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sabato 1 dicembre 2012

Sotto accusa

Regia: Jonathan Kaplan
Origine: USA
Anno: 1988
Durata: 111'




La trama (con parole mie):  Sarah Tobias, una giovane emancipata e wild quanto basta,  vede trasformarsi una serata fuori in un incubo. Dopo aver bevuto e fumato flirta con un ragazzo che non intende accettare un rifiuto, e finisce stuprata da tre avventori del locale dove si trova a loro volta incitati dagli altri presenti.
Scattata la denuncia, del suo caso finisce per occuparsi Kathryn Murphy, promettente avvocato assistente del Procuratore Distrettuale: intimorita dal fatto che Sarah possa essere bollata in aula come "donna facile", la Murphy stringe un accordo con i colpevoli per una pena secondaria ed una detenzione breve, ma quando la ragazza sfoga la sua frustrazione rispetto al giudizio che di lei possono avere dall'esterno, la donna decide di organizzare un secondo processo in modo da incriminare i responsabili dell'incitamento allo stupro, stabilendo, di fatto, la responsabilità dei colpevoli materiali del reato.





Ai tempi del mio ricovero per l'intervento alle tonsille, preso dalla noia della degenza, l'ultima sera prima delle dimissioni attivai la possibilità della tv - a dire il vero, nella speranza di guardare X-Factor, uno dei guilty pleaures di casa Ford - e, non trovando ovviamente disponibili tutti i canali del digitale terrestre, dirottai la mia attenzione su una pellicola figlia dei gloriosi eighties che fino a quel momento era mancata alle visioni del sottoscritto: Sotto accusa, sponsorizzato con discreta sicurezza da Julez, è in realtà un legal thriller dall'impianto e dalla regia piuttosto accademici, privo di quel piglio in grado di rendere davvero grande una pellicola di questo genere.
Eppure, minuto dopo minuto, ogni suo aspetto tutto sommato ordinario si è reso più solido fino a contribuire alla riuscita di un film più che discreto, importantissimo all'epoca della sua uscita in sala principalmente per il messaggio, che sensibilizzava il pubblico femminile - e non solo - a proposito dei casi di violenza sessuale, soltanto in minima parte denunciati negli USA - ma, immagino, non solo - spesso per timore o vergogna: volendo osare, si potrebbe addirittura pensare che le imprese dell'assistente Procuratore Kathryn Murphy - una Kelly McGillis in parte - e della sua assistita Sarah Tobias - l'ancora giovanissima Jodie Foster - abbiano posto le fondamenta del manifesto della ribellione in rosa che sarebbe stato qualche stagione tardi Thelma e Louise.
Fin dal principio è chiaro che, come spesso accade per queste pellicole, la ragione arriderà ai protagonisti, eppure la struttura contribuisce a rendere questo tipo di prevedibilità meno pesante da digerire a partire dalla prima scena, che catapulta immediatamente lo spettatore nel vortice di caos e sconvolgimento di Sarah negli istanti appena successivi allo stupro: il resto avviene passo dopo passo, come una ricostruzione che ha il suo vertice - anche artistico, pensando all'intera pellicola - nel racconto del testimone chiave Ken Joyce, che permette al regista di mostrare cosa sia realmente accaduto tra le mura del The Mill.
Da questo punto di vista, è interessante l'analisi che già nel corso dello svolgimento dell'opera viene effettuata rispetto al ruolo di Sarah, vittima in tutto e per tutto eppure giudicata a causa del suo comportamento provocatorio precedente allo stupro, quasi lo stesso possa in qualche modo essere ammesso come attenuante per i colpevoli: similmente risulta particolarmente originale lo sviluppo che vede un primo accordo proprio con i colpevoli da parte dell'ufficio del Procuratore - per salvaguardare Sarah e soprattutto Kathryn da eventuali sciacallaggi da aula - e la costruzione della parte principale della sceneggiatura sul processo ai presenti nel locale che, la notte dei fatti, incitarono e sostennero i tre autori materiali del crimine.
Non una cosa da poco, considerato che la pellicola ormai è alle soglie del traguardo del quarto di secolo - ne è testimone l'orripilante moda dei tempi, sfoggiata dalla prima all'ultima scena senza vergogna alcuna - e che ancora oggi, forse, si farebbe fatica ad accettare una condanna per istigazione a delinquere - giustissima, peraltro - di questo tipo.
Un raro caso, dunque, di Cinema impegnato in forma di blockbuster all'interno del quale la potenza del messaggio sopperisce, di fatto, alla mancanza del tocco di classe - o di talento - in grado di trasformare un film in un'esperienza di culto: con tante schifezze che vengono propinate settimanalmente oggi, per una volta non sono stato così dispiaciuto di aver ricorso al mezzo televisivo.
In questo senso, si dovrebbe davvero tornare agli anni ottanta, quando anche in prima serata - e su quasi tutti i canali - passavano film che avevano palle e carattere.
Ora è già tanto riuscire a scovarne qualcuno in sala.


