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lunedì 13 novembre 2017

Thor: Ragnarok (Taika Waititi, USA, 2017, 130')






Dai tempi delle scuole medie sono sempre stato un discreto appassionato di epica, da Omero alle leggende legate a tutte le grandi religioni pagane e politeiste dell'antichità, pantheon asgardiano compreso.
Il mito del Ragnarok - praticamente una versione dell'Apocalisse dei nostri cugini del Nord -, pronto ad incombere, inevitabile come la morte, perfino sugli Dei abitanti di Asgard, mi aveva sempre affascinato, prima da studente e dunque da lettore di fumetti, per quanto, lo ammetto, Thor non sia mai stato - come Superman e tutti gli eroi troppo potenti e troppo divini, per l'appunto - tra i miei preferiti: curioso dunque che, dopo un primo film discreto ed un secondo che mi aveva intrattenuto alla grande, con questo terzo capitolo delle avventure del figlio di Odino le aspettative della vigilia fossero quelle di un Ragnarok formato bottigliate, considerate le peste e corna lette in rete a proposito del lavoro di Taika Waititi - che, al contrario, è un regista interessante del quale andrebbero recuperati Hunt for the wilderpeople e What we do in the shadows -, probabilmente alimentate dai radical senza via di redenzione.
Fortunatamente, questo Ragnarok è stato decisamente meno tempestoso e molto più divertente di quanto potessi sognare, ed il regista neozelandese è riuscito nella non facile impresa di confezionare uno dei film Marvel figli del Cinematic Universe più divertenti e spassosi, in grado di pescare a piene mani dalla tradizione delle pellicole d'avventura anni ottanta, dalla sci-fi, dal fantasy - mi è quasi parso di schiaffarmi un cocktail di Star Wars, Il signore degli anelli e Howard e il destino del mondo in versione buddy movie Nuovo Millennio, per intenderci - e regalare al pubblico un'opera piacevolmente ignorante, che con ogni probabilità se fosse uscita nell'ottantacinque ora sarebbe considerata un piccolo cult, pronta a superare per gradevolezza molti dei Marvel movies recenti per piazzarsi subito dietro il secondo Guardiani della Galassia nella scala di gradimento del sottoscritto, confermando la grande chimica tra i charachters di Thor e Hulk - sfruttato a mio parere perfettamente nella sua chiave più comica -, portando avanti una trama tipica di questo genere con l'eroe sottoposto a prove e difficoltà fino alla "rinascita" finale e regalando anche uno spessore nuovo a Loki, nemesi e fratellastro di Thor, che si conferma come uno dei personaggi più profondi ed affascinanti di questo mosaico al quale si continuano ad aggiungere sempre nuovi pezzi.
Un plauso, dunque, a Taika Waititi, pronto a non farsi schiacciare dalla grande produzione, al piglio scanzonato dell'intera operazione - stupende le comparsate di Matt Damon e dell'ormai forse immortale Stan Lee, creatore di Thor e di quasi tutti i personaggi che hanno fatto la fortuna della Marvel e dei sogni di milioni di lettori di fumetti in tutto il mondo -, alle botte da orbi che partono da un pianeta chissà dove al limitare dell'Universo e finiscono ad Asgard, agli elementi che rimandano ai prossimi step dell'operazione che porterà ad Avengers - Infinity War la prossima primavera ed alla coesione di un cast che probabilmente ha finito per sentirsi così a proprio agio ed in gran scioltezza da regalare una perla dietro l'altra, che si tratti di ruoli principali o secondari.
Forse manca l'approfondimento - in particolare di Hela e del passato di Odino, nonchè del rapporto tra quest'ultimo ed i suoi figli -, ma sinceramente quando un giocattolone è così ben costruito, e soprattutto godibile nel suo sfruttamento, poco importano le introspezioni ed i tecnicismi, le posizioni radical e tutto quello che ne consegue: sinceramente, perdendomi tra le risate, in più di un momento ho desiderato, benchè certe battute mi sarebbero inesorabilmente sfuggite, di avere ancora dieci o dodici anni e ritrovarmi di fronte a questo spettacolo, sognando di spaccare accanto a Hulk o di avere un compagno di lotta potente e dalla battuta pronta come Thor - quel "figlio di" rifilato a Surtur in avvio di pellicola mi ha fatto tornare dritto dritto dalle parti di Deadpool, per intenderci - con il quale sbaragliare l'avanzata del supercattivo - o cattiva, come in questo caso - di turno, correndo incontro alla battaglia come se Grosso guaio a Chinatown ed Il ritorno del re avessero deciso di farsi un giro di giostra nel colorato mondo dei Fumetti.
Urlando, ovviamente, a squarciagola.




