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martedì 11 aprile 2017

Io, Daniel Blake (Ken Loach, UK/Francia/Belgio, 2016, 100')




Alla fine della scorsa estate, in attesa del momento in cui Julez sarebbe tornata al lavoro dopo il periodo di maternità, mi preparavo a darle il cambio per passare qualche mese a casa con i Fordini così come avevo fatto nell'estate del duemilatredici, che si rivelò, difficoltà economiche a parte - decidere di mettersi in maternità o paternità facoltativa è decisamente tosto, considerato che si percepisce il trenta per cento del proprio stipendio -, la più bella della mia vita.
Per correttezza ed evitare qualsiasi ripercussione successiva, lavoravo il mio capo ai fianchi da mesi cercando di fargli digerire il fatto che sarei mancato nel periodo più caldo dell'anno - quello invernale -, lottando contro le sue neppure troppo velate speranze che potessi essere presente a dicembre: il giorno in cui gli comunicai che sarei sicuramente rimasto a casa almeno fino al trentuno gennaio, la sua reazione fu straordinariamente pacata, tanto che pensai "devo aver fatto proprio una bella opera di convincimento".
Peccato che, lo scoprii soltanto dopo, dai piani alti gli avessero comunicato il giorno prima di me che avremmo chiuso proprio con la fine dell'anno, e che dunque, di fatto, non sarei più tornato in quello che era stato il mio posto di lavoro - nonostante i cambi di gestione - dal novembre del duemilaquattro.
Trascorsa la paternità, dunque, dal dodici di gennaio scorso sono ufficialmente senza lavoro.
Niente drammi, per carità: ho vissuto ogni istante di questa nuova "avventura" come un'opportunità per ricominciare e reinventarmi, magari tentando di percorrere una strada che possa essere più vicina a quelle che sono le mie passioni.
Ma non è questo, quello di cui volevo parlare: in Italia al momento non esiste più la mobilità come la si conosceva, ma, in caso di licenziamento per cause indipendenti dalla volontà del lavoratore, si utilizzano piattaforme studiate affinchè il lavoratore stesso percepisca un'indennità di disoccupazione subordinata ad un patto di servizio stipulato dallo stesso con un'agenzia di collocamento o un ente che si occupi di ricollocazione che di mese in mese diminuisce fino allo scadere del periodo per il quale è diritto riceverla.
Il diciotto gennaio scorso, seguendo il percorso che lo Stato ha tracciato per il sottoscritto, ho fatto partire questa procedura, dovendo affrontare tutte le piccole e grandi menate burocratiche che anche online si fanno sentire - il sito della Regione Lombardia, in questo senso, è una vera merda, sappiatelo -, inviando i documenti di rito all'INPS e sottoscrivendo il suddetto patto di servizio.
Sono passati quasi tre mesi, da quel momento.
Tre mesi in cui ho fatto progetti alternativi per il mio futuro, oltre a godermi i Fordini, la casa ed il tempo a disposizione, e migliorare molto come casalingo.
Tre mesi in cui, dall'INPS e dallo Stato, non ho visto arrivare ancora nulla.
Tre mesi in cui il massimo sforzo dell'agenzia sono stati due incontri da due ore e mezza per aiutarmi a compilare per l'ennesima volta il curriculum ed inviarlo sfruttando le piattaforme assurde di alcuni siti molto noti di ricerca di lavoro ed un'offerta per un colloquio per un posto non certo di rilievo in una grande azienda al quale sarebbero seguiti due contratti da una o due settimane, ed in caso uno da tre o sei mesi.
E nel frattempo, se posso permettermi di percorrere le strade alternative di cui parlavo, posso farlo solo grazie ai soldi arrivati dal mio ex datore di lavoro, lo stesso per il quale ora mi ritrovo disoccupato.
Se non fosse che sono un ottimista, un ingordo di vita e abbia voglia davvero di cambiare, per me e per la mia famiglia, ci sarebbe quasi da piangere, nel pensare al grottesco di certe situazioni.
Dev'essere per questo, o perchè sono cresciuto in una famiglia in cui si è sempre lavorato, o perchè, semplicemente, come ai tempi del post dedicato all'ultima stagione di Spartacus, "non sono nato Romano", che Ken Loach mi arriva senza scorciatoie dritto al cuore.
Io, Daniel Blake è stato un colpo profondo e sofferto, di quelli come fu per My name is Joe.
Ed ancora una volta al termine di un film firmato dal più comunista tra i grandi registi europei - e non solo - mi sono ritrovato con il fiato corto e le lacrime agli occhi.
Io non sono un uomo tutto d'un pezzo come Daniel Blake: nella mia vita ho tradito, mentito, rubato, ho fatto in modo, con i mezzi che avevo ed ho avuto, di ritornare i colpi che ricevevo.
Non sono un puro. Anzi.
Ma so cosa significa aver voglia di far sentire la propria voce, così come avere la sensazione che nessuno, a parte chi ti ama davvero, farà nulla affinchè questo possa accadere.
Anche quando afferma il contrario.
So cosa significa farsi il culo, ed avere una dignità.
So cosa significa vederla in chi ci sta di fronte e magari, in quel momento, sta lavorando per noi.
Ma come cantava De Andrè, "Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d'obbedienza, fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza, però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni".
E quando i "poteri buoni" ci mettono alle strette, è importante, giusto, vitale far sentire quella voce.
La stessa che dice "Io sono Daniel Blake".
Fosse anche l'unica e l'ultima cazzo di cosa che facciamo.


 


MrFord 




 

