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lunedì 20 gennaio 2020

White Russian's Bulletin



Alle spalle le Feste, al Saloon si è ripresa con la consueta, e purtroppo ormai piuttosto scarna, programmazione limitata dagli impegni in famiglia, di lavoro, al lungo weekend di festeggiamenti per il compleanno del Fordino e alla stanchezza che, dopo cena, coglie inesorabilmente e spesso e volentieri il sottoscritto.
Ad ogni modo, per limitare i danni, a questo giro di giostra ne ho per tutti i gusti: un romanzo, una serie e un film. Quantomeno, posso dire di aver spaziato.


MrFord



I AM A KILLER (Netflix, UK, 2018)

I Am a Killer Poster

Proseguendo sull'onda che ha visto gli occupanti di casa Ford percorrere le strade del documentario offerte da Netflix in ambito serial killers e affini, si è inserita quasi a chiudere la parentesi I am a killer, una miniserie in dieci episodi che propone interviste ad occupanti del braccio della morte in alcune delle strutture detentive degli States.
Dieci storie diverse per dieci assassini diversi che, purtroppo, paiono avere un solo denominatore comune, l'infanzia difficile e legata a doppio filo ad ambienti a rischio, che fosse per contesto sociale, inclinazioni dei genitori, difficoltà economiche o dipendenze.
In questo caso non assistiamo a ritratti di serial killers, bensì a quelli - molto più disperati - di una miseria umana che finisce per non trovare altro sfogo se non quello della violenza: senza dubbio, nel corso degli episodi, si trovano spunti e trame che verrebbero buone per produzioni cinematografiche, ma non si ha troppo tempo per pensare. Resta ad aleggiare un alone di tristezza per tutte le vite spezzate, da una parte all'altra delle sbarre di un carcere.
In termini tecnici, interessanti i racconti, decisamente meno le ricostruzioni.




CASINO TOTALE (Jean Claude Izzo, Francia, 1995)

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Come già preannunciato nel corso dei Ford Awards dedicati alle letture del duemiladiciannove, Casino totale è stato una vera e propria sorpresa: regalatomi qualche anno fa da una vecchia amica, è un noir dai toni tristi e malinconici che racconta più sconfitte che vittorie, eppure è anche uno dei romanzi più traboccanti di passione per la vita che ricordi, un ritratto stupendo di Marsiglia ed una riflessione splendida e pulsante dell'amicizia e dell'amore.
Il legame tra i tre protagonisti, cresciuti insieme e poi separatisi, si può dire, proprio a causa del loro eccesso di voglia di vivere, e quello di Fabio, pronto a scoprire la verità e cercare di rimettere a posto i cocci delle loro vite, con le donne che ha amato e che forse potrà amare, è descritto come solo qualcuno che ha vissuto davvero nel senso più profondo del termine potrebbe fare. 
Dovessi pensare di paragonare Casino totale a qualcosa, direi che è sesso selvaggio fatto in estate, quando il sudore di due corpi si mescola fino a farli diventare uno, una sbronza presa con il vento in faccia e il rumore del mare in sottofondo, un disco dei Manonegra che rapisce come una danza tribale, e fa salire tutto quello che di selvaggio portiamo dentro.
Roba forte, insomma. Come piace viverla anche a me.




RICHARD JEWELL (Clint Eastwood, USA, 2019, 131')

