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venerdì 5 dicembre 2014

Broadchurch - Stagione 1

Produzione: ITV
Origine: UK
Anno:
2013
Episodi: 8





La trama (con parole mie): nella piccola cittadina costiera britannica di Broadchurch il detective capo Alex Hardy, fresco di nomina ed ancora segnato da un caso che lo vide protagonista tempo prima, assiste al ritrovamento del cadavere di Danny Latimer, undici anni, strangolato e dunque abbandonato sulla spiaggia. Esclusa l'ipotesi del suicidio l'investigatore, supportato dalla collega nata e cresciuta nel paese Ellie Miller, si getta sulle tracce lasciate dall'assassino del ragazzo, che pare potrebbe risultare perfino qualcuno che lo stesso conosceva o frequentava.
L'evento, oltre a scatenare una serie di conflitti e timori in seno alla comunità, scoperchia come un vaso di Pandora i segreti di alcuni abitanti del luogo, dal prete all'edicolante e responsabile delle attività dei ragazzi legati alla storica associazione dei Giovani Marinai passando per la stampa e la famiglia stessa di Danny: dove si nasconde la verità?
Chi ha ucciso il figlio minore dei Latimer?
E fino a che punto Hardy e Miller saranno disposti a spingersi anche oltre le loro divergenze per consegnare il colpevole alla Giustizia?








L'animo umano è uno degli abissi più profondi che si possa sperare o temere di affrontare, figlio di turbamenti, cambiamenti, sentimenti così forti da lasciare senza parole: probabilmente è per questo che, da che ricordi, le storie in grado di esplorare soprattutto le sue parti più remote, nascoste e terrificanti dello stesso hanno sempre finito per affascinarmi.
Fiction o realtà, i racconti di Poe e le cronache di Blunotte, il "lato oscuro" rappresenta senza dubbio una tentazione irresistibile, che si tratti di visioni, letture o esplorazioni emotive: dunque il genere crime trova la sua collocazione ideale, qui al Saloon, sostenuto anche dalla passione nutrita da Julez per il genere. All'inizio di questo duemilaquattordici, True detective giunse a sconvolgere i nostri occhi di spettatori grazie ad una delle vicende più torbide e da brividi del passato recente - e forse non solo -, lasciando il segno per quello che sarà il modo di approcciare questo tipo di prodotti da qui in avanti: non avrei mai pensato che, neppure qualche mese dopo, avrei scoperto una sorta di suo fratellino minore giunto dal cuore dell'Inghilterra di campagna, in grado di superare per intensità anche l'ottima trilogia del Red Riding, Broadchurch.
Orchestrato attorno all'omicidio del giovanissimo Daniel Latimer, questo piccolo, intenso viaggio sulle coste anglosassoni, lontane per approccio ed indole alle grandi città come Londra, riporta l'orologio indietro mostrando quanto poco, in secoli di Storia, sia cambiato davvero l'Uomo, schiavo di desideri, impulsi e passioni difficilmente controllabili, quanto più che altro anestetizzate da una vita passata all'interno di una società e di una comunità ad una prima e superficiale occhiata tranquille e ben indirizzate: così, dai due detectives a capo delle indagini, lo spigoloso e poco empatico Hardy e la fin troppo empatica Miller, fino ad arrivare ai singoli abitanti di Broadchurch, più o meno colpevoli di qualcosa, custodi di segreti piccoli e grandi - perchè tutti ne abbiamo, e spesso le grandi tragedie finiscono per portarli a galla -, assistiamo ad un viaggio all'interno dell'animo umano iniziato con il peggiore degli sconvolgimenti che possano cambiare la vita di una famiglia, la morte di un figlio.
Da padre, sinceramente non riesco neppure ad immaginare cosa potrebbe significare seppellire il proprio bambino, ancor più se cosciente del fatto che qualcuno - e chissà, qualcuno che forse frequentava anche casa vostra - possa averlo deliberatamente ucciso, travolto dall'istinto o spinto da un impulso che di umano pare avere davvero poco, e ancor più dover affrontare il peso del giudizio nel momento in cui i dubbi a proposito dell'omicidio stesso possano finire per investire noi e la famiglia che si cerca sempre di proteggere.
Ma penso anche che, genitori o no, risulti davvero arduo accettare che possano esistere cose così terribili ed apparentemente impossibili da gestire ed affrontare: la perdita di un figlio - famiglia o comunità che sia - equivale alla perdita dell'innocenza, ai segreti svelati, a tutto il marcio che lottiamo per nascondere vomitato dalle viscere della terra che pensiamo possa essere la nostra casa, il nostro rifugio: come per i Latimer, come per il vecchio Jack, tornato ad affrontare fantasmi troppo pesanti per una vita già segnata - forse il suo è il personaggio più profondo dell'intera produzione -, come per il prete, i giornalisti, il medium, e tutti i protagonisti di una storia che raccoglie l'eredità di pietre miliari come Twin Peaks e racconta il dolore, la rabbia, lo stupore, il tentativo di tornare ad emergere e respirare: perchè un altro grande pregio di Broadchurch - che, in questo, ricorda davvero molto la già citata True Detective - è quello di scrivere la parola fine ad un'indagine ed una storia che fin dal principio parevano necessitare proprio della loro risoluzione, amara o di riscatto che fosse.
E se da un lato ci sono genitori che perdono - ed in qualche modo, riguadagnano - un figlio, dall'altra troviamo figli che finiscono per perdere un genitore attraverso un processo anche peggiore, e che come per i Latimer finirà per segnare le loro esistenze per sempre.
Niente è limpido, dunque. Neanche la vittoria.
Perchè scoprire il colpevole non riporterà Danny a casa.
Non renderà quella scogliera maledetta di nuovo incontaminata.
Non restituirà ai sospettati creduti colpevoli quello che hanno perduto.
Ma se non altro, sarà liberatorio.
E permetterà di accarezzare il sogno di poter ricominciare.
Ad essere vivi, genitori, figli, uomini.
E a lasciare i segreti custoditi in un lato oscuro tornato ai suoi recessi.



MrFord



"I've only heard a voice
I've only seen your song
It keeps me awake
It keeps me floating."
Smog - "Floating" - 




domenica 21 settembre 2014

Red riding trilogy: in the year of our Lord 1983

Regia: Julian Jarrold
Origine: UK
Anno:
2009
Durata: 102'




La trama (con parole mie): Maurice Jobson, ufficiale nella polizia dello Yorkshire e testimone delle luci e delle ombre dei casi legati allo Squartatore e alla scomparsa di una serie di bambine, riannoda i fili delle vicende che, dai primi anni settanta, hanno di fatto segnato il dipartