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lunedì 22 febbraio 2016

Il caso Spotlight

Regia: Tom McCarthy
Origine: USA, Canada
Anno: 2015
Durata:
128'








La trama (con parole mie): siamo all'inizio degli Anni Zero quando la redazione investigativa di Spotlight, che fa capo al quotidiano Boston Globe, spinta dal nuovo redattore capo Marty Baron, si muove per scoprire la verità celata da un caso di molestie denunciate all'indirizzo di un prete locale.
Quando, indizio dopo indizio, i giornalisti di Spotlight si trovano a comporre un mosaico che pare decisamente più grande ed inquietante di quello che si erano immaginati in partenza, l'indagine assume una portata enorme, finendo per porre il Globe ed i suoi reporter nel mirino dell'ostruzionismo della Chiesa dell'Arcidiocesi di Boston: quello che infatti pare, è che gli ordini per i religiosi scoperti in comportamenti di questo tipo siano quelli di insabbiare le vicende, impedire le denunce e spostare gli stessi "uomini di dio" in un'altra parrocchia come se nulla fosse, e che le vittime - e di conseguenza i molestatori in abito talare - siano molti più di quanti non si sarebbero aspettati.
La redazione di Spotlight, a questo punto, ha in mano tutte le carte per realizzare un servizio destinato a fare la Storia.








Per quanto abbia sempre adorato scrivere, ed adori il giornalismo investigativo, non ho mai coltivato il sogno di tentare una strada come quella del reporter d'assalto: eppure, l'idea di lavorare con la testa e la penna soprattutto per mettere all'angolo chi pensa di averla fatta franca anche e soprattutto agli occhi della società è una delle cose più esaltanti che possa immaginare.
Se, poi, chi pensa di averla fatta franca è la Chiesa, e l'oggetto della discordia sono molestie operate dai religiosi su bambini e bambine, allora dalle mie parti si sfonda una porta aperta.
Personalmente, ho sempre trovato l'argomento pedofilia molto delicato, specialmente se legato a figure apparentemente autorevoli pronte a sfruttare la loro posizione ed il loro status - ed il senso di colpa radicato nella cultura cattolica - per approfittare di vittime troppo giovani per poter avere gli strumenti effettivi per affrontarli: onestamente, quando penso a determinate situazioni, finisco spesso a pensare che, forse, occorrerebbero misure decisamente più drastiche di una pena detentiva, per chi si macchia di reati simili.
Ma questa è un'opinione personale, ed un'altra storia.
Quella, al contrario, narrata da Il caso Spotlight, portato sullo schermo con il piglio dei grandi film d'inchiesta della New Hollywood anni settanta - su tutti il Capolavoro Tutti gli uomini del Presidente di Pakula, un vero gioiello - da Tom McCarthy, uno dei protetti del Saloon in materia di Cinema indie americano fin dal suo esordio con il piacevolissimo The station agent con un Peter Dinklage che ancora nessuno conosceva, passando poi per l'ottimo L'ospite inatteso e l'altrettanto efficace Win win - Mosse vincenti, è una vittoria civile e professionale contro il Sistema - per dirla come il redattore capo Marty Baron - di quelle indimenticabili, che portò alla ribalta il Boston Globe ed a galla una sequela di schifezze perpetrate nel nome della Chiesa per decenni.
Affidandosi ad un taglio che ricorda quasi più l'inchiesta documentaristica e ad un gruppo di attori affiatato, affidabile ed in gran forma - ottimi tutti, da Ruffalo a Tucci, passando per la McAdams e Slattery, con una menzione particolare per Keaton e soprattutto Liev Schreiber, lontano anni luce dall'apparenza che, di norma, è "costretto" anche fisicamente a dare ai suoi personaggi - McCarthy porta a casa un risultato convincente e solido, che forse non farà gridare molti al miracolo considerata la forse eccessiva uniformità - pare di stare a bordo di un treno comandato elettronicamente, di quelli che partono e arrivano in perfetto orario e non hanno sbavature di alcun tipo - ma che delinea alla grande quella che è una delle incarnazioni migliori del Cinema di denuncia americano, la stessa che non esagera con le stelle e strisce - concedendo soltanto un paio di sequenze alle suddette come il confronto tra Keaton e la sua fonte e la presa di coscienza dello stesso ex Birdman nella riunione di redazione nel finale - ma punta a sensibilizzare il pubblico senza ruffianerie e colpi bassi.
Certo, non è la Boston spietata di Mystic River, ma vedere questi uomini e donne assolutamente normali, armati solo della propria coscienza sociale e professionale - molto efficaci, in questo senso, il faccia a faccia tra Ruffalo e Keaton a proposito dei tempi di pubblicazione dell'inchiesta, e la crisi di D'Arcy James alla scoperta che la residenza di uno dei preti della loro lista risieda nel suo stesso quartiere - lottare tra documenti, ostacoli burocratici, intimidazioni più o meno celate, chiusura di chi è stato vittima delle violenze o chi quelle violenze ha colpevolmente nascosto è un esempio di Cinema civile come non ne passavano sul grande schermo da parecchio tempo, almeno per quanto riguarda la grande distribuzione.
Potrà dunque non essere uno scoop assoluto, un fulmine a ciel sereno, qualcosa di particolarmente geniale o innovativo: ma Il caso Spotlight è un film appartenente ad un genere che, forse, in una società pericolosa come la nostra, finisce per essere addirittura più importante.
Quello dei film necessari.