Richard Jewell Poster


Clint, si sa, da queste parti gioca sempre in casa.
Eppure, in passato, quando c'è stato bisogno di essere più equilibrato nei giudizi - come nel recente The Mule - non mi sono tirato indietro.
Con Richard Jewell, Eastwood prosegue nella decostruzione made in USA iniziata qualche anno fa con American Sniper e proseguita con Sully e Attacco al treno, mostrando di fatto il fianco di quel Grande Paese che in tanti ancora sono convinti che difenda a spada tratta neanche fosse il primo dei trumpisti.
Ed è curioso, perchè la sequenza più decantata della pellicola, l'arringa in difesa del figlio dell'ottima Kathy Bates, mi ha lasciato quasi indifferente. Anzi, ha finito per indispettirmi. Perchè questo Clint, questo film, non ne aveva bisogno.
Perchè Richard Jewell è un gioiellino se si pensa ai legal thriller, è un film profondamente sentito, è una protesta accesa di un repubblicano convinto all'indirizzo di un Governo sì democratico, ma sempre e comunque di un Paese che adora visceralmente.
Io non sono americano, e a prescindere dall'ingiustizia - pur se a posteriori - percepita, sono stato investito dalla pellicola principalmente per aver rivisto molti tratti del Fordino in Richard Jewell: ho visto un essere umano sensibile, profondo, forse ingenuo nell'essere troppo scoperto rispetto ad un mondo che, per chi è troppo scoperto, non ha alcuna pietà.
Spesso si parla, giustamente, di vittime collaterali. Si potrebbe pensare che Richard Jewell sia un film che tratta della principale vittima collaterale di un attentato che avrebbe potuto contare molti più morti. E non li ha contati principalmente per quella vittima.
In barba al fatto che le vittime, storicamente, sono la parte più debole.


sabato 18 febbraio 2017

American Horror Story - Roanoke (FX, USA, 2016)




Il mio personale rapporto con il brand di American Horror Story, creatura camaleontica di Murphy e Falchuk, è stato quantomeno travagliato: la tanto incensata prima stagione, infatti, ai tempi da queste parti non andò oltre le bottigliate; con la seconda, ambientata quasi interamente in un manicomio ed a cavallo tra diversi decenni, rimasi molto, molto sorpreso in positivo; dalla terza in poi fu un lento declino, che mi portò a lasciare il titolo alle visioni da sessioni di ferro da stiro di Julez senza che mi mancasse neppure lontanamente.
Con il duemilasedici e l'ottima prova dell'antologico American Crime Story - sempre creato dal duo - a risvegliare il mio interesse per AHS sono giunte molte recensioni positive di questa sesta annata, Roanoke, che a quanto pare rinverdiva i fasti delle prime due - ed ho sperato fortemente nella seconda, ovviamente -: in questo periodo da casalingo, dunque, accanto ai recuperi delle molte serie televisive passate su questi schermi nell'ultimo periodo, è giunto anche questo.
Il risultato è stato decisamente positivo per quella che, proprio con la già citata Asylum, è senza ombra di dubbio la miglior stagione della serie, costruita sfruttando più livelli di narrazione, metacinema, stili e mezzi di ripresa, e generi: partita come un incrocio tra il thriller e la ghost story e divenuta un vero e proprio incubo mortale per i protagonisti simile ad un survival, a metà del cammino chiude un arco narrativo per aprirne un altro trasformando il tutto in un grottesco ritratto dei reality e della società "social" attuale fino a diventare una delirante mattanza conclusa con un finale quasi lirico, e con il sacrificio dell'unico charachter superstite alle due "spedizioni" a Roanoake.
Quello che, come sempre, è interessante notare quando gli horror hanno spunti interessanti, è quanto, in realtà, a prescindere dagli incubi, dalle Macellaie e dalle streghe dei boschi, l'Uomo finisca sempre per risultare la minaccia più grande e pericolosa, che si tratti di squilibri mentali - i rednecks vicini di Matt e Shelby, Agnes -, vuoti interiori - Lee - oppure avidità di potere e successo - Ryan -: se, infatti, le creature venute dall'altro mondo, sanguinarie per imposizione, condizione e status, si muovono come se seguissero una macabra routine, gli esseri umani spinti dalle loro emozioni, dall'istinto e dal terrore o dalla furia del momento finiscono per risultare ben più pericolosi ed inquietanti pur non mostrando un aspetto particolarmente agghiacciante - sinceramente, i Chang o Testa di maiale non fanno venire i brividi quanto alcuni dei passaggi che coinvolgono e vedono protagoniste quelle che dovrebbero essere solamente le vittime sacrificali -.
Il viaggio a Roanoke, in bilico tra antiche maledizioni, violenza, sospetto, gelosie, rancori e follia, è stato senza dubbio, pur non risultando certo spaventoso quanto il Twin Peaks dei tempi d'oro, una delle sorprese più interessanti dell'ultimo periodo, segno che, inventiva ed originalità a parte, quando Murphy e Falchuk si concentrano sull'animo umano più che sulla volontà di stupire a tutti i costi, riescono ad essere convincenti e decisamente inquietanti, così come macabri e divertenti ad un tempo - il personaggio di Cricket è una chicca, in questo senso -: non voglio cantare vittoria troppo presto, ma direi che, se le premesse e le idee sono queste, il viaggio di American Horror Story può tranquillamente continuare tornando a trovare uno spazio importante anche qui al Saloon.



