dei soldi ad un boss del posto per via di un buon quantitativo di coca sparito nel nulla ed ha un pessimo rapporto con la madre.
Certo, non che con il padre Ansel e la sua nuova moglie Sharla le cose vadano meglio.
L'unica che gli resta, di fatto, è Dottie, sua sorella minore.
Innocente bambina perduta in un mondo di predatori.
Dottie e i cinquantamila dollari dell'assicurazione sulla vita della madre.
Ma perchè l'assegno possa essere incassato, ovviamente, Chris non può metterci mano personalmente, che poi non ne avrebbe neppure il coraggio.
Così, d'accordo con Ansel, contatta Killer Joe Cooper, un detective della omicidi di Dallas che ogni tanto si presta a lavori di "pulizia".
Ma ancora non sa che l'ingresso dell'uomo nella sua vita sarà solo l'inizio di un'altra infinità di guai.




Alla fine, è arrivato.
Cazzo, se è arrivato.
L'erede di Drive ha finalmente bussato alla porta di casa Ford.
Nel corso di questo duemiladodici, sono passati The artist, Quella casa nel bosco, The raid - Redemption, Expendables 2, Take shelter, ed è stato come arrivare ogni volta ad un passo dalla meta, senza poterla raggiungere.
Questo prima di Joe.
Joe che è il lato oscuro del romanticismo violento cui ha prestato anima e corpo Ryan Gosling lo scorso anno.
Joe abbigliato come un cowboy, nero vestito come una morte che non è venuta per scherzare, un creativo del pollo fritto e dei suoi utilizzi, un osservatore che, più che nel silenzio, crede nelle parole scelte con cura.
Se il guidatore di Refn era uno scorpione, Killer Joe è un serpente, o un coccodrillo: non ha fretta di attaccare, non ama disperdere energie, ma nel momento in cui è scattato potete stare sicuri che sia già troppo tardi.
Quando Joe si muove, e attacca, sei fatto. E' finita. Giù il sipario. Adios.
Questo Chris non lo sa ancora, nel momento in cui decide di fare entrare il detective nella sua vita, ed in qualche modo nella sua famiglia.
Perchè Joe è un predatore, e di quelli più pericolosi: e di fronte ad una preda unica nel suo genere il denaro e le regole possono tranquillamente andare a farsi fottere, così come tutte le povere anime che popolano una roulotte sperduta in un Texas che scaglia sulla Terra fulmini e saette quasi fossero un monito biblico.
L'istinto animale, in questo killer oscuro, è così esplosivo che pare trasudare dalla pelle, ben oltre l'equilibrio ed il controllo che lo stesso ama profondamente esercitare.
E non può nulla Chris, che per quanto possa dibattersi come un pesce in attesa dell'ultima botta una volta pescato non è altro che un piccolo perdente di provincia, un disadattato che non troverà spazio in un mondo che, forse, è troppo forte per lui.
Non può nulla Ansen, che ha deciso di farsi passare la vita davanti come uno di quei lanciatori di tappi nella pubblicità del Jack Daniels. Ansen con la giacca scucita - scena già supercult -, che giustifica sempre e comunque le donne amate ma non si fa problemi all'idea che possano essere spedite all'altro mondo.
Non può nulla Sharla, che potrà sguazzare come uno squalo nella piccola boccia per pesci rossi che si è scelta, ma che è impotente al cospetto di qualcuno ben al di sopra di lei nella catena alimentare.
A meno che non si parli di dedicarsi al pollo.
Non può nulla neppure il cane, che ringhia a tutti. Tranne che a Joe. Perchè l'istinto animale è il sonar migliore per i guai che finiscono per farti mancare la terra sotto i piedi. O le zampe.
E non può nulla soprattutto Dottie.
L'eterea, spietata, furiosa, angelica, perduta, magica Dottie.
Era dai tempi di Winter's bone che non incontravo un personaggio femminile così pazzesco.
Capisco Joe, ed il suo istinto. Dottie è una preda cui nessun lato oscuro può rinunciare.
Qualcosa di più grande.
L'esempio che possa esistere qualcosa che vada oltre il nero di quei vestiti, di quell'anima che mette a nudo - in tutti i sensi - un'America perduta neanche fossimo nel profondo del West.
E non basterà sperare di fuggire verso il Messico.
Perchè questo confine è qualcosa di ben più vasto. E profondo.
Un pozzo più profondo della notte e del pianto, e più profondo di te, Chris.
Più profondo di tutti voi.
E' il pozzo di Joe, quello.
Una voragine nata per inghiottire le meraviglie come Dottie. E tutto quello che sta loro attorno.
E ora potrei stare qui a scrivere di quanto potente sia ancora la mano di William Friedkin - che, oltre a L'esorcista, ha firmato pietre miliari come Il braccio violento della legge e soprattutto Vivere e morire a Los Angeles, non dimentichiamolo -, degli squarci di The wrestler, Rob Zombie, Tarantino, i Coen, Cuore selvaggio che ho visto illuminarmi gli occhi almeno quanto la splendida fotografia, del montaggio quasi disequilibrato - eppure perfetto -, delle interpretazioni pazzesche di tutto il cast, di un finale che pare una versione allucinata e sotto acido di quello indimenticabile di A history of violence, e via discorrendo.
Ma non posso farlo.
Perchè anche io sono perduto nell'abisso di Killer Joe.
Perchè se è vero che sono uno scorpione, e in Drive ho visto un'immagine di me - almeno in parte -, di questo coccodrillo in agguato, che pare morto e in un istante sei morto tu, ho davvero paura.
Perchè Joe è il lato oscuro di Drive.
E' il lato oscuro ed il pozzo profondo che qualcuno si porta dentro. E dietro.
E quasi viene da sperare di essere un povero cristo come Chris, o Ansen.
Fino a quando Dottie non comincia a ballare.
E a quel punto l'istinto prende il sopravvento.
La meraviglia.
E l'orrore.
E non si può più tornare indietro.


MrFord


"You know I like my chicken fried
cold beer on a Friday night
a pair of jeans that fit just right
and the radio up
I like to see the sunrise
see the love in my woman's eyes
feel the touch of a precious child
know a mother's love. "
Zac Brown - "Chicken fried" -




lunedì 19 marzo 2012

John Carter

Regia: Andrew Stanton
Origine: Usa
Anno: 2012
Durata: 132'



La trama (con parole mie):  l'ex soldato confederato John Carter, alla ricerca di una vena d'oro che possa garantirgli la ricchezza, si ritrova catapultato grazie ad un rituale sconosciuto di un uomo in punto di morte su Marte, dove scopre diverse razze in lotta per prendere il sopravvento e dominare il pianeta.
Dapprima catturato e dunque divenuto un eroe per una stirpe di combattenti locali, John Carter diviene il simbolo del riscatto per la principessa Deja Thoris, nonchè speranza per Marte di sfuggire al dominio di Tardos Mors, controllato da una misteriosa setta di sacerdoti in grado di sfruttare la stessa sorgente di potere che ha portato John Carter sul Pianeta Rosso.
L'uomo, che inizialmente prende le distanze dalle diverse fazioni, finirà per innamorarsi della principessa e trovare una nuova casa.




Da un pò troppo tempo - per l'esattezza da Mission impossible: protocollo fantasma e, poco prima, Real steel - in casa Ford si sentiva la mancanza della presenza importante di una bella tamarrata ben costruita e realizzata, giocata tutta e senza ritegno sull'intrattenimento puro: fortunatamente, a rimediare a questo spiacevole inconveniente è arrivato di gran carriera John Carter, kolossal più che fracassone dalle rimembranze avatariane che è riuscito a coinvolgermi alla grande.
Andrew Stanton - già realizzatore dell'ottimo Alla ricerca di Nemo e dello splendido Wall-E -, sempre sotto l'ala protettrice di Mamma Disney, realizza la sua prima opera non animata condensando - a tratti decisamente troppo - il ciclo di romanzi firmato da Edgar Rice Borroughs dedicato ad un cavalleggero sudista trovatosi su Marte e divenuto da esule prigioniero un vero e proprio eroe con una propria dimensione, vita e futuro.
Nei panni del protagonista il certamente non espressivo eppure in casa Ford amatissimo - per diverse ragioni - Taylor Kitsch, già volto del mio favorito Tim Riggins nella magnifica serie Friday night lights, che, almeno fisicamente, non perde un colpo ed incarna benissimo un eroe che pare una versione maledetta del Dastan che un paio d'anni fa furoreggiò nella versione sempre targata Disney - anche quella apprezzatissima dal sottoscritto - di Prince of Persia.
Vicenda a parte - come già sottolineato, lo script risulta essere l'aspetto meno interessante dell'opera, considerata la mole di avvenimenti concentrati in due ore piene eppure a tratti davvero tagliati con l'accetta -, il resto è un ottimo condensato di western, avventura in stile Indiana Jones e fantascienza che abbraccia Star Wars come il già citato Avatar, senza contare un ottimo lavoro sui trucchi e gli effetti che compensa i costumi decisamente pacchiani che i protagonisti sfoggiano per tutta la durata della pellicola.
Non mancano anche l'ironia, componente fondamentale per ogni tamarrata che si rispetti, ed il ritmo, che nonostante la sceneggiatura a tratti nebulosa mantiene lo spettatore - anche quello meno attento - inchiodato alla poltrona dall'inizio alla fine, se non altro per cercare di capire cosa abbia portato John Carter al ritorno sulla terra e alle vicende mostrate nell'incipit, legato ovviamente al finale.
Niente che sia classificabile come "artistico" nel senso più alto del termine, dunque, ma certamente un ottimo blockbusterone da solido weekend in relax con bibitona e patatine, punto d'incontro giusto tra bambini e adulti nonchè espressione di un tipo di sci-fi che pare essersi - purtroppo - perso negli anni, graziato anche dal respiro della grande avventura: sequenze come la lotta nell'arena contro le scimmie bianche, i salti di John Carter appena arrivato su Marte - possibili grazie al contrasto con la gravità terrestre cui il protagonista è abituato e che lo rende una sorta di Superman sul suolo marziano - e tutte le sequenze legate agli alieni verdi sono notevoli, e in tutta questa sarabanda perfino il pessimo James Purefoy risulta quasi guardabile.
Un miracolo del genere, da solo, giustificherebbe la visione.
Ma se anche questo non bastasse, vi dico: gustatevelo come bambini, fino in fondo.
Con John Carter ci si diverte a colpo sicuro.


MrFord


"Sailors fighting in the dance hall
oh man! Look at those cavemen go
it's the freakiest show
take a look at the Lawman
beating up the wrong guy
oh man! Wonder if he'll ever know
he's in the best selling show
is there life on Mars?"
David Bowie - "Life on Mars?"


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