MrFord






"If the heavens ever did speak
she's the last true mouthpiece
every Sunday's getting more bleak
a fresh poison each week."
Hozier - "Take me to the Church" -












martedì 27 agosto 2013

Mad Men - Stagione 3

Produzione: AMC
Origine: USA
Anno: 2009
Episodi: 12




La trama (con parole mie): la Sterling Cooper attraversa una nuova fase della sua esistenza legata alla partnership istituita con i soci inglesi entrati a far parte dell'esecutivo, pronti a far ridurre i costi ed inserire figure e competenze nuove in modo da snellire l'agenzia e riproporla in una nuova e più allettante forma per la vendita all'insaputa dei suoi stessi dirigenti. Nel frattempo gli account vivono momenti di grande competizione - come Pete Campbell e Ken Cosgrove - per un posto in primo piano ed altri di affermazione più privata che lavorativa - l'ex segretaria Peggy Olson -, e Don Draper si trova a dover fronteggiare non soltanto la nuova dimensione lavorativa ed il rapporto con l'eccentrico milionario Hilton, ma anche due crisi in famiglia legate l'una all'arrivo in casa sua del suocero e l'altra alla scoperta della moglie Betty del suo vero nome e del passato che l'uomo tiene tanto a lasciare nascosto.
Il tutto mentre un cambiamento a dir poco epocale sta per avvenire a seguito di uno degli eventi più traumatici della Storia degli USA: l'assassinio di Kennedy.





Nel panorama delle serie televisive degli ultimi quindici anni, senza dubbio Mad Men figura come uno dei nomi di spicco per quanto riguarda la qualità e lo stile della proposta, l'eleganza e la ricchezza della messa in scena e della narrazione, il fascino della cornice e la quantità quasi incredibile di premi raccolti. Eppure Mad Men è anche una visione decisamente poco simpatica, empaticamente lontana anni luce dai suoi spettatori almeno quanto il suo indiscusso protagonista, Don Draper.
Enigmatico e distante, l'impeccabile Draper - che unisce allo charme da 007 la sicurezza dello squalo della finanza - è il simbolo perfetto di un serial apparentemente senz'anima eppure in grado di stregare neanche ci si trovasse nel pieno di una seduta d'ipnosi a seguire le vicissitudini dei suoi protagonisti, alla scoperta di un'epoca ormai lontana e legata ad un passato quasi remoto per le nostre generazioni eppure rappresentata con una tale profonda modernità da far quasi pensare al futuro.
Con questa terza annata si può pensare che le vicende degli account e dei dirigenti della Sterling Cooper abbiano raggiunto la maturità della struttura, consegnando al proprio pubblico, di fatto, la stagione più completa fino a questo momento passata sugli schermi di casa Ford, in grado di unire l'indagine interiore del protagonista come fu per la prima ed alcuni viaggi nel tempo nella New York di allora - e non solo - come per la seconda: in particolare, il rapporto con il suocero e lo scontro con la moglie Betty a seguito della scoperta della "doppia identità" di Don di quest'ultima rappresentano senza dubbio i momenti più forti mostrati nei dodici episodi, mentre dall'altra parte si passa dalle "vacanze romane" in pieno stile Hilton alla grottesca ed esilarante festa in onore dei soci inglesi finita nel sangue grazie ad un trattore imbizzarrito, senza contare la splendida chiusura di annata legata a doppio filo all'attentato che costò la vita a JFK, uno degli avvenimenti più funesti e sconvolgenti della Storia degli States, giustamente considerato "la fine di un'era" e trampolino per una quarta stagione che, nonostante l'odio e l'antipatia di Julez per questo titolo, aumenta l'hype in attesa del suo passaggio dalle parti del Saloon.
La cosa più interessante di questo terzo giro di giostra per i nostri pubblicitari rampanti è stata senza dubbio l'apparente frammentarietà della narrazione - al contrario soprattutto della prima stagione, nel corso di questi dodici episodi è raro assistere ad una riunione creativa in cui siano presenti tutti i nomi di spicco del cast - rivelatasi, di fatto, un perfetto mosaico di caratteri, storie ed identità alla ricerca di una strada che porti nel futuro, una sorta di confronto tra la realtà ed i sogni in grado di smussare gli angoli perfino di charachters non proprio positivi come Pete Campbell o mostrare tutti gli attributi di altri, come la dirompente - in tutti i sensi - Joan di Christina Hendricks, che personalmente non vedo l'ora di rivedere tra le scrivanie della Sterling Cooper.
Personalmente credo che non amerò mai alla follia questo titolo, e che lo stesso non riuscirà neppure nelle sue annate migliori a conquistarmi il cuore quanto Breaking bad, Lost o Six feet under, eppure tra le righe della sua perfetta composizione mi pare di rivedere la perfezione che fu il tratto distintivo de I Soprano, nonchè la capacità di riuscire ad ammaliare pur essendo decisamente lontano dal vero coinvolgimento emotivo: in un certo senso, Mad Men è come una modella da copertina.
Non potresti mai uscirci perchè potrebbe rivelarsi un'agghiacciante figa di legno, eppure non riesci a fare a meno di fare fantasie su di lei ad ogni occhiata.