MrFord



 

lunedì 1 agosto 2016

Saloon's Bullettin #3



Preparando con molto anticipo questi primi "episodi" della nuova rubrica del Saloon e finendo per calzare la stessa come la tuta più comoda che possiate immaginare da indossare nei giorni in cui non vi frega nulla del mondo, è curioso affrontare la carrellata dei film della settimana appena trascorsa avendo appena riletto, per questioni di programmazione, uno dei post migliori che abbia scritto prima della decisione di dare una nuova direzione al blog.
Ma il bello del viaggio e dei cambiamenti è dato anche da una certa malinconia, giustamente compensata dall'elettricità delle novità e del futuro, metafora che potrebbe rendere bene l'effetto macchina del tempo delle visioni che troverete di seguito: parlando di Cinema, parto dal ritratto tutto legato all'epoca d'oro dei grandi studios di Marilyn, operazione certo più che patinata ma resa preziosa da un cast stellare - e strepitoso -, da Kenneth Branagh pronto a mettersi nei panni di Lawrence Olivier alla protagonista Michelle Williams, passando per Eddie Redmayne, Judi Dench, Emma Watson ed una marea di altri volti più o meno noti della settima arte anglosassone.
Lo spirito è simile a quello dell'Hitchcock di Sacha Gervasi, solo più concentrato sulle ombre della solitudine da diva di Marilyn che non sull'ironia del biopic dedicato al Maestro del brivido: un film in grado di accontentare il grande pubblico - storia d'amore, volti riconoscibili, messa in scena ineccepibile - così come gli appassionati soprattutto dell'epoca classica della settima arte, rappresentata dal modo di porsi naif e magnetico di una delle dive più amate e sfortunate di sempre (due bicchieri e mezzo).
La macchina del tempo, però, pur se in modo diverso, non smette di funzionare qui: direttamente dal passato del sottoscritto, la prima adolescenza degli anni novanta passati a consumare vhs con mio fratello, una sera abbiamo finito per incrociare in tv Misery non deve morire - tagliato e censurato in modo così terrificante da far apparire la prima versione apparsa ai tempi sulle reti Mediaset una cosa da Tarantino più Roth al quadrato -, uno dei migliori film tratti da Stephen King nonchè uno dei thriller che ancora oggi amo di più, sarà per l'angosciosa performance di Kathy Bates o perchè da ragazzino mi immaginavo scrittore rapito da una fan squilibrata pronto a lottare fino alla fine come Paul Sheldon.
Rivedere la pellicola di Rob Reiner, uno dei mestieranti più sottovalutati di Hollywood, oggi, a distanza di decenni e non so neppure io quante visioni, non ha tolto fascino ad un prodotto claustrofobico e costruito alla grande, dal ritmo serrato e dai meccanismi semplici ma potenti come solo i prodotti semplici ma potenti sanno essere (tre bicchieri).
Ma il Tempo non si ferma, e dunque a sole ventiquattro ore di distanza, eccomi a recuperare il recente 10 Cloverfield Lane, prodotto dai vecchi pazzoidi di Bad Robot - che avranno sempre la gratitudine del sottoscritto per Lost -, nato da una costola del primo - e da queste parti molto amato - Cloverfield seppur lontanissimo dal monster/disaster movie fracassone classico: sfruttando un ottimo John Goodman - che andrebbe goduto in versione originale - ed una serie di twist pronti a cambiare prospettiva davvero niente male, Dan Trachtenberg costruisce una vicenda in grado di mettere a nudo i pericoli dell'essere umano e la capacità di adattarsi anche a fronte dell'incredibile.
