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venerdì 23 marzo 2018

Annientamento (Alex Garland, UK/USA, 2018, 115')





Probabilmente non esiste un mistero più grande di quello che offriamo noi stessi.
Che si parli di corpo, o mente.
In fondo, gli abissi che nasconde il nostro cervello sono sconosciuti alla scienza almeno quanto i miracoli che è in grado, in positivo o in negativo, di compiere il corpo.
Per non parlare del concetto più ampio di Natura.
Forse, un giorno, saremo addirittura in grado di decidere del destino delle nostre strutture fisiche, o capiremo come l'energia che ci muove si evolve e saremo in grado, in barba alle religioni, di guadagnare davvero un'esistenza eterna.
Ma al momento, tutto è affidato a quello che proprio la Natura sceglie per noi, dai cambiamenti climatici, ai cataclismi, al modo di evolversi ed invecchiare della "carne".
Personalmente, anche se ormai molto vicino ai quaranta, mi sento più consapevole, forte e prestante di quanto fossi quando ne avevo venti: ho una tenuta da sportivo, ho prestazioni fisiche migliori, bevo molto di più, conosco i miei limiti e cerco un passo alla volta di superarli, vedo più chiaramente tante cose che allora potevo solo immaginare.
Eppure, la mia è una condizione transitoria, passeggera, mutevole.
Alla fine dello scorso gennaio, quando mio padre ha iniziato la sua lotta contro il cancro - pur se, fino ad ora, con successo e rispetto ad una situazione gestita per tempo, fortunatamente -, ho ripensato a quanto indistruttibile, in barba a tutti gli incidenti in bicicletta collezionati nel corso della vita, mi fosse sempre sembrato, e a quanto, inevitabilmente, la Natura ci impone, senza appello: Alex Garland, forte di una materia di base decisamente interessante, mette sul piatto una delle grandi piaghe della medicina, della scienza e in un certo senso della filosofia cercando di analizzarla dall'interno, quasi fosse un ostacolo con il quale fare i conti non tanto arrendendosi, o combattendo coltello tra i denti, quanto cercando di comprendere memori dell'insegnamento dell'Eraclito del Panta rei, quasi la malattia, il decadimento, il cambiamento facessero talmente parte del nostro universo e della nostra essenza da potersi considerare parte di noi.
In effetti, a ben guardare, l'invecchiamento stesso potrebbe essere considerato alla stessa stregua: iniziamo la nostra vita con un sovraccarico di energie, le vediamo esplodere, impariamo a fatica a gestirle e proprio nel momento migliore ne perdiamo progressivamente il controllo, fino a spegnerci.
Parrebbe quasi un'ingiustizia, se non fosse parte di un disegno che ancora non siamo riusciti ad osservare nel suo complesso, distaccati.
Lo stesso disegno che cercano di comprendere, ognuna grazie alla propria esperienza e sensibilità, le protagoniste della spedizione di questa storia che non sarà tra le più originali portate sullo schermo ma che, derivativa oppure no, conferma il talento di uno sceneggiatore e regista da tenere indubbiamente d'occhio, in grado di ribaltare uno dei concetti più oscuri e spaventosi che l'epoca moderna ha finito per dover affrontare e cercare di comprendere e proporlo al pubblico come una sfida, un'idea nuova, un cambiamento terribile quanto necessario per affrontare, chissà, un futuro differente da quello che ci siamo o potremmo mai immaginarci.
In fondo, in barba a battaglie, studi, storie d'amore, legami destinati a finire ed altri ad iniziare, violenza e conflitti, progetti ed idee, scenari ipnotici che ricordano Kubrick o Malick e cast di stelle emergenti o affermate, uomini o donne, passato o futuro, la questione primaria è legata al fatto che, per quanto mi riguarda, sarei disposto a cambiare, ad evolvere, a cercare, a scoprire pur di vivere in eterno: che si tratti di fiori, di sangue, di grida d'aiuto o di forme spaventose come sculture deformi.
Ma per quanto possa aggrapparmi a qualcosa, non è detto che la Natura sia d'accordo.
O che una luce negli occhi non possa cambiare tutto quello che avevo creduto, pensato e voluto.
Del resto, per citare Rocky, "la Natura è più furba di quello che l'Uomo crede".
Anche quando l'Uomo è parecchio avanti.



