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venerdì 2 febbraio 2018

Billions - Stagione 2 (Showtime, USA, 2017)





In tutta onestà, in termini pratici credo ci siano davvero poche cose lontane dalla mia essenza come l'economia e la finanza: per dirla in toni da Saloon, non mi è mai fregato e non ci ho mai capito un gran bel cazzo di niente.
Eppure, nel corso degli anni, alcuni titoli - film o serie, poco importa - sono riusciti nella non facile impresa non solo di farmi apparire questo mondo così lontano come comprensibile ed affascinante, ma anche di seguire gli stessi con un'intensità da thriller da fiato sospeso: uno di questi è senza dubbio Billions, proposta sorretta dalle performance notevoli dei due protagonisti e rivali Damian Lewis e Paul Giamatti - il primo nei panni di Bob Axelrod, giocatore d'azzardo della borsa multimiliardario nato povero e divenuto squalo, ed il secondo di Chuck Rhoades, procuratore newyorkese di famiglia altolocata che dello squalo aveva il corredo genetico - che trasforma il mondo dell'alta finanza e delle scorrettezze ad esso annesse in una quasi tragedia shakespeariana senza morti ammazzati all'interno della quale non si risparmiano colpi bassi, vendette, giochi di potere e voltafaccia, mentre i due protagonisti si convincono passo dopo passo ad essere disposti a sacrificare qualsiasi cosa pur di avere l'ultima parola in una rivalità che li rende ad un tempo uguali ed agli antipodi.
Proprio considerata la materia trattata, era davvero un'impresa non da poco pensare di riuscire a bissare la qualità della prima stagione, una delle sorprese positive del Saloon a cavallo tra duemilasedici e diciassette, e sono contento di affermare che la produzione Showtime ci è riuscita, e alla grande: tensione mai calante, ritmo serrato, ottimi comprimari, un nuovo charachter perfetto e potenzialmente esplosivo per il futuro - la giovane ed androgina Taylor, spettacolare protegè di Axelrod - ed un episodio, per l'esattezza l'undicesimo, tra i meglio scritti che abbia incontrato sul piccolo schermo negli ultimi anni, pronto ad incastrare e far specchiare i due nemici giurati uno nelle azioni dell'altro, e a prepararli ad un faccia a faccia che prosegue il discorso rimasto in sospeso al termine della prima stagione e proietta dritti dritti alla terza, consapevoli che nessuno dei due mollerà mai davvero la presa fino ad aver raggiunto la totale distruzione dell'avversario, o la propria.
In questo senso, una delle riflessioni più importanti legati alle vicende di Bob e Chuck è proprio questa: vale davvero la pena, in nome della vittoria su un nemico, sacrificare tutto quello che è possibile immaginare, posizione, carriera, potere, denaro e soprattutto di rimanere soli soltanto per il gusto di godersi una risata da soli, in un appartamento in affitto vuoto di qualsiasi affetto? Vale la pena continuare a scommettere anche quando si hanno le tasche piene, soltanto per il gusto di vincere una mano in più?
In questo senso, sarebbe molto interessante poter entrare ancora più a fondo nelle teste di Axelrod e Rhoades, e cercare di comprendere quanto sottile sia il confine tra ossessione e rivalità, tra l'importanza di una battaglia ed il gusto quasi ossessivo di fare la guerra, tra esercizio di potere ed esibizione di potere: confini che tutti noi, in quanto umani, conosciamo bene, a prescindere dal fatto che tutto si giochi in campi ed ambiti che, come per me la finanza e l'economia, appaiano lontani anni luce dal proprio piccolo pianeta.