MrFord


"Gli uomini non cambiano 
prima parlano d'amore e poi ti lasciano
gli uomini ti cambiano
e tu piangi mille notti di perché
invece, gli uomini ti uccidono
e con gli amici vanno a ridere di te."
Mia Martini - "Gli uomini non cambiano" -


mercoledì 22 agosto 2012

Top gun

Regia: Tony Scott
Origine: USA
Anno: 1986
Durata: 110'




La trama (con parole mie): Maverick è un pilota tra i più promettenti della marina, ma il suo temperamento sbruffone e sopra le righe spesso e volentieri lo mette in cattiva luce rispetto a compagni e superiori. Quando durante una ricognizione riesce assieme al suo secondo Goose ad osservare da vicino dei MIG sovietici portando al contempo in salvo il compagno di squadriglia Cougar preso da un attacco di panico, si spalancano per lui le porte della Top Gun, l'accademia che forma l'elite dell'aviazione ed i futuri istruttori.
A dirigere il programma Maverick troverà Viper, ex compagno di suo padre considerato il riferimento per ogni pilota, ed un avversario pronto a tenergli testa, il più disciplinato e sempre preciso Iceman.
Ma non solo: perchè l'astrofisica Charlie diverrà il suo primo amore.




La morte improvvisa di Tony Scott, fratello sfigato di Ridley come mi è sempre affettuosamente piaciuto chiamarlo, ha sorpreso e colpito molti appassionati, principalmente a causa del fatto che il suddetto è stato autore di molti più blockbusteroni e film d'intrattenimento decisamente noti di quanto non si potesse pensare.
Senza dubbio, uno dei titoli simbolo della sua carriera fu uno dei più grandi successi degli anni ottanta al botteghino, una pellicola in grado di diventare un cult generazionale al quale ancora oggi molti sono profondamente legati affettivamente: sto parlando, ovviamente, di Top gun.
Probabilmente neppure impegnandosi al massimo si troverebbe, nella produzione statunitense dell'epoca, un'opera così intrisa di reaganesimo e voglia di stelle e strisce, con tanto di storia d'amore travolgente, hit musicale - Take my breath away è, senza dubbio, una delle più note canzoni tratte da una colonna sonora di tutti i tempi -, struggimento e sensi di colpa debellati da coraggio e voglia di dimostrare di essere sempre e comunque i migliori, senza dimenticare la rivalità che, ai tempi, coinvolgeva il Cinema in quelle che sarebbero stati gli ultimi fuochi da Guerra Fredda.
Eppure, nonostante tutto questo e molto di più - sarebbe assurdo negare che si tratti di un titolo da grana grossa e scarso valore artistico, tolte forse le ottime riprese degli aerei in volo - Top gun riesce a farsi voler bene anche ora, alimentando le speranze di chi sogna un sequel e solleticando l'amarcord di chi, negli anni ottanta, trovò nelle imprese di Maverick il brivido dell'avventura - se bambino - e la voglia di pilotare jet allora all'avanguardia, nuove ispirazioni rispetto al look - gli occhiali a specchio ed i giubbotti in stile aviazione la facevano da padrona, tra i miei compagni di scuola, e nel corso della visione li ho rivalutati anche oggi, da buon tamarro -, una passione travolgente di quelle che in tv avrebbero tagliato - e che è stata ampiamente presa per il culo in una sequenza leggendaria di Hot shots - ed un'aura mitica che lo rendeva già cult alla prima visione.
