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domenica 3 maggio 2015

We are Marshall

Regia: McG
Origine: USA
Anno: 2006
Durata: 131'




La trama (con parole mie): nel novembre del 1970 una terribile tragedia aerea conduce alla morte l'intera squadra - fatta eccezione per quattro elementi -, lo staff tecnico ed alcuni sostenitori dei Marshall, orgoglio dell'omonima università e di una città letteralmente distrutta dall'evento.
Ingaggiato l'autopropostosi coach Jack Lengyel, sognatore entusiasta, il Presidente della squadra Dedmon si trova ad affrontare il complesso processo di ricostruzione, che parte da una richiesta fatta alla Federazione di convocare in squadra anche le matricole e conduce allo spirito di Lengyel stesso e del suo assistente Red Dawson, scampato per una casualità all'incidente.
Riusciranno dunque i Marshall a tornare i Marshall? E quale sarà il prezzo per rialzarsi dopo un simile evento?







A prescindere dalla mia passione per tutto quello che è a stelle e strisce - anzi, direi più tutto quello che mi piace -, il cosiddetto Football americano è fin dai tempi dell'infanzia un vero e proprio must, da queste parti, per quanto non segua l'NFL dai tempi dei Dolphins di Dan Marino: ricordo quando imparai le regole attraverso i videogiochi ai tempi del Sega Mega Drive, così come l'esaltazione dei tempi più recenti grazie ad una delle serie televisive del cuore di questo vecchio cowboy, Friday Night Lights.
We are Marshall, solido prodotto di genere sportivo/patriottico made in USA fino al midollo diretto dal mestierante McG e sorretto da un cast di prim'ordine - da Matthew McConaughey a David Strathairn -, giaceva in attesa nei meandri del Saloon da parecchio tempo quando ha finito per essere ripescato in una settimana povera di uscite in sala e novità di spessore grazie a Julez, che spesso e volentieri finisce per conoscermi meglio di quanto non creda di farlo io stesso.
Il risultato è stata una di quelle visioni che tanto adoravo nei primi anni della mia crescita come spettatore: una vicenda emozionante e coinvolgente, a tratti sicuramente ingenua e retorica eppure impossibile da non seguire con partecipazione dall'inizio alla fine, resa interessante da un approccio - legato ovviamente anche alle reali vicende di Jack Lengyel e dei suoi Marshall - che nonostante la cornice non fa troppe concessioni e finisce per ricordare i perdenti di successo di Moneyball o il primo Rocky.
A prescindere, dunque, dalla cronaca di fatti drammatici che divennero motivo di riscatto positivo non solo per una squadra di football non professionistico, ma anche di un'Università e di una città, la parte più interessante di questo prodotto va ricercata nell'analisi per nulla superficiale del lavoro che richiede una ricostruzione affinchè si possa, un giorno o l'altro, tornare "a riveder le stelle".
In un certo senso, più che la rinascita di un'istituzione sportiva americana, assistiamo alla costruzione delle sue fondamenta, alla testimonianza di fatti isolati che, a prescindere dal grado di successo immediato, finiscono per assumere la connotazione di una vittoria alla lunga distanza, grazie al lascito che hanno garantito alle generazioni future: entusiasti come Jack Lengyel oppure no, i protagonisti dell'impresa dei Marshall chiamati a colmare il vuoto di una ferita che probabilmente non potrà mai guarire del tutto hanno finito per rendersi complici di un'impresa unica nel suo genere, che ha riportato alla mia mente quella del Grande Torino finito contro il basamento della Basilica di Superga, e non solo rispetto all'incidente aereo.
La perdita di un'intera squadra sportiva, in occasioni come queste, rappresenta, di fatto, la perdita non solo di simboli, idoli, risultati, ma anche e soprattutto di genitori e figli, amici, parenti, fidanzati, addirittura un'intera generazione che pare essersi compressa in un numero "limitato" di vittime: rialzarsi non è mai facile, così come fare tesoro del proprio dolore, della responsabilità di essere ancora vivi, quasi come accade con i sopravvissuti alle guerre.
Ed è il riscatto, il comeback - come si direbbe oltreoceano -, uno dei punti forti della cultura statunitense: We are Marshall rappresenta, racconta e fotografa proprio quell'istante, quella riscossa, quella sensazione di quasi invulnerabilità che avvolge e porta a compiere imprese che si pensavano impossibili.
Anche quando, prima ancora che dalle vittorie, passano da cocenti e clamorose sconfitte.
Nessuno ha mai detto, infatti, che la strada per la Hall of Fame debba essere necessariamente costruita su incontrastati ed a volte perfino noiosi successi.



MrFord



"Don't know what's comin' tomorrow
maybe it's trouble and sorrow
but we travel the road, sharin' our load
side by side."