MrFord




sabato 1 aprile 2017

Kong - Skull Island (Jordan Vogt-Roberts, USA, 2017, 118')





Quando, qualche mese fa, in prima fila nella Sala Energia dell'Arcadia di Melzo con Dembo, mi imbattei nel trailer di Kong - Skull Island, pensai che se tutto fosse andato bene, il gorillone avrebbe fatto impazzire il Fordino - la sua passione sfrenata per gli animali tocca i vertici con gorilla, ippopotamo, elefante e coccodrillo - ed io mi sarei ritrovato di fronte ad un guilty pleasure tra i più goduriosi dell'anno.
Probabilmente, effetti a parte, nessuno sentiva davvero il bisogno di una nuova incarnazione del primate gigante per il grande schermo, specie dopo il moscio Godzilla e la qualità espressa da quello che è l'unico film ad aver a mio parere quasi eguagliato l'originale dei tempi che furono, ovvero quello prodotto da Peter Jackson ormai una dozzina d'anni fa: ed in effetti anche a visione ultimata, resta poco o nulla di un titolo sinceramente non così brutto - l'ambientazione anni settanta funziona, Brie Larson e Tom Hiddleston catturano l'attenzione del pubblico maschile e femminile, le citazioni non danno troppo fastidio - quanto purtroppo inutile perchè per molti versi uguale a tantissimi altri, dal membro della spedizione incattivito e sempre pronto a scatenare una battaglia con o senza cognizione di causa all'evoluzione prevedibile e sacrificata ad un eventuale sequel - anche se, considerati gli incassi non clamorosi, non metterei la mano sul fuoco -.
Il lavoro di Vogt-Roberts, dunque, trova la sua collocazione ideale all'interno dell'immenso bacino dei popcorn movies che si guardano e si dimenticano un paio d'ore dopo, tanto da rendere difficile la vita di noi bloggers nel momento in cui si decide, per mancanza di tempo o di voglia, di scrivere il post dedicato soltanto qualche giorno dopo la visione, e ci si rende conto di non avere più così tanto da dire rispetto ad un prodotto tagliato con l'accetta che si appoggia, come l'isola che è una quasi protagonista, sulle spalle di Kong, che tra effetti, elicotteri abbattuti e lotta contro i mostri del sottosuolo - anche se quella con il T-Rex mostrata nel già citato King Kong di Jackson era decisamente superiore - rappresenta l'unica attrattiva di una storia vecchia e poco stimolante, seppur realizzata più che discretamente in termini tecnici.
Altro punto interessante della pellicola è la definitiva conferma di Tom Hiddleston - che fino a poco tempo fa consideravo poco più di uno sfigato - come ottima alternativa per l'action di lusso, e che considerate le origini e la prova fornita qui così come in The night manager finisce per diventare uno dei candidati più interessanti per ricoprire in futuro il ruolo di James Bond nella serie di 007.
In ombra, invece, sia John Goodman che Samuel Jackson, che quando non lavora con Tarantino mostra tutti i suoi enormi limiti, mentre apprezzatissime restano le cornici effettivamente molto seventies e la canotta di Brie Larson, che non sarà una delle mie preferite ma che in questo caso ricopre assai bene il ruolo della bella in pericolo ma non troppo.
Se, dunque, avete bisogno di una serata senza pensieri o aspettative, Kong saprà fare il suo a patto che amiate i film d'avventura vecchio stampo ed un approccio che è a metà tra Indiana Jones e Lost, senza deludere troppo e senza avere la pretesa di essere ricordato il giorno dopo, un pò come un one night stand goduto in tutta tranquillità, neanche foste una rockstar o una stella del Cinema abituate a cambiare spesso e volentieri.
L'importante, a conti fatti, sarà non pestare troppo i piedi al gorillone, perchè si sa che, per dirla come il Fordino, "quando il gorilla si arrabbia, si batte il petto e spacca tutto".
Parole sante.




