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sabato 10 dicembre 2016

In a valley of violence (Ti West, USA, 2016, 104')




Il percorso che Ti West ha compiuto qui al Saloon è stato piuttosto curioso, in una certa misura addirittura unico: nel corso di questi anni, infatti, ci sono stati registi amati dal sottoscritto caduti "in disgrazia" - su tutti, Malick - ed altri che, magari anche solo con un film, hanno saputo guadagnarsi lo status di sorprese assolute - un pò quello che accadde con Aronofsky ai tempi di The wrestler -.
Nessuno, però, partendo dalle bottigliate, è riuscito lentamente a ricostruire la propria immagine fino a diventare un riferimento - per quanto piccolo sia -, fatta eccezione per Ti West.
Partito come il classico nuovo regista troppo incensato ed esaltato dai radical con The house of the devil - comunque interessante - e The Innkeepers, uno dei titoli più sopravvalutati degli ultimi anni, pareva destinato a portarsi il marchio delle bottigliate per sempre quando, grazie al tanto criticato - dai suoi fan della prima ora - The sacrament è tornato prepotentemente a solleticare l'interesse del sottoscritto, reso ancora più vivo da questo In a valley of violence, Western vecchio stile che omaggia i film di genere popolari negli anni settanta - a partire dai fantastici titoli di testa - e l'approccio tarantiniano alla materia, senza per questo rinunciare alla sua identità tecnica e ad una buona dose - ma non esagerata - di violenza.
L'idea di portare sullo schermo l'eroe solitario dei film che videro protagonista il giovane Clint Eastwood pronto a vendicare un torto facendo piazza pulita di tutti i responsabili funziona ed avvince, è ben diretta ed interpretata, realistica nella rappresentazione degli scontri - siamo più dalle parti di Dead man che non da quelle di Sergio Leone, per intenderci - e diretta come un pugno in faccia, tanto da filare via neanche fosse scandita dai pezzi di Johnny Cash con la loro ritmica "ferroviaria".
Un omaggio ad un genere che funziona anche rispetto a quella fetta di pubblico che quel genere non lo mastica troppo, e che ripropone, dopo il recente I magnifici sette, Ethan Hawke come nuovo volto del cowboy cinematografico: come se tutto questo non bastasse, West riesce anche ad inserire in questo cocktail forte e tosto un paio di passaggi che si potrebbero definire quasi lirici, e pur basandosi su una serie di regole e di modelli assolutamente classici a non risultare troppo derivativo o vuoto nel suo rendere omaggio ad un'epica che ha fatto la Storia del Cinema e non solo, e segnato la mia vita di spettatore come poco altro.
Per un'ora e quaranta, grazie a questo regista che fino ad un paio d'anni fa praticamente detestavo, sono riuscito a montare in sella e tornare a quando guardavo John Wayne compiere imprese mitiche sul divano a casa di mio nonno, o alla prima volta in cui, con mio fratello, affiancai William Munny e rimasi a bocca aperta con Gli spietati: non posso, dunque, che togliermi il cappello di fronte a Ti West, che si dimostra non solo capace e duttile, ma anche in grado di superare una barriera apparentemente invalicabile come quella del (pre)giudizio di qualcuno che non aveva per nulla amato il suo lavoro - almeno per quanto riguarda il coinvolgimento emotivo ed il ritmo espresso dalle pellicole -.
Un'impresa che, forse, risulterebbe ardua perfino per un cowboy solitario in cerca di una via di fuga, di una nuova vita, che se provocato, sarà inevitabilmente pronto a scatenare l'inferno.




MrFord




 

venerdì 26 dicembre 2014

Ford Awards 2014: i film che non vedrete nelle sale italiane

La trama (con parole mie): alle spalle - più o meno - i bagordi natalizi, ecco giungere prontamente la classifica dedicata alle pellicole non uscite nelle sale italiane che più hanno convinto il sottoscritto nel corso degli ultimi dodici mesi. Dalle tamarrate agli horror d'autore, passando attraverso territori sulla carta fin troppo indie per il sottoscritto, è dunque pronto il cocktail migliore che il Saloon ha riservato per i suoi avventori con gli ingredienti che, nella Terra dei cachi, purtroppo non vedremo neanche di striscio.