lunedì 8 agosto 2016

Saloon's Bullettin #4



Se qualcuno mi avesse detto che un giorno sarei riuscito a non trovare un film firmato Checco Zalone non vomitevole avrebbe rischiato le più prepotenti bottigliate immaginabili, e invece è successo: certo, venivo da otto giorni consecutivi di lavoro ed agognavo al riposo ed al coma irreversibile da pre-ferie, eppure Quo Vado?, titolo che alla sua uscita in sala ha sbriciolato ogni record d'incasso per quanto riguarda la Terra dei cachi, non mi ha fatto cacare quanto avrei previsto.
Principalmente, credo che il "merito" di questo "successo" sia legato al fatto che Zalone, per una volta, è riuscito a toccare un tema d'attualità - l'inferno dantesco della situazione lavorativa e l'importanza del famigerato "posto fisso" - senza finire a raccontarlo attraverso la volgarità di grana grossa tipica dei prodotti televisivi e non cinematografici.
Certo, la settima arte sta da tutt'altra parte, ma tutto sommato qualche risata ed un sottile senso d'appartenenza allo Stivale portano a casa la pagnotta (un bicchiere e mezzo).
Incredibilmente - considerati i miei standard esterofili - si resta dalle nostrane parti con La felicità è un sistema complesso, tentativo quasi indie che pare un ibrido tra Il capitale umano ed il Cinema sociale anni settanta, non completamente riuscito ed un pò troppo nebuloso a tratti, eppure capace di farsi voler bene con il passare dei minuti, quasi fosse un appuntamento che si crede non abbia speranza o partito in modo disastroso finito poi con una delle migliori scopate della propria vita.
Ora, sono ben lontano dall'esaltare il lavoro di Zanasi - che soffre di molti dei limiti offerti dal "troppo italiano", a partire da un livello recitativo molto basso -, ma una visione, a mio parere - considerato il rapporto non proprio idilliaco che ho avuto nel corso delle ultime stagioni con i prodotti made in Italy - ci potrebbe stare tutta, fosse anche solo per il moonwalk tra un lato e l'altro della banchina del treno alla stazione di Trento (due bicchieri e mezzo).
Non potevo poi, a seguito della sua scomparsa - che mi è costata un dolore profondo ed inaspettato legato ai tantissimi ricordi legati alla mitica figura -, non concedermi una serata in memoria di Bud Spencer, consacrata alla visione di uno dei miei titoli favoriti nella carriera dell'attore: uscito nel pieno degli anni ottanta e pronto a cavalcare l'onda del successo del brand di Rocky, Bomber, per quanto artigianale sotto tutti i punti di vista, risulta ancora oggi magico e divertentissimo - non avrei mai pensato di poter ridere ancora così tanto di fronte alle battute da Drive In di Jerry Calà -, con almeno un paio di sequenze cult legate al mito di Bud - il ballo alla tirolese condito dai ceffoni su tutte - e tutta quella pancia che manca al trash attuale.
Ne ho già parlato in occasione della giornata dedicata al leggendario attore, ma sono felice di aver lasciato un riferimento della visione anche qui.
Un cult intramontabile per i fan del fu Carlo Pedersoli, ma anche uno di quei prodotti di nicchia che andrebbero riscoperti e rivalutati dalle nuove generazioni. Mitico (un bicchiere e mezzo obiettivo, tre per il cuore e per Bud).
Sul fronte del piccolo schermo, invece, come ogni estate casa Ford si trasforma in una sorta di succursale del Grey-Sloane Memorial, considerata l'affezione che qui al Saloon si continua a nutrire - Julez in primis - per la creatura numero uno di Shonda Rhimes: Grey's Anatomy potrà essere ormai praticamente una soap mascherata da medical drama, il mio favorito Karev non più un bad guy, si patisce ad ogni secondo l'assenza di personaggi come Dottor Stranamore e Dottor Bollore, eppure ammetto che ogni ciclo scorre con grandissima scioltezza a colpi anche di tre o quattro episodi al giorno, e ad ogni anno, tra morti, abbandoni e storie d'amore, si finisce sempre per attendere il successivo giro di giostra: per quanto riguarda questo numero dodici, sono contento di non aver assistito a drammi particolarmente catastrofici o abbandoni da lacrime facili, nonostante non si sia, di fatto, concluso troppo.
Ormai il nucleo principale degli ex specializzandi - o almeno, quello che ne resta - è costituito da strutturati, e la seconda generazione non è ancora giunta a compiere il grande salto: quindi, direi quasi che si è trattato di una piacevole, comprensibile transizione (due bicchieri).
Il punto forte della settimana - anche se sicuramente, con la nuova struttura del blog, giungerò in ritardo clamoroso - è stato dato dalla conclusione della sesta stagione di Game of thrones, uno dei serial più chiacchierati, amati e discussi della blogosfera e non, divenuto il fenomeno di costume più importante in termini di numero di personaggi ed affezione agli stessi dai tempi di Lost.
Con quest'annata, finalmente, i tempi per i protagonisti della lotta per Westeros - in tutti i sensi - si stringono, abbandonando la noia diffusa della stagione precedente - forse la peggiore della serie - per pigiare sull'acceleratore bruciando, a volte, fin troppo le tappe: a fare la parte del leone, senza ombra di dubbio, l'episodio dedicato al gigante buono Hodor - uno dei più belli dei sei anni di programmazione -, il ritorno - SPOILER - del Mastino, ed una doppietta conclusiva giocata sullo scontro tra l'esercito del redivivo Jon Snow affiancato dalla sorellastra Sansa Stark ed il perfido Ramsay Bolton, per molti versi il charachter più odiato dai tempi di Joffrey, la partenza di Daeneris e delle sue armate alla volta di Westeros e la conquista del trono di Cersei, che guadagna qualche punto liberando gli schermi - SPOILER - dalla spiacevole presenza dell'Alto Passero.
Senza dubbio non perfetta ed assolutamente criticabile, la creatura nata dai romanzi di George Martin sta assumendo connotati sempre più epici, finendo per diventare una sorta di versione da piccolo schermo de Il signore degli anelli.
Speriamo che la qualità, per le prossime due stagioni - che dovrebbero essere le conclusive -, possa solo che migliorare.
Considerato che "Winter has came", non sarebbe male avere qualcosa per scaldarsi (tre bicchieri).





MrFord

mercoledì 11 novembre 2015

La legge del mercato

Regia: Stephane Brizè
Origine: Francia
Anno: 2015
Durata: 93'





La trama (con parole mie): Thierry, padre di famiglia impiegato per una vita in un'azienda tessile, perde il lavoro e si ritrova intrappolato nel circolo vizioso degli impieghi a tempo determinato, i corsi di formazione senza futuro ed una condizione economica sempre più precaria.
Quando, finalmente, riesce a trovare un impiego fisso come guardia di sicurezza presso un centro commerciale, scopre l'altro lato della medaglia della crisi: piccoli furti perpetrati da anziani pensionati o insospettabili, controlli serrati su cassiere e dipendenti, momenti di durezza anche rispetto ai colleghi richiesti da un ruolo che non è suo ma che, di fatto, diventa una vera e propria necessità.
Luci e ombre del mondo del lavoro e di una realtà che rende l'impiego una lotta per la sopravvivenza.








