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mercoledì 22 maggio 2013

Come un tuono

Regia: Derek Cianfrance
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 140'




La trama (con parole mie): siamo nella profonda provincia dello Stato di New York, a Schenectady, e Luke, stuntman e motociclista dal passato dubbio, scopre di aver avuto un figlio dall'amante occasionale Romina. Lasciato il circo itinerante per il quale lavorava, il giovane si stabilisce vicino a quella che vorrebbe fosse la sua famiglia, e quando il lavoro di meccanico non gli basta più per mantenerla ed il clima si fa pesante rispetto al rapporto con Romina ed il suo compagno, decide di dedicarsi alle rapine in banca in modo da avere da parte una cospicua somma da lasciare al suo bambino anche nel caso in cui non dovesse mai conoscere il padre.
Luke, però, muore in una sparatoria ucciso troppo frettolosamente da un agente fresco di uniforme, Avery Cross, che passa per eroe e sfrutta le malefatte di un gruppo di colleghi corrotti per diventare un pezzo grosso della procura grazie anche alla sua laurea in legge.
Quindici anni dopo AJ, figlio di Avery, si ritrova nello stesso liceo di Jason, figlio di Luke: tra i due nasce un'amicizia che presto si trasforma in un drammatico confronto tra passato e presente.




Cosa posso dire, del discusso Derek Cianfrance, ora che al Saloon sono passati i due titoli che l'hanno portato alla ribalta cinematografica internazionale spaccando l'opinione di pubblico e critica, passata dal definirli Capolavori a bottigliarli selvaggiamente neanche si trattasse delle più ignobili delle schifezze?
Sicuramente che la verità sta nel mezzo, e che se in parte il buon Derek è portatore di un talento che non riesce a compensare il peso della sua ambizione, dall'altra senza dubbio mostra le doti del narratore di razza, portando sullo schermo un'altra grande epopea delle stelle e strisce dimenticate agli angoli della Frontiera in cui la Leggenda ha lasciato da tanto tempo il posto alla Realtà.
Ed è tutta Realtà, quella che Cianfrance mostra seguendo la vicenda di The place beyond the pines - titolo originale decisamente più profondo ed interessante del semplicistico Come un tuono nostrano -: le vite bruciate di Luke e di suo figlio Jason a fronte di quelle che avranno sempre un paracadute, nel bene o nel male, di Avery ed AJ.
Quel "luogo oltre" in cui veniamo trasportati che è quasi più del cuore, più della geografia di cittadine dimenticate da dio in cui la Legge pare ancora funzionare come ai tempi del vecchio West, figlie delle "badlands" cantate da Springsteen e teatri di tante tragedie della storia recente e non degli USA, dalle stragi nelle scuole a quelle nelle sale cinematografiche, quasi il nulla attorno togliesse tutta la magia che nei favolosi anni ottanta pareva poter salvare chiunque - bellissima la citazione dei Goonies - per lasciare soltanto briciole, rancore e scheletri nell'armadio.
