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martedì 11 aprile 2017

Io, Daniel Blake (Ken Loach, UK/Francia/Belgio, 2016, 100')




Alla fine della scorsa estate, in attesa del momento in cui Julez sarebbe tornata al lavoro dopo il periodo di maternità, mi preparavo a darle il cambio per passare qualche mese a casa con i Fordini così come avevo fatto nell'estate del duemilatredici, che si rivelò, difficoltà economiche a parte - decidere di mettersi in maternità o paternità facoltativa è decisamente tosto, considerato che si percepisce il trenta per cento del proprio stipendio -, la più bella della mia vita.
Per correttezza ed evitare qualsiasi ripercussione successiva, lavoravo il mio capo ai fianchi da mesi cercando di fargli digerire il fatto che sarei mancato nel periodo più caldo dell'anno - quello invernale -, lottando contro le sue neppure troppo velate speranze che potessi essere presente a dicembre: il giorno in cui gli comunicai che sarei sicuramente rimasto a casa almeno fino al trentuno gennaio, la sua reazione fu straordinariamente pacata, tanto che pensai "devo aver fatto proprio una bella opera di convincimento".
Peccato che, lo scoprii soltanto dopo, dai piani alti gli avessero comunicato il giorno prima di me che avremmo chiuso proprio con la fine dell'anno, e che dunque, di fatto, non sarei più tornato in quello che era stato il mio posto di lavoro - nonostante i cambi di gestione - dal novembre del duemilaquattro.
Trascorsa la paternità, dunque, dal dodici di gennaio scorso sono ufficialmente senza lavoro.
Niente drammi, per carità: ho vissuto ogni istante di questa nuova "avventura" come un'opportunità per ricominciare e reinventarmi, magari tentando di percorrere una strada che possa essere più vicina a quelle che sono le mie passioni.
Ma non è questo, quello di cui volevo parlare: in Italia al momento non esiste più la mobilità come la si conosceva, ma, in caso di licenziamento per cause indipendenti dalla volontà del lavoratore, si utilizzano piattaforme studiate affinchè il lavoratore stesso percepisca un'indennità di disoccupazione subordinata ad un patto di servizio stipulato dallo stesso con un'agenzia di collocamento o un ente che si occupi di ricollocazione che di mese in mese diminuisce fino allo scadere del periodo per il quale è diritto riceverla.
Il diciotto gennaio scorso, seguendo il percorso che lo Stato ha tracciato per il sottoscritto, ho fatto partire questa procedura, dovendo affrontare tutte le piccole e grandi menate burocratiche che anche online si fanno sentire - il sito della Regione Lombardia, in questo senso, è una vera merda, sappiatelo -, inviando i documenti di rito all'INPS e sottoscrivendo il suddetto patto di servizio.
Sono passati quasi tre mesi, da quel momento.
Tre mesi in cui ho fatto progetti alternativi per il mio futuro, oltre a godermi i Fordini, la casa ed il tempo a disposizione, e migliorare molto come casalingo.
Tre mesi in cui, dall'INPS e dallo Stato, non ho visto arrivare ancora nulla.
Tre mesi in cui il massimo sforzo dell'agenzia sono stati due incontri da due ore e mezza per aiutarmi a compilare per l'ennesima volta il curriculum ed inviarlo sfruttando le piattaforme assurde di alcuni siti molto noti di ricerca di lavoro ed un'offerta per un colloquio per un posto non certo di rilievo in una grande azienda al quale sarebbero seguiti due contratti da una o due settimane, ed in caso uno da tre o sei mesi.
E nel frattempo, se posso permettermi di percorrere le strade alternative di cui parlavo, posso farlo solo grazie ai soldi arrivati dal mio ex datore di lavoro, lo stesso per il quale ora mi ritrovo disoccupato.
Se non fosse che sono un ottimista, un ingordo di vita e abbia voglia davvero di cambiare, per me e per la mia famiglia, ci sarebbe quasi da piangere, nel pensare al grottesco di certe situazioni.
Dev'essere per questo, o perchè sono cresciuto in una famiglia in cui si è sempre lavorato, o perchè, semplicemente, come ai tempi del post dedicato all'ultima stagione di Spartacus, "non sono nato Romano", che Ken Loach mi arriva senza scorciatoie dritto al cuore.
Io, Daniel Blake è stato un colpo profondo e sofferto, di quelli come fu per My name is Joe.
Ed ancora una volta al termine di un film firmato dal più comunista tra i grandi registi europei - e non solo - mi sono ritrovato con il fiato corto e le lacrime agli occhi.
Io non sono un uomo tutto d'un pezzo come Daniel Blake: nella mia vita ho tradito, mentito, rubato, ho fatto in modo, con i mezzi che avevo ed ho avuto, di ritornare i colpi che ricevevo.
Non sono un puro. Anzi.
Ma so cosa significa aver voglia di far sentire la propria voce, così come avere la sensazione che nessuno, a parte chi ti ama davvero, farà nulla affinchè questo possa accadere.
Anche quando afferma il contrario.
So cosa significa farsi il culo, ed avere una dignità.
So cosa significa vederla in chi ci sta di fronte e magari, in quel momento, sta lavorando per noi.
Ma come cantava De Andrè, "Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d'obbedienza, fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza, però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni".
E quando i "poteri buoni" ci mettono alle strette, è importante, giusto, vitale far sentire quella voce.
La stessa che dice "Io sono Daniel Blake".
Fosse anche l'unica e l'ultima cazzo di cosa che facciamo.