Il mondo del lavoro è davvero una brutta bestia.
Considerato che, di fatto, il luogo di lavoro è quello che viviamo maggiormente - spostamenti compresi - nel corso di una giornata standard, e che spesso vediamo i nostri colleghi più tempo di quanto non ci capiti con famiglia ed amici, la tranquillità e, di contro, lo stress provati nel quotidiano in ufficio, in negozio, in fabbrica o qualunque cosa sia, finiscono per incidere in misura decisamente importante sulla nostra vita.
Nel corso degli anni, almeno in un paio di occasioni mi è capitato di provare sulla pelle la spiacevole sensazione data dal timore di rimanere senza lavoro, ed in casa Ford abbiamo sperimentato - questa volta rispetto a Julez - cassa integrazione e mobilità per periodi di tempo decisamente importanti: personalmente, inoltre, ammetto di aver attraversato i miei momenti peggiori - e quelli che hanno tirato fuori il peggio di me - proprio a seguito di problemi avuti nell'ambito lavorativo.
La legge del mercato, uscito in sordina nonostante il premio - meritatissimo - ricevuto da Vincent Lindon come migliore attore all'ultimo Festival di Cannes, ed accolto tiepidamente - almeno sulla carta - anche dal sottoscritto, si è rivelato uno dei racconti più lucidi delle ultime stagioni proprio rispetto alle problematiche economiche, sociali e personali legate alla nostra identità d'impiego, che nel caso del protagonista della pellicola assumono dimensioni ancora più preoccupanti legate all'età anagrafica: il supplizio degli inutili corsi di formazione, dei contratti a tempo determinato, dei colloqui senza oggettive possibilità di assunzione, la ricollocazione professionale, la preoccupazione pratica rispetto ai conti da pagare - quasi agghiacciante la sequenza in cui la consulente della banca suggerisce a Thierry di vendere la casa, e sentendosi rispondere negativamente, vira sulla proposta di un'assicurazione sulla vita da considerare in caso di decesso dell'utente, ovvero Thierry stesso - ed infine, una volta raggiunto lo scopo e ritrovato un posto fisso, il confronto con la spigolosità dell'incarico - addetto alla sicurezza in un centro commerciale, che all'apparenza potrà sembrare una cosa da poco, ma che in realtà si rivela una cartina tornasole della realtà della crisi - "Un ladro non ha colore, non ha età, o stato sociale", avvisa un collega di Thierry, concetto espresso alla grande dalla sequenza legata al fermo del pensionato che non si può permettere la spesa intera, o il controllo rispetto alle cassiere del centro, a tutti gli effetti colleghe -.
Una pellicola, dunque, durissima e spietata ma non per questo drammatica a tutti i costi, quasi una versione "light" delle tragedie inseguite dai Dardenne, che farà storcere il naso al pubblico occasionale - che, con ogni probabilità, definirà il lavoro di Stephane Brizè noioso nonostante il minutaggio limitato ed una scorrevolezza che io ho trovato notevole per l'argomento trattato - e che potrebbe, proprio per la mancanza di grandi scene madri ed a causa di una struttura che vede susseguirsi lunghi piani sequenza legati ai dialoghi tra gli attori con inquadratura spesso fissa, scontentare perfino i radical.
Non che questo mi spaventi, o che debba spaventare chiunque possa essere incuriosito dalla visione: La legge del mercato è Cinema sociale puro e semplice, diretto come la vita, e proprio come il suo quotidiano senza acuti: ma l'insieme, quello sì, che è potente.
Come un collettivo vincente a fronte di un singolo formidabile ma incapace di regalare la vittoria alla squadra.




MrFord




"L’inferno e’ solamente una questione temporale
a un certo punto arriva punto e basta
a un certo punto anch’io uso l’ingresso principale e
hanno detto avete perso il posto
e’ vero il mio lavoro e’ sempre stato infame
ma l’ho chiamato sempre il mio lavoro
e c’han spostato sempre un po’ più avanti la pensione
ma quello adesso e’ l’ultimo pensiero."

Ligabue - "Non ho che te" - 






mercoledì 27 maggio 2015

Generazione 1000 euro

Regia: Massimo Venier
Origine: Italia
Anno: 2009
Durata:
101'




La trama (con parole mie): Matteo, matematico riciclatosi nel marketing, e Francesco, proiezionista appassionato di Cinema e playstation, sono due trentenni prede dell'attuale situazione italiana, da sempre precari e costretti ad un compromesso dietro l'altro per arrivare a fine mese.
Quando il loro coinquilino abbandona la stanza facendosi sostituire dalla cugina Beatrice, che attende di diventare una supplente, e Matteo rompe con la storica fidanzata, gli affari si complicano: a rendere la formula ancora più instabile tocca poi ad Angelica, capo dello stesso Matteo e possibile svolta della vita lavorativa di quest'ultimo.
Cosa accadrà quando si tratterà di scegliere quale strada prendere?
Vinceranno il lavoro e l'affermazione o i sentimenti?







Esistono pellicole che, siano esse novità o ancor più recuperi, immagino sia davvero difficile immaginare sugli schermi del Saloon: una di queste è senza dubbio Generazione mille euro, commedia agrodolce di qualche anno fa che ai tempi dell'uscita in sala non mi sarei sognato di vedere neppure sotto tortura caduta nel dimenticatoio dove pensavo sarebbe rimasta.
Quando, però, il buon Davidone - uno dei piccoli aiutanti di Babbo Natale che qualche mese fa abbiamo avuto come sostegno al lavoro -, venuto a conoscenza dell'esistenza del blog ed insistito affinchè recuperassi questo ed un altro titolo che per ora non svelerò - ma che, di fatto, potrebbe risultare ancora più improbabile - si è presentato un giorno con il dvd alla mano, non ho potuto resistere, con l'idea in testa che, in un periodo di volume di lavoro decisamente importante, non mi sarebbe dispiaciuto massacrare un filmetto tanto per passare una serata: e nonostante il voto e la coscienza che si tratti, di fatto, di un filmetto derivativo ed in parte quasi amatoriale, devo ammettere che la visione non è stata certamente il massacro che mi sarei aspettato, finendo per strappare qualche risata e per ricordare i ben più interessanti Santa Maradona e L'appartamento spagnolo, titoli ai quali Venier pare essersi ispirato e non poco nel corso della realizzazione di questo film.
L'ambientazione milanese ed il cast - che ha riportato sugli schermi di casa Ford il mai dimenticato Seppietta di Boris ed è riuscito nell'intento di far risultare sopportabile anche Mandelli, così come di confermare la netta vittoria di Valentina Lodovini su Carolina Crescentini, colpevole anche di mostrare mani meno brutte soltanto di quelle di Megan Fox - hanno di fatto alleggerito una serata schiacciata dalla stanchezza come pochi altri titoli di quel periodo, convincendo anche Julez e riproponendo il vecchio tema dell'amicizia virile - più in versione studentesca che altro, ma va bene anche così - e quello dei dilemmi esistenziali/sentimentali che spesso e volentieri colpiscono nei momenti in cui non si sa quale direzione potrebbe prendere la propria vita.
Per quanto, inoltre, siano passati cinque anni buoni dall'uscita di questo film, la situazione che lo stesso critica a proposito della condizione dei giovani qui nel Bel Paese non pare proprio essere cambiata, come testimoniano prodotti più recenti ma associabili a Generazione mille euro come Smetto quando voglio: la situazione, per i ragazzi appena usciti dalle superiori o dall'università, così come per i trentenni che almeno sulla carta dovrebbero già essere "avviati" è decisamente allarmante, come testimonia l'altissimo numero di precari o disoccupati in attesa di un'occasione che potrebbe non arrivare mai, o di un riscatto che, a volte, pare possibile soltanto lontano dall'Italia.
Proprio legato a questi dilemmi è il protagonista Matteo, tipico outsider con il fascino del Goonie che finisce per cedere soltanto nel finale - così come il film - alle concessioni che la commedia sentimentale fornisce al grande pubblico, riuscendo a rovinare le cose migliori che Venier e soci erano riusciti a costruire nel corso dell'ora e mezza precedente all'epilogo: un peccato, perchè la sorpresa sarebbe stata sicuramente maggiore se si fosse manifestato il coraggio di portare sullo schermo un prodotto che andasse fuori dagli schemi, e che regalasse una chiusura magari proprio in una delle città che qui al Saloon amiamo di più, Barcellona.
Ma a prescindere dalle critiche, già il fatto che la visione non si sia trasformata in un massacro rende Generazione mille euro un piccolo successo - a modo suo, sia chiaro -, finendo per accontentare il buon Davidone - che si ritroverà ad accettare un voto comunque basso - così come il sottoscritto, che nel deserto rappresentato dal Cinema italiano attuale ogni tanto è contento di ritrovarsi, seppur a malincuore, felice di essere nato e cresciuto qui.