MrFord




sabato 11 marzo 2017

The Night Manager - Stagione 1 (HBO, UK/USA, 2016)




Ai tempi degli ultimi Globes, con The night of appena passato su questi schermi e la classifica delle migliori serie televisive del duemilasedici in procinto di essere stilata, rimasi sorpreso dei premi raccolti da The night manager, produzione HBO - come The night of, del resto - ispirata ad un romanzo di spionaggio di John Le Carrè ed interamente diretta dalla garanzia Susanne Bier.
L'approdo in casa Ford - almeno momentaneamente - del box di Now TV - utile per arginare le intemperanze dei Fordini nei giorni successivi alle serate passate a casa della mitica suocera Ford per godere di cene ottime, buona compagnia e di Sky - ha permesso agli occupanti del Saloon di buttarsi in un recupero lampo - ventiquattro ore per sei puntate da un'ora, un record considerati i piccoli - che ha permesso di constatare che no, una sequela di premi conquistati in barba al di nuovo già citato The night of, non ci stavano, ma che in termini di spy story con risvolti romantici e confezione impeccabile questo The night manager funziona eccome, in particolare nella prima metà del suo percorso, nel corso della quale assistiamo, tra Egitto, Svizzera, Inghilterra e Spagna all'approdo da infiltrato dell'ex militare divenuto, per l'appunto, night manager d'albergo Jonathan Pine alla corte del multimilionario nonchè trafficante d'armi nascosto Richard Roper: regia glaciale e perfetta per questo tipo di prodotto, ottima suspance, un più che convincente Tom Hiddleston - decisamente superiore al suo collega e rivale sullo schermo Hugh Laurie, al quale vorrò sempre bene in quanto ex House ma in questo caso più in grado di mostrare i suoi limiti che altro -, una bellissima Elizabeth Debicki - per quanto io non sia un amante delle valchirie di un metro e novanta bionde e con poche forme - ed un'escalation che tiene lo spettatore incollato allo schermo in attesa di scoprire come si concluderà la vicenda.
A remare contro l'efficacia complessiva del prodotto - indiscutibile, comunque - vanno sicuramente considerate la scarsa empatia con chiunque non sia abituato allo spionaggio come genere, un ritmo che non va di pari passo con la tensione ed una seconda metà più votata all'azione molto meno efficace della prima in termini di sceneggiatura - "l'eliminazione" del charachter del figlio di Roper, fondamentale in partenza, mi è parsa fin troppo frettolosa, così come alcuni aspetti della risoluzione della trama nel finale -: un prodotto, dunque, funzionale e molto bello da seguire ma emotivamente e nelle sfumature ben lontano da quelli che finiscono per essere ricordati, o considerati veri e propri cult, grande o piccolo schermo che sia.
Se, ad ogni modo, siete in cerca di un prodotto in grado di unire azione e tensione - di norma prerogative maschili - così come tensione sessuale e romantica - stesso discorso, al femminile -, siete fan di un certo tipo di titoli tipicamente anglosassoni o alla ricerca di un'opera che ricordi le grandi storie da 007 in poi figlie degli anni sessanta e settanta, allora avete trovato pane per i vostri denti: perchè The night manager è contenuto e confezione, seppure, forse, non per tutti e non per chi si aspetta il titolo destinato a rivoluzionare il panorama del piccolo schermo.
Considerata, inoltre, la qualità assolutamente cinematografica della confezione, direi che non c'è davvero nulla da eccepire o per cui lamentarsi.
Se non, nel mio caso, dei premi "scippati" a The night of.