MrFord


"I've got you under my skin.
I've got you deep in the heart of me.
So deep in my heart that you're really a part of me.
I've got you under my skin.
I'd tried so not to give in."
Frank Sinatra - "I've got you under my skin" - 



venerdì 1 luglio 2011

I guardiani del destino

La trama (con parole mie): David Norris, giovane uomo politico venuto dalla strada, incontra per caso il giorno della sua sconfitta alle elezioni per il senato la giovane ballerina Elise, ed è amore a prima vista. Peccato che, sulla strada della loro storia, ci sia un'organizzazione di agenti "ultraterreni" che si occupa di ripristinare le linee principali delle vicende di ognuno di noi secondo i dettami di un fantomatico Presidente: i due, infatti, destinati a stare insieme in una versione precedente delle loro vite, per sviluppare al meglio le loro carriere non devono poter consumare il sogno d'amore.
Ha così origine la battaglia di David per riuscire ad ottenere l'unica cosa che davvero riesca a smuovere il suo cuore. Dovesse anche, per questo, sfidare il Destino ed i suoi emissari.

Due cose hanno preceduto l'arrivo di questo film sugli schermi di casa Ford: la sua già consolidata fama - se ne legge un gran bene praticamente dappertutto - ed il fatto che sia ispirato da un lavoro di Philip Dick, geniale autore di fantascienza responsabile, tra le altre cose, di opere quali Blade runner e A scanner darkly.
Nolfi, il furbetto regista di quest'ottima confezione, questo deve averlo saputo bene, e deve anche aver giudicato che tra partire con una sceneggiatura quasi pronta firmata Dick o scriverne una nuova - con tutti i rischi del caso - da zero non c'era proprio paragone.
Così, in un atmosfera vintage che tanto richiama Mad men - con tanto di presenza nel cast di John Slattery, che non interpreta nient'altro che lo stesso personaggio, con la sola rinuncia all'alcool e alle sigarette cui ci ha abituato nel corso dell'elegante serie appena citata - il regista trasforma la critica sociale tipica di Dick in una storia d'amore accattivante e dall'ottimo ritmo, che rende I guardiani del destino un film piacevolissimo e scorrevole, di quelli che danno una certa sicurezza del fatto di non essere stati derubati di quel paio d'ore di meritato riposo serale dopo il lavoro, capace di richiamare, nel suo lato più romantico, alcuni aspetti di cult del genere come Eternal sunshine of the spotless mind e (500) giorni insieme.
Ma basta, questo, a trasformare un film discreto in un piccolo cult?
Personalmente, no.
Certo, il lavoro di Nolfi è preciso, serrato, intrigante, porta a riflessioni che potrebbero essere importanti - il libero arbitrio, il controllo, la forza di una storia d'amore contro le regole di una società avviata ed apparentemente perfetta -, ma quanto del buono di questo film viene dalle riflessioni dell'autore del romanzo, e quanto dallo stesso regista?
In fondo, la parte davvero debole della pellicola - l'affrettata e tendenzialmente smielata e pacificatoria parte finale - mi ha riportato alla mente un altro film potenzialmente grande caduto rovinosamente proprio con la sua conclusione e sempre legato a Philip Dick: Minority report.
Nolfi non è certo Spielberg, eppure anche nel caso della pellicola interpretata da Tom Cruise la riflessione sul libero arbitrio e la lotta del protagonista per sfuggire al controllo, tesissime e dirette con mano esperta, crollarono inesorabilmente nel corso del climax finale, tanto scontato e buonista da distruggere quasi completamente l'ottimo lavoro svolto nell'evoluzione della vicenda.
Ora, trovo che I guardiani del destino funzioni decisamente meglio di Minority report, ma questo non significa che non soffra, pur se in misura minore, degli stessi difetti, che passano tutti da una sostanziale mancanza di coraggio del regista: e tutto si riduce come per il misterioso Presidente, che per anni segue la vicenda di David ed Elise impiegando agenti e risorse in modo che la loro storia d'amore possa non sbocciare e poi, all'apice della ribellione del primo - nella sequenza più affascinante della pellicola, l'inseguimento tra le porte, che tanto mi ha ricordato quel Capolavoro di Monsters and Co. -, decide che sì, se qualcuno lotta così duramente per ciò che desidera allora uno strappo si può fare, perchè in fondo è quello lo scopo di tutto questo suo serrato controllo.
Il senso è chiaro, ma forse esistevano modi migliori per raccontarlo perchè non sembrasse il classico finale da "benvenuti in America".

MrFord

"Another turning point, a fork stuck in the road 
time grabs you by the wrist, directs you where to go
so make the best of this test, and don't ask why
it's not a question, but a lesson learned in time."
Green Day - "Good riddance (time of your life)" -



 
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