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venerdì 5 gennaio 2018

Gomorra - Stagione 3 (Sky, Italia, 2017)




Forse per inclinazioni che, se fossi nato in diversi contesti sociali, mi avrebbero portato inevitabilmente su una certa strada, o per indole, o chissà che altro, ho sempre subito il fascino del crime, delle tragedie sheakespeariane in versione criminale, dai Goodfellas di Scorsese ai romanzi di Winslow, da Romanzo criminale a C'era una volta in America, dal Padrino a Gomorra: la serie con protagonisti assoluti i due incredibili charachters di Genny Savastano e Ciro Di Marzio, fin dalla prima stagione è riuscita a ritagliarsi un posto d'onore non solo nel panorama del piccolo schermo italiano ed internazionale, ma anche qui al Saloon, dove ha sempre occupato posti di rilievo nella top ten dedicata alle migliori serie televisive negli ultimi tre anni.
Con questa terza stagione il titolo tratto dal lavoro di Saviano era chiamato al difficile compito di confermare due annate pazzesche, costruite su colpi di scena, tradimenti, violenza, morti nella cornice della Napoli criminale, e più nello specifico di Secondigliano, il regno dei Savastano: dopo la morte dell'indimenticabile Pietro di Fortunato Cerlino, il panorama per Genny cambia, in bilico tra la vita a Roma accanto alla moglie ed al figlio appena nato ed il ruolo nella città natale, così come per Ciro Di Marzio, dapprima amico fraterno dello stesso Genny, dunque rivale, e di nuovo alleato, autoesiliatosi in Bulgaria e sempre alle prese con traffici illeciti e violenza.
Proprio dalle differenze nelle vite dei due riparte il terzo giro di giostra di Gomorra, che vede nelle ambizioni sempre vive di Genny - dalle importazioni di droga dall'Honduras alla rivalità sotterranea con il suocero Avitabile - ed il nuovo ruolo da "jedi" di Ciro, che dopo aver perso moglie e figlia - la prima per mano sua, la seconda in conseguenza alla guerra a Pietro Savastano - pare ormai essersi astratto da qualsiasi cosa possa rappresentare la realtà o il sogno di una realtà migliore per gli altri.
Proprio in questo senso si evolve l'intera stagione, giocata sull'ennesimo comeback di Gennaro Savastano - costretto ad una lotta con i boss della Napoli centrale che vedono Secondigliano come una provincia - e sul rapporto tra Ciro stesso ed Enzo, capo di una giovane fazione pronta a tutto per poter trovare il proprio spazio nella geografia della malavita che conta.
Il "passaggio di consegne" tra questi ultimi, tipico di quelli che abbiamo imparato a conoscere soprattutto al Cinema tra Maestro ed Allievo, assume le dimensioni, episodio dopo episodio, di una sorta di preludio al dirompente season finale, che segna il pubblico e gli appassionati e segnerà, con ogni probabilità, la serie già dalla prossima annunciata stagione.
Accanto, poi, alla caduta ed alla rinascita di Genny - che testimonia tristemente quanto succede spesso e volentieri in Italia rispetto allo sfruttamento dei lavoratori e dei voti politici - ed al percorso di Ciro e "Sangue blu" Enzo in sensi opposti, assistiamo al consolidamento di personaggi già cardine dalla scorsa stagione come Patrizia - destinata ad occupare uno spazio sempre maggiore con il passare del tempo - ed all'ingresso nel cast di volti nuovi che destabilizzeranno senza ombra di dubbio il panorama di quella che è una delle proposte migliori che l'Italia abbia mai esportato negli ultimi vent'anni.
A livello sociale e di critica molte voci si sono sollevate rispetto al cattivo esempio che può dare un lavoro del genere soprattutto ai giovani non in grado di comprenderne le sfumature o alla reiterazione di situazioni che vedono Genny e Ciro uscire sempre ed indiscutibilmente come sorta di immortali - il soprannome del secondo, del resto, è proprio quello -, ma per quanto mi riguarda un prodotto di questa portata trova la sua grandezza proprio nel proporre l'umanità anche di chi vive in un abisso che non conosce ritorno, e che vede quale destino soltanto la galera o la morte.
Non è prevista ritirata, o pace.
In fondo, anche il peggiore degli uomini mangia, dorme, ama, odia, vive e muore come qualsiasi altro, e la cosa più interessante di proposte come Gomorra è proprio questa: denunciare mostrando, al contempo, quello che si porta dentro ognuno di noi.
E le sfumature ed il caso che conducono in un secondo da una parte o dall'altra della barricata.