MrFord



 

domenica 26 ottobre 2014

Justified - Stagione 2

Produzione: FX
Origine: USA
Anno:
2011
Episodi: 13





La trama (con parole mie): lo sceriffo federale Raylan Givens, chiusi i conti ed i sospesi con la mala di Miami che voleva la sua testa, decide di rimanere ad operare nella Contea di Harlan, in Kentucky, sua terra d'origine ed origine, di fatto, di molti dei suoi guai. Riconciliatosi con l'ex moglie Winona, l'uomo si trova ad affrontare non solo il ritorno della sua nemesi Boyd Crowder al crimine - e la nascita del legame tra quest'ultimo e la sua ex Ava -, ma anche l'ingombrante presenza della famiglia Bennett, da generazioni legata al commercio di erba e ad altre attività più o meno legali.
Vecchie ruggini e nuove sfide porteranno Raylan ben oltre i confini della Legge, sia che si parli di protezione di chi ama, sia che si tratti di portare a casa la pelle.
E quando si alzerà la polvere, solo un nome tra Bennett e Crowder potrà contare su un futuro.
Sempre che lo sceriffo Givens non dica la sua.








Negli ultimi anni, spesso mi sono chiesto, considerate le letture, i gusti, gli ascolti e chi più ne ha, più ne metta, come possa essere stato possibile per me nascere a Milano piuttosto che in qualsiasi paesino del Sud degli States, perso tra il nulla e l'addio, come direbbe Clint Eastwood, tra rednecks, sogni infranti, spazi apparentemente sconfinati, alcool e pistole.
Eppure, eccomi qui: dunque non resta che immaginare quello che sarebbe stato del sottoscritto attraverso le gesta di personaggi come Raylan Givens ed il suo rivale eterno Boyd Crowder, rispettivamente interpretati da Timothy Oliphant - perfetto per il ruolo - e Walton Goggins, vecchio idolo fordiano dei tempi di The Shield.
Iniziata decisamente in ritardo rispetto a quanto nelle mie corde sia e grazie ad un suggerimento del mio fratellino Dembo, Justified - nata da un racconto di Elmore Leonard, uno dei padri del racconto Western - è entrata subito nel cuore di casa Ford, con una prima stagione decisamente efficace ed una seconda che non solo ne raccoglie il testimone, ma che, di fatto, porta perfino più in alto il risultato - e le aspettative per la terza -: dai dialoghi che paiono scritti per il piacere del sottoscritto - "Hai una birra?" "Birra? In questa casa beviamo superalcolici!", impagabile - al crescendo finale da dramma di Frontiera tutto funziona alla grande, e finisce per non fare sconti a nessuno da una parte e dall'altra della barricata, come una guerra senza vincitori o vinti.
Del resto, in luoghi come la Contea di Harlan le alternative non sono poi molte: tutore della Legge, criminale o minatore, con aspettative di vita basse in uno qualunque dei tre casi.
In questo senso, l'immagine di Raylan che, durante il funerale della zia, lancia un'occhiata alla sua lapide, già pronta per il giorno in cui una pallottola verrà a chiedere il tributo che la sua professione richiede, la dice lunga rispetto a quello che può offrire un West che ha ben poco dei sogni di gloria e di conquista dei tempi d'oro, quanto più della disperazione operaia e sociale che soltanto le aree dimenticate dalla "civiltà" delle grandi città riservano ai loro abitanti: gli stessi Bennett - di fatto, gli antagonisti principali di questa seconda annata - mostrano tutta la drammaticità e l'ironia del Destino dei luoghi in cui sono cresciuti, dalla dispotica eppure a suo modo sensibile matriarca Mags ai tre figli, lo scatenato Coover, il viscido Dickie e l'arrogante Doyle, pronti a mostrare il peggio dell'umanità ma anche, seppur distorto, un meglio legato ai concetti di famiglia ed affezione alla propria terra, quasi come se Via col vento fosse stato deformato da secoli di lotte operaie, alcool e proiettili pronti a scacciare via gli incubi di una vita ai margini.
Personaggi biechi e discutibili, eppure non meno discutibili di quanto potrebbe essere Raylan con il suo grilletto facile, pronto a mettere l'ultima parola rispetto alla vita di un criminale: il confine tra la Legge e l'Uomo è molto labile, ed io stesso comprendo che, in situazioni di questo genere, non saprei quale strada prendere: in fondo, Raylan e Boyd sono due lati della stessa medaglia, e la loro rivalità altro non appare se non l'espressione di un quasi affetto profondo, ed una semplice scelta rispetto ad una vita che non offre troppe direzioni a chi la vive.
Se fossi nato in una contea come quella di Harlan, in fondo, non so se sarei stato un Raylan, un Boyd o un semplice minatore.
Senza dubbio non sarebbe stato facile, in nessuno dei tre casi: in fondo parliamo di lotta per la sopravvivenza, di luoghi che richiedono un tributo pesante ai loro figli.
Quello che so, però, è che tornare per le strade battute da questi due tostissimi charachters continuerà ad essere un piacere, per quanto doloroso come un tatuaggio, o una cicatrice che diventa fonte di ricordi: del resto, se l'esperienza e la vita sono come benzina, per quelli come me, Justified ne è un'ottima rappresentazione.
Per quanto violenta, di confine e "tra il nulla e l'addio" possa essere.