N°10: ENEMIES CLOSER di PETER HYAMS


Non sapete quanto mi renda felice inserire un film con protagonista uno degli eroi della mia infanzia, Jean Claude Van Damme, in questa classifica. Ignorato dalla distribuzione e da molti addetti ai lavori, Enemies closer è forse il miglior prodotto con protagonista l'attore belga dai tempi di JCVD, e forse uno dei suoi cult di sempre.
Sopra le righe, estremamente anni ottanta, divertentissimo. E nel ruolo dello psicopatico parruccone, il Nostro è perfetto.


N°9: PALO ALTO di GIA COPPOLA


Una delle sorprese più clamorose di questo duemilaquattordici: partito sulla carta come un film da bottigliate garantite firmato da una nipote d'arte, Palo Alto ha finito per colpirmi in positivo grazie ad un racconto sincero e sentito del disagio che avvolge nel periodo più tumultuoso della nostra vita: l'adolescenza.
Amori e disagi, speranze e delusioni di una California rarefatta ed affascinante, resa alla grande da un cast perfetto.

N°8: WOLF CREEK 2 di GREG MCLEAN




In casa Ford amiamo molto l'horror, l'(auto)ironia e l'Australia.
E Wolf Creek 2, degno erede del primo, sorprendente capitolo, riesce nell'impresa di centrare tutti e tre i bersagli.
Film più che nero ed estremamente divertente anche nei suoi momenti gore, sostituisce le atmosfere angoscianti del predecessore per concentrarsi su un approccio di pancia e risate grasse, culminato in sequenze in equilibrio con il trash come quella dell'inseguimento in autostrada tra i canguri.
Senza contare che lo psicopatico Mick è una garanzia.

N°7: COLD IN JULY di JIM MICKLE


Tratto da un romanzo - ottimo - del mio favorito Joe Lansdale e trasposto con grande fedeltà sul grande schermo, Cold in July - passato anche all'ultimo Festival di Torino - riesce nell'intento di mostrare le doti di grande scrittore crime del romanziere texano, grazie ad una storia a tinte fosche legata a doppio filo al rapporto tra padri e figli.
Ottimo il cast, sudata e perfetta l'ambientazione.

N°6: THE SACRAMENT di TI WEST


Non ho mai particolarmente amato Ti West.
Eppure, proprio attraverso quello che è stato il suo film meno considerato dai fan hardcore, ho scoperto il talento di un regista che reputavo decisamente sopravvalutato.
L'incubo del condizionamento e delle sette, ed il dramma di chi dallo stesso è consumato, all'interno o all'esterno, è reso alla grande in un thriller/mockumentary ad altissima tensione, che seppur imperfetto tiene incollati fino all'ultima inquadratura.
Per qualcuno che rischiava tempeste di bottigliate, direi proprio che si tratta di una vittoria.


N°5: IL LERCIO di JOHN S. BAIRD


Tratto dal romanzo di Irvine Welsh ed interpretato alla grande da un McAvoy in stato di grazia, Il lercio è stato uno dei viaggi più allucinati nel "crime" che questo vecchio cowboy abbia intrapreso nel corso degli ultimi dodici mesi: un noir sotto l'effetto di alcool e tanta, tanta droga in grado di fotografare il disagio e la visione del mondo di un personaggio certo non semplice, ma non per questo poco affascinante.


N°4: CHEAP THRILLS di E. L. KATZ



In un periodo storico che vede nell'incertezza lavorativa ed economica di noi poveri cristi un assoluto quasi matematico, ecco una delle fotografie più interessanti ed ironiche - dal punto di vista "nero" del termine - che si possano immaginare: due amici, due vite ai margini, una possibilità di riscatto.
E' possibile assegnare un prezzo alla nostra moralità, e agli atti che saremmo pronti a commettere se adeguatamente sponsorizzati da qualche ricco annoiato e lontano dalla nostra realtà?
A voi l'ardua sentenza. Katz ha già detto la sua.

N°3: THE BABADOOK di JENNIFER KENT



Doppietta australiana quest'anno per il Ford Award dedicato ai titoli ignorati dalla nostrana distribuzione, e doppietta per l'horror, nonostante il Babadook rappresenti, di fatto, più un'indagine psicologica che non un vero e proprio film di paura.
Interpretazioni straordinarie dei due protagonisti per un titolo che, più che spaventare, finirà per scuotere rispetto a problematiche importanti come quella del superamento del dolore.
Non sottovalutatelo.