E' difficile scriverne senza correre il rischio di rivelare qualcosa che potrebbe nuocere ad una visione "vergine" della pellicola, dunque l'unico consiglio che mi sento di darvi è di viverla come se, nella situazione in cui si trovano i protagonisti, ci foste voi: prendereste per buono quello che vi è stato detto o lottereste per scoprire la verità, per quanto pericolosa, assurda e sconvolgente possa essere (due bicchieri e mezzo)?
Dato, però, che sono in vena di salti temporali, passando al piccolo schermo il balzo corrisponde a qualche secolo ed alla seconda stagione di Vikings: le vicende di Ragnar e della sua famiglia sempre più allargata portano il Jax medievale a fronteggiare minacce interne ed esterne, a partire dal fratello e rivale Rollo fino ai re anglosassoni, passando per il suo stesso sovrano, Oric.
Splendido il lavoro sui charachters di Floki - uno dei più sfaccettati e complessi della serie - ed Athelstan, sesso e violenza come se piovessero, un personaggio femminile che si candida come il più cazzuto dell'anno - e forse degli anni a venire -, Lagertha, ed una prospettiva futura che apre scenari sempre più interessanti per un titolo che pareva partito in sordina - come una sorta di costola di poco conto di Spartacus - ed ora è divenuto uno dei riferimenti per i duri da serie tv (tre bicchieri).
Chiudo in bellezza, sempre a balzi tra le epoche e riferendomi al piccolo schermo, con Vinyl, serie già di culto prodotta da Martin Scorsese e Mick Jagger ambientata nella New York degli anni settanta e dei discografici rappresentati dallo scombinato Ritchie Finestra: nonostante la perfezione tecnica e di cornice, la colonna sonora ed un'ambientazione perfetta per il sottoscritto - per quanto suonare mi rilassi tantissimo, se dovessi lavorare nella Musica adorerei fare il discografico o il manager - ho patito clamorosamente questa serie per una buona metà della stagione, finendo quasi per dare ragione a Julez, che rispetto a prodotti di questo tipo si ritrova come un pesce fuor d'acqua.
L'idea maturata, infatti, fino all'episodio dedicato ad Elvis, era che Vinyl fosse una gran bella confezione priva di contenuto, una sorta di tutto fumo niente arrosto impacchettato con il miglior cazzo di fumo esistente sulla piazza: peccato che, nell'escalation delle ultime puntate, la produzione ingrani una marcia pazzesca, non solo alimentando l'hype per la seconda stagione - che, purtroppo, pare essere stata cancellata a causa dei costi - ma dando un senso a tutta la prima.
E tutto il circo del rock and roll, quel pezzo di stronzo di Finestra, i Nasty Bits ed ogni nota suonata, sudata, scopata o sniffata diventa quello che ogni generazione, ognuno di noi, nel periodo della formazione che è quel buco nero dell'adolescenza, e da lì in avanti, sente dentro quando scopre quali sono gli artisti che cantano quello che vorrebbe cantare nel modo in cui lo canterebbe se fosse lui, davanti a quel dannato microfono.
Pronto a far venire giù l'arena (tre bicchieri).