MrFord



"And be a simple kind of man.
be something you love and understand.
baby, be a simple kind of man.
oh won't you do this for me son,
if you can?"
Lynyrd Skynyrd - "Simple man" -



mercoledì 12 marzo 2014

Un ragionevole dubbio

Regia: Peter P. Croudins
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 91'





La trama (con parole mie): Mitch Brockden, un giovane assistente procuratore sempre vincente in aula, al termine di una serata di bisboccia con i colleghi finisce per investire un pedone sbucato dal nulla in una strada secondaria. Chiamati i soccorsi e timoroso per la carriera, l'avvocato lascia la vittima sola in attesa dell'arrivo dell'ambulanza. Neppure il tempo di finire divorato dal rimorso ed ecco che all'ufficio del Procuratore giunge il caso di Clinton Davis, uomo di mezza età con un paio di accuse di aggressione alle spalle testimone della morte di moglie e figlia, uccise da un detenuto in libertà sulla parola davanti ai suoi occhi: proprio Davis è accusato di aver assassinato la persona che Mitch ha investito, percuotendola alla morte con i suoi attrezzi.
L'avvocato, divorato dai dubbi, finisce per pilotare il processo in modo che Davis venga assolto, salvo poi scoprire sulla sua pelle che le accuse non dovevano essere poi così lontane dalla verità.