N°2: BIG BAD WOLVES di AHARON KESHALES, NAVOT PAPUSHADO


Sdoganato da Tarantino e diventato una sorta di visione virale la scorsa primavera, il lavoro di Keshales e Papushado rappresenta uno degli esperimenti migliori rispetto l'esplorazione dei lati oscuri dell'animo umano, una sorta di Prisoners in versione humour nero, una vicenda terribile mostrata attraverso filtri in grado di rivelare il dramma senza farne necessariamente un peso insostenibile.
O forse addirittura amplificandone gli effetti.

N°1: THE RAID 2 - BERANDAL di GARETH EDWARDS 



Impossibile pensare ad un altro titolo in cima a questa classifica.
Pur non arrivando alle vette del primo capitolo, The Raid 2 rappresenta, in tutta la sua pulsante bellezza, la poesia del Cinema di botte divenuto clamorosamente prodotto d'Autore.
Sequenze tecnicamente spaventose, combattimenti memorabili, attesa per il numero tre già spasmodica.
Un supercult.

     

I PREMI

Miglior regia: Gareth Edwards per The Raid 2 - Berandal

Miglior attore: James McAvoy per Il lercio
Miglior attrice: Essie Davis per The Babadook
Scena cult: l'incontro con l'uomo a cavallo e l'incipit, Big Bad Wolves
Fotografia: The Raid 2 - Berandal
Miglior protagonista: Bruce Robertson, Il lercio
Premio "lo famo strano": Craig e Violet, Cheap thrills
Premio "ammazza la vecchia (e non solo)": il Padre, The Sacrament
Migliori effetti: Wolf Creek 2
Premio "profezia del futuro": The Raid 2 - Berandal, più che altro per l'hype per il terzo capitolo del brand

MrFord

martedì 16 settembre 2014

The sacrament

Regia: Ti West
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 95'





La trama (con parole mie): Jake, Sam e Patrick, tre giovani reporter, colgono l'occasione per un servizio che potrebbe rivelarsi un buco nell'acqua o uno sguardo unico su una comunità chiusa dove ha trovato rifugio Caroline, sorella di Patrick.
Giunti sul posto ed ottenuto a fatica il permesso di rimanere e riprendere il luogo ed i membri della comunità stessa, i tre si ritrovano a contatto con una realtà apparentemente idilliaca gestita da un leader - denominato Padre da tutti i presenti - che con sermoni melliflui e più che convinti pare avere definitivamente convinto ogni abitante di Eden Parish a credere nel suo progetto.
Quando, però, la festa organizzata proprio per celebrare l'arrivo dei reporter venuti dal mondo esterno termina, per Sam e Jake in particolare, separati dal loro compagno, si apre un mondo di dubbi e terrore circa la conduzione del campo da parte del Padre e dei suoi fedelissimi.
Cosa aspetta, dunque, i tre "intrusi"? E cosa si cela davvero dietro la facciata da Paradiso in Terra mostrata a prima vista del campo?