MrFord


sabato 26 aprile 2014

American Horror Story - Coven

Produzione: FX
Origine: USA
Anno: 2013/2014
Episodi: 13




La trama (con parole mie): Zoe, un'adolescente che scopre di avere poteri magici, viene condotta ad una speciale accademia di New Orleans che da secoli protegge e prepara le streghe al mondo e ad affrontare i loro poteri. Accanto ad una manciata di altre ragazze come lei, Zoe si troverà a dover affrontare cacciatori votati alla loro eliminazione, la minaccia della regina del voodoo locale, il ritorno alla vita di una spietata nobildonna di origini francesi che nel corso dell'ottocento commise nella sua casa atroci delitti e gli intrighi della Suprema - la strega che, di fatto, ha il comando della categoria ed i poteri più sviluppati in assoluto - Fiona, che non vorrebbe fosse giunto il momento della sua successione e della conseguente morte, e trama per eliminare tutte le possibili candidate al suo ruolo. Lei compresa.








Evidentemente American horror story funziona a stagioni alterne, qui al Saloon.
Dopo una prima annata, infatti, fin troppo incensata e decisamente sopravvalutata - che da queste parti venne bottigliata, e non poco - ed una seconda assolutamente di alto livello, al terzo giro di giostra la creatura di Falchuck e Murphy subisce la sua più clamorosa caduta in termini di qualità ed interesse suscitato, finendo addirittura per scalzare sul gradino più alto del podio al rovescio del sottoscritto, tra episodi inutili ed un cattivo gusto da fare invidia alle ultime stagioni di True blood, perfino la tanto detestata season d'esordio.
L'idea di ambientare i tredici episodi a New Orleans - una delle città più misteriose ed oscure degli States - e di incentrarli sulle streghe ed il conflitto non solo razziale, ma anche di genere da sempre in gioco tra uomini e donne risultava, sulla carta, assolutamente interessante ed azzeccata, degna di un riscatto delle congreghe dopo i fallimenti clamorosi del passato recente, dalle fin troppo numerose incarnazioni di Hansel e Gretel all'obbrobrio di Rob Zombie: purtroppo, però, il risultato è stato decisamente inferiore alle aspettative - così come alle pretese -, finendo per portare sullo schermo una sorta di dark comedy - involontaria - teen fuori tempo massimo che è riuscita a riportare alla mente del sottoscritto più l'insipido Dark shadows che non una nuova proposta horror degna di questo nome.
Senza dubbio parte delle responsabilità ricade sul cast, più adatto ad una soap per liceali che non ad un pubblico adulto, ed in grado di affossare perfino la sempre bravissima Jessica Lange - che pare cominciare a gigioneggiare un pò troppo -, Denis O'Hare - ridicolo il suo personaggio -, Angela Bassett - partita come una sorta di iradiddio e finita in men che non si dica - e Kathy Bates - clamorosamente sprecata, rispetto alle potenzialità che avrebbe potuto esprimere -, e sugli script, che seppur supportati da una regia sempre elegante non risultano decisamente all'altezza di un titolo con velleità di sconvolgimento del mondo del piccolo schermo.
Senza contare, dunque, l'assenza pressochè totale di inquietudine o di un senso di thrilling legato al genere, ed i charachters partiti in quarta e dunque clamorosamente appiattiti - Axeman, gli schiavi torturati, i vicini della congrega -, i limiti peggiori di questa stagione vengono evidenziati da episodi che definire riempitivi sarebbe quasi un complimento ed una direzione mai certa data dagli autori, che fin dall'opening sono apparsi incerti sulla piega da far prendere all'annata: un'indecisione pagata molto cara, considerata l'attenzione calata vertiginosamente in casa Ford con il susseguirsi degli episodi, nella speranza che tutto potesse concludersi in fretta ed il meno dolorosamente possibile.
Resta a confortarmi la speranza che, come fu al termine della prima stagione, l'idea di abbandonare definitivamente AHS possa portare bene per l'anno successivo, andando a rinverdire, di fatto, i fasti di Asylum cancellando quella che è parsa come una versione allucinata di un episodio troppo lungo di Desperate Housewives, lontano anni luce da quello che, almeno sulla carta, la creatura di Falchuck e Murphy vorrebbe tanto rappresentare.




MrFord




"If witchcraft all the fools condemn,
it turns around and crushes them.
When good has been twisted,
when good has been killed,
then love is resisted and blood will be spilled."
Black Sabbath - "Coven" - 




lunedì 5 dicembre 2011

Midnight in Paris

Regia: Woody Allen
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 94'


La trama (con parole mie): Gil è uno sceneggiatore di successo che vorrebbe intraprendere la carriera di scrittore, affascinato  da Parigi e dall'idea che l'età dell'oro si celi dietro il grande fermento degli anni venti della Ville Lumiere: in viaggio con la promessa sposa Inez ed in aperto conflitto con i ricchi e repubblicani genitori della futura consorte, l'uomo si ritrova, passeggiando per le strade della capitale francese, inghiottito da una sorta di macchina del tempo in grado di riportarlo ai tempi in cui i suoi miti letterari sognavano a loro volta il futuro rimpiangendo il passato.
L'aspirante romanziere avrà modo di scoprire se stesso, di innamorarsi e capire che, per poter vivere appieno, occorre lasciarsi il passato alle spalle.