 


MrFord 




 

lunedì 25 maggio 2015

Cannes 2015

La trama (con parole mie): si è concluso ieri sera il sessantottesimo Festival di Cannes, forse l'appuntamento più prestigioso tra i grandi rendez vous di ogni stagione cinematografica.
La Giuria presieduta dai Fratelli Coen si è trovata di fronte una selezione di autori e titoli sulla carta decisamente interessante, che vedeva tra le sue fila ben tre cineasti italiani, i celebrati Nanni Moretti, Paolo Sorrentino e Matteo Garrone.
Come si sarà dunque conclusa la kermesse? Sarà riuscita la compagine italiota a portare a casa almeno uno dei premi?
Senza dubbio, e qualunque sia stata la decisione finale della Giuria, ci sarà, come sempre, da discutere.







E così, i giochi sono fatti anche quest'anno, per quel che riguarda la Palma d'oro.
I quotidiani italiani, online e non, portano già in prima pagina lo "scandalo" di una sconfitta del nostrano trio delle meraviglie composto da Moretti, Sorrentino e Garrone, lasciati completamente a secco di riconoscimenti - a meno che non si sfrutti come salvagente il premio della giuria ecumenica a Moretti -, come se la loro presenza bastasse a giustificare una vittoria, o quasi.
Non essendo ancora riuscito a confrontarmi con nessuno dei lavori portati dai nostri in concorso - personalmente, in ordine di preferenza, spero di confrontarmi al più presto con Youth, Mia madre e dunque Il racconto dei racconti - o tantomeno con gli altri - vincitori e non - scrivo sull'onda dell'impressione e dell'emozione, e non posso che essere soddisfatto - nonostante il campanilismo che in questi casi desta sempre qualche sospetto, quasi l'organizzazione faccia comunque pressioni sulla Giuria - della vittoria di Audiard, un regista con grandi palle che nel corso della sua carriera è andato in crescendo, che ricordo ai tempi in cui scoprii grazie a Sulle sue labbra così come allo strepitoso Il profeta ed al passionale Un sapore di ruggine e ossa.


Un brindisi se lo guadagna anche il premio in ex aequo per l'interpretazione femminile, giunto a valorizzare il nuovo lavoro della regista Maiwenn, che non vedo l'ora di affrontare considerato l'ottimo Polisse di qualche anno fa, e nonostante la mia antipatia anche a Lanthimos, che pare essere riuscito a colpire con il suo The Lobster così come fece con Kynodontas.


Il premio alla regia di Hou Hsiao Hsien può essere una strizzata d'occhio agli spettatori più radical - anche se il mio ricordo di Millennium Mambo è ancora oggi ottimo -, mentre il riconoscimento a Vincent Lindon - che onestamente conosco poco e niente -, quello a Franco per la sceneggiatura ed il Gran Premio a Nemes mi lasciano tutto sommato indifferente.


Un Festival che accontenterà alcuni e lascerà l'amaro in bocca a molti, come del resto accade sempre in queste occasioni: per quanto mi riguarda, sono più che felice di avere, almeno sulla carta, ottimo materiale di visione per il resto di un'annata che, fino ad ora, ha riservato più delusioni che altro.




Ed ecco la lista dei vincitori:

Palma d’oro Dheepan, Jacques Audiard
Grand prix Saul fia (Il figlio di Saul), László Nemes
Premio della giuria The lobster, Yorgos Lanthimos
Miglior regia Nie Yinniang, Hou Hsiao-Hsien
Miglior attore Vincent Lindon, La loi du marché
Miglior attrice (premio ex aequo) Rooney Mara, Carol, e Emanuelle Bercot, Mon roi
Miglior sceneggiatura Chronic, Michel Franco
Miglior cortometraggio Wave 98, Ely Dagher



MrFord



 

lunedì 26 maggio 2014

La vita di Adele

Regia: Abdellatif Kechiche
Origine: Francia
Anno: 2013
Durata:
179'





La trama (con parole mie): la giovane Adele, diciassettenne di Lille, è ancora al liceo quando scopre l'attrazione per le donne, nonostante le sue prime esperienze siano con ragazzi. Quando conosce Emma, studentessa dell'Accademia di belle arti più grande di lei di qualche anno, sboccia un amore travolgente e passionale destinato ad accompagnare la crescita delle due giovani fino a quando Adele coronerà il sogno di diventare insegnante dopo l'università ed Emma riuscirà ad intraprendere con successo la carriera di pittrice.
Il tempo ed i diversi impegni, però, porteranno le due alla fine della storia, e mentre Emma riuscirà a costruirsi un nuovo inizio, per Adele continuerà ad incombere il vuoto sentimentale, sessuale ed affettivo lasciato dalla vecchia compagna.






