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martedì 1 agosto 2017

Karate Kid, once again



E' questo, il bello dell'estate.
Arrivare alla fine di una giornata densa e stancante, pensare di programmare una serata e poi vedere tutto ribaltato a causa delle incombenze quotidiane e domestiche, e poi, di colpo, in televisione, quasi la settima arte volesse fare un regalo, Karate Kid.
Il primo, l'inimitabile, originale, nato per essere una versione per ragazzi di Rocky, e come quest'ultimo diretto da John Avildsen.
Un altro pezzo della mia infanzia, e di quegli anni ottanta che hanno sfornato un cult dietro l'altro.
Un film che, a prescindere dal valore - comunque effettivo -, dai personaggi - tutti riuscitissimi - e dalla morale - molto positiva - passerà alla storia per quel "dai la cera, togli la cera" che avranno citato tutti almeno una volta - perfino chi di Cinema non mastica un cazzo di niente - e quel colpo della gru che, allo stesso modo, chi era bambino - e non solo - avrà tentato di replicare in barba all'esito e ai risultati, o al fatto di trovarsi ad un torneo di arti marziali oppure da solo nella propria camera.
Non ricordo quante volte ho visto questo film, dai tempi delle elementari ad oggi.
Eppure, non c'è stata una sola volta in cui mi abbia stancato, e con il passare del tempo ha finito addirittura per rivelare sfumature sempre più interessanti - Daniel, protagonista della pellicola, non è un eroe completamente positivo, testimonianza di questo il fatto che a sua volta alimenti con i mezzi che possiede la guerra contro i bulli del Cobra Kai, il dojo dalle divise più belle mai realizzate per un film di arti marziali - oltre a delineare sempre meglio il rapporto a metà tra quello di amicizia e di paternità tra Miyagi - che perse un figlio e la moglie a cause delle complicanze nel corso del parto di quest'ultima - e lo stesso Daniel, che inizia con quel "dopo, dopo!" in casa Ford più che mitico e termina con il sorriso sardonico di quello che rappresenta forse il maestro per antonomasia nelle storie di formazione dagli anni ottanta in avanti - e che caratterizzerà le chiusure di tutti e tre i film che lo vedranno protagonista assieme al suo allievo prediletto -.
Un gran bel modo di festeggiare il giro di boa dell'estate, ricordare i tempi in cui sognavo di essere Daniel e trovare un maestro come Miyagi e quelli in cui attendo di poter vedere il Fordino - comunque conquistato dai primi minuti di visione prima di interrompere la stessa per sopraggiunti limiti di orario per la nanna - sperando di poter diventare per lui una guida come questo curioso tuttofare venuto da Okinawa è stato per un ragazzino del Jersey trasferitosi a Los Angeles e ritrovatosi a partire da zero, in tutti i sensi.
E sulle note di "You're the best", farmi trasportare come fosse la prima volta, con il potere che solo alcuni film magici hanno avuto e continuano ad avere, facendomi massaggiare dalla malinconia positiva e dalla stessa voglia di vivere ed imparare di Miyagi, che alla domanda di Daniel "Ne ha mai presa una?" riferendosi al gioco delle bacchette e della mosca, replica "Non ancora".
Non ancora, Miyagi-San.
Eppure sempre.
Arigato.




MrFord




martedì 25 aprile 2017

Via da Las Vegas (Mike Figgis, USA, 1995, 111')




Di norma, considerati il mio background, i vizi e le debolezze, gli stronzi con un cuore dediti ad alcool e donne finiscono sempre per colpire il sottoscritto, che con ogni probabilità fa parte senza neppure fare troppa fatica della categoria.
Da anni sentivo parlare di Via da Las Vegas, cult per moltissimi spettatori che avevo sempre in qualche modo mancato e che non troppo tempo fa, in occasione del Day dedicato da noi bloggers al mitico Nicholas "Parrucchino Selvaggio" Cage, avevo dovuto abbandonare per mancanza di tempistiche nel recupero del dvd: a causa di quell'ennesimo colpo a salve, ho deciso che in un modo o nell'altro avrei recuperato questo lavoro di Mike Figgis, che nel corso della vita ho perfino sentito definire Capolavoro da alcuni tra i miei amici e colleghi decisamente a loro agio in materia cinematografica.
Onestamente, il responso non è stato, almeno per questo vecchio cowboy, dei più positivi.
Perchè certo, Via da Las Vegas è un film intenso e struggente, in grado di raccontare con grande forza sia la passione di una storia d'amore sia quella che ogni persona con una dipendenza ha rispetto al veleno che si è scelta, con un'ottima escalation ed un paio di momenti decisamente toccanti, ma è anche un film prigioniero del suo tempo - puzza di anni novanta, come stile e contenuti, lontano miglia -, fin troppo volutamente "alternativo", lento e, a tratti, perfino noioso.
E a fare da contraltare ad una Elizabeth Shue bellissima come sempre, un Cage che, per quanto gli voglia bene, pare troppo sopra le righe perfino per lui, anche se, lo ammetto, il dubbio che il suo esserlo fosse legato anche all'esserlo della pellicola mi è passato per la mente: basterebbe pensare, sempre per rimanere in ambito alcolico, ad un Capolavoro - quello sì - come Giorni perduti di Wilder, forse ancora oggi uno dei ritratti più drammatici e toccanti del dramma dell'alcolismo, che se confrontato con il tentativo di Figgis finisce per ridimensionare lo stesso non poco.
Eppure, nonostante tutto e nonostante il fatto che, a conti fatti, non mi sia particolarmente piaciuto, non sono proprio riuscito a voler male a questo film, forse per lo spirito da outsiders e perdenti che lo pervade fin nell'anima, e che consegna al pubblico un ritratto - anzi, due - dei losers a stelle e strisce che dal grande sogno sono stati masticati e sputati fuori perchè non troppo graditi.
Con ogni probabilità, infatti, è stato sopravvalutato come molti film generazionali - presumo che i trentenni di allora abbiano visto in un lavoro come questo la versione romantica di quello che fu Trainspotting, decisamente superiore sotto tutti i punti di vista - e per chi lo vede ora per la prima volta, privo dell'occhio dell'amore, non resta molto altro se non i difetti.
Anche se, in una certa misura, è giusto così: Via da Las Vegas è la storia devastante di due solitudini che si incontrano e che sono inevitabilmente destinate al disastro.
E a volte è dura ammettere che dal disastro non c'è speranza di salvarsi.
Soprattutto se non lo si vuole.