MrFord



lunedì 11 settembre 2017

Game of thrones - Stagione 7 (USA/UK, HBO, 2017)



Dai tempi dell'esplosione del fenomeno delle serie televisive all'inizio degli Anni Zero, pochi titoli sono divenuti, per motivi e meriti differenti, dei veri e propri punti di riferimento per il pubblico, dei fenomeni in grado di entrare a pieno titolo nella pop culture e finire nel mirino anche di chi dei suddetti titoli ha finito per sbattersene - apparentemente - sempre e comunque, come fu ai tempi per il primo Twin Peaks: Lost è uno degli esempi più clamorosi, in questo senso, tanto da essere quasi associabile ad un culto religioso, che lo si odi o lo si ami.
Fin dalla sua conclusione, per tutti gli addetti marketing delle grandi produzioni c'è stata una vera e propria corsa alla scoperta del prodotto che ne sarebbe stato l'erede: ci hanno provato in molti, ed altrettanti hanno fallito.
Almeno fino all'arrivo di Game of thrones.
Il serial partito dall'ispirazione data dai romanzi di George Martin, infatti, per mosaico di personaggi, isterie di massa, maniacalità esplosa in tutto il mondo è diventato a tutti gli effetti il Lost di questa generazione di spettatori, che da Cersei a Jon Snow, passando per Daenerys e tutte le morti illustri che ci hanno riservato le sette stagioni - e chissà quante altre l'ottava - ha creato fazioni tra il pubblico che ricordano i tifosi calcistici, o gli appartenenti alle casate che si danno battaglia per la conquista di Westeros.
Ora, di questa settima stagione ho già letto di tutto e di più: asservita al fanservice - assolutamente vero -, troppo frettolosa - assolutamente vero -, giocata sull'esaltazione - assolutamente vero -, completamente slegata ormai dalla linea di narrazione e dal mondo ideato da Martin - assolutamente vero -. Eppure, come fu per Lost, l'impressione che continuo ad avere è quella della serie di culto che una volta giunta al successo planetario finisce nel mirino delle critiche degli stessi che, in principio, l'avevano esaltata per poi tirarsi indietro nel momento in cui scoprono che il loro giocattolino è diventato il giocattolino di tutti: certo, questa settima non sarà stata, oggettivamente parlando, la miglior stagione della produzione, ma neppure la peggiore - la quinta fu decisamente poco avvincente e nel complesso quasi noiosa, ad esempio -, e proprio grazie al tanto criticato fan service ha finito per regalare momenti di godimento assoluto qui al Saloon, dal survival della squadra oltre la Barriera agli incontri che mi hanno ricordato i livelli di miticità - come direbbe Po - di Star Wars, fino agli sconvolgimenti dell'ultimo episodio che alimenta l'hype per la prossima - ed ultima - stagione a livelli davvero incredibili.
Ora starà agli autori cercare di cavalcare l'onda come un drago e cercare di mantenere un equilibrio giusto tra la fama raggiunta e l'essere ormai mainstream a tutti gli effetti e la qualità e la crudeltà che hanno da sempre contraddistinto questo titolo, probabilmente uno dei più importanti per la storia del piccolo schermo che noi figli di quest'epoca avremo modo di gustarci.
Ben vengano, dunque, tutte le discussioni, il fan service, i draghi, le morti, il sesso oltre i confini delle parentele e la tensione legata alla possibilità che ogni personaggio, soprattutto il tuo preferito, possa morire da un momento all'altro: se, alla fine di questa corsa, l'esaltazione sarà questa, qualsiasi imperfezione sarà giustificata.
Almeno qui.
Dove crediamo che proprio nelle imperfezioni stia il segreto di qualsiasi fascino.



MrFord



 

lunedì 16 novembre 2015

Tutto può accadere a Broadway

Regia: Peter Bogdanovich
Origine: USA, Germania
Anno: 2014
Durata: 93'






La trama (con parole mie): Isabella, una giovane escort nata e cresciuta nei sobborghi di New York, si ritrova a dover trascorrere una delle sue serate di lavoro con un regista di Broadway che cela la sua identità per preservare matrimonio e tranquillità del focolare.
Lo stesso regista, dopo averla portata fuori a cena ed averle regalato una nottata indimenticabile, si offre di donarle trentamila dollari in cambio di una promessa, ovvero mollare il lavoro più antico del mondo per coltivare i suoi sogni.
Tempo dopo la stessa ragazza, trasferitasi in città per tentare di costruirsi una carriera come attrice, si ritrova ad un provino per uno spettacolo che vede l'uomo come regista e la moglie di quest'ultimo come protagonista femminile: il loro secondo incontro sarà l'innesco di una serie di coincidenze e guai sentimentali che coinvolgeranno tutto il cast.










Per quanto mi riguarda, basterebbero L'ultimo spettacolo e Paper moon per voler bene a Peter Bogdanovich, e consegnarlo in tutta onestà alla Storia del Cinema.
Sinceramente, tra le altre cose,  pensavo che ormai non avrei più rivisto in sala un suo nuovo lavoro, e che i recuperi sarebbero stati il solo modo per assaporare la sensazione di avere a che fare con un piccolo ma importantissimo pezzo della settima arte statunitense.
E invece, quasi a sorpresa, con ogni probabilità per le evidenti influenze ed apparenze alleniane, è giunto addirittura in sala nella Terra dei cachi She's so funny that way, adattato come lo avrebbe adattato un gruppo di scimmie urlatrici lasciate senza banane per settimane con Tutto può accadere a Broadway, commedia degli equivoci ambientata nel cuore dell'ambiente teatrale newyorkese in grado di accontentare tanto il pubblico più radical in cerca di uno sfizioso divertissement quanto il pubblico più generico che di Bogdanovich non conosce nulla e che, chissà, forse è finito seduto sulla poltrona pensando che dietro quello strano pseudonimo si celasse, per l'appunto, Woody Allen.
Perchè, in bilico tra jazz ed equivoci, ironia e psicanalisi, fotografie di rapporti alla deriva e di cotte destinate ad un solo, grande caos, questo film è quanto di più simile al Cinema dell'autore di Pallottole su Broadway e Manhattan si possa trovare al momento in tutto il mondo, suddetto autore compreso.
Dunque, l'apparenza di Tutto può accadere a Broadway sarà stata un vantaggio oppure no, qui al Saloon, per Bogdanovich ed i suoi?
La risposta è semplice e diretta: assolutamente sì.
L'ora e mezza di questa commedia estremamente brillante, giocata ed interpretata con leggerezza, dal cast azzeccatissimo e dalla colonna sonora smooth è scorsa come un cocktail di quelli che non si dimenticano, pronto a scivolare fin nello stomaco dando il suo colpo di grazia quando meno ce lo si aspetta, giusto prima di tornare a casa, quando ci si rialza dal tavolo e ci si accorge di non reggersi più troppo bene sulle gambe: le vicende di Isabella e di Arnold, la prima sognatrice legata a doppio filo al concetto più meraviglioso di Cinema ed il secondo inguaribile seduttore pronto a sfoderare le sue armi sempre efficaci e sempre uguali, quasi fosse un serial killer dedito allo stesso rituale - il tormentone di scoiattoli e noci è una vera chicca, per quanto "non originale" sia -, riempiono lo schermo con la giusta dose di sorrisi amari, risate sguaiate, riflessioni e tutto quello che si può chiedere ad un prodotto "alto" che, di fatto, si trasforma nell'intrattenimento puro della parte più intellettuale della settima arte.
Un intrattenimento che potrebbe rischiare di far storcere il naso tanto ai "duri e puri" quanto a chi non è abituato a questo tipo di prodotto -  e che potrebbe arrivare a definirlo verboso prima ancora che noioso - che in realtà è un omaggio al Cinema di ieri e di oggi, dalle commedie romantiche anni cinquanta ai noir, dal teatro allo slapstick, da Audrey Hepburn a Quentin Tarantino: e resto convinto che soltanto un vecchio leone come Bogdanovich, aiutato da un gruppo di attori decisamente affiatato, avrebbe potuto raccontarlo con lo stile ed il tocco giusti, senza esagerare da una o dall'altra parte.
Certo, non risulterà imperdibile o sarà un titolo destinato a spodestare Io e Annie dalle personali classifiche del cuore degli appassionati, eppure resto convinto che, se esistessero più film di questo tipo, anche un certo Cinema d'autore "hipster" osteggiato dal grande pubblico avrebbe tutti i riconoscimenti ed il rispetto che merita: in fondo, il grande schermo vende sogni pronti ad alimentare aspirazioni, ideali ed idee di persone che vengono da ogni latitudine e realtà.
E poco importa, che siano scoiattoli e noci, o noci e scoiattoli.
L'importante sarà aver vissuto quel sogno.