MrFord



martedì 22 dicembre 2015

Crimson Peak

Regia: Guillermo Del Toro
Origine: USA, Canada
Anno: 2015
Durata: 119'






La trama (con parole mie): Edith Cushing, una giovane aspirante scrittrice figlia di un magnate di successo della provincia dello Stato di New York, rimane affascinata dalla visita negli States del Baronetto Thomas Sharpe, venuto con la sorella Lucille dall'Inghilterra, avvolto da un alone di mistero ed in cerca di finanziatori per i suoi sogni di rilancio dell'impresa mineraria che fu di suo padre.
Quando il vecchio Cushing, insospettito dagli Sharpe, muore, ed il ricordo della fine della madre inquieta e perseguita sotto forma di spettro Edith, questa decide di sposare Thomas e trasferirsi nella tenuta degli Sharpe perduta nella campagna inglese, finanziando con i suoi averi il progetto di questi ultimi.
La casa stessa, però, pare nascondere segreti agghiaccianti, così come Lucille, la cui presenza diviene sempre più invadente ed inquietante: quali misteri si celano dietro l'argilla rossa di Crimson Peak?
E riuscirà il giovane medico McMichael, da sempre innamorato di Edith, ad arrivare a salvarla prima che sia troppo tardi?










Ho sempre voluto un gran bene, a Guillermo Del Toro: il gusto gotico ed il piglio quasi pulp lo hanno reso uno degli ospiti più graditi del Saloon fin dai tempi delle prime volte in cui incrociai il suo cammino, dai suoi tentativi più autoriali - La spina del diavolo, Il labirinto del fauno - a quelli più pop e rivolti al grande pubblico - il secondo Blade, i due Hellboy -.
Alle spalle, però, l'abbandono al progetto della trilogia de Lo hobbit e la parziale delusione di Pacific Rim, ammetto che le aspettative del sottoscritto rispetto a questo Crimson Peak avevano finito per essere clamorosamente basse, quasi come se si trattasse di uno di quei film in cui Tim Burton fa il Tim Burton a tutti i costi e si finisce a desiderare con tutto il cuore di tornare ai bei tempi in cui sfornava film innovativi, inquietanti ed avvincenti.
Fortunatamente per il sottoscritto, il risultato della visione dell'ultimo lavoro del regista di origini messicane è stato decisamente sorprendente - e di molto - in senso positivo: certo, Crimson Peak non è esente da difetti, pecca in logica in più di un passaggio di sceneggiatura e risulta telefonato rispetto ad alcuni particolari - il destino del padre della protagonista, il ruolo dell'inquietante Lucille, resa alla grande da una come di consueto irresistibile Jessica Chastain -, eppure in ogni suo fotogramma, effetti speciali e magione degli Sharpe a parte - un plauso ai tecnici che hanno reso praticamente un personaggio vivente la dimora -, si respira l'atmosfera dei grandi romanzi gotici, di Mary Shelley e Poe, e si ha l'impressione in più di un passaggio che Del Toro abbia voluto a suo modo omaggiare il Cinema del primo Hitchcock, quello, fra gli altri, di Rebecca - La prima moglie.
Perfino il ritmo, che mi è capitato di leggere in giro essere latitante, ha finito per risultare decisamente più fluido di quanto mi aspettassi, da un incipit che ricorda la diversità tra la Vecchia Europa ed il Nuovo Continente dei tempi ad un crescendo che si concentra sui segreti degli Sharpe ed i misteri che portano con loro fin dall'infanzia: peccato solo che, al cospetto della già citata Chastain, sia Mia Wasikowska che Tom Hiddlestone finiscano per risultare quantomeno scialbi, un pò come l'ex SamCro Charlie Hunnam abbigliato come il più educato dei damerini - e che con quei capelli fa rimpiangere parecchio il tenebroso motociclista che Kurt Sutter ha portato sul piccolo schermo -.
Peccati, comunque, assolutamente veniali, quelli di Del Toro, che eccede forse anche rispetto al ruolo dei fantasmi all'interno di una vicenda che avrebbe funzionato alla grande anche come semplice crime story, ma che nel finale assume una connotazione fondamentale legata a doppio filo ai ricordi ed alle fotografie ed i segni che, in un modo o nell'altro, ci portiamo dentro e addosso insieme ai luoghi in cui viviamo o abbiamo vissuto.
Un passato, dunque, che vive traumatizzando fino a quando non si raccoglie il coraggio necessario per superarlo, con la volontà di vivere pronta a superare quella di inabissarsi, guardando al passato prima ancora che al futuro: dai sogni insanguinati degli Sharpe a quelli fin troppo candidi di Edith, passando per la pragmaticità di aspirante Conan Doyle di McMichael, tutto in Crimson Peak pulsa dell'energia della passione, del sangue che tinge i nostri gesti più eclatanti, siano essi nobili o terrificanti.
Crimson Peak è una vecchia, impressionante dimora con un cuore pulsante in grado di pompare il cremisi più profondo trasformando anche la neve più bianca, è il confronto tra Passato e Futuro, tra distruzione e voglia di ricominciare, tra l'addio a chi abbiamo amato ed il benvenuto ad un nuovo giorno: cade a pezzi, puzza, sporca le mani.
Eppure lascia il segno come un fantasma che, pur se alle nostre spalle, continuerà a farci sentire il suo tocco. Per sempre.