Il blu, a quanto si legge in giro, è il colore dell'equilibrio e della tranquillità, delle passioni e dei sentimenti, così come della predisposizione ad aprirsi rispetto all'esterno accettandone i rischi.
La vita di Adele, ultima fatica di quello che, a mio parere, resta uno dei più straordinari - se non il più straordinario - regista europeo attuale, Abdellatif Kechiche, è intinto in questo splendido colore dalle punte dei capelli di Emma al vestito che indossa Adele proprio in chiusura di pellicola, lungo una strada percorsa da sola, che sia per responsabilità, colpa, destino o un tempismo mai dei migliori.
Dovendo togliermi un sassolino dalla scarpa, però, devo ammettere - ed è meglio che lo faccia subito, per evitare di ridimensionare troppo quello che è un film stupendo, giustamente premiato all'ultimo Festival di Cannes ed impreziosito da un'interpretazione doppia delle protagoniste da brividi - che in qualche modo finisce per essere un titolo parzialmente incompiuto: sarà che, nelle intenzioni del regista, il futuro dovrebbe riservare anche i capitoli tre e quattro della vita di Adele - un pò come fece Truffaut con il suo Doinel  ai tempi della Nouvelle Vague -, ma ad una prima parte ai limiti dell'incredibile e del Capolavoro, perfetta nel raccontare i piaceri ed i dolori dell'adolescenza - e legata a sequenze splendide per passione, roba da lasciare con gli occhi sbarrati e l'acquolina in bocca - segue una seconda incapace di tenerne di fatto il passo, fatta eccezione per il faccia a faccia tra Adele ed Emma nel bar e la stupenda chiusura.
Accordato questo calo di tensione, occorre ammettere che, una volta ancora, Kechiche centra il bersaglio grosso, confezionando una delle pellicole più intense, vere e sentite dello scorso anno, che se soltanto non fosse giunto al Saloon in colpevole - del sottoscritto - ritardo avrebbe raggiunto posizioni di rilievo tra i film migliori premiati negli ultimi Ford Awards: certo, non si raggiungono - almeno a caldo - le vette dello straordinario Cous cous, eppure il tocco del cineasta franco/tunisino si sente tutto, dalle inquadrature sul volto di Adele addormentata alle bollenti scene di sesso che vedono coinvolte le due giovani protagoniste - davvero magnifiche -.
Per il resto, assistiamo ad una partecipe e travolgente cronaca di vita quotidiana, dalla sensazione di inadeguatezza alla solitudine, dalla felicità di una primavera sentimentale e sessuale ad una routine che schiaccia anche i sentimenti più forti: la regia di Kechiche, mai invasiva eppure incredibilmente partecipe, sceglie un approccio silenzioso ma efficace, in grado di trasformare il lavoro portato a termine in una sorta di romanzo di formazione di quelli che, visti in momenti particolari della nostra vita, diventano qualcosa di più di una semplice lettura, quanto vere e proprie pietre miliari in grado di formarci come individui.
Ed è quello che fa Adele, un passo dopo l'altro, dalla timidezza legata alla scoperta della propria identità sessuale - giunta anche grazie a delusioni date, come rispetto al primo fidanzato, o ricevute, si veda la compagna di scuola che non ha intenzione di andare oltre un bacio dato più per vezzo che per desiderio: in questo senso, splendida l'intuizione di mostrare Adele il giorno successivo, finalmente decisa ad esternare il desiderio di poter stare con una ragazza, per la prima volta più curata nel look - a quel gesto di ravvivarsi i capelli, così semplice eppure simbolo di una profondità decisamente più grande: un pò come questo film tinto di blu, aereo e fisico ad un tempo, semplice e complesso, estremamente adolescenziale e crudelmente adulto.
Letta da questo punto di vista, Adele diviene un'eroina splendida, assolutamente genuina nella sua normalità, nei sogni di aspirante insegnante che la tengono lontana da un'elite intellettuale radical ma non le impediscono di sperimentare sulla pelle il sapore riscoperto delle ostriche, o la pelle della sua Emma, dal primo ritratto nel parco ai quadri della maturità, all'interno dei quali "Adele c'è sempre".
Così va la vita, in fondo.
Siamo tutti eroi del quotidiano alla scoperta di noi stessi.
E a volte camminare soli lungo una strada che porta verso il futuro può far sentire leggeri e liberi, ed altre soli e disperati.
Personalmente, ho fiducia nel blu e nel futuro.
In Kechiche e soprattutto in Adele.
Perchè è di blu come quello, di bocche arricciate nel sonno e capelli sfiorati, o dita succhiate in preda alla passione, che ci si può innamorare.