Il rapporto del sottoscritto con Ti West si potrebbe definire in molti modi, ma certo non con il termine semplice.
Quando, qualche anno fa, The house of the devil fece la sua comparsa regalando qualche brivido alla blogosfera, recuperai al volo il titolo speranzoso di potermi trovare di fronte ad un vero, nuovo talento del genere horror, che negli ultimi anni ha conosciuto più dolori che gioie, almeno da queste parti, finendo per essere soddisfatto solo in parte: neppure il tempo di capire che direzione avrebbe preso il suddetto rapporto, quand'ecco giungere l'onda lunga di Innkeepers, celebratissimo dalla critica online ed acclamato come qualcosa di innovativo ed unico nel suo genere.
Purtroppo, però, come spesso accade quando l'asticella delle aspettative finisce per alzarsi inevitabilmente, la delusione fu cocente, tanto da compromettere - e non poco - il giudizio sul lavoro di West, che ai tempi mi parve più un furbetto citazionista figlio della generazione di registi influenzati dall'ascesa di Tarantino negli anni novanta che non aveva poi così tanto da raccontare, e ben poco da sfruttare per inquietare e spaventare il suo pubblico.
E dunque, venne The sacrament.
Bistrattato da molti dei bloggers che avevano gridato al miracolo con il succitato Innkeepers, di fatto l'ultimo lavoro dietro la macchina da presa del buon Ti rappresentava una sorta di prova decisiva rispetto al diritto di permanenza dello stesso all'interno del Saloon: ed è curioso come, per quanto ai suoi fan hardcore sia parsa un'opera minore, l'abbia trovata di gran lunga la più riuscita del suo autore, regista - per l'appunto - e montatore.
The sacrament, infatti - ispirandosi agli eventi del massacro di Jonestown del 1978 operato ed orchestrato da Jim Jones, agghiacciante leader religioso, registrato come la più grande perdita di civili statunitensi fino all'undici settembre duemilauno -, porta sullo schermo tutta l'inquietudine ed il fascino perverso e misterioso del mondo delle sette e dell'influenza che queste ultime - specie se a sfondo religioso - finiscono per esercitare sui propri adepti, e seppur non inventando, di fatto, nulla di nuovo - da Manson e la sua Famiglia nella realtà al The village di Shyamalan i temi non suoneranno certo innovativi al pubblico -, regala uno dei prodotti migliori che il genere abbia concepito nel corso quantomeno della stagione in corso.
L'incredibile, agghiacciante, grottesca avventura dei tre protagonisti, partiti con l'idea di prestare soccorso alla sorella di uno di loro e, in caso, realizzare un servizio da poter rivendere ed utilizzare, diviene lo spunto per un mockumentary efficace, teso ed inquietante - soprattutto nella prima parte -, che fotografa alla grande quello che è il delirio nato da convinzioni religiose - imposte oppure no, poco importa - malsane e dettate da un leader pronto a sfruttare il suo carisma per fare presa, principalmente, su persone dalle spiccate debolezze - emarginati, poveri, tossici, figli delle ombre della società -.
Senza dubbio il risultato non è esente da difetti - non sempre la tecnica del found footage risulta chiara e comprensibile, e soprattutto nel crescendo di tensione finale West pare perdersi almeno in parte per dedicarsi a sequenze visivamente più impressionanti come il confronto tra Caroline e Patrick o tra il Padre e Jake e Sam - e potrebbe addirittura irritare chi, come del resto gli occupanti di casa Ford, a fronte di situazioni da lavaggio del cervello come quelle delle sette finisce per sgranare sempre gli occhi, chiedendosi come sia possibile per una ed ancor più per decine di persone riuscire a cadere nella rete di un unico individuo, per quanto almeno ai loro occhi dotato possa apparire, eppure l'utilizzo di elementi ormai classici come la piccola Savannah ed i dubbi crescenti dei main charachters rendono questo viaggio allucinante quanto basta per garantire una visione che il decisamente più noioso Innkeepers può solo sognarsi, o limitare ad un paio di momenti inspiegabilmente riusciti.
Un plauso dunque a West, che con un colpo di coda a metà tra il thriller ed il survival è riuscito in qualche modo a rientrare nelle grazie del sottoscritto, che ora si dichiara pronto ad attenderlo al varco per il prossimo lavoro: questo The sacrament, di fatto, è stato un sacrificio necessario.
E clamorosamente efficace.




MrFord




"You know our sacred dream won't fail
the sanctuary tender and so frail
the sacrament of love
the sacrament of warmth is true
the sacrament is you."
HIM - "The sacrament" - 




venerdì 4 ottobre 2013

You're next

Regia: Adam Wingard
Origine: USA
Anno: 2011
Durata:
94'




La trama (con parole mie): i Davison si ritrovano nella casa in campagna acquistata dai genitori - lui un ricchissimo ex consulente della Difesa, lei una "casalinga disperata" in piena crisi di mezza età - per festeggiare e riunirsi allo stesso tavolo con figli, figlie, compagni e compagne. Erin, fidanzata di Crispian, suo ex insegnante, scopre così con curiosità luci ed ombre della famiglia dell'uomo che ama, dal fratello maggiore Drake in crisi con la moglie al minore Felix, il più in ombra dei maschi della casa, passando per Aimee, sorella dalle tendenze pseudo artistiche.
Quando, nel pieno di una cena già abbastanza movimentata, la casa viene assaltata da tre individui mascherati che paiono intenzionati ad ucciderli, la stessa Erin - che ha un passato da survivor - decide di prendere in mano la situazione in modo da riuscire a portare a casa la pelle sua e della famiglia del fidanzato.
Ma le sorprese, per lei, saranno solo all'inizio.