MrFord



 

lunedì 13 novembre 2017

Thor: Ragnarok (Taika Waititi, USA, 2017, 130')






Dai tempi delle scuole medie sono sempre stato un discreto appassionato di epica, da Omero alle leggende legate a tutte le grandi religioni pagane e politeiste dell'antichità, pantheon asgardiano compreso.
Il mito del Ragnarok - praticamente una versione dell'Apocalisse dei nostri cugini del Nord -, pronto ad incombere, inevitabile come la morte, perfino sugli Dei abitanti di Asgard, mi aveva sempre affascinato, prima da studente e dunque da lettore di fumetti, per quanto, lo ammetto, Thor non sia mai stato - come Superman e tutti gli eroi troppo potenti e troppo divini, per l'appunto - tra i miei preferiti: curioso dunque che, dopo un primo film discreto ed un secondo che mi aveva intrattenuto alla grande, con questo terzo capitolo delle avventure del figlio di Odino le aspettative della vigilia fossero quelle di un Ragnarok formato bottigliate, considerate le peste e corna lette in rete a proposito del lavoro di Taika Waititi - che, al contrario, è un regista interessante del quale andrebbero recuperati Hunt for the wilderpeople e What we do in the shadows -, probabilmente alimentate dai radical senza via di redenzione.
Fortunatamente, questo Ragnarok è stato decisamente meno tempestoso e molto più divertente di quanto potessi sognare, ed il regista neozelandese è riuscito nella non facile impresa di confezionare uno dei film Marvel figli del Cinematic Universe più divertenti e spassosi, in grado di pescare a piene mani dalla tradizione delle pellicole d'avventura anni ottanta, dalla sci-fi, dal fantasy - mi è quasi parso di schiaffarmi un cocktail di Star Wars, Il signore degli anelli e Howard e il destino del mondo in versione buddy movie Nuovo Millennio, per intenderci - e regalare al pubblico un'opera piacevolmente ignorante, che con ogni probabilità se fosse uscita nell'ottantacinque ora sarebbe considerata un piccolo cult, pronta a superare per gradevolezza molti dei Marvel movies recenti per piazzarsi subito dietro il secondo Guardiani della Galassia nella scala di gradimento del sottoscritto, confermando la grande chimica tra i charachters di Thor e Hulk - sfruttato a mio parere perfettamente nella sua chiave più comica -, portando avanti una trama tipica di questo genere con l'eroe sottoposto a prove e difficoltà fino alla "rinascita" finale e regalando anche uno spessore nuovo a Loki, nemesi e fratellastro di Thor, che si conferma come uno dei personaggi più profondi ed affascinanti di questo mosaico al quale si continuano ad aggiungere sempre nuovi pezzi.
Un plauso, dunque, a Taika Waititi, pronto a non farsi schiacciare dalla grande produzione, al piglio scanzonato dell'intera operazione - stupende le comparsate di Matt Damon e dell'ormai forse immortale Stan Lee, creatore di Thor e di quasi tutti i personaggi che hanno fatto la fortuna della Marvel e dei sogni di milioni di lettori di fumetti in tutto il mondo -, alle botte da orbi che partono da un pianeta chissà dove al limitare dell'Universo e finiscono ad Asgard, agli elementi che rimandano ai prossimi step dell'operazione che porterà ad Avengers - Infinity War la prossima primavera ed alla coesione di un cast che probabilmente ha finito per sentirsi così a proprio agio ed in gran scioltezza da regalare una perla dietro l'altra, che si tratti di ruoli principali o secondari.
Forse manca l'approfondimento - in particolare di Hela e del passato di Odino, nonchè del rapporto tra quest'ultimo ed i suoi figli -, ma sinceramente quando un giocattolone è così ben costruito, e soprattutto godibile nel suo sfruttamento, poco importano le introspezioni ed i tecnicismi, le posizioni radical e tutto quello che ne consegue: sinceramente, perdendomi tra le risate, in più di un momento ho desiderato, benchè certe battute mi sarebbero inesorabilmente sfuggite, di avere ancora dieci o dodici anni e ritrovarmi di fronte a questo spettacolo, sognando di spaccare accanto a Hulk o di avere un compagno di lotta potente e dalla battuta pronta come Thor - quel "figlio di" rifilato a Surtur in avvio di pellicola mi ha fatto tornare dritto dritto dalle parti di Deadpool, per intenderci - con il quale sbaragliare l'avanzata del supercattivo - o cattiva, come in questo caso - di turno, correndo incontro alla battaglia come se Grosso guaio a Chinatown ed Il ritorno del re avessero deciso di farsi un giro di giostra nel colorato mondo dei Fumetti.
Urlando, ovviamente, a squarciagola.




MrFord




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