Doveste, per puro caso, essere colti dal ragionevole dubbio costituito dalla scelta di guardare, oppure no, questo film, eccomi pronto a giungere in vostro soccorso fugando ogni possibile deviazione dalla retta via: lasciate tranquillamente perdere.
Avete presente i thriller da poco che di norma sui canali Mediaset infestano i sabati sera privi di attrattive e di possibilità di portare a casa un risultato di una certa consistenza in termini di share?
Se la risposta è affermativa, allora avrete tra le mani il ritratto perfetto di questa robetta di qualità infima - sotto tutti i punti di vista, dalla pessima regia alla recitazione ancora peggiore - non capisco per quale motivo addirittura distribuita in sala e non dirottata direttamente sul mercato home video, che in questi casi di solito è il canale migliore per riciclare anche titoli che, onestamente, non meriterebbero neppure di essere prodotti.
Non che Un ragionevole dubbio abbia il potere di fare incazzare, scatenare chissà quali tempeste di bottigliate delle grandi occasioni, o pensare di ambire a qualcosa in più di una posizione nella seconda metà della top ten dedicata al peggio dell'anno dei prossimi Ford Awards, eppure l'impressione di essere stati fregati - o almeno, coinvolti in qualcosa di decisamente cestinabile - finisce per essere davvero ingombrante una volta archiviata la visone, che dalla sua ha solo ed esclusivamente la durata effettivamente esigua - un'ora e venti tonda tonda, titoli di coda esclusi -.
Il sospetto, comunque, comincia ad essere alimentato già in apertura da quella che vorrebbe essere una scena iniziale di grande impatto, di quelle studiate per sconvolgere il pubblico: peccato che, in termini di logica, si entri al volo e senza ritegno nel delicatissimo territorio delle assurdità da horror - una madre che corre in soccorso della figlia che grida spaventata e la allontana una volta accertatasi della sua incolumità senza neppure sincerarsi rispetto al motivo per il quale la stessa è rimasta così sconvolta puzza di stronzata lontano un miglio, ma tant'è - in grado di demolire un film con una singola sequenza.
Se, a questo, si aggiugono due interpretazioni legate ai main charachters al limite dell'imbarazzante - e mentre Samuel Jackson ormai pare la caricatura di se stesso, Dominic Cooper pare la caricatura di un attore senza alcuna possibilità di appello - ed uno script che definire prevedibile è un eufemismo, il danno è fatto: certo, il genere riesce comunque e per il rotto della cuffia ad imporre un ritmo ed una curiosità in grado quantomeno a stuzzicare lo spettatore rispetto all'idea che, forse, non si tratti dell'ennesimo thriller da due soldi con la risoluzione che ci si aspetta dietro l'angolo, e si giunge al termine senza patire particolarmente - se non per la già citata prova di Cooper, davvero imbarazzante -, ma la sostanza delle cose non cambia.
Un ragionevole dubbio è un film più che mediocre, una schifezza pronta ad attirare l'attenzione giusto dello spettatore occasionale da un paio di film all'anno che il giorno dopo corre a presentarsi al lavoro dal collega appassionato di Cinema affermando di aver visto un filmone di quelli che piacerebbero senz'altro anche a lui: dovesse accadere qualcosa di simile, ed il titolo in questione si rivelasse proprio questo, conoscete già la risposta.
Lascio alla vostra fantasia del momento, poi, la libertà di trattare con il suddetto soggetto aspirante cacciatore di gloria della settima arte come più vi aggrada: consiglio un bel biglietto in prima fila per vedere Cooper recitare Shakespeare.
Penso possa essere davvero una punizione coi fiocchi.




MrFord




"And all that i need is a doubt
that’s all one that feeds the mouth
one simple means is to leave it by the door
one time top lay is the time you play for
and you never set a limit
lean in to walk
there’s nothing missing from life."
John Frusciante - "A doubt" - 




lunedì 3 marzo 2014

Storie maledette

Produzione: Rai
Origine: Italia
Anno: 1994 - In corso
Episodi: 72




La trama (con parole mie): incentrata su vicende legate a realtà finite in tragedia ed affrontate, con successo più o meno chiaro, dalla Legge, Storie maledette nasce da un'idea della giornalista Franca Leosini, e si preoccupa, puntata dopo puntata, di raccontare dal punto di vista dei colpevoli quanto degli innocenti avvenimenti drammatici nati dall'ignoranza come dalla crudeltà, dalla vendetta come dal puro e terrificante istinto omicida.
Situazioni e persone della porta accanto divengono così personaggi quasi cinematografici, che la realtà ed i fatti riportano - spesso con il sangue - alla quotidianità che viviamo giorno dopo giorno: indagini ed approfondimenti partono dunque dalle carceri all'interno delle quali scontano la pena i pronunciati colpevoli che rivelano quasi sempre sfumature in grado di solleticare comunque il ragionevole dubbio.