I film horror, ed in special modo lo slasher, hanno da sempre un posto speciale nel cuore di questo vecchio cowboy, memore delle estati dell'infanzia passate nel culto di personaggi come Leatherface o Jason Voories, icone di un'epoca ormai tramontata - o quasi -.
In tempi recenti, in questo senso, è stato sempre più arduo (ri)trovare lo spirito della golden age dello squartamento nelle pellicole in uscita, spesso e volentieri ridotte a schifezze trascurabili destinate al cestino in tempi più che rapidi: soltanto il divertentissimo Hatchet 3, nel corso di quest'anno, aveva riportato le lancette dell'orologio del Saloon nel cuore degli eighties, dunque il compito che aspettava questo You're next non era propriamente una passeggiata.
Il risultato va dunque letto in quest'ottica di amarcord dei bei vecchi tempi, tralasciando ogni riferimento alla distribuzione italiana - che lo ha portato nelle nostre sale con ben due anni pieni di ritardo - ed alla qualità effettiva soprattutto della scrittura, scontata e prevedibile fin dal principio - nello specifico, ho avuto chiaro da subito non soltanto uno, ma due dei twist legati alla famiglia protagonista, andando praticamente ad anticipare il finale già dalla prima metà della visione -: evitando, dunque, di preoccuparsi di questi due fattori - prendendoli alla leggera, come andrebbe sempre fatto con prodotti "ludici" come You're next -, vi sarà possibile godere di un bel massacro fatto in casa nel pieno stile del genere, supportato da moltissimi luoghi comuni ma ugualmente ben presentato ed orchestrato, in grado di portare l'attenzione del pubblico su una cazzutissima protagonista femminile che da fidanzata pseudo intellettuale di uno dei membri dei Davison legata all'ambiente universitario passa alla modalità Rambo non appena i tre misteriosi individui mascherati si presentano armati di tutto punto alla porta della ovviamente isolata casa in campagna.
Certo, la logica non sempre funziona, eppure il tutto ha un sapore molto pane e salame che titoli affini e decisamente meno riusciti non avevano - su tutti, il bottigliatissimo The strangers -, il ritmo regge per l'ora e mezza scarsa della durata e gli scontri fisici sono all'altezza delle aspettative - ottimo il due contro uno in cucina che precede di poco il finale, di un pulp che piacerebbe senza dubbio al nostro buon Quentin -, senza contare che l'ironia nera che chiude la pellicola rende l'intero lavoro di Adam Wingard godibile e divertente, ottimo per passare una serata distensiva senza ovviamente impegnare troppo il cervello o scomodare paragoni con varianti d'autore sul tema come fu per Funny games.
E rimbalzando tra un colpo di balestra ed uno di machete, chiodi nei piedi e martellate in piena testa - senza contare trappole dal sapore di McGyver -, si trova anche il tempo di notare la presenza nel cast - pur se breve - di Ti West, regista ormai decisamente più noto di Wingard soprattutto grazie al sopravvalutatissimo Innkeepers, che mi capitò di sistemare da par mio qualche tempo fa.
Dunque in libera uscita i neuroni, maschere da Slipknot alla mano, birra, rutto libero, e patatine: il sangue scorrerà copioso, e parrà quasi di essere tornati all'epoca in cui l'horror funzionava anche nella sua versione più tamarra.


MrFord


"I've felt the air rise up in me
kneel down and clear the stone of leaves
I wander OUT where you can't see
inside my shell, I wait and bleed."
Slipknot - "Wait and bleed" - 


lunedì 20 febbraio 2012

The innkeepers

Regia: Ti West
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 100'



La trama (con parole mie): Claire e Luke lavorano allo Yankee Pedlar Inn, un vecchio albergo in procinto di chiudere, e con il proprietario a pesca alle Barbados, si ritrovano soli per l'ultimo weekend di attività della struttura.
I clienti sono contati, il tempo da passare molto: così i due decidono di seguire la passione di Luke per i rilevamenti legati alle presenze sovrannaturali, alimentando uno le ansie dell'altra senza perdere lo spirito cameratesco tra colleghi.
Quando, però, Claire scopre la presenza dello spettro di una sposa abbandonata di nome Madeline O'Malley alla ricerca di pace o vendetta, le cose si faranno decisamente più serie.