MrFord



 

mercoledì 3 dicembre 2014

Comportamenti molto cattivi

Regia: Tim Garrick
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 97'




La trama (con parole mie): Rick Stevens è nei guai. In un intervallo di tempo clamorosamente breve, infatti, spinto dalla cotta per la coetanea Nina Pennington, il ragazzo è riuscito a passare dallo status di adolescente tendenzialmente nerd ed impacciato, nonchè vergine, in una sorta di macchina da guai in grado di finire a letto con la madre del suo migliore amico, organizzare un giro di prostituzione, affrontare boss lituani e tentare l'impresa più difficile per uno come lui: conquistare il cuore della stessa Nina.
E nel delirio generato da visioni, equivoci, sesso e droghe, Rick dovrà cercare di arrangiarsi al meglio possibile per poter vincere non solo una battaglia, ma anche e soprattutto la guerra: con se stesso, il mondo e soprattutto, per arrivare alla sua bella.









Non pensavo davvero potesse esistere un film teen talmente brutto da farmi pensare che neppure il Cannibale potrebbe considerarlo interessante - nonostante il penoso sei politico che finì per affibbiargli -.
Eppure, eccolo qui.
Con ogni probabilità, il titolo che mi costerà più fatica dilatare in un post che non si concluda semplicemente con la calzante definizione: "Questo film è una merda".
Curioso quanto premesse se non buone quantomeno indirizzate ai neuroni a zero, un cast ricco di presenze anche gradite - Elizabeth Shue, Heather Graham, Cary Elwes, Gary Busey -, alcool e sesso non siano riusciti quantomeno a salvare il salvabile da uno degli obbrobri più grandi e clamorosi della stagione, una vera e propria presa per il culo del pubblico ed uno spreco di tempo tra i più ingiustificati della mia carriera di spettatore.
Se non altro, il fatto che alla fine risulti innocuo, concorre ad evitare un'incazzatura che soltanto pochi titoli hanno finito per scatenare nel corso degli anni, e che, in altre condizioni, sarebbe stata assolutamente sacrosanta rispetto ad uno scempio che il Cinema tutto non meriterebbe affatto.
Avrei dovuto forse sapere fin dal principio che una pellicola con protagonista Dylan McDermott - di norma garanzia di schifezza - avrebbe avuto scarsa fortuna, qui al Saloon, ma neppure nei miei incubi peggiori avrei immaginato uno scempio di tal fatta: dall'elementare regia di Tim Garrick ad una sceneggiatura che fa delle scene scult i suoi cavalli di battaglia - davvero imbarazzante Elizabeth Shue, mito della mia infanzia con Karate Kid, nel ruolo della milf assatanata - senza per questo riuscire a regalare risate grasse nello stile di titoli come i due Sharknado.
Pensare che, senza colpo ferire, avevo finito per addormentarmi con grande soddisfazione sul divano più o meno a metà della pellicola e che, svegliatomi di soprassalto, ho deciso di riprendere la visione per portarla a termine finisce quasi per farmi sentire in colpa rispetto alla settima arte, che con Comportamenti troppo cattivi - terribile anche l'adattamento italiano, come al solito - non ha davvero nulla a che spartire.
Tant'è che non ripeterò l'errore spingendomi al limite per confezionare un post almeno vagamente decente e di un certo "spessore".
Questa roba non lo merita.
Vado a dormire, il più felice possibile di essermi allontanato da uno dei film peggiori dell'anno.
E non solo, probabilmente.
Sperando di non avere incubi che portino dalle mie parti Justin Bieber e Tim Garrick.