Rispetto alla consuetudine del Saloon di dedicarsi, accanto ai film e ai romanzi, alle serie tv, ritaglio uno spazio simile a quello che regalai alla mitica Blu Notte qualche anno fa concedendo un post a quella che, a conti fatti, è e resta una trasmissione televisiva: Storie maledette.
Creata nell'ormai lontano novantaquattro dalla giornalista Franca Leosini ed incentrata su inchieste giornalistiche finalizzate ad un faccia a faccia girato in carcere con i dichiarati colpevoli, questa serie è entrata quasi per caso nelle vite degli occupanti di casa Ford guadagnandosi in poco tempo un notevole rispetto sia per la cura delle inchieste stesse, sia per la conduttrice ed autrice, che al pari di Carlo Lucarelli è riuscita ad entrare nel cuore del sottoscritto e di Julez grazie al suo eccezionale intercalare "Ecco!" ed un piglio deciso e per nulla intimorito neppure dalla presenza di assassini posti di fronte a lei.
Pur non avendo avuto modo di visionare tutti gli episodi andati in onda, ed essendo abituato alla ricorstruzione dei casi più "cinematografica" della già citata Blu notte, sono uscito comunque decisamente soddisfatto da quest'esperienza, e devo ammettere che, superate le prime difficoltà nate da un approccio ed una confezione decisamente televisiva, il coinvolgimento è stato intenso quanto quello che aveva accompagnato, ai tempi, gli omicidi insoluti mostrati dal buon Lucarelli.
L'idea del confronto, inoltre, tra la conduttrice ed i dichiarati colpevoli, risulta vincente oltre che decisamente interessante, e trova i suoi momenti migliori rispetto alle vicende che nel corso degli ultimi decenni hanno avuto una travagliata vita giudiziaria: dall'omicidio di Francesca Alinovi - avvenuto a Bologna nell'ottantatre e trattato anche da Blu notte, che probabilmente se avvenuto ai giorni nostri avrebbe condotto le autorità a soluzioni decisamente differenti - al delirio collettivo di una famiglia di Polistena - forse la più agghiacciante tra le storie passate in questo periodo sugli schermi del Saloon, protagonista un intero nucleo di adulti stretti attorno al legame di parentela e pronti ad uccidere una bimba di cinquanta giorni per scacciare il demonio dalla stessa -, passando attraverso vicende di innamorati, pedofili, killer ed amanti divenuti nemici - casi come quello dell'omicidio di Annarita Curina, uno dei molti che videro coppie pronte ad accusarsi una volta giunte in tribunale -, i brividi che percorrono la schiena dello spettatore sono molti, tutti motivati da quello che è il terrore più grande di tutti, in grado di superare qualsiasi horror o racconto fantastico.
Il terrore della porta accanto, se non della propria.
Ai tempi di Twin Peaks, e del terrore che indusse nel sottoscritto la creatura di David Lynch, una delle caratteristiche che finì per colpirmi maggiormente rispetto a Bob fu proprio il suo aspetto tutto sommato "normale", e l'idea che dietro ad orrori indicibili potessero e possano nascondersi persone che, ad insaputa di ognuno di noi, finiscono per passarci accanto quando prendiamo un mezzo pubblico, facciamo la spesa, chiediamo un'informazione.
Le "storie maledette" sono quelle che escono dalle nostre ombre, e finiscono per divorare chi non se l'aspetta, chi è troppo sicuro - emblematico il caso di Maurizio Gucci - o chi, semplicemente, finisce nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, zittito da una crudeltà o da una ferocia troppo grandi: il silenzio degli innocenti, come recita il titolo di un famoso romanzo, e di un film ancora più famoso.
E quando la Legge mescola le carte, a volte è ancora più arduo scoprire quale possa essere stata la via più giusta da percorrere.



MrFord



"Abbiamo gia' rubato abbiamo gia' pagato
ma non sappiamo dire quello che sarebbe stato
ma pace non ne abbiamo nemmeno lo vogliamo
nemmeno il tempo di capire che ci siamo gia'
cos'e' che ancora ci fa vivere le favole
chi sono quelli della foto da tenere."
Enrico Ruggeri - "Mistero" - 


sabato 1 dicembre 2012

Sotto accusa

Regia: Jonathan Kaplan
Origine: USA
Anno: 1988
Durata: 111'




La trama (con parole mie):  Sarah Tobias, una giovane emancipata e wild quanto basta,  vede trasformarsi una serata fuori in un incubo. Dopo aver bevuto e fumato flirta con un ragazzo che non intende accettare un rifiuto, e finisce stuprata da tre avventori del locale dove si trova a loro volta incitati dagli altri presenti.
Scattata la denuncia, del suo caso finisce per occuparsi Kathryn Murphy, promettente avvocato assistente del Procuratore Distrettuale: intimorita dal fatto che Sarah possa essere bollata in aula come "donna facile", la Murphy stringe un accordo con i colpevoli per una pena secondaria ed una detenzione breve, ma quando la ragazza sfoga la sua frustrazione rispetto al giudizio che di lei possono avere dall'esterno, la donna decide di organizzare un secondo processo in modo da incriminare i responsabili dell'incitamento allo stupro, stabilendo, di fatto, la responsabilità dei colpevoli materiali del reato.