L'aspettativa è davvero una brutta bestia.
Una presenza subdola e spietata, proprio come un fantasma.
Pare quasi che non ci sia, e invece lei è in agguato, si insinua sotto la pelle e fa rizzare i peli sulla nuca, provoca brividi neanche fosse lei la protagonista di un horror pronto a prenderti per le palle e tenerti sul filo dall'inizio alla fine.
Cannibale, Babol, Lucia, Einzige sono solo alcuni dei blogger che hanno descritto con parole entusiastiche il lavoro del regista del discreto The house of the devil, arrivando a classificare questo film come uno degli horror più importanti degli ultimi dieci anni.
Così, più che incuriosito, ho atteso con ansia il momento in cui The innkeepers avrebbe sconvolto anche gli occupanti di casa Ford, andando a rinverdire una tradizione di genere che negli ultimi anni è apparsa davvero in difficoltà, alternando pochissime pellicole degne di nota ad un oceano di produzioni mediocri e pretenziose.
Ma non avevo fatto i conti con l'aspettativa.
Una presenza subdola e spietata, proprio come un fantasma.
Pare quasi che non ci sia, lascia che ci si perda dietro sequenze fantastiche come quelle del video online o del cassonetto - da manuale -, ma in realtà è sempre lì, pronta ad insinuare il dubbio, a battere un colpo o graffiare con le unghie la nostra lavagna mentale.
La stessa che ci ricorda tutti i vecchi passaggi da manuale, dalla tecnica di Shining alle suggestioni de Gli invasati, che guarda al grande Cinema dei Maestri più che all'adrenalina del survivalismo recente, facendoci credere che possa essere una vera bomba, e invece, sotto sotto, ci sussurra all'orecchio che tutto sa di già visto, di vecchio e stantìo come un albergo sul punto di chiudere.
Ti West sa indubbiamente il fatto suo, ha studiato bene ed applica le nozioni quasi alla perfezione, i carrelli sono da urlo, l'ironia che alleggerisce una trama altrimenti potenzialmente troppo statica calza come un guanto ad una sceneggiatura soltanto mascherata da tempo morto, il crescendo di tensione è notevole.
Eppure, quando ci si può anche convincere che possa filare tutto per il verso giusto, eccola che ritorna.
Come un fantasma. Come Madeline O'Malley.
L'aspettativa.
Terribile, spietata, crudele. Eppure irresistibile.
E nonostante Claire e l'asma in cui si rifugia come Eddy Spaghetti in It, Luke e quel fare gigione giusto per scongiurare il terrore, Lee e la sua convinzione che qualcosa incomba sullo Yankee Pedlar Inn, qualcosa continua a non tornare.
Qualcosa che è peggio del deja-vu che Lee descrive a Claire quando cerca di rompere la cortina invisibile che le separa a prescindere dalla sensibilità rispetto alla percezione delle presenze, e che trova rifugio nella voglia di riscatto della prima - che rifiuta di farsi catalogare "solo" come un'attrice - e nell'apatica rassegnazione della seconda - che, al contrario, rafforza il suo essere "solo" una dello staff dell'albergo -.
Qualcosa che è peggio dell'esercizio di stile, anche quando è ben mascherato da un'operazione dall'interessante gusto vintage.
Qualcosa che è peggio addirittura dell'aspettativa.
Del fantasma in persona.
Di Madeline O'Malley.
Qualcosa che, dopo un'attesa sorniona e sul filo, neanche fossimo vittime come Claire con le cuffie ed il viso incollato allo schermo di un portatile, ci sbotta in faccia facendoci trasalire.
Qualcosa che pesa come un macigno rispetto a tutto quello che speravo di trovare nel lavoro di Ti West.
E che spero di trovare in ogni horror.
Inquietudine, disagio, paura.
Ecco la chiave.
Il passe-partout dello Yankee Pedlar Inn.
The innkeepers non fa paura.
Neanche per scherzo.


MrFord


"I'm frightened by what I see
but somehow I know
that there's much more to come
immobilized by my fear
and soon to be
blinded by tears
I can stop the pain
if I will it all away."
Evanescence - "Whisper" -



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