Ray Charles - "Side by side" - 





martedì 27 agosto 2013

Mad Men - Stagione 3

Produzione: AMC
Origine: USA
Anno: 2009
Episodi: 12




La trama (con parole mie): la Sterling Cooper attraversa una nuova fase della sua esistenza legata alla partnership istituita con i soci inglesi entrati a far parte dell'esecutivo, pronti a far ridurre i costi ed inserire figure e competenze nuove in modo da snellire l'agenzia e riproporla in una nuova e più allettante forma per la vendita all'insaputa dei suoi stessi dirigenti. Nel frattempo gli account vivono momenti di grande competizione - come Pete Campbell e Ken Cosgrove - per un posto in primo piano ed altri di affermazione più privata che lavorativa - l'ex segretaria Peggy Olson -, e Don Draper si trova a dover fronteggiare non soltanto la nuova dimensione lavorativa ed il rapporto con l'eccentrico milionario Hilton, ma anche due crisi in famiglia legate l'una all'arrivo in casa sua del suocero e l'altra alla scoperta della moglie Betty del suo vero nome e del passato che l'uomo tiene tanto a lasciare nascosto.
Il tutto mentre un cambiamento a dir poco epocale sta per avvenire a seguito di uno degli eventi più traumatici della Storia degli USA: l'assassinio di Kennedy.





Nel panorama delle serie televisive degli ultimi quindici anni, senza dubbio Mad Men figura come uno dei nomi di spicco per quanto riguarda la qualità e lo stile della proposta, l'eleganza e la ricchezza della messa in scena e della narrazione, il fascino della cornice e la quantità quasi incredibile di premi raccolti. Eppure Mad Men è anche una visione decisamente poco simpatica, empaticamente lontana anni luce dai suoi spettatori almeno quanto il suo indiscusso protagonista, Don Draper.
Enigmatico e distante, l'impeccabile Draper - che unisce allo charme da 007 la sicurezza dello squalo della finanza - è il simbolo perfetto di un serial apparentemente senz'anima eppure in grado di stregare neanche ci si trovasse nel pieno di una seduta d'ipnosi a seguire le vicissitudini dei suoi protagonisti, alla scoperta di un'epoca ormai lontana e legata ad un passato quasi remoto per le nostre generazioni eppure rappresentata con una tale profonda modernità da far quasi pensare al futuro.
Con questa terza annata si può pensare che le vicende degli account e dei dirigenti della Sterling Cooper abbiano raggiunto la maturità della struttura, consegnando al proprio pubblico, di fatto, la stagione più completa fino a questo momento passata sugli schermi di casa Ford, in grado di unire l'indagine interiore del protagonista come fu per la prima ed alcuni viaggi nel tempo nella New York di allora - e non solo - come per la seconda: in particolare, il rapporto con il suocero e lo scontro con la moglie Betty a seguito della scoperta della "doppia identità" di Don di quest'ultima rappresentano senza dubbio i momenti più forti mostrati nei dodici episodi, mentre dall'altra parte si passa dalle "vacanze romane" in pieno stile Hilton alla grottesca ed esilarante festa in onore dei soci inglesi finita nel sangue grazie ad un trattore imbizzarrito, senza contare la splendida chiusura di annata legata a doppio filo all'attentato che costò la vita a JFK, uno degli avvenimenti più funesti e sconvolgenti della Storia degli States, giustamente considerato "la fine di un'era" e trampolino per una quarta stagione che, nonostante l'odio e l'antipatia di Julez per questo titolo, aumenta l'hype in attesa del suo passaggio dalle parti del Saloon.
La cosa più interessante di questo terzo giro di giostra per i nostri pubblicitari rampanti è stata senza dubbio l'apparente frammentarietà della narrazione - al contrario soprattutto della prima stagione, nel corso di questi dodici episodi è raro assistere ad una riunione creativa in cui siano presenti tutti i nomi di spicco del cast - rivelatasi, di fatto, un perfetto mosaico di caratteri, storie ed identità alla ricerca di una strada che porti nel futuro, una sorta di confronto tra la realtà ed i sogni in grado di smussare gli angoli perfino di charachters non proprio positivi come Pete Campbell o mostrare tutti gli attributi di altri, come la dirompente - in tutti i sensi - Joan di Christina Hendricks, che personalmente non vedo l'ora di rivedere tra le scrivanie della Sterling Cooper.
Personalmente credo che non amerò mai alla follia questo titolo, e che lo stesso non riuscirà neppure nelle sue annate migliori a conquistarmi il cuore quanto Breaking bad, Lost o Six feet under, eppure tra le righe della sua perfetta composizione mi pare di rivedere la perfezione che fu il tratto distintivo de I Soprano, nonchè la capacità di riuscire ad ammaliare pur essendo decisamente lontano dal vero coinvolgimento emotivo: in un certo senso, Mad Men è come una modella da copertina.
Non potresti mai uscirci perchè potrebbe rivelarsi un'agghiacciante figa di legno, eppure non riesci a fare a meno di fare fantasie su di lei ad ogni occhiata.


MrFord


"I've got you under my skin.
I've got you deep in the heart of me.
So deep in my heart that you're really a part of me.
I've got you under my skin.
I'd tried so not to give in."
Frank Sinatra - "I've got you under my skin" - 



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