MrFord




"Un viaggio ha senso solo senza ritorno
se non in volo
senza fermate nè confini
solo orizzonti neanche troppo lontani
io mi prenderò il mio posto
e tu seduta lì al mio fianco
mi dirai destinazione paradiso
paradiso città."
Gianluca Grignani - "Destinazione paradiso" - 




mercoledì 29 aprile 2015

Black sea

Regia: Kevin MacDonald
Origine: USA, Russia, UK
Anno: 2014
Durata: 114'





La trama (con parole mie): Robinson, esperto capitano di sottomarini lasciato a casa dalla multinazionale per la quale ha lavorato negli ultimi undici anni, cerca un finanziatore a seguito della scoperta di un ex collega che collocherebbe nelle profondità del Mar Nero un U-Boot tedesco ancora carico di lingotti d'oro frutto di un accordo finito male tra Hitler e Stalin.
Scelto l'equipaggio, diviso tra russi ed anglosassoni, ed acquistato un vecchio sottomarino, Robinson guida i suoi nell'oscurità degli abissi, senza sapere che dietro il denaro che ha permesso la loro rischiosa missione si cela proprio la multinazionale responsabile della sua disoccupazione, e che le differenze culturali tra i membri della spedizione finiranno per minare dall'interno la riuscita dell'impresa.
Chi, alla fine, riuscirà a tornare a galla? Ed esisterà davvero, questo mitico U-Boot carico d'oro?







Senza dubbio una delle esperienze più importanti per capire se si potrà mai davvero avere un legame unico con una persona è quella del viaggio, spartiacque fondamentale in grado di cementare rapporti destinati a durare una vita o far naufragare amicizie o amori che si credevano più che solidi: una sorta di versione "dopata" del viaggio stesso risulta essere senza dubbio la convivenza forzata, sia essa legata ad una realtà casuale - i naufraghi di Lost, per citare un esempio fondamentale di fiction -, a trascorsi di vita - il carcere - o scelte - il lavoro a bordo di una nave, o un sottomarino -.
Black sea, ultimo lavoro del discontinuo ma decisamente capace Kevin MacDonald, mostra - e molto bene - proprio questo: sfruttando meccanismi che rimbalzano dal film d'azione al thriller senza disdegnare il quasi horror, il regista scozzese consegna tra le mani del pubblico un cocktail artigianale ma ottimamente riuscito che rievoca tanto The descent - almeno rispetto al fatto che sia l'Uomo, il mostro più temibile che si può avere la sfortuna di incontrare - quanto The Abyss o il semisconociuto ma decisamente interessante Below, senza dimenticare in tutto questo la mitologia marinaresca ed appoggiandosi sulle spalle di un Jude Law che pare non aver dimenticato la lezione dell'ottimo Dom Hemingway, portando sullo schermo un personaggio che lo allontana dal suo status precedente di sex symbol mostrandolo al contrario decisamente più maturo e ruvido, quasi fosse una versione action degli antieroi sociali di Ken Loach.
Un prodotto non particolarmente originale, dunque, ma in grado di funzionare dal primo all'ultimo minuto, di tenere alta la tensione e risultare credibile anche nei momenti decisamente più legati alla fiction, dotato di un grande fascino vintage - e non solo per il sottomarino "d'altro tempi" sfruttato come location dal regista e come mezzo per giungere allo scopo della missione dai protagonisti - e capace di portare sullo schermo sia riflessioni legate al mondo del lavoro ed alla condizione di disperati di molti professionisti rimasti "a piedi" da un giorno all'altro sia il tipico crescendo adrenalinico che una ventina d'anni or sono rappresentava uno standard per titoli di questo genere che ambissero a diventare quantomeno dei piccoli cult: l'ambientazione sottomarina, inoltre, che si parli del claustrofobico interno del sommergibile o delle oscure profondità degli abissi - ci si riferisce spesso, soprattutto in termini cinematografici, allo spazio profondo, ma l'ignoto offerto dalle fosse dei nostri oceani è assolutamente all'altezza delle vastità siderali - conferisce ad una vicenda che, di fatto, è legata all'avidità ed alla voglia di riscatto tutte umane una cornice dal fascino del vecchio film d'avventura, quasi l'impresa praticamente impossibile di Robinson e soci fosse intrisa di quello spirito piratesco che diede origine ad una serie di leggende immortali della Letteratura come del Cinema.
In questo senso, l'aura survival del lavoro di MacDonald unita ai suoi tratti decisamente più umani - dalla stupidità del conflitto tra le due fazioni dei membri dell'equipaggio da piena Guerra Fredda al rapporto tra Robinson e Liam pronto a colmare il vuoto di quello lasciato dal figlio cresciuto da un altro uomo del primo e la futura paternità del secondo - rende Black sea una visione solida e di carattere, destinata probabilmente a non fare la Storia della settima arte ma non per questo non meritevole di attenzioni: in un certo senso, infatti, Black sea è uno di noi.
Uno qualunque, con i suoi pregi ed i suoi difetti, forse non geniale, ma di pancia, diretto e sincero, nel bene e nel male. Qualcuno presente. In qualsiasi termine lo vogliate interpretare.
Considerato che io per primo diffidavo di questa visione neanche mi avessero chiesto di prendere parte ad una missione pressochè suicida nelle profondità del Mar Nero, direi che neppure un finale con una qualche concessione di troppo sia riuscito a fermarmi: e sapete che vi dico?
Che con gente come MacDonald, o Robinson, mi imbarcherei tutti i giorni.