Ai tempi del mio ricovero per l'intervento alle tonsille, preso dalla noia della degenza, l'ultima sera prima delle dimissioni attivai la possibilità della tv - a dire il vero, nella speranza di guardare X-Factor, uno dei guilty pleaures di casa Ford - e, non trovando ovviamente disponibili tutti i canali del digitale terrestre, dirottai la mia attenzione su una pellicola figlia dei gloriosi eighties che fino a quel momento era mancata alle visioni del sottoscritto: Sotto accusa, sponsorizzato con discreta sicurezza da Julez, è in realtà un legal thriller dall'impianto e dalla regia piuttosto accademici, privo di quel piglio in grado di rendere davvero grande una pellicola di questo genere.
Eppure, minuto dopo minuto, ogni suo aspetto tutto sommato ordinario si è reso più solido fino a contribuire alla riuscita di un film più che discreto, importantissimo all'epoca della sua uscita in sala principalmente per il messaggio, che sensibilizzava il pubblico femminile - e non solo - a proposito dei casi di violenza sessuale, soltanto in minima parte denunciati negli USA - ma, immagino, non solo - spesso per timore o vergogna: volendo osare, si potrebbe addirittura pensare che le imprese dell'assistente Procuratore Kathryn Murphy - una Kelly McGillis in parte - e della sua assistita Sarah Tobias - l'ancora giovanissima Jodie Foster - abbiano posto le fondamenta del manifesto della ribellione in rosa che sarebbe stato qualche stagione tardi Thelma e Louise.
Fin dal principio è chiaro che, come spesso accade per queste pellicole, la ragione arriderà ai protagonisti, eppure la struttura contribuisce a rendere questo tipo di prevedibilità meno pesante da digerire a partire dalla prima scena, che catapulta immediatamente lo spettatore nel vortice di caos e sconvolgimento di Sarah negli istanti appena successivi allo stupro: il resto avviene passo dopo passo, come una ricostruzione che ha il suo vertice - anche artistico, pensando all'intera pellicola - nel racconto del testimone chiave Ken Joyce, che permette al regista di mostrare cosa sia realmente accaduto tra le mura del The Mill.
Da questo punto di vista, è interessante l'analisi che già nel corso dello svolgimento dell'opera viene effettuata rispetto al ruolo di Sarah, vittima in tutto e per tutto eppure giudicata a causa del suo comportamento provocatorio precedente allo stupro, quasi lo stesso possa in qualche modo essere ammesso come attenuante per i colpevoli: similmente risulta particolarmente originale lo sviluppo che vede un primo accordo proprio con i colpevoli da parte dell'ufficio del Procuratore - per salvaguardare Sarah e soprattutto Kathryn da eventuali sciacallaggi da aula - e la costruzione della parte principale della sceneggiatura sul processo ai presenti nel locale che, la notte dei fatti, incitarono e sostennero i tre autori materiali del crimine.
Non una cosa da poco, considerato che la pellicola ormai è alle soglie del traguardo del quarto di secolo - ne è testimone l'orripilante moda dei tempi, sfoggiata dalla prima all'ultima scena senza vergogna alcuna - e che ancora oggi, forse, si farebbe fatica ad accettare una condanna per istigazione a delinquere - giustissima, peraltro - di questo tipo.
Un raro caso, dunque, di Cinema impegnato in forma di blockbuster all'interno del quale la potenza del messaggio sopperisce, di fatto, alla mancanza del tocco di classe - o di talento - in grado di trasformare un film in un'esperienza di culto: con tante schifezze che vengono propinate settimanalmente oggi, per una volta non sono stato così dispiaciuto di aver ricorso al mezzo televisivo.
In questo senso, si dovrebbe davvero tornare agli anni ottanta, quando anche in prima serata - e su quasi tutti i canali - passavano film che avevano palle e carattere.
Ora è già tanto riuscire a scovarne qualcuno in sala.