Più che anacronistico o fuori tempo massimo, un titolo come questo oggi assume una connotazione unica almeno quanto gli action movies dello stesso decennio, principalmente perchè in questo momento non sarebbe possibile per nessun regista riuscire a creare un'atmosfera così kitsch e sopra le righe senza necessariamente scadere nel ridicolo più o meno volontario: certo, esistono sempre gli omaggi - The Expendables 2 docet -, ma tutti noi che abbiamo vissuto quegli anni e sognato grazie a quelle pellicole sappiamo bene di aver assistito ad una stagione irripetibile, che continueremo a portarci dietro cercando di trasmetterne la magia anche ai nostri figli e nipoti.
Ed è così che mi piace ricordare Top gun: come una giostra del larger than life che all'epoca avrà fatto storcere il naso a tutti i figli del Cinema d'autore anni settanta e che, invece, rappresenta alla perfezione l'idea dell'intrattenimento e del brivido che solo da bambino puoi provare appieno e da adulto ti coccoli anche quando non sembra il caso di gridarlo ai quattro venti.
Maverick - ruolo perfetto per il giovane ed arrembante Tom Cruise - è l'eroe per eccellenza dell'epoca degli yuppies, con la sua moto lanciata a tutta velocità, il sorriso da sbruffone e la consapevolezza di poter sempre e comunque raggiungere la meta - prima fra tutte la Charlie di Kelly McGillis, che senza considerare il suo tracollo attuale non appariva certo come un sex symbol neanche allora -: e attorno un cast di comprimari che paiono esistere solo per fargli da spalla, dall'Iceman di Val Kilmer al mitico Goose di Anthony Edwards - che avevo adorato in Toccato! e avrei ritrovato in E. R. -, senza contare veterani come Tom Skerrit e Michael Ironside.
Le schermaglie con i MIG russi, con i loro piloti dal viso sempre oscurato, rigorosamente vinte dal talento spesso incontrollabile di Maverick, sono un perfetto esempio del gigionismo a stelle e strisce di allora - ma solo di allora? - in grado comunque di scatenare nel pubblico quella sensazione di esaltazione liberatoria che pareva una prerogativa dell'azione a quei tempi.
Non so quali siano stati i motivi che hanno portato il buon Scott a farla finita, e di certo non sono qui per disquisirne: posso solo affermare che, per quanto clamorosi siano stati alcuni suoi scivoloni, con un titolo come questo - IL blockbuster per definizione - il vecchio Tony si è assicurato un posto d'onore nella memoria di milioni di spettatori in tutto il mondo.
Da una parte all'altra dell'ex Cortina di ferro.
E a volte, in barba all'autorialità sfrenata, è anche questo grande Cinema.


MrFord


"Watchin' every motion in my foolish lover's game  
on this endless ocean, finally lovers know no shame  
turnin' every turn to some secret place inside  
watchin' in slow motion as you turn around and say  
take my breath away  
take my breath away."
Berlin - "Take my breath away" -



martedì 6 marzo 2012

Stake land

Regia: Jim Mickle
Origine: Usa
Anno: 2010
Durata: 98'



La trama (con parole mie):  Martin è un adolescente rimasto orfano allo scoppiare di un'epidemia di vampirismo che ha riportato gli States ad uno stato brado di rimembranze medievali, salvato dalla morte ed addestrato dal granitico e solitario Mister, un cacciatore in viaggio verso Nord continuamente in lotta con i succhiasangue.
I due, divenuti amici, si dirigono verso New Eden - una comunità che pare essere la speranza della gente, situata oltre il confine canadese - incontrando, oltre a diverse tipologie di mostri, reietti, disperati, compagni di lotta e di viaggio tutte le peggiori minacce che l'uomo è in grado di lasciare incombere su altri uomini: violenza, fanatismo, religione e chi più ne ha, più ne metta.
Contando gli amici perduti in battaglia, i due giungeranno all'agognata frontiera, ma questo non significherà necessariamente passarla insieme.