MrFord




"American girls are weather and noise
playing the changes for all of the boys
holding a candle right up to my hands
making me feel so incredible."
Counting Crows - "American girls" - 





mercoledì 15 ottobre 2014

I due volti di gennaio

Regia: Hossein Amini
Origine: UK, Francia, USA
Anno:
2014
Durata:
96'





La trama (con parole mie): siamo in Grecia, nel pieno degli anni sessanta, e Rydal, giovane americano in fuga dalla famiglia e dal padre, sbarca il lunario raggirando turisti troppo ammaliati dal suo approccio. Quando la strada del giovane incrocia quella di Chester e Colette McFarland, la furba guida pensa di essere di fronte all'ennesima coppia da circuire facilmente: quello che non sa è che Chester, molto più vecchio di Colette, è un uomo dal passato misterioso ed in pericolo per aver sottratto fondi a pericolosi personaggi pronti a sguinzagliare sulle tracce della coppia uomini pronti a tutto per recuperare il maltolto.
Testimone di uno scontro tra lo stesso Chester ed uno di questi, Rydal è costretto ad elaborare un piano di fuga dei coniugi dalla Grecia, e a riparare momentaneamente con loro a Creta: lungo le strade dell'isola ellenica la tensione salirà tra i tre fino a diventare insostenibile.