MrFord




"Asleep in perfect blue buildings,
beside the green apple sea,
gonna get me a little oblivion, baby,
and try to keep myself away from me."
Counting crows - "Perfect blue buildings" -



lunedì 27 maggio 2013

Cannes 2013

La trama (con parole mie): questa sera si è conclusa la sessantaseiesima edizione di quello che è considerato il Festival più importante del Cinema, appuntamento imperdibile per gli appassionati di tutto il mondo della settima arte e parata di stelle del mainstream così come dell'indie.
Nell'anno del ritorno in Italia - e alle origini - di Sorrentino e del Refn post-Drive la Palma d'oro è rimasta invece oltralpe, a premiare un regista che non ha, di fatto, mai deluso e che pare abbia colpito più di ogni altro la giuria: Abdellatif Kechice.
Ecco la lista dei vincitori e, come al solito, qualche commento del sottoscritto.



- Palma d'oro: La vie d'Adéle di Abdellatif Kechiche

Non posso che essere contento della vittoria di Kechiche, regista che ho seguito fin dal suo primo lavoro - Tutta colpa di Voltaire - e che avrebbe meritato anche il Leone d'oro a Venezia con il meraviglioso Cous cous, uno dei film corali più belli degli ultimi dieci anni.
La vie d'Adéle, costruito attorno alla storia d'amore di due ragazze, è stato fin da subito uno dei titoli più apprezzati sulla Croisette: a questo punto non vedo l'ora di poterlo ospitare anche qui al Saloon.




- Grand Prix: Inside Llewyn Davis di Ethan e Joel Coen

Secondo premio ed altri due protetti fordiani: i fratelli Coen.
Il loro Inside Llewyn Davis pare sia qualcosa di decisamente interessante: ambientato nella New York degli anni sessanta, racconta una settimana della vita un giovane folk singer nel pieno del fermento dei tempi. Il cast promette bene, l'argomento anche.
Certo, non mi stupirei se il premio fosse arrivato principalmente per l'intercessione di Spielberg, ma me lo faccio andare bene comunque.


- Regia: Amat Escalante per Heli


Di questa produzione affidata al giovane regista di Barcellona non so praticamente nulla, dunque non mi pronuncio rispetto alle polemiche insorte sui nostri quotidiani a proposito dei mancati riconoscimenti a Sorrentino per il suo La grande bellezza, almeno fino a quando non avrò visto entrambi i titoli e potrò confrontarli come si deve.


- Giuria: Tale padre, tale figlio di Hirokazu Koreeda


Il premio della Giuria è andato ad un autore giapponese tra i meno conosciuti oltre i suoi confini - almeno per quanto riguarda quelli di respiro internazionale - che ha presentato una storia che, sulla carta, mette in gioco sentimenti e sensazioni che in questo periodo della mia vita mi toccano particolarmente: quelli della paternità.
Non so se e quando verrà distribuito in Italia, ma senza dubbio con l'arrivo del Fordino e questo nuovo mondo da esplorare giorno per giorno non intendo certo perdermi questa visione.


- Migliore attore: Bruce Dern per Nebraska di Alexander Payne


L'anziano caratterista americano Dern mi è sempre passato sotto gli occhi senza rimanermi particolarmente impresso, ed il suo premio è fondamentalmente stato uno di quelli di cui non mi preoccupo più di tanto, sia in positivo che in negativo.
Sono però molto curioso di affrontare la visione del nuovo lavoro di Payne, un regista simbolo della parte buona del Sundance-style che fino ad ora non mi ha mai deluso.


- Migliore attrice: Berenice Bejo per Il Passato di Asghar Farhadi


Berenice Bejo, salita agli onori della cronaca con il magnifico The artist, incassa il premio per la migliore interpretazione femminile grazie ad uno dei registi che più attendo - sempre che la distribuzione nostrana non giochi brutti scherzi -,  Asghar Farhadi, autore di chicce come About Elly e dello splendido Una separazione.
Avrà giocato anche in casa, ma trovo che la Bejo abbia ottime carte da giocarsi, dunque approvata anche questa scelta dei giurati.







- Sceneggiatura: Jia Zhangke per A touch of Sin


Il premio per la migliore sceneggiatura è andato invece ad un'altra vecchia conoscenza del Saloon, Jia Zhangke, che non troppi anni fa mi lasciò a bocca aperta con il film che gli valse il Leone d'oro, Still life, un'opera struggente legata al nuovo e al vecchio corso della Cina.
Di questa sua più recente fatica non so nulla, ma di sicuro non mi lamenterò a cercare di recuperarla - impresa ardua, considerato che tra i premiati questo è senza dubbio il titolo che incontrerà più difficoltà di distribuzione qui nella Terra dei cachi -.


- Palma d'oro per il miglior cortometraggio: Safe di Byong-Gon
- Menzione speciale a 37/o 4S dell'italiano Adriano Valerio e a Le fjord des baleines di Gudmundur Arnar Gudmundsson
- Camera d'or (migliore opera prima): Ilo Ilo di Anthony Chen (dalla Quinzaine)

mercoledì 8 maggio 2013

Il sospetto

Regia: Thomas Vinterberg
Origine: Danimarca
Anno: 2012
Durata:
115'




La trama (con parole mie): Lucas ha quarantadue anni, è divorziato e lavora in un asilo, combattendo ogni giorno una battaglia a distanza con la ex moglie per la custodia di suo figlio Marcus. I bambini lo adorano, e lui è un membro assolutamente rispettato della piccola comunità in cui vive, fatta di persone che si conoscono da talmente tanto tempo da averci perso la memoria.
Un giorno, la piccola Klara, figlia del suo migliore amico Theo che vede in Lucas tutta la pace che non vive in casa propria, si avvicina così tanto all'uomo da costringere lo stesso a mettere una distanza tra loro: la bambina, sentitasi respinta, racconta una bugia che sconvolgerà la vita dell'amico suo e di famiglia.
Accusato dalla comunità di essere un pedofilo, Lucas verrà licenziato ed indagato dalla polizia, finendo per diventare il bersaglio di soprusi, violenze, accuse ed un moltiplicarsi di voci sul suo conto tanto pressanti da condizionare anche chi gli è più vicino.