MrFord




"And I could write it down
or spread it all around
get lost and then get found
or swallowed in the sea."
Coldplay - "Swallowed in the sea" - 




giovedì 15 gennaio 2015

Silkwood

Regia: Mike Nichols
Origine: USA
Anno:
1983
Durata:
131'





La trama (con parole mie): Karen Silkwood, donna dal passato non proprio facile privata dei figli dall'ex marito ed operaia in un impianto legato al trattamento dell'uranio ed altri materiali dannosi nel pieno degli anni settanta, vive la sua quotidianità accanto al compagno Drew e all'amica Dolly.
Quando scopre di essere stata contaminata dalle radiazioni, finisce per consacrarsi alla causa sindacale in modo da lottare affinchè il suo lavoro e quello dei colleghi possa essere tutelato da una proprietà che pare non interessarsi affatto alla cosa: la battaglia che la donna ingaggerà sarà l'inizio di un percorso di sensibilizzazione dell'opinione pubblica e, soprattutto, personale, senza contare che la sua vita - così come la misteriosa morte, avvenuta a causa di un incidente mai completamente documentato - diverrà un simbolo per tutti i lavoratori, siano essi di quel settore, oppure no.







Questo post partecipa a pugni chiusi al Mike Nichols Day.




Non sono mai stato un grande fan di Mike Nichols, lo devo ammettere, così come - e sarebbe strano il contrario - della sua filmografia non sono esperto quanto potrei definirmi se si parlasse di quella di Clint Eastwood: certo, Il laureato è un cult imprescindibile, Angels in America un ottimo prodotto per la televisione, eppure qualcosa ha sempre finito per non convincermi, un pò come il più che sopravvalutato Closer, uno dei titoli più inutili che gli Anni Zero ci abbiano lasciato in eredità.
L'occasione di un evento organizzato da noi blogger cinefili interamente dedicato a lui ha fatto in modo che, mi piaccia o no, qui al Saloon si sfruttasse l'occasione per riscoprire il lavoro del cineasta recentemente scomparso: il risultato è stato, considerate le aspettative della vigilia, un successo.
Silkwood, impegnato biopic figlio dei primi anni ottanta - che, probabilmente, all'epoca avrebbe potuto essere considerato vintage - che ai tempi fece incetta di nominations ai principali premi dell'anno, inserito nel filone delle biografie d'autore ed altrettanto pop hollywoodiane, è stato senza dubbio una visione meritevole ed interessante, profonda ed in grado di esplorare il mondo del lavoro - e di un certo tipo di lavoro - sul grande schermo come pochi altri sono ancora oggi in grado di fare: senza dubbio non siamo dalle parti di affreschi abominevoli come quelli mostrati in Workingman's death, o di prodotti poco conosciuti quanto assolutamente imperdibili come Tuta blu, eppure il ritratto dell'indomita e sfortunata Karen Silkwood si inserisce perfettamente in un contesto che vede tra le sue voci più autorevoli Erin Brockovich o North County - La storia di Josey.
Se, di norma, l'altra metà del cielo fatica a trovare non solo spazio, ma trattamento equo nella realtà lavorativa attuale - ammesso che di realtà lavorativa si possa parlare - ricoprire un ruolo scomodo come quello di questa protagonista nel pieno degli anni settanta non doveva certo essere una passeggiata, in bilico tra le minacce più o meno velate dei datori di lavoro e l'atteggiamento ostile dei colleghi pronti a sacrificare perfino la loro stessa incolumità pur di mantenere posto e stipendio - cosa, peraltro, almeno in una certa misura comprensibile, nonostante completamente avulsa dalle credenze e dagli atteggiamenti fordiani in genere -: Nichols, in questo senso, fu assolutamente in grado di gestire come un direttore d'orchestra d'eccezione tutti gli elementi più a rischio conferendo al film un equilibrio non comune, sfruttando lo script firmato anche da Nora Ephron ed un terzetto di main charachters d'eccezione ed in ottima forma - Meryl Streep, Kurt Russell e Cher, che proprio grazie a Silkwood si portò a casa un Globe come migliore attrice non protagonista.
Considerati i tempi, ed il periodo - il reaganesimo impazzava, all'epoca - occorre dare atto a Nichols di aver avuto un polso non comune nel portare sullo schermo una protagonista di questo calibro, in un certo senso madre di tutte le lottatrici venute dopo di lei, delle - e degli, perchè no - outsiders in cerca, più che di riscatto, del riscontro della dignità che il lavoro necessita, e del rispetto della stessa.
Forse, e da più angolazioni, in un momento d'incertezza come quello che stiamo vivendo, un prodotto come Silkwood potrebbe essere proiettato quasi fosse in testa ad una selezione dedicata alla funzione del lavoro ed ai suoi protagonisti - i lavoratori stessi -, un omaggio a tutti i working class heroes ma anche e soprattutto uno stimolo che possa permettere, agli operai ed ai dipendenti del futuro, di avere ogni strumento possibile per contrastare chiunque possa pensare di mettersi al di sopra delle parti come fosse una divinità, un signore feudale o un capofamiglia troppo autoritario.



MrFord



Partecipano alle celebrazioni del "laureato" Nichols anche:
Onironauta Idiosincratico - The graduate
Non c'è paragone - The graduate
Babol - Chi ha paura di virginia wolf?
Denny B - Closer
Recensioni Ribelli - Closer
Marco Goi - La Guerra di Charlie Wilson
La fabbrica dei sogni - Una donna in carriera
Director's Cult - Wit, la forza della mente 
Montecristo - Angels in America
Mari's Red Room - Wolf la belva è fuori


"Amazing grace, how sweet the sound
that saved me from the war
I once was lost but now I'm found I
blind but now I see."

Lee Ann Rimes - "Amazing grace" - 





lunedì 24 novembre 2014

Due giorni, una notte

Regia: Jean Pierre e Luc Dardenne
Origine: Francia, Belgio
Anno:
2014
Durata: 95'





La trama (con parole mie): Sandra, giovane madre di due figli reduce da un periodo di malattia molto lungo legato a problemi di equilibrio psicofisico, scopre che nell'azienda in cui lavora è stata proposta una votazione ai suoi colleghi diretti che prevede l'assegnazione di un bonus di fatto in cambio al benestare degli stessi per il licenziamento della donna.
Convinto il proprietario dell'impresa a ripetere la votazione senza che il responsabile di reparto possa influenzare e pilotare la stessa attraverso pressioni ed intimidazioni, Sandra si ritrova ad avere un weekend di tempo non soltanto per superare la depressione sempre più difficile da affrontare, ma anche mettersi alla ricerca delle persone che hanno lavorato fianco a fianco con lei in modo da convincere le stesse a ribaltare il risultato del primo responso, di fatto conquistando una nuova possibilità di mettersi in gioco e guadagnare una stabilità economica così come un'affermazione personale.
Peccato che, dall'altra parte, soldi e timori possano essere un deterrente decisamente importante rispetto alla decisione di sostenere Sandra.