Il luogo in cui Luke lancia la sua moto come un destriero indomabile, Avery scansa la morte non una, ma ben due volte, AJ non arriverà mai a comprendere e Jason coglie, forse, anche meglio del suo defunto padre, quando decide di sfruttarne l'eredità per costruire un sogno che è modellato nella stessa materia di quel West verso il quale si dirige e che, in tempi decisamente più lontani, forse avrebbe salvato, con le già citate Leggende, anche il suo vecchio.
Certo, scritto in questo modo pare quasi che Come un tuono non abbia punti deboli e che si tratti di qualcosa di epico e sconvolgente, i cui unici limiti stanno nella troppa carne al fuoco messa dal regista e sceneggiatore e da alcuni accorgimenti decisamente trascurati dallo stesso - possibile che, in quindici anni, sia solo Romina/Eva Mendes ad invecchiare? - e dalla facilità di alcuni passaggi risolutivi: in realtà il lavoro del regista è acerbo e non sempre ben centrato, il minutaggio è eccessivo ed il personaggio di Avery Cross - in realtà fulcro della vicenda - troppo semplicistico, così come la seconda parte - decisamente la più debole del film -, ed il confronto con un altro grande nome legato alla geografia dello Stato di New York e della Grande Mela è sicuramente impietoso - sto parlando del James Gray, già citato ieri nel post dedicato a Blue Valentine -.
Dovessi pensare freddamente a Come un tuono lo assocerei più ad una grande occasione sprecata che non ad un successo, eppure non riesco a non prendere le parti di Cianfrance principalmente perchè il suo operato - per quanto imperfetto - trabocca di passione come i suoi personaggi, che seppure imperfetti a loro volta mostrano quanto sfaccettato ed assolutamente grigio sia l'orizzonte umano, privo di quei bianchi e neri che dovrebbero costituire gli estremi e che paiono scomparsi come il West verso il quale ha intenzione di viaggiare Jason, cercando di portare con se la parte migliore di quello che era suo padre.
Così Luke non è l'eroe romantico e tormentato, ma uno sbandato che cerca di risolvere i suoi problemi nell'unico modo che conosce, Avery non è il volto pulito di un mondo che può andare nella giusta direzione, ma un arrampicatore che pensa alla sopravvivenza, Romina non è una vittima delle scelte impulsive e sbagliate, ma un'ipocrita in grado di negare e negarsi anche l'evidenza, AJ non è un ribelle che pare quasi equilibrare le sorti rispetto ai trascorsi di Luke e di suo padre, ma un viziatello che attende solo la lezione giusta, o quella peggiore.
E Jason? Chi è Jason?
Non è un delinquente, per quanto voglia mostrarlo.
E neppure un cowboy pronto a sfidare tutto e tutti, pistola in pugno e redini salde.
Jason è solo un ragazzo che non ha conosciuto suo padre, e decide di andare all'Ovest per cercarlo.
A cavallo di una moto, proprio come avrebbe fatto lui.