Da mesi leggevo in lungo e in largo di questo film, che fosse dalle parti di Dae o del Cannibale.
Prima di poterne parlare come se fosse una recensione di tutti i giorni, però, lascerò che una digressione di vita vissuta si faccia carico di alcuni dei temi trattati dal lavoro di Vinterberg: non troppi giorni fa parlavo con un collega a proposito della mia recente condizione di paternità, che insieme ad una serie di sentimenti positivi e fortissimi - mi basta guardare il Fordino appena torno a casa perchè tutto possa cambiare, a prescindere da quello che accade all'esterno - ha portato nella vita del sottoscritto una sorta di aumento dell'aggressività atta a proteggere quello che consideriamo il nostro territorio, il nostro mondo, la nostra Famiglia.
Raccontando dell'episodio che citai ai tempi in cui parlai di Polisse, ricordo di aver affermato in tutta onestà che se dovesse capitare una cosa del genere a mio figlio, se anche dovessi nutrire soltanto il dubbio che un suo insegnante, un estraneo, un amico, un tizio qualsiasi potesse avere una qualsiasi mira nei suoi confronti, probabilmente andrei a cercarlo in modo da ricordare fisicamente che quello non è il genere di intendimento gradito dal sottoscritto.
Altrettanto onestamente, da ex obiettore e da democratico, ammetto che non mi scandalizzerebbe l'idea della pena di morte per i pedofili.
I bambini sono il nostro futuro, e spesso sono il ritratto di un'innocenza totalmente disarmata di fronte ad un mondo di adulti e di cose abiette come le violenze su di loro.
Il sospetto, uno dei titoli più potenti che abbia avuto occasione di veder passare dal Saloon negli ultimi mesi, è in questo senso una sfida: il pubblico, fin dal principio, sa bene, infatti, che il protagonista Lucas è innocente, e che il dramma della sua accusa e delle violenze ad essa conseguite sono legate alla bugia di una bambina che ha l'unica colpa di sentirsi rifiutata, a partire dalla sua stessa casa. Una bambina che continua ad essere innocente quanto il suo "persecutore" anche quando appare chiaro lo spirito per il quale la sua menzogna nasce e si sviluppa.
A ben guardare, e minuto dopo minuto, appare evidente che questo saggio di bravura del regista di Festen - felicemente bottigliato dal sottoscritto - e del suo protagonista - uno straordinario Mads Mikkelsen, premiato con la Palma d'oro per la migliore interpretazione maschile all'ultimo Festival di Cannes - non tocchi, in realtà, il tema della pedofilia quanto Million dollar baby non toccava di quello dell'eutanasia: l'associazione più vicina, infatti, è quella di lavori come Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti o The Village di Shyamalan, legati a doppio filo al potere della comunità e delle dicerie, dei sussurri e di una società pronta a stare zitta in coro in una chiesa la notte di natale - perchè, si sa, davanti a Dio è bene non alzare la voce - ed al contempo sempre al posto e al momento giusto quando si tratta di lasciare che il giustizialismo, la frustrazione, la violenza repressa ed il desiderio di dispensare una giustizia sommaria facciano il loro corso.
Certamente l'essere consci del fatto che Lucas sia innocente facilita in qualche modo - e non di poco - noi spettatori, eppure i meccanismi messi in moto dal crescendo di quest'opera assolutamente toccante sono ben più complessi di quanto si possa pensare, e più che nella vittima cui presta volto e cuore il fordiano Mikkelsen si finisce per immedesimarsi in Theo, padre della piccola Klara nonchè migliore amico di Lucas, o Marcus, figlio del "mostro" costretto a difendere il padre anche di fronte all'ignoranza e ad una violenza fin troppo simile a quella per cui il suo genitore finisce per scontare una pena insormontabile per qualsiasi uomo.
Perchè il peso della diceria, degli sguardi, del sospetto - per l'appunto - è qualcosa che va ben oltre ogni standard umano, e mette a nudo di fronte ad una società incapace di ascoltare e cercare ragioni che trascendano la pura e semplice manifestazione di vendetta - esemplare, in questo senso, il dignitoso e terribile ritorno al supermercato di Lucas dopo il pestaggio - anche quando mossa da legittimi dubbi e situazioni - come già detto, credo che io stesso reagirei scompostamente se mi trovassi con il Fordino al posto dei genitori dei bambini dell'asilo -.
A dare forza, inoltre, ad un'evoluzione clamorosa, un finale da brividi da ben due punti di vista: da un lato la stessa e già tanto criticata società, che dopo aver sdoganato - e a carissimo prezzo, si vedano la sequenza della chiesa già citata ed il confronto tra Theo e Lucas nella notte di natale - il presunto colpevole si dichiara pronta a salvare le apparenze ed accettarlo di nuovo come membro rispettabile di un distorto cerchio della fiducia - lampante l'esempio fornito dalla fidanzata di Lucas -, dall'altro la battuta di caccia, con quel colpo ad un soffio dal bersaglio grosso ed una sagoma stagliata contro il sole che potrebbe avere mille volti, compresi i più terribili per Lucas stesso: quello di se stesso, o di Marcus.
Perchè Lucas non conoscerà mai la pace.
Perchè un genitore non accetterà mai davvero l'idea che qualcuno possa aver approfittato di suo figlio in quel modo.
Perchè il cammino dell'uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre, perché egli è in verità il pastore di suo fratello ed il ricercatore dei figli smarriti. E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare ed infine a distruggere i miei fratelli. E tu saprai che il mio nome è quello del Signore quando farò calare la mia vendetta sopra di te.
Forse Lucas è l'uomo timorato, la comunità la tirannia degli uomini malvagi, e la violenza il pastore.
O forse è Klara a dover aver paura, perchè gli uomini malvagi potranno sempre approfittare di lei, e non ci saranno bugie o genitori o presunti tali a proteggerla come pastori.
Il sospetto, però, è che in questo mondo malvagio non esistano pastori, e si finisca a vivere da uomini timorati in attesa che giunga un'ombra stagliata nel sole, senza volto, a lasciare che la nostra fine appaia soltanto un incidente di percorso nella grande caccia della vita.