Sono passati ormai più di quindici anni dal mio primo, vero impiego.
Doveva essere una sorta di riempitivo tra una lezione e l'altra all'Università, e invece significò la fine del mio rapporto con le istituzioni scolastiche, e l'inizio di quello con gli anni di sfruttamento incondizionato e totale di tutto quello che veniva depositato sul conto, goduto tra film, viaggi, uscite e qualunque cosa mi smuovesse allora.
Per quanto sia rimasto più o meno nello stesso settore, le esperienze accumulate non hanno ancora - e probabilmente, non lo faranno mai - finito di stupirmi, dai momenti più piacevoli a quelli più bui: ricordo bene, ad esempio, il trauma che fu il periodo appena precedente alla chiusura del Virgin Megastore, qui nel cuore di Milano, un negozio che aveva iniziato a far germogliare i semi del mio lato wild - anche se ancora non lo sapevo - svuotato non solo della merce, ma del suo carattere.
Amici e colleghi separati di colpo dalla paura di rimanere senza un lavoro, gli uni a coprire con gli straordinari gli scioperi degli altri, in una lotta fratricida e tra poveri che non portò nulla di buono a nessuno.
Il mondo del lavoro, del resto, riesce come pochi altri a tirare fuori il meglio - ed il peggio - del nostro essere umani.
I Dardenne, idoli dei grandi Festival e campioni di un Cinema neorealista legato a doppio filo a tematiche di questo tipo, tornano alla ribalta con una pellicola pronta ad appoggiarsi sulle spalle di una paladina per una volta mainstream, Marion Cotillard, tornando, di fatto, alle atmosfere che avevano caratterizzato i loro primi ed incredibili lavori - La promesse su tutti -: personalmente temevo molto il confronto con questa loro ultima fatica, accolta discretamente bene quasi ovunque, memore del fatto che non sempre il mio rapporto con un Cinema a tutti i costi legato alle cronache di vite di tutti i giorni ai margini della società è stato idilliaco in passato.
Invece, pur non realizzando certo la loro opera migliore, i Dardenne sono riusciti senza dubbio ad uscire rafforzati, ai miei occhi, da questa visione: sfruttando un paragone che, a prima vista, potrebbe risultare quantomeno fantascientifico, mi sento di affermare che i due fratelli belga dediti al neorealismo abbiano gettato il cuore oltre l'ostacolo almeno quanto Nolan con il suo Interstellar.
Due giorni, una notte, infatti, nonostante racconti una storia triste e senza dubbio impossibile da poter pensare al di fuori di un concetto di margine del mondo, di losers e speranze costruite con il sudore della fronte ogni giorno che arriva in terra, rappresenta una sorta di dichiarazione d'intenti ad uno pseudo ottimismo per il futuro dei Dardenne, neanche fossero capi di stato pronti ad assicurare una ripresa economica improbabile ai propri concittadini.
Un film passionale, dunque, ed imperfetto ma cui è impossibile non voler bene, costruito attorno ad una protagonista fragile ma determinata come solo chi è abituato a lottare può essere a mantenere quello che, al giorno d'oggi, è diventato un vero e proprio lusso: un posto di lavoro fisso.
Il confronto con i colleghi alla vigilia della seconda votazione - curioso notare, osservavamo io e Julez nel corso della visione, come tutti gli interpellati come prima domanda rivolgano a Sandra il quesito: "In quanti hanno accettato di sostenerti rinunciando al bonus?", come se l'opinione altrui fosse più importante di una decisione a suo modo fondamentale rispetto al bilancio di una famiglia comune - è senza dubbio uno spaccato non soltanto della società attuale, quanto dell'essere umano decisamente ben riuscito ed importante, nonostante, di fatto, la struttura della pellicola porti ad uno svolgimento fin troppo schematico.
Un lavoro, dunque, forse non perfettamente riuscito, eppure fondamentale per la carriera dei Dardenne ed il loro modo di guardare al Cinema, almeno quanto la camminata di Sandra che chiude la pellicola: e cosa ancora più importante, un lavoro in grado di liberare i sentimenti e le passioni dell'audience, perchè pronto a parlare di dinamiche che potremmo aver vissuto sulla pelle, direttamente oppure no.
Personalmente, e senza sapere cosa se ne possa pensare all'esterno, sto dalla parte di Sandra e della sua battaglia contro i mulini a vento.
Il mio voto va a lei. E ai Dardenne.
Al loro ritrovato cuore e ad un rivoluzionario ottimismo.




MrFord




"They hurt you at home and they hit you at school
they hate you if you're clever and they despise a fool
'til you're so fucking crazy you can't follow their rules
a working class hero is something to be
a working class hero is something to be."
John Lennon - "Working class hero" - 





mercoledì 13 agosto 2014

Welcome to the jungle

Regia: Rob Meltzer
Origine: USA, UK, Puerto Rico
Anno: 2013
Durata: 95'





La trama (con parole mie): Chris, giovane e timido account in un'agenzia di pubblicità, è costantemente vessato dal prepotente responsabile Phil, che coglie ogni occasione possibile per farsi beffe di lui e, all'occorrenza, prendere i meriti del lavoro che il ragazzo svolge.
Quando, a seguito di un'iniziativa del Presidente dell'azienda, i dipendenti vengono precettati per una due giorni di corso legato al lavoro di squadra e alla formazione del carattere su un'isola sperduta coordinato dal duro - almeno all'apparenza - Storm, il rapporto tra i due si incrina ulteriormente: Chris, infatti, ex boy scout razionale ed organizzato, finisce per scontrarsi apertamente con Phil, cui non importa nulla del buon senso e del comportamento da tenere in una situazione "estrema".
Quando Storm, attaccato da una tigre, verrà dato per morto ed il gruppo si considererà ufficialmente disperso, le due visioni provocheranno una frattura che potrebbe portare alla salvezza o alla morte questi civili in gita nel cuore della Natura.