MrFord


"Gli uomini non cambiano 
prima parlano d'amore e poi ti lasciano
gli uomini ti cambiano
e tu piangi mille notti di perché
invece, gli uomini ti uccidono
e con gli amici vanno a ridere di te."
Mia Martini - "Gli uomini non cambiano" -


giovedì 25 ottobre 2012

Serial killer - Storie di ossessione omicida

Autore: Carlo Lucarelli, Massimo Picozzi
Origine: Italia
Anno:
2004
Editore: Mondadori




La trama (con parole mie): una panoramica a metà strada tra racconto ed applicazione scientifica e legale dell'operato di alcuni tra i più feroci serial killers conosciuti, dall'Italia agli States. 
Attraverso le tipologie ufficialmente riconosciute dagli esperti del settore, i due autori compongono una galleria che abbraccia il maggior numero di esempi di patologie criminali passando dai secoli scorsi in Europa agli ultimi cinquant'anni negli States, dalla Bathory ad Aileen Wournos, da Vincenzo Verzeni a Jeffrey Dahmer.
Dietro ogni ipotesi, storia e studio, domande che ancora avvincono studiosi e criminologi: i serial killer sono segnati da malattie mentali o l'espressione del loro male è qualcosa di più profondo e radicato nella Natura umana? Come si muove la legge rispetto all'approccio con figure di questo genere?
E come si rapportano loro stessi al mondo?
Quesiti, probabilmente, destinati a rimanere senza risposta ma che sono il centro di un percorso terribile quanto affascinante.