MrFord





"Past the square, past the bridge,
past the mills, past the stacks
on a gathering storm comes
a tall handsome man
in a dusty black coat with
a red right hand."
Nick Cave and The Bad Seeds - "Red right hand" - 






mercoledì 21 maggio 2014

Solo gli amanti sopravvivono

Regia: Jim Jarmusch
Origine: USA, UK, Germania
Anno: 2013
Durata: 123'





La trama (con parole mie): Eve e Adam sono due vampiri immortali, legati da un amore che non accenna a diminuire, e che li rende sempre più vicini secolo dopo secolo. I due, però, vivono ad un oceano di distanza, la prima a Tangeri, quasi lasciandosi massaggiare dal tempo che passa, ed il secondo a Detroit, perennemente in lotta con se stesso ed il futuro. 
Quando il rischio di un suicidio di Adam porta Eve negli States, l'equilibrio della routine si spezza, tornando a congiungere le loro anime complementari ma anche a solleticare la curiosità della caotica sorella di lei, pronta a rompere ogni regola e condurre la coppia alla fuga.
Riusciranno due esseri senza tempo come loro a non soccombere alla noia, al sentimento senza più freni e all'incertezza ancora più acuita del futuro a sopravvivere?









Ho sempre amato Jim Jarmusch, ed il suo modo quasi jazz, solo apparentemente scombinato e senza criterio di fare Cinema.
Quelli che, a mio parere, sono i suoi due migliori film - parlo di Dead man e Ghost dog - sono tra i preferiti del sottoscritto degli anni novanta, ed un pezzo di cuore della mia Storia di spettatore.
Ma il Tempo passa, inesorabilmente e senza pietà, e non è possibile rimanere immobili sperando quasi che possa non accorgersi di noi: non sarebbe possibile neppure se fossimo immortali, con il potere e la possibilità di attraversare secoli e secoli senza neppure essere scalfiti dallo stesso.
Personalmente - escludendo l'impossibilità di mangiare e bere, o di starsene in totale relax in spiaggia al mare - adorerei essere un vampiro: nessun limite per poter imparare sempre di più, fare esperienze, viaggiare, conoscere, non darsi alcun limite in termini di programmi e desideri.
Non mi fa paura l'eternità, al pensiero di passarla godendo di quelle che sono le mie passioni, e non avrei certo il timore di annoiarmi sfruttandola: al contrario di Julez, che spesso e volentieri mi ricorda quanto poco sarebbe tagliata per un'esistenza di questo genere.
I film sui vampiri che abbiano davvero toccato questo tema - che, a ben guardare, è molto più umano ed attuale di quanto non si possa pensare - si contano sulle dita di una mano, dal Dracula di Coppola - almeno in parte - a Intervista col vampiro, passando per Addiction di Abel Ferrara, altro titolo fondamentale per i nineties: ed è proprio a quest'ultimo che pare riferire gran parte delle sue influenze Only lovers left alive, tentativo crepuscolare di Jarmusch di riproporre nel Nuovo Millennio una sorta di cocktail tra quello che i succhiasangue furono in opere di rottura come Il buio si avvicina e la rappresentazione comune rispetto allo spettatore dei Figli di Caino, da Nosferatu in avanti.