 
MrFord






"I'm having trouble seeing 
I'm punch drunk and 
I need to find a way back home 
it'd be a miracle if you'd oblige."

Incubus - "Punch drunk" -





mercoledì 19 giugno 2013

House at the end of the street

 
Regia: Mark Tonderai
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 101'




La trama (con parole mie): Sarah e sua figlia Elissa si sono appena trasferite da Chicago in una cittadina nel cuore della campagna, in una grande casa all'interno di una riserva naturale che le due si possono permettere soltanto in quanto confinante con la proprietà di una famiglia che quattro anni prima è stata al centro di una terribile tragedia: mentre il figlio maggiore, infatti, si trovava da una vecchia zia, i genitori furono massacrati nel cuore della notte dalla figlia minore Carrie Anne, scomparsa nei boschi a seguito del delitto.
Ryan, questo il nome del ragazzo, è dunque tornato a vivere nella casa dei suoi cari con l'intenzione di ristrutturarla e venderla: Elissa si trova da subito molto più vicina a lui che non agli altri ragazzi del posto, nonostante la madre non sia felice della possibile nascita di un legame sentimentale tra i due.
Quando, effettivamente, la situazione si evolve, Elissa si troverà a doversi confrontare con tutti i segreti che Ryan nasconde.





Lo ammetto, mi è davvero dispiaciuto scoprire che il soggetto alla base di questo film fosse firmato da Jonathan Mostow, che nonostante le porcate disseminate nel corso della sua carriera soprattutto recente - vedasi Terminator 3 - conserva un posto speciale nel cuore del sottoscritto dai tempi di Breakdown - La trappola, thriller ad orologeria che rispolverò qualche anno fa il mito eighties Kurt Russell.
Ed ancora di più che ne fossero protagoniste la mitica Elizabeth Shue - che riesce oggi ad avere le sue carte da giocare, forse più che ai tempi del primo Karate Kid - e l'ancor più mitica Jennifer Lawrence, fresca di Oscar per il bellissimo Il lato positivo nonchè protetta fordiana dai tempi del magnifico Winter's bone.
Questo principalmente perchè tutto quello che poteva essere fatto per rendere House at the end of the street un filmetto dalle atmosfere teen praticamente ininfluente rispetto alla vita dello spettatore medio è stato fatto, sprecando un'occasione che, seppur certo non degna di essere concretizzata in una pietra miliare, avrebbe perlomeno potuto portare a casa una figura discreta.
Invece il lavoro di Mark Tonderai ha tutti i limiti - e sono molti - di una pellicola senz'anima e spina dorsale girata secondo le mode del momento e che neppure una grande interprete può essere in grado di risollevare dal suo destino fatto di assoluta mediocrità - specie se affiancata da un protagonista scialbo, inespressivo ed assolutamente inutile -: partita come un horror in pieno Del Toro style fin dall'incipit e dai telefonatissimi titoli di testa, la pellicola finisce per indugiare fin troppo su una sequela di scene sostanzialmente inutili legate al difficile inserimento di Elissa nella nuova realtà scolastica - lei che è figlia di una rockstar, riflessiva e ben conscia del talento che il padre pare averle trasmesso - ed al complicato rapporto della ragazza con la madre Sarah - che ha il suo culmine nella pessima sequenza della cena cui viene invitato il misterioso vicino Ryan, oggetto della discordia tra le due donne - per poi virare improvvisamente sul thriller, lasciando spazio ad un crescendo finale molto poco credibile ma a suo modo quasi funzionale.
Ed è qui che viene a galla un altro pesante limite del lavoro di Tonderai: al contrario di molti esponenti del genere - specie se parliamo di horror -, infatti, la logica dello script non viene tradita da qualche escamotage di infimo livello, e le spiegazioni rispetto ai terribili eventi che coinvolgono Ryan e la sua famiglia prima e Sarah ed Elissa poi funzionano, regalando perfino un paio di twist almeno sulla carta niente male, eppure il risultato - parlando di messa in scena e ritmo, tensione e carica emotiva diretta allo spettatore - è decisamente scarsino, ed il fatto di trovarsi di fronte ad una visione assolutamente trascurabile batte perfino l'attrattiva della Lawrence, che passa generosamente in canotta tutta la parte conclusiva del film distraendo  l'audience - almeno nella sua parte maschile - quanto basta per non decidere di optare per un bel sonno conciliante che rigeneri dalle fatiche di una qualsiasi settimana di lavoro.
Certo, non si tratta di uno di quei titoli da bottigliate selvagge ed incazzatura incontrollabile, quanto più di un prodotto sostanzialmente inutile che in altre mani avrebbe potuto al contrario sorprendere in positivo, di conseguenza non particolarmente dannoso: ma come di consueto resta l'interrogativo rispetto all'utilità che hanno alcuni film se non quella di riempire il già decisamente gonfio portafoglio dei produttori.


MrFord


"Purify the colours, purify my mind.
purify the colours, purify my mind,
and spread the ashes of the colours
over this heart of mine!"
The Arcade fire - "Neighborhood #1"-


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