MrFord


"Si sa che la gente dà buoni consigli
sentendosi come Gesù nel tempio,
si sa che la gente dà buoni consigli
se non può più dare cattivo esempio."
Fabrizio De Andrè - "Bocca di rosa" -



lunedì 28 maggio 2012

Cannes 2012


La trama (con parole mie): come ormai tutti saprete, si è concluso il sessantacinquesimo Festival di Cannes, che ha visto sfilare alla Croisette il fior fiore del Cinema autoriale - e non - del mondo, confermando questo appuntamento come il più importante dell'anno per gli appassionati e gli addetti ai lavori.
Le proposte erano anche a questo giro decisamente interessanti, anche se pare che la giuria presieduta da Nanni Moretti non abbia avuto praticamente dubbi sul vincitore.
In attesa di avere l'occasione di vedere nelle nostre sale la selezione del Festival, ecco l'elenco dei premi e giusto un paio di punti di vista made in saloon.



Palma d'Oro
Amour di Michael Haneke


Per la seconda volta negli ultimi cinque anni trionfa il chirurgico regista austriaco bissando il trionfo del magnifico Il nastro bianco.
Personalmente ho sempre considerato Haneke uno dei grandi Maestri del Cinema europeo attuale, quindi non posso che essere soddisfatto, anche se una punta in più di coraggio da parte della giuria non mi avrebbe fatto poi tanto schifo. Comunque, le aspettative rispetto a questo Amour sono alte. Molto alte.
Grand Prix
Reality di Matteo Garrone


La nuova fatica del regista di Gomorra non è ovviamente ancora passata sugli schermi di casa Ford, eppure questo premio mi sa tanto di marchettone selvaggio concesso al Presidente di giuria Moretti, che, come in ogni Festival che si rispetti, avrà imposto le sue scelte - o assecondato quelle degli altri giurati - a determinate condizioni.
Premio per la regia
Carlos Reygadas per Post tenebras lux


Premio che mi lascia abbastanza indifferente.
Non conosco a fondo Reygadas, dunque attenderò la visione prima di pronunciarmi in proposito.

Premio della Giuria
The angels' share di Ken Loach


Personalmente ho sempre avuto una particolare simpatia per Loach ed il suo Cinema "operaio".
Il vecchio Ken è uno che tiene i cavalli, un fordiano ad honorem, e le sue storie - su tutte la mia preferita, My name is Joe - riescono sempre a toccarmi.
Eppure ho ancora negli occhi la Palma regalata per il suo peggior film, Il vento che accarezza l'erba, e quindi storco un pò il naso a priori rispetto a questo nuovo successo: anche in questo caso, attenderò la visione. E non senza pregiudizi.

Premio per l'interpretazione maschile
Mads Mikkelsen in The hunt di Thomas Vinterberg


Non ho mai sopportato Vinterberg, ma un premio al mitico Mads Mikkelsen io non lo rifiuto mai.
Non fosse altro che per Le mele di Adamo o Valhalla rising.

Premio per l'interpretazione femminile
Cosmina Stratan e Cristina Flutur in Beyond the hills di Cristian Mungiu 


Mungiu era uno degli autori che aspettavo maggiormente, considerato lo splendido Quattro mesi, tre settimane, due giorni che ancora è una ferita aperta nel mio cuore di spettatore.
Ancora una volta il regista romeno esalta le sue protagoniste, facendo salire la mia curiosità rispetto a questo suo nuovo lavoro alle stelle.