La prima volta che vidi il trailer di Welcome to the jungle coltivai la speranza di trovarmi di fronte ad una versione demenziale di Expendables 2, e, dunque, ad una nuova incarnazione comedy ed autoironica del mito dell'action anni ottanta Jean Claude Van Damme, che ha un posto speciale da sempre nel cuore di questo vecchio cowboy subito dietro a Schwarzenegger e Stallone, addirittura davanti a gente del calibro di Bruce Willis o Kurt Russell.
Purtroppo per me, e per tutti gli appassionati del mitico JCVD, il risultato della visione del lavoro decisamente televisivo firmato da Rob Meltzer è stato decisamente al di sotto delle aspettative, di fatto qualificandosi come una sorta di risposta americana alle baracconate che, tra gli anni ottanta e novanta, proposero in salsa italica anche i Vanzina: certo, i riferimenti sono molto più alti - Il signore delle mosche su tutti -, l'idea di mescolare la volgarità di cult dei tempi come Weekend con il morto ad esperimenti più o meno riusciti nello stile di Severance ha il suo perchè, eppure il risultato è decisamente sotto il livello della decenza, e perfino la piccola parte affidata a Van Damme finisce per assumere i connotati dell'autoparodia triste piuttosto che della goliardata nello stile di Sly e soci.
Un vero peccato, perchè un personaggio come Storm mostra in una certa misura i lampi di sentita partecipazione che l'attore belga portò sullo schermo per la prima volta con il sorprendente JCVD, forse il più grande film cui abbia preso parte uno dei paladini della settima arte "bassa" degli ultimi trent'anni: perfino nel momento della sua perla finale, il characther affidato all'esperto di arti marziali diviene in qualche modo come una comparsa in una commedia Apatow-style, un omaggio neppure troppo sentito ad un'epoca che, inesorabilmente, è tramontata e alla quale la mia generazione resterà sempre legata, sperando in qualche modo in un suo ritorno anche nel momento in cui i suoi protagonisti non potranno fisicamente più reggere il confronto con le botte che la stessa richiede.
Senza dubbio, comunque, la profonda antipatia dell'irritante Phil e la sua influenza inspiegabile sul gruppo - quanti individui di questo infimo livello ognuno di noi avrà conosciuto sul luogo di lavoro!? - e la progressiva rivalsa dell'outsider Chris - che pare uscito da un film anni ottanta, in quanto eroe positivo tendenzialmente goonie, nerd e dato per perdente in partenza - finiscono per fare da motore alla curiosità soddisfatta senza colpo ferire da un titolo benedetto da un minutaggio innocuo, che finisce per farsi voler bene nonostante il livello scarsissimo di qualsiasi suo aspetto, sia esso tecnico o di contenuti: personalmente mi aspettavo decisamente di più - e sicuramente una porzione ben più consistente dedicata solo ed esclusivamente all'action hero vero catalizzatore dell'attenzione dell'attenzione del pubblico -, ma nonostante mi pianga il cuore osservando il tempo logorare inesorabilmente il look ed i calci rotanti del mitico Jean Claude e questo film risulti obiettivamente una schifezzuola senza ritegno, non ho saputo voler male a Welcome to the jungle, perfetto per intrattenermi nel pieno di un pomeriggio casalingo e come sottofondo per i giochi nei quali mi coinvolge l'ormai scatenato ed incontenibile Fordino, già assoluto padrone di casa e casinista di prima categoria.
I radical chic e gli appassionati di Cinema vero, comunque, si astengano, mentre saranno i benvenuti gruppi di amici pronti a consacrare una serata alle stronzate e all'alcool così come i fan senza più ritegno di Van Damme, determinati a rimanere accanto al loro vecchio eroe come se fosse la prima volta, avessero ancora dodici anni e sognassero di iniziare il loro percorso nel mondo delle arti marziali per imparare a fare la spaccata, sparare calci rotanti a profusione e sconfiggere, un giorno, "piccola palma".




MrFord




"Welcome to the jungle 
we got fun n' games 
we got everything you want 
honey, we know the names 
we are the people that can find 
whatever you may need 
if you got the money, honey 
we got your disease."
Guns 'n roses - "Welcome to the jungle" - 





lunedì 28 luglio 2014

Smetto quando voglio

Regia: Sidney Sibilla
Origine: Italia
Anno: 2014
Durata:
100'




La trama (con parole mie): Pietro, ricercatore laureato e genio della neurobiologia, fatica a trovare un impiego fisso all'interno dell'Università, così come i suoi vecchi amici Alberto – chimico divenuto lavapiatti -, Mattia e Giorgio – latinisti benzinai -, Bartolomeo – dall'economia dinamica al poker con zingari circensi -, Andrea – antropologo alla ricerca di un posto in uno sfasciacarrozze – e Arturo, impiegato presso il Comune di Roma come sovrintendente nei cantieri ove vengono rinvenuti reperti
storici, archeologo. 
Illuminato casualmente da una notte passata ad inseguire uno studente cui da ripetizioni, l'uomo viene travolto dall'idea di sintetizzare una droga basata su una molecola non inclusa nelle liste del Ministero e dunque sulla carta legale e buttarsi nella vendita al dettaglio nelle discoteche.
Il successo arriva, così come i soldi: ma per la banda di produttori e spacciatori improvvisati i guai diventeranno più ingestibili della normale situazione di precarietà.






Nel corso degli ultimi mesi – per essere generosi - l'Italia ha attraversato una crisi cinematografica tra le più terribili della sua Storia, evidente specchio della desolante situazione culturale e lavorativa che ci troviamo tutti costretti ad affrontare ogni giorno, con un occhio oltre confine ed un altro ai conti di fine mese.
Una delle sorprese più interessanti in sala è stato proprio questo Smetto quando voglio, commedia d'azione che richiama piccoli cult come Santa Maradona celebrato qui nella blogosfera e dalla critica più canonica: senza dubbio, quando il pensiero corre alle proposte giunte dalla Terra dei cachi nel passato recente, l'esperimento di Sidney Sibilla è senza dubbio riuscito, fresco e divertente, dal taglio
americano condito da una strizzata d'occhio non indifferente al Capolavoro Breaking Bad, una tra le opere più importanti mai prodotte per il piccolo schermo.
Eppure l'impressione che ho avuto seguendo le tragicomiche vicende di questo gruppo di geniacci improvvisatisi produttori e spacciatori è stata quella di un'opera in grado di far gridare al quasi miracolo principalmente per la pochezza delle alternative, più che per il suo effettivo valore: non che non me la sia goduta, o che non abbia trovato assolutamente perfette alcune sue sequenze – la rapina alla farmacia è un pezzo da antologia -, o non si percepisca tutta l'inquietudine che tocca tutti noi allo stato attuale delle cose – laureati o no, poco cambia -, ma da qui a considerare Smetto quando
voglio un fulmine a ciel sereno devono passare diversi bicchieri di robusti cocktails.
In particolare, è lo script a mostrare il fianco ad una certa facilità di fondo nell'evoluzione della trama, condita perfino di qualche eccesso che poteva essere risparmiato – il fatto che perfino il temuto gangster Murena sia un laureato reinventatosi criminale equivale a tirare un po' troppo la corda, ad esempio -, e che non rende giustizia fino in fondo alla riflessione assolutamente vera ed allarmante a
proposito dello scarso impiego delle risorse dei nostri studenti e ricercatori, che spesso e volentieri, più che finire a produrre nuove droghe, fuggono all'estero cercando lidi più sicuri, remunerativi ed organizzati.
Lo stesso rapporto tra Pietro e la sua fidanzata – una come di consueto cagna maledetta Valeria Solarino – scricchiola in più di un passaggio – come il cambio di atteggiamento della conclusione, con il passaggio dall'ostilità in tutto e per tutto rispetto alla nuova attività del compagno al sostegno di una nuova condizione ed occupazione all'interno del mondo del crimine, pur se in una misura diversa, dello stesso -, confermando il fatto che lo script non fosse la priorità del regista, più impegnato a fondere un'estetica moderna e giovane ad un piglio a metà tra il già citato Santa Maradona e i primi lavori di Aldo, Giovanni e Giacomo.
Non voglio, comunque, che questo post diventi un tiro al bersaglio contro questo film, che mi ha coinvolto – sia parlando di divertimento, sia di riflessioni sulla condizione attuale in termini di lavoro e precarietà soprattutto di Julez – ed intrattenuto decisamente bene, e se paragonato alla media della produzione tricolore attuale risulta senza dubbio superiore – fatta eccezione per La grande bellezza e lo “straniero” Still life, per trovare qualcosa di un livello superiore dovrei tornare con la memoria a La migliore offerta -: c'è da sperare dunque che la musica cambi, per noi e soprattutto per i nostri figli, in Italia, perchè le alternative che non riguardino una carriera – destinata facilmente a finire male – nel crimine cominciano ad essere davvero poche.