E' davvero un peccato, a volte, che un film dal discreto potenziale sia limitato dalle sue stesse ispirazioni, per quanto buone o funzionali possano risultare.
E' il caso di Stake land, pellicola tutto sommato solida che mescola survival, horror "on the road" e trash sulla carta di culto sfoderando un'ora e mezza abbondante di intrattenimento, combattimenti all'ultimo sangue e paesaggi da wasteland come non si chiederebbe altro in casa Ford ma che, neppure con un generoso sforzo del sottoscritto, riesce a conquistare o ad andare oltre una visione indolore e riempitiva: il problema principale, nel caso del lavoro assolutamente onesto di Mickle è dato dal fatto che le influenze della pellicola mostrano un carattere ed uno spessore maggiori del film stesso, provocando il mai troppo piacevole deja-vù nello spettatore che sfocia in commenti del tipo "niente male questa trovata, l'avevo già vista in questo o in quel film", oppure "questo dev'essere un omaggio o una citazione del regista x o della saga y".
In questo caso, da 28 giorni dopo al Vampires di Carpenter - che, peraltro, è la pellicola che amo meno del buon John -, da Il buio si avvicina a Mad Max, passando per il già abbastanza citazionista - ma con un'enormità di palle in più - Doomsday, nulla di questo Stake land pare davvero originale, ed anche momenti discreti come la progressiva aggregazione di una sorta di "compagnia dell'anello" in versione horror destinata a venire falcidiata da mostri, integralisti cristiani e una nuova mutazione vampirica risultano meno incisivi di quanto vorrebbero essere.
Proprio la componente religiosa -  e questo occorre ammetterlo - rappresenta invece la svolta più interessante di questa versione on the road ed invernale di Dal tramonto all'alba, con la setta di fondamentalisti composta da loschi figuri incappucciati che paiono cristiani redenti completamente invasati mescolati ad adepti del KKK pronti a seminare terrore quanto e più dei vampiri stessi: in questo senso si potrebbe addirittura azzardare che il regista abbia scelto l'horror per disegnare una metafora agghiacciante degli States odierni, un territorio abbandonato a se stesso dagli uomini di potere ed in balia di succhiasangue incontrollabili e gruppi di fanatici religiosi pronti ad uccidere i propri simili per sostenere la verità assoluta del loro credo, attraversato da gruppi di uomini e donne pronti a resistere e difendersi l'un l'altro in attesa dell'occasione di varcare il confine della New Eden canadese.
Visto da quest'ottica, oltre che clamorosamente adattabile anche alla situazione attuale del Nostro Paese, questo film pare assumere uno spessore decisamente più importante, tanto da finire per farmi quasi giustificare la sua effettiva mancanza di originalità di fondo: è di nuovo un personaggio legato alla componente religiosa a farmi pensare ad una complessiva rivalutazione, quello della suora interpretata da un'invecchiatissima Kelly McGillis - che tutti noi residuati degli anni ottanta ricordiamo al meglio della sua forma in Top gun - che regala un momento in grado di farmi tornare alla mente la prepotenza di Romero nel criticare la società in tutti i suoi aspetti - e non rivelerò l'accaduto giusto per non spoilerare troppo -.
Certo, ancora una volta la sensazione è di già visto, ma a ben guardare, considerata la scarsità di materiale davvero interessante nel genere, meglio un'opera costruita con criterio pur se limitata dalla mancanza di picchi di inventiva che una completamente nuova ma priva di logica o, più semplicemente, soltanto brutta.
In questo senso Mickle, e Stake land, fanno come il protagonista che ne porta fieramente la bandiera, una collana con un teschio e manciate di zanne strappate ai vampiri: il loro sporco lavoro.
E qualcuno, come ben si sa, lo deve pur fare.


MrFord


"You can't escape the wrath of my heart
beating to your funeral song (you're so alone)
all faith is lost for hell regained
and love dust in the hands of shame (just be brave)."
H.I.M. - "Vampire heart" -

lunedì 20 febbraio 2012

The innkeepers

Regia: Ti West
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 100'



La trama (con parole mie): Claire e Luke lavorano allo Yankee Pedlar Inn, un vecchio albergo in procinto di chiudere, e con il proprietario a pesca alle Barbados, si ritrovano soli per l'ultimo weekend di attività della struttura.
I clienti sono contati, il tempo da passare molto: così i due decidono di seguire la passione di Luke per i rilevamenti legati alle presenze sovrannaturali, alimentando uno le ansie dell'altra senza perdere lo spirito cameratesco tra colleghi.
Quando, però, Claire scopre la presenza dello spettro di una sposa abbandonata di nome Madeline O'Malley alla ricerca di pace o vendetta, le cose si faranno decisamente più serie.