Fin dai tempi delle mie prime letture "impegnate", la figura del serial killer nell'ambito della letteratura come della storia ha sempre esercitato un fascino oscuro, sul sottoscritto, invadendo poi la mia passione per il Cinema grazie a titoli imperdibili quali Il silenzio degli innocenti e Manhunter, che rinverdirono i fasti della leggenda di Jack lo squartatore o de Il profumo.
La vera rivelazione fu, ormai una dozzina d'anni fa, Mindhunter di John Douglas, uno dei profiler più influenti nella storia di questa branca della scienza criminale nonchè personalità di spicco dell'FBI per più di un ventennio: tra quelle pagine scoprii il turbamento ed il fascino con i quali doveva fare i conti qualcuno che, sul campo, tra indagini ed interviste, aveva avuto a che fare con alcuni dei serial killers più spietati degli USA, e rimasi sconvolto, più che colpito, da alcuni passaggi da pelle d'oca.
La recente scoperta di Io vi troverò, dopo anni ad una certa distanza dall'argomento, è riuscita a riportare in auge la materia, tanto da spingermi a spolverare dallo scaffale del Kindle questo lavoro di Lucarelli e Picozzi sponsorizzato da Julez, come il sottoscritto appassionata di vicende legate ai morti ammazzati: il risultato è stato una lettura sicuramente avvincente, in grado di approfondire le storie di personaggi che conoscevo soltanto marginalmente, forse non scritta con la stessa perizia - soprattutto per quanto riguarda le parti uscite dalla penna di Lucarelli, molto riconoscibili - dell'opera di John Douglas ma comunque un buon tentativo per introdurre al pubblico italiano il concetto di serial killer in molte delle sue sfumature approcciando lo stesso anche da un punto di vista medico e legale - Picozzi è uno degli esperti più importanti del nostro Paese -.
Passare attraverso pagine di orrori ed atrocità, disagi e vicende da peli ritti sulla nuca, però, è stato molto diverso rispetto ai tempi in cui, da ragazzino, consideravo quasi come rockstar distorte questi cacciatori di uomini e donne: il mio punto di vista, ora - sarà l'età, sarà il fatto di diventare padre - è profondamente cambiato, e a parte l'interesse dal punto di vista emozionale/scientifico quello che resta è una presa delle distanze netta da quella che non mi sento neppure di considerare una malattia.
In questo senso, una delle questioni più interessanti analizzate dagli autori è proprio quella legata all'imputabilità - e non - e all'infermità mentale dei soggetti in questione: ovviamente non ho tutti gli strumenti di uno specialista per giudicare in proposito, ma la mia impressione è che sia davvero arduo considerare non perseguibile - e non solo non pericoloso - qualcuno che riesce a sopravvivere autonomamente e, al contempo, portare a termine un atto clamoroso come un omicidio.
Anche perchè non stiamo parlando di una "fredda esecuzione" - nonostante si faccia cenno alla presenza di molti individui che potrebbero essere associati ai serial killer tradizionali all'interno di criminalità organizzata, forze dell'ordine ed esercito, e che grazie alla loro professione riescono a sfogare gli istinti sadici senza che gli stessi degenerino sempre più -, ma di un vero e proprio processo di caccia, un'espressione di violenza ed accanimento che riesce anche difficile da immaginare e figurarsi, quasi si fosse usciti dritti dritti da un horror, o da un incubo vero e proprio.
Così, da Vincenzo Verzeni - che imperversò nella bergamasca ai tempi degli studi di Lombroso, che lo interrogò più volte - a Ed Gein - che nella sua fattoria conservava cimeli di pelle umana neanche fossimo in Non aprite quella porta, da Albert Fish a Jeffrey Dahmer, passando per uno dei miei - e di John Douglas - "favoriti", Ed Kemper, leggiamo di imprese che fanno dubitare rispetto all'abisso che alberga nel cuore dell'Uomo, e che vanno ben oltre gli abusi che molti di questi stessi assassini hanno subito nel corso della loro formazione e sono divenuti una sorta di combustibile per il fuoco della rabbia o della lussuria espresse dalle loro imprese.
Ed è agghiacciante scoprire come molti di loro siano giunti più volte vicini all'essere catturati, e siano riusciti a scamparla - almeno per un pò - grazie ad un intelletto spesso di molto superiore alla media - il già citato Kemper, con un QI di quasi centotrenta, Charles Manson, attorno al centoventi - mentre altri si siano lasciati travolgere dai loro istinti ed altri ancora abbiano principalmente goduto delle proprie perversioni - Ted Bundy ed i già segnalati Albert Fish, sconvolgente nella sua reiterata deviazione anche di fronte alla condanna imminente alla sedia elettrica, e Jeffrey Dahmer, che nonostante gli avvertimenti del suo stesso padre sfuggì alle forze dell'ordine in più di un'occasione -.
Senza dubbio, pensando ai serial killer, l'idea che questo mondo sia un luogo molto più oscuro di quanto già non appaia si fa decisamente più consistente, e credo che trovarsi di fronte ad un predatore di questo tipo possa essere decisamente più spaventoso che essere rapiti, aggrediti o rapinati.
Leggendo le loro storie, pur provando in alcuni casi anche una certa misura di pietà, da convinto detrattore della pena di morte da un punto di vista giuridico, sono sicuro che, nella posizione di parente di una vittima, non avrei alcuna esitazione a togliere la vita ad uno qualsiasi di questi predatori, profondamente pericolosi per gli altri come per se stessi. Dunque, comprendo bene chi, scosso direttamente dalle loro azioni, possa arrivare anche a gesti sconsiderati.
Probabilmente, l'influenza del loro - e del nostro, almeno in parte - Passeggero oscuro si fa sentire anche in questo modo.


MrFord


"I got the darkness
it was drinking from your cup,
I got the darkness
it was drinking from your cup,
I said is this contagious?
You said just drink it up."
Leonard Cohen - "The darkness" -


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