MrFord




"I won't pay, I won't pay ya, no way
now why don't you get a job"
say no way, say no way ya, no way
now why don't you get a job."
The Offspring - "Why don't you get a job?"




venerdì 18 ottobre 2013

Grey's anatomy - Stagione 9

Produzione: ABC
Origine: USA
Anno: 2013
Episodi: 24




La trama (con parole mie): i medici del Seattle Grace sono ancora profondamente segnati dall'incidente aereo che vide coinvolti alcuni di loro al termine dell'ottava stagione, e alle ferite fisiche si sommano quelle interiori, decisamente più profonde.
La causa che porterà i sopravvissuti contro lo stesso ospedale condurrà ad una lotta e ad un cambiamento epocale nelle vite dei protagonisti, che si ritroveranno, oltre a salvare vite in sala operatoria, ad affrontare la nuova sfida data dal sogno di poter gestire una struttura medica di prim'ordine per conto loro.
Accanto alle vicende lavorative, i consueti intrecci sentimentali e l'arrivo delle nuove matricole contribuiranno a rendere instabile come sempre l'atmosfera di questo turbolento angolo di Seattle.




Tra tutte le serie passate in questi anni sugli schermi di casa Ford, dai Capolavori indiscussi come Lost, Twin Peaks, Six feet under, Breaking bad o I Soprano fino ai titoli di puro e semplice intrattenimento, nessuna ha trovato un posto nel cuore del sottoscritto e di Julez come Grey's anatomy, che con tutti i suoi limiti, gli scivoloni ed i momenti supercult fa ormai parte della famiglia come una vecchia amica cui è davvero impossibile non voler bene.
Certo, Shonda Rhimes ed i suoi collaboratori sanno bene come confezionare e vendere un prodotto in grado di coinvolgere ed emozionare un pubblico il più eterogeneo possibile, fornendo un cast di protagonisti in continuo mutamento ma in grado di abbracciare età, inclinazioni ed aspirazioni differenti e soprattutto riuscendo nell'intento di far apparire il risultato del loro lavoro come sincero e sentito, quasi tra le mura del Seattle Grace - ormai Grey Sloan Memorial - ci fossimo anche noi da questa parte dello schermo, eppure per quanto ruffiano possa essere tacciato di essere questo stesso lavoro dai detrattori, ho visto ben poche serie in grado di mantenere sempre e comunque un'affezione di questo genere anche a fronte di annate decisamente meno riuscite come furono la sette ed in una certa misura anche la otto.
Con questo nono giro di boa Grey's anatomy recupera terreno dosando come sempre il dramma - soprattutto nei primi episodi - e la commedia, sostituendo l'elemento catastrofico delle ultime stagioni con una riflessione molto interessante sui tempi della crisi ed i rapporti lavorativi che, in momenti di incertezza, finiscono per minare anche le amicizie apparentemente più solide: avendo io stesso attraversato situazioni di instabilità simili - ed essendo nel pieno di uno di essi - ho trovato la parte centrale della stagione - quella dedicata al possibile fallimento del Seattle Grace a seguito della causa, il passaggio ventilato alla ben poco convincente Pegasus, simbolo della cultura del centro commerciale che ha investito il mondo occidentale negli ultimi anni e l'intervento dello stesso gruppo di medici che era stato responsabile, con la vittoria in tribunale, della temuta chiusura - decisamente efficace, nonchè un ottimo diversivo alle consuete grane sentimentali e drammi di vario genere sempre pronti a colpire i protagonisti del serial, ormai abituati a rischiare la vita o la carriera almeno una volta per annata.
Come di consueto il mio personale favorito resta sempre lo stronzo buono Karev, ribattezzato fin dalla prima stagione come il Sawyer del Seattle Grace, seguito a ruota da un Richard Webber in grandissimo spolvero e da una schiera di matricole rese in maniera piuttosto interessante, tra le quali spicca il fu Smash di Friday Night Lights: note positive anche per Avery, che dopo essere stato per tre stagioni il protagonista mancato ed aver abbandonato il look terrificante dei primi episodi finisce per ritagliarsi finalmente lo spazio che merita e che va ben oltre il fatto che sia stato messo dove sta principalmente per catturare quante più possibili spettatrici attratte come api con il miele dagli occhi azzurri ed il fisico superpalestrato prontamente messo in mostra ad uso e consumo delle stesse.
Una menzione va senza dubbio anche al vecchio mentore di Cristina, che il Cannibale potrebbe tranquillamente associare al sottoscritto per indole ed età e che ho trovato non solo efficace, ma anche molto eastwoodiano, dall'inizio alla fine.
Inutile dire che dopo la tempesta perfetta che chiude la stagione portando una novità positiva - per una volta - ed una che potrebbe essere negativa la curiosità di affrontare il decimo anniversario di questo titolo continua ad essere alta, e qui al Saloon, sbattendocene di tutti quelli che storceranno il naso, continueremo ad attendere e tenerci stretta questa proposta, quasi fossimo stati anche noi matricole in quel di Seattle ed ormai fossimo borsisti prossimi a divenire strutturati a tutti gli effetti.


MrFord


"How long have I been in this storm?
So overwhelmed by the ocean's shapeless form
water's getting harder to tread
with these waves crashing over my head."
Lifehouse - "Storm" -


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