MrFord



"I'm wandering, a loser down these tracks
I'm dying, but girl I can't go back
'cause in the darkness I hear somebody call my name
and when you realize how they tricked you this time
and it's all lies but I'm strung out on the wire
in these streets of fire."
Bruce Springsteen - "Streets of fire" - 



lunedì 31 ottobre 2011

This must be the place

Regia: Paolo Sorrentino
Origine: Italia, Irlanda, Usa
Anno: 2011
Durata: 118'



La trama (con parole mie): Cheyenne, una rockstar figlia degli anni del dark e della new wave, si è da tempo ritirata in una sorta di esilio dorato a Dublino, dove vive in compagnia della moglie e quasi galleggia, etereo, in bilico tra le passeggiate al centro commerciale con la giovane Mary e le partite di pelota con la compagna Jane, ancora turbato dal suicidio di due suoi giovani fan avvenuto vent'anni prima, causa principale del suo allontanarsi dal palcoscenico.
Quando suo padre muore, Cheyenne fa ritorno negli Stati Uniti ed inizia un viaggio che diviene iniziatico alla ricerca dell'uomo che, ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, fu carceriere del genitore dell'ex rockstar: lungo la strada farà degli incontri che porranno le basi per un cambiamento radicale della sua vita.



Questo dev'essere proprio l'anno delle delusioni.
Dopo Malick, Polanski, Almodovar e Cronenberg anche Paolo Sorrentino - il mio favorito, con Giorgio Diritti, nel panorama italiano attuale - confeziona un'opera tanto perfetta nella forma quanto profondamente svuotata di sostanza.
Nonostante una regia impeccabile, movimenti di macchina da capogiro, una colonna sonora da urlo firmata da David Byrne e Bonnie "Prince" Billy, la fotografia d'impatto di Luca Bigazzi e tutti i pregi - e i difetti - di una grande produzione internazionale patinatissima, la resa ed il lascito di quest'ultima opera del regista partenopeo manca della potenza emotiva che aveva caratterizzato tutto il suo Cinema precedente, in particolare i miei titoli favoriti L'uomo in più e lo splendido Il divo.
Certo, non siamo di fronte ad una pellicola completamente sbagliata, o incapace di affascinare: i momenti magici non mancano, sia dal punto di vista tecnico - la sequenza del concerto di David Byrne riesce a rendere tutta la carica che pensavo solo un "live" potesse trasmettere allo spettatore - che emotivo - il confronto tra il protagonista ed il figlio della cameriera Rachel proprio in merito alla canzone dei Talking heads che da titolo al film -, ed il fascino del road movie autoriale made in Usa pervade l'intera opera, mescolando abilmente il Wenders di Paris, Texas e i Coen di Arizona Junior, eppure proprio in questo suo essere artisticamente convenzionale l'opera di Sorrentino perde la freschezza se vogliamo casereccia che aveva sempre contraddistinto il suo lavoro, togliendo cuore a quella che è sempre stata una sorta di macchina perfetta.
Dalla sua This must be the place ha comunque un crescendo convincente che - pur se molto lentamente - cattura l'attenzione ed il cuore dello spettatore aprendolo ad una crescita simile a quella del suo protagonista, che nonostante l'età, l'apatia ed i rimorsi attraversa la pellicola neanche fosse un adolescente ancora alla ricerca di se stesso - per quanto lo stesso possa negarlo -, riuscendo, soprattutto con il finale, ad innescare una reazione sotterranea eppure dirompente a livello sentimentale, tracciando una linea nell'esistenza di Cheyenne e, in una certa misura, nella visione dello spettatore.
In questo senso, Sean Penn - che già tutti sapevamo essere un attore assolutamente dotato - incede e conquista con il passare dei minuti, anche se la sua interpretazione risulta essere talmente sopra le righe da sfiorare - soprattutto nella parte ambientata a Dublino - quella gigioneria da bottigliate tanto osteggiata in casa Ford: lo sbuffo sul ciuffo è un esempio perfetto.
Cosa resta, dunque, di This must be the place?
Sorrentino ha iniziato a percorrere l'inevitabile - o quasi - parabola discendente delle talentuose promesse non in grado di reggere la pressione delle ribalte importanti?
O ha soltanto cominciato a prendere le misure - come fu per Nolan con Insomnia - in modo da essere pronto al vero salto di qualità con il suo prossimo lavoro?
Di certo, rispetto agli altri registi citati all'inizio del post, in questo caso la delusione è stemperata dalla voglia dell'autore - che traspare anche nei momenti meno riusciti della pellicola - di raccontare e portare sullo schermo un percorso che pare sempre profondamente personale - anche quando le sbavature dello script si fanno notare, come in questo caso - e che, soprattutto, dopo una fase centrale a rischio di perdizione tutta citazioni, gente strana degli Usa da profonda e grottesca provincia ed un autoriale sensazione di deja-vù, riesce a riprendere il filo conduttore della narrazione regalando un ottima chiusura, quasi a dirci che il Sorrentino internazionale diventerà grande, ed il futuro che lo aspetta è nuovo e, in qualche modo, privo delle "zone d'ombra" di questo suo lavoro.
Io continuo a sperarci.
Anche perchè, se dovessi proprio fare il cinico, direi che se "this must be the place", sarebbe meglio che il buon Paolo torni dalle nostre parti, perchè "il luogo" a stelle e strisce non sembra proprio giovargli.

MrFord

"Home - is where I want to be
but I guess I'm already there
I come home she lifted up her wings
guess that this must be the place
I can't tell one from the other
did I find you, or you find me?
there was a time Before we were born
if someone asks, this where I'll be . . . where I'll be."
Talking heads - "This must be the place" -


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