Premio per la sceneggiatura Cristian Mungiu per Beyond the hills


Come sopra. Felicissimo per Mungiu. In attesa di buttarmi in questa visione.

 

CORTOMETRAGGI

Palma d'Oro
SESSIZ-BE DENG (Silence) di Rezan Yesilbas


UN CERTAIN REGARD
 

DESPUES DE LUCIA di Michel Franco


CAMERA D'OR
 

BEASTS OF THE SOUTHERN WILDER di Benh Zeitlin 

Chiudo con un trailer segnalato anche dal mio antagonista Cannibale, legato al nuovo lavoro di Paul Thomas Anderson, The Master, che promette di fare davvero scintille, in uscita il prossimo autunno negli Usa.



Carne al fuoco ce ne sarà, e tanta.
Speriamo solo che la distribuzione italiana se ne accorga.

MrFord 

domenica 9 ottobre 2011

Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti

Regia: Apichatpong Weerasethakul
Origine: Tailandia
Anno: 2010
Durata: 114'







La trama (con parole mie): Bonmee è un vecchio agricoltore vedovo che da qualche tempo è malato. Richiama così nei suoi terreni la cognata in modo da prepararla al momento in cui morirà lasciandole terreni, attività e ricordi di una vita.
Inizia così un viaggio che coinvolge lo stesso Bonmee e la cognata, i lavoranti ed i fantasmi di un passato ormai lontano - la moglie e il figlio del protagonista -, i sogni e gli spiriti di questo mondo e quell'altro che dovrebbe toccare presente, passato, futuro, vita e morte.
Dovrebbe, perchè nonostante le bellissime immagini, quello che sembra è che l'unico vero scopo del regista sia stato quello di mettere le mani sulla Palma d'oro.



Per mesi ho evitato in scioltezza il confronto con la pellicola vincitrice del Festival di Cannes 2010, complici alcune recensioni entusiastiche di alcune tra le voci più radical chic della rete e non ed altre, decisamente meno lusinghiere, di persone il cui gusto è decisamente più vicino al panesalamismo fordiano.
Ultimamente, invece, una certa curiosità si era impadronita del sottoscritto a proposito della visione di questo film, quasi a voler soddisfare la voglia di un ritorno al Cinema orientale autoriale che da troppo tempo mancava all'appello sugli schermi di casa Ford.
Così, con la mente sgombrata della maggior parte dei pregiudizi, ho affrontato la visione di questo curioso Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti.
Ebbene, malgrado quello che possa trasparire da questa introduzione, ho trovato la pellicola estremamente scorrevole, a tratti ispiratissima, arricchita da forti simbolismi ed immagini magnifiche ed in grado di fare tesoro di una calma zen anche nello stile di narrazione, fatto di molte inquadrature fisse e bolle di sospensione temporale.
Eppure, allo stesso tempo, posso tranquillamente affermare che questo film è quanto di più insopportabilmente furbo e radical chic si possa trovare in giro, una di quelle cose ruffiane che piazza l'immagine senza alcuna spiegazione o utilità per la trama giusto per solleticare l'ego smisurato dei giurati dei Festival, che di fronte ad opere di questo genere tendono a sbrodolare bavetta ed assegnare premi come se piovessero anche quando loro per primi, nel buio del lettuccio, prima di addormentarsi, sanno benissimo di non aver capito un beneamato cazzo di quello che è stato raccontato dal regista.
Anche perchè, parliamoci chiaro, l'impressione è che non lo sappia davvero neppure lui.
I simbolismi sono sempre apprezzabili, quando hanno un senso, e le differenze culturali - certamente notevoli - possono essere stimoli ad aprire la propria mente a nuovi orizzonti: ma quando sono costretto ad osservare la scena di un monaco - peraltro neppure troppo convinto di intraprendere la carriera religiosa - mai visto fino a dieci minuti dalla fine del film sotto la doccia per cinque minuti mi chiedo cosa mai quell'immagine possa smuovere in me avendo assistito a quella che, a tutti gli effetti, è una storia legata a doppio filo al confronto con il proprio passato e la preparazione alla morte e che, infatti, raggiunge il proprio apice proprio nel dialogo tra Bonmee e la defunta moglie a proposito del Paradiso, più o meno a metà del minutaggio.
Ora, forse la mia sensibilità non è abbastanza sviluppata per cogliere il nesso tra la morte ed un giovane monaco che si lava con il sapone alla citronella, però qualche dubbio a proposito della sincerità dell'opera questo passaggio - così come la penetrazione del pescegatto, nota stonata di una sequenza altrimenti splendida - l'ha suscitato senza neppure sforzarsi troppo.
Un vero peccato, dunque, per uno script che poteva dimostrarsi una sorta di La città incantata in versione umana - le parti dedicate alle scimmie umanoidi dagli occhi rossi sono decisamente affascinanti - ed invece si rivela soltanto l'ennesima cialtronata da club di cinefili che nasconde dietro immagini obiettivamente stupende la pochezza di un film davvero senza un perchè.
Ennesima conferma, dunque, di quanto la Croisette si stia rivelando una sorta di rifugio per i radical chic nonchè un'oasi sfiorita per gli amanti del Cinema, gli stessi che, fino a qualche anno fa, attendevano trepidanti un anno intero per potersi godere proprio sul litorale francese il meglio del meglio della settima arte.