Finalmente è successo.
In un annata come questa, che ha segnato sul calendario di casa Ford le delusioni di mostri sacri quali Malick, Polanski e Cronenberg, Woody Allen torna a splendere con un film degno della migliore tradizione, certamente non all'altezza delle sue pietre miliari eppure clamorosamente coinvolgente, leggero e profondo, mosso completamente dal cuore e dalla passione per una città splendida - Parigi, nonostante i suoi insopportabili abitanti -, per le donne e l'arte come espressione della passione stessa dell'Uomo.
Il viaggio di Gil - un incompreso ed affascinante perdente nel pieno stile dell'Allen attore di Provaci ancora Sam - alla scoperta dei suoi miti artistici, da Hemingway a Fitzgerald, da Picasso a Dalì - bravissimo Adrien Brody, in una prova di pochi minuti, eppure maiuscola -, da Bunuel a Gaugin, e della Parigi by night, lontano dalle pretese da borghesi arricchiti di Inez e famiglia e dell'assolutamente irritante Paul - perfettamente in parte Michael Sheen, in un ruolo che ha stimolato le mie più devastanti bottigliate -, alla ricerca di qualcosa che pare ben più importante dell'ispirazione per un libro, assume il valore di una riflessione sulla vita e sul tempo che corre e ci sfugge del regista, che con la saggezza dei grandi vecchi ricorda all'audience quanto sia curioso il fatto che l'età dell'oro ci paia sempre figlia di un momento distante da quello in cui ci troviamo, quasi non riuscissimo a vivere a fondo il presente e quello di cui abbiamo senza dubbio le capacità - ma spesso non il coraggio - di fare per goderne davvero.
Un riscatto, quello del buon Gil - discreto Owen Wilson, che forse gioca un pò troppo a fare il Woody - che è una scoperta, un'incarnazione della voglia di mettersi in gioco e del pizzico di follia necessario per crederci e finire per farlo, pur quando spinti da decisi e tosti elementi esterni - il suddetto Hemingway ed una meravigliosa Edith Stein - e pur essendo sempre consci dei propri limiti - l'esilarante sequenza degli orecchini e del rientro di Inez e famiglia in albergo -.
In questi giorni ho letto spesso e volentieri in giro di paragoni tra quest'ultima - o quasi, dato che l'episodio romano pare già in post produzione - opera di Allen ed il meraviglioso La rosa purpurea del Cairo, uno dei miei titoli preferiti della sua filmografia: le due pellicole sono distanti per trama, potenza, rivoluzionarietà, tempo, eppure clamorosamente simili nelle intenzioni e nella genuinità. 
Da troppo mancava sugli schermi - e all'opera del buon vecchio Allen - un personaggio azzeccato come Gil, comprimario per natura eppure a suo modo dirompente protagonista, esploratore del tempo, dello spazio e dell'arte - da urlo il suggerimento a Bunuel con l'imbeccata per il "futuro" Capolavoro Il fascino discreto della borghesia - guidato da un amore smisurato per la bellezza, neanche si trattasse di un romantico fatto e finito - non per niente Inez osteggia le velleità artistiche del suo futuro sposo dichiarando quanto sia stato clamoroso il fallimento del romanticismo stesso - alla ricerca dell'illuminazione in grado di cambiarne l'esistenza: e che sia un romanzo, una città dove decidere di fermarsi, la donna che pareva della vita e quella che non lo era o l'ultimo, e forse decisivo, degli incontri casuali pronto a sconvolgerci l'esistenza con una passeggiata sotto la pioggia, poco importa.
Perchè sono il cuore ed il coraggio di seguirlo che fanno la differenza.
In fondo, anche Hemingway lo ricorda a Gil: se sei davvero innamorato, nel momento in cui stai facendo l'amore ti parrà di non avere neppure paura della morte.
Con Midnight in Paris, sia un momento o una seconda giovinezza, ho come l'impressione che la stessa cosa sia accaduta al suo regista ormai non proprio più di primo pelo.
E se così fosse, buon per lui.
E anche per noi.
Bentornato al Cinema, Woody.


MrFord


"On the Champs-Elysees
whether the sun is shining, it's raining, 
it's midday or midnight
everything can happen to you 
on the Champs-Elysees."
NOFX - "Champs Elysees" (English version) -

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