Esistono film innovativi, altri superati, altri ancora invecchiati male.
Ed alcuni giunti inesorabilmente fuori tempo massimo, un pò come una canzone degna di un tormentone estivo portata alla ribalta all'inizio dell'autunno.
I due volti di gennaio è senza dubbio un esponente di quest'ultima categoria.
Tratto da un romanzo di Patricia Highsmith diretto dall'esordiente dietro la macchina da presa Hossein Amini, interpretato con buona partecipazione da Viggo Mortensen, Kirsten Dunst e Oscar Isaac - che si è rivelato al grande pubblico non troppi mesi fa con A proposito di Davis -, questo thriller arroventato dal sole ellenico non avrebbe sfigurato in sala nei primi anni ottanta, l'epoca dei Polanski memori di cult come Il coltello nell'acqua e delle torbide vicende di coppia legate a doppio filo con misteri, crimine ed inevitabilmente morte: peccato che, con tutta calma, il lavoro del già citato Amini giunge in sala ad Anni Zero ampiamente suonati, presentando una struttura che, senza dubbio, risulterà priva del mordente necessario - alla stragrande maggioranza del pubblico sotto i trenta e probabilmente anche sotto i quaranta - per mantenere alto il livello dell'attenzione e rimanere incollati allo schermo fino alla risoluzione della vicenda.
Personalmente, e rispetto a quelle che erano le aspettative della vigilia, invece, ho trovato questo film decisamente in grado di portare a casa il suo - benchè minimo - risultato di decenza, di intrattenere con uno stile composto ed adulto - ma non per questo noioso - e di farsi apprezzare per l'atmosfera vintage ed ottimamente resa dalla fotografia e dalla cornice delle isole greche, che in passato ho imparato ad amare e conoscere percorrendole in lungo e in largo - pur facendomi scappare Creta, teatro delle vicende qui narrate -: un cast azzeccato ed una trama che mescola crime e thriller classico hanno fatto il resto insieme alle riflessioni legate ai rapporti tra padri e figli, una tematica che da sempre è in grado di toccare corde sensibili dell'animo di questo vecchio cowboy.
L'evoluzione del rapporto tra Chester/Mortensen e Rydal/Isaac, in questo senso, finisce per diventare decisamente più interessante di quello dei due personaggi maschili con Colette, ago della bilancia meno innocente ed incapace di influenzare i destini della fuga dell'insolito terzetto di quanto non possa apparire ad un'occhiata superficiale: i trascorsi irrisolti di Rydal con il padre e l'atteggiamento severo ed al contempo complice di Chester finiscono dunque per intrecciarsi in un gioco al massacro più mentale - o sentimentale - che non fisico - pur non risparmiandosi gli scontri -, pronto a colpire nel profondo entrambi i personaggi, dal giovane truffatore dal fascino intellettuale al maturo e deciso uomo d'affari che pare sempre sapere quello che vuole.
Riletto in questi termini pare dunque che I due volti di gennaio sia stata una sorpresa più che lieta, in casa Ford, ed un titolo che la penuria di questo scellerato periodo ha finito per innalzare al di sopra della media: e da un lato è inesorabilmente così, considerate le delusioni, i mattonazzi e le schifezze senza arte nè parte che mi sono dovuto sciroppare in questo inizio autunno.
Eppure, ed in tutta onestà, occorre anche ammettere di essere di fronte ad un titolo privo della scintilla e del mordente necessari per compiere il passo decisivo che porta una pellicola d'intrattenimento pomeridiano ad un cult - grande o piccolo che sia - da prima serata: l'opera di Amini è onesta ma patinata, avvincente quanto troppo dilatata, seducente eppure inesorabilmente fredda.
In un certo senso, perdersi tra le ombre e le luci de I due volti di gennaio è un pò come rimanere pericolosamente in bilico tra Chester e Rydal, entrambi a loro modo innamorati di Colette e decisi a superare un confine che potrebbe cambiare radicalmente - e per sempre - la loro vita.
Del resto, nella lotta tra padri e figli difficilmente si conosce un vincitore: questione di generazioni, tempi, errori e consigli dati e ricevuti - oppure no - da una parte e dall'altra.
Ma a volte, è troppo facile rifugiarsi nel mezzo: suona quasi come tentare una fuga disperata senza passaporto. Prima o poi, i nodi verranno al pettine.
E non ci saranno soldi, amori o sogni a portarci oltre la parola fine.



MrFord



"People try to put us d-down (talkin' 'bout my generation)
just because we g-g-get around (talkin' 'bout my generation)
things they do look awful c-c-cold (talkin' 'bout my generation)
yeah, I hope I die before I get old (talkin' 'bout my generation)".
The Who - "My generation" - 





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