L'aspettativa è davvero una brutta bestia.
Una presenza subdola e spietata, proprio come un fantasma.
Pare quasi che non ci sia, e invece lei è in agguato, si insinua sotto la pelle e fa rizzare i peli sulla nuca, provoca brividi neanche fosse lei la protagonista di un horror pronto a prenderti per le palle e tenerti sul filo dall'inizio alla fine.
Cannibale, Babol, Lucia, Einzige sono solo alcuni dei blogger che hanno descritto con parole entusiastiche il lavoro del regista del discreto The house of the devil, arrivando a classificare questo film come uno degli horror più importanti degli ultimi dieci anni.
Così, più che incuriosito, ho atteso con ansia il momento in cui The innkeepers avrebbe sconvolto anche gli occupanti di casa Ford, andando a rinverdire una tradizione di genere che negli ultimi anni è apparsa davvero in difficoltà, alternando pochissime pellicole degne di nota ad un oceano di produzioni mediocri e pretenziose.
Ma non avevo fatto i conti con l'aspettativa.
Una presenza subdola e spietata, proprio come un fantasma.
Pare quasi che non ci sia, lascia che ci si perda dietro sequenze fantastiche come quelle del video online o del cassonetto - da manuale -, ma in realtà è sempre lì, pronta ad insinuare il dubbio, a battere un colpo o graffiare con le unghie la nostra lavagna mentale.
La stessa che ci ricorda tutti i vecchi passaggi da manuale, dalla tecnica di Shining alle suggestioni de Gli invasati, che guarda al grande Cinema dei Maestri più che all'adrenalina del survivalismo recente, facendoci credere che possa essere una vera bomba, e invece, sotto sotto, ci sussurra all'orecchio che tutto sa di già visto, di vecchio e stantìo come un albergo sul punto di chiudere.
Ti West sa indubbiamente il fatto suo, ha studiato bene ed applica le nozioni quasi alla perfezione, i carrelli sono da urlo, l'ironia che alleggerisce una trama altrimenti potenzialmente troppo statica calza come un guanto ad una sceneggiatura soltanto mascherata da tempo morto, il crescendo di tensione è notevole.
Eppure, quando ci si può anche convincere che possa filare tutto per il verso giusto, eccola che ritorna.
Come un fantasma. Come Madeline O'Malley.
L'aspettativa.
Terribile, spietata, crudele. Eppure irresistibile.
E nonostante Claire e l'asma in cui si rifugia come Eddy Spaghetti in It, Luke e quel fare gigione giusto per scongiurare il terrore, Lee e la sua convinzione che qualcosa incomba sullo Yankee Pedlar Inn, qualcosa continua a non tornare.
Qualcosa che è peggio del deja-vu che Lee descrive a Claire quando cerca di rompere la cortina invisibile che le separa a prescindere dalla sensibilità rispetto alla percezione delle presenze, e che trova rifugio nella voglia di riscatto della prima - che rifiuta di farsi catalogare "solo" come un'attrice - e nell'apatica rassegnazione della seconda - che, al contrario, rafforza il suo essere "solo" una dello staff dell'albergo -.
Qualcosa che è peggio dell'esercizio di stile, anche quando è ben mascherato da un'operazione dall'interessante gusto vintage.
Qualcosa che è peggio addirittura dell'aspettativa.
Del fantasma in persona.
Di Madeline O'Malley.
Qualcosa che, dopo un'attesa sorniona e sul filo, neanche fossimo vittime come Claire con le cuffie ed il viso incollato allo schermo di un portatile, ci sbotta in faccia facendoci trasalire.
Qualcosa che pesa come un macigno rispetto a tutto quello che speravo di trovare nel lavoro di Ti West.
E che spero di trovare in ogni horror.
Inquietudine, disagio, paura.
Ecco la chiave.
Il passe-partout dello Yankee Pedlar Inn.
The innkeepers non fa paura.
Neanche per scherzo.


MrFord


"I'm frightened by what I see
but somehow I know
that there's much more to come
immobilized by my fear
and soon to be
blinded by tears
I can stop the pain
if I will it all away."
Evanescence - "Whisper" -



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