
Ricordo bene quando, qualche anno fa, nel pieno di uno dei miei periodi più tumultuosi, lavorativamente parlando, davo fuoco ad ogni atomo della mia parte ribelle ascoltando alcuni brani tratti da Storia di un impiegato di De Andrè, ed in particolare Nella mia ora di libertà, che in un passaggio recita così: "Certo bisogna farne di strada
da una ginnastica d'obbedienza,
fino ad un gesto molto più umano
che ti dia il senso della violenza,
però bisogna farne altrettanta
per diventare così coglioni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni".
Fin dalla prima stagione, ho amato con diverse riserve Orange is the new black, partendo scettico ad ogni annata per poi ritrovarmi travolto da un crescendo, partendo dallo scontro tra Chapman e Pensatucky che chiuse il primo ciclo di episodi fino al fantastico Don't fear the reaper che accompagno la fine di Vee, passando attraverso il tentativo di cambiamento della stessa Piper al termine della season three: quello che non mi aspettavo, però, era l'effetto devastante che avrebbe avuto l'escalation di questa numero quattro.
Partita in sordina, quasi in fase di stanca, inserendo nuovi personaggi nella geografia di Lichfield, Orange is the new black a questo giro è letteralmente decollata costruendo alla perfezione il progressivo montare della tensione tra detenute e nuove guardie, tra piccoli soprusi e vendette a due episodi - quelli conclusivi - da antologia, tra i più belli non solo di questa serie ma quantomeno dell'anno appena trascorso, culminati con l'addio e la morte di uno dei personaggi storici e forse più amati ed un paio di passaggi in cui l'animo ribelle del sottoscritto non ha potuto che avvampare di fronte alla lotta delle ragazze di Lichfield, dal tutte in piedi sui tavoli neanche fossimo ne L'attimo fuggente a quella pistola lasciata in sospeso, e quanto, quanto sarebbe difficile non premere il grilletto.
Johnny Cash, altro mio mito musicale, in San Quentin ricorda quanto la prigione possa rendere freddo il cuore di un uomo, e rivolge allo stesso istituto una domanda semplice quanto terribile: "Cosa pensi di aver fatto di buono?".
Questo è quello che ci si chiede al termine della stagione migliore di Orange is the new black: in un'epoca in cui viene mercificato tutto, perfino la sanità, quanto potranno mai contare le vite di chi finisce dietro le sbarre?
Nessuno giustifica il crimine o il fatto di scontare una pena, ma come Edward Bunker ben racconta - anche e soprattutto per esperienza - nei suoi romanzi, la vita dietro le sbarre finisce per alimentare il lato peggiore di chi è costretto a viverla, decisamente più che quello pronto a condurre ad una "riabilitazione": mascherando tutto questo dietro un'atmosfera spesso e volentieri quasi giocosa, Orange is the new black si consacra non solo come una grande serie, ma anche come riferimento per il genere carcerario degli Anni Zero, tenendo ora con il fiato sospeso ed il cuore in gola tutti quelli che, come me, di fronte ad un certo tipo di battaglie, finiscono sempre per trovarsi dal lato degli outsiders, dei perdenti, dei cattivi - veri o finti che siano -.
E mentre vedevo le detenute sfidare il potere delle guardie con un atto dimostrativo sentivo il brivido che mi avevano dato Spartacus ed i suoi ai tempi della visione della serie dedicata al trace ribelle che alzò la testa e la spada contro Roma, e quando la tragedia ed il dolore hanno preso il posto di qualsiasi lontana ed umana speranza, mi sono detto, "cazzo, premi quel grilletto, pareggia il conto".
Poi, come una visione, un sorriso sullo sfondo dello skyline di New York, apice di una nottata semplice, strana e magica, come quelle che si ricordano tutta la vita.
Ed è stato allora che mi sono fermato.
Ed ho pensato: si sono presi tutto, si possono prendere tutto.
Non la libertà di pensare. Di decidere. Di vivere.
La libertà di non premere il grilletto.
E sperare, una volta fuori, di poter trascorrere una notte come quella.
MrFord