Peccato che, nonostante le idee interessanti, le intuizioni, la volontà e l'indubbia abilità questo film risulti in gran parte posticcio come i suoi protagonisti, perso in una cornice dal sapore proprio anni novanta che, oltre a risultare fuori tempo massimo, finisce per non mostrare abbastanza carattere da imporsi se confrontato al passato e, in una certa misura, al futuro.
A partire dalla struttura, fin troppo giocata su dialoghi di fatto inconcludenti ed atti a stupire senza successo l'audience - dalle rivelazioni a proposito delle opere di Shakespeare alle numerose citazioni colte -, per giungere ai due protagonisti - Hiddlestone funziona certo meglio come Loki che da versione autoriale del moscissimo Edward Cullen, la Swinton è odiosa nei suoi usuali standard - Solo gli amanti sopravvivono pare essere giunto in colpevole ritardo rispetto agli anni del grunge e della depressione a tutti i costi, poetico fino a diventare stucchevole, statico e pesante, noioso e certo lontano dallo standard di road movie autoriale cui in passato aveva abituato il suo regista.
Allo stesso modo, è difficile definire questo un brutto film, o qualcosa di veramente meritevole delle bottigliate delle grandi occasioni: l'intenzione del buon Jim, probabilmente, era quella di sfruttare la parabola del Tempo che scorre - o almeno questo è quello che crediamo - per raccontare una storia d'amore, con tutte le sue zone d'ombra e gli entusiasmi, gli elementi esterni in disturbo della stessa - davvero ben resi da Mia Wasikowska - e le domande che ogni amante ed innamorato che si rispetti finisce per porsi almeno una volta nella vita.
Peccato che, in questo senso, il regista lo faccia quasi per dovere, come se le lancette che inesorabilmente scorrono abbiano segnato il passo principalmente per lui: e chiunque abbia provato almeno una volta un sentimento così forte, sa bene che le elucubrazioni e la ricerca di risposte hanno ben poco senso.
Perchè sono distanti anni luce da quello che significa davvero l'amore.
O la sopravvivenza.



MrFord



"Never said thank you 
never said please 
never gave reason to believe 
so as it stands I remain on my knees 
good lovers make great enemie."
Ben Harper - "Please bleed" - 





lunedì 25 novembre 2013

Thor - The dark world

Regia: Alan Taylor, James Gunn
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 112'




La trama (con parole mie): archiviati i fatti legati all'invasione aliena di New York, Thor si sta occupando di ripristinare l'ordine e la pace nei nove regni che Odino, dal trono di Asgard, si impegna ad amministrare come sovrano. Nel frattempo, dall'ombra, sorge la minaccia degli elfi oscuri guidati da Malekith, che da millenni attendono di rimettere le mani su un potentissimo artefatto che potrebbe mettere a rischio la vita dell'intero universo conosciuto.
Nel frattempo Loki, imprigionato nelle segrete di Asgard, si troverà ad allearsi con l'odiato fratello per fare fronte alla comune minaccia ed avere la possibilità di vendicarsi non soltanto dei nemici di Asgard, ma anche di Asgard stessa, proprio mentre Thor sarà troppo impegnato a ricostruire il rapporto con Jane Foster.