MrFord

"Well you have no right to ask me how I feel
you have no right to speak to me so kind
some day I might (I might) find myself looking in your eyes
but for now, we’ll go on living separate lives
yes for now, we’ll go on living separate lives."
Phil Collins - "Separate lives" -

giovedì 21 luglio 2011

La ballata di Narayama

La trama (con parole mie): ai piedi del monte Narayama, una piccola comunità di contadini e pescatori vive dei frutti della terra affrontando le difficoltà e le prove che la vita e le stagioni riservano. Devoti alla divinità della montagna, gli abitanti seguono una regola secondo la quale ogni persona che abbia raggiunto le settanta primavere debba lasciare il villaggio accompagnata dal figlio maggiore per raggiungere Narayama e andare a morire sola, aspettando sotto forma di spirito che anche le persone amate la raggiungano, in futuro.
Una parabola legata a doppio filo con la Natura, che guarda all'Uomo come ad un curioso e contradditorio animale sociale ed analizza, dalle mura del focolare domestico alle leggi di paese, tutte le dinamiche di un piccolo, grande mondo.

Devo ammettere che, nonostante non conosca ancora a fondo la filmografia di Imamura, il regista nipponico ha sempre avuto il potere di stupirmi con ogni suo lavoro passato sugli schermi di casa Ford: ricordo la prima volta in cui incrociai il suo cammino, con il corto realizzato per la raccolta dedicata all'unidici settembre.
Alla prima visione rimasi sconcertato dalla follia che il regista pareva aver catapultato senza troppi patemi in quella manciata di minuti: eppure, con il passare del tempo, il suo messaggio è come sedimentato ed è riemerso cambiando pelle - dato che, nello specifico, il serpente era una figura centrale della simbologia utilizzata - divenendo ad oggi uno dei miei preferiti in quella raccolta.
Archiviata quell'esperienza, con le giuste tempistiche - non parliamo di un cineasta le cui pellicole passano come se niente fosse su uno schermo, per intenderci - cominciai a recuperare il resto dei suoi lavori, prendendomi il tempo e la freschezza mentale necessari ogni volta per intraprendere un viaggio all'interno del suo personalissimo universo.
Di La ballata di Narayama avevo già sentito parlare in più occasioni - in fondo è stata una delle più discusse palme d'oro degli anni ottanta -, e il dvd mi aspettava al varco da parecchi mesi, così, approfittando di qualche giorno di riposo in più, ho potuto trovare il respiro giusto per affrontarlo: devo ammettere che, rispetto alle aspettative che mi ero fatto, la materia e lo stile di Imamura sono molto più semplici di quanto non potessi pensare, i simbolismi - sempre presenti - molto chiari e di stampo che ora chiameremmo malickiano e la narrazione, seppur lenta, legata all'immaginario del Giappone rurale dei tempi andati che ho imparato ad apprezzare in pellicole indimenticabili come Onibaba o I sette samurai.
Le vicende dei contadini, dai biechi approfittatori ai grandi lavoratori, dall'amore alla morte, dalle risate al dramma profondo, mantengono una sobrietà sorprendente per lo stile spesso estremo del regista, che si libera soltanto nella parte finale, con la scalata della montagna da parte di Tatsuhei e della sua vecchia madre, in un crescendo che ricorda l'Herzog migliore e che, senza dubbio, rappresenta l'apice di una pellicola giocata fino a quel momento sul basso profilo tenuto dal suo autore.
La galleria dei personaggi - come sempre per le opere corali di questo tipo - è memorabile, per quanto limitante per lo spettatore occidentale, specie se non avvezzo all'ironia o all'approccio tutto giapponese rispetto alla vita, contestualizzata inoltre in un passato ancora più distante dagli usi e costumi che siamo stati abituati a conoscere dalle nostre parti.
Una pellicola, dunque, certo non per ogni palato, sicuramente in grado di risultare ostica o eccessivamente autoriale, eppure, vista da un'altra prospettiva, estremamente semplice e popolare, incentrata sui concetti di famiglia, società e ruolo degli anziani nella stessa.
Splendido, in questo senso, il monologo di Tatsuhei che, nel corso della scalata, racconta alla madre di come, a trent'anni da quel momento, sarà suo figlio a portarlo in spalla in cima al Narayama, e così ancora trent'anni dopo farà suo nipote con lui.
Un circolo di vite che non si esaurisce, e continua ad essere perpetrato anche dopo il ritorno al villaggio dello stesso Tatsuhei, testimone di nuove e future nascite.
Una lezione di semplicità per un film che, una volta scoperto, non si lesinerà certo dallo stupirci.

MrFord

"Am i cracking up
or just getting older?
you're not cracking up
you're just getting older
we're not cracking up
we're just getting older."
Oasis - "Getting older" -

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