Occorre ammettere, senza dubbio alcuno, quanto ormai Mamma Marvel comprenda la portata dei suoi poteri e delle sue responsabilità - per sfruttare il motto di uno dei suoi eroi più famosi ed amati - quando si tratta di portare sul grande schermo le gesta dei personaggi che hanno fatto la sua fortuna: negli ultimi anni, grazie anche al complesso mosaico del progetto che ruota attorno agli Avengers, la qualità delle proposte dell'editore di fumetti più importante del mondo si è notevolmente alzata, gestendo alla grande l'unione delle tre componenti più importanti di questo tipo di prodotto: spettacolarità, azione ed ironia.
E' proprio quest'ultima, malgrado nel corso della visione si incappi in almeno due momenti drammatici, l'ingrediente più importante di Thor - The dark world, secondo capitolo delle avventure del Dio del tuono che diverte ed intrattiene il pubblico a prescindere dall'età dello stesso e riesce a migliorare il risultato portato a casa dal già discreto prodotto firmato Kenneth Branagh: mescolando scenari che paiono pescare a piene mani da Star Wars e Il signore degli anelli, Taylor e Gunn portano il Dio del tuono ad una dimensione più simile a quella dei film d'avventura anni ottanta fatta di battute pronte a stemperare anche i momenti più bui delle vicende narrate, sviluppando parallelamente a sequenze a dir poco esilaranti - l'arrivo di Thor sulla Terra e l'incontro con Eric Selvig, astrofisico che aveva incrociato il cammino dell'eroe già nel primo capitolo e comparso anche nel già citato The Avengers - tematiche decisamente profonde come quella del rapporto tra fratelli, sfruttato alla grande per approfondire le figure di Thor stesso e di Loki, gettare le fondamenta per un eventuale terzo capitolo - davvero niente male la prima delle due "code" al finale - e presentare i due nella veste di insoliti alleati, sfruttando la loro fuga da Asgard per regalare all'audience il pezzo migliore - tecnicamente parlando - della pellicola, un ottimo crescendo costruito sul montaggio alternato e le narrazioni su piani temporali separati che pare uscita da un classico heist movie più che da una pellicola di supereroi.
Un risultato, dunque, sorprendentemente positivo che fa ben sperare sia nella realizzazione de I Guardiani della galassia - in uscita la prossima estate ed anticipato dalla seconda "coda" della conclusione, con un Benicio Del Toro più che gigioneggiante nel ruolo del Collezionista - che sarà a sua volta il traino per The Avengers 2, senza contare Capitan America: soldato d'inverno, pronto ad accogliere tutti i fan delle creature di Stan Lee tra qualche mese - un Cap con valori annessi e connessi sbeffeggiato clamorosamente da Loki proprio in uno dei primi passaggi della succitata fuga da Asgard -.
Certo, tutto appare fin troppo lineare, e Malekith con il suo sgherro Kurse avrebbero potuto essere resi decisamente più carismatici, ma siamo pur sempre dalle parti dei giocattoloni ad uso e consumo dei bambini grandi e piccoli pronti ad esaltarsi in sala assaporando tutta la magia del grande schermo: in fondo, per i più esigenti, si può sempre contare su un più che convincente Tom Hiddleston, ormai sempre più calato nel ruolo di Loki, uno dei villains più sfaccettati ed interessanti dell'Universo Marvel, non a caso ormai co-protagonista quasi fisso dell'universo degli Avengers cinematografici.
E se i risultati continueranno ad essere questi, allora ben venga un futuro (?) regno del Dio dell'inganno.
Qui al Saloon saremo tutti dalla sua parte.


MrFord


"Angel girl
in a cold dark world
I'm gonna be your man
angel girl
in a cold dark world
I'll make you understand."

Weezer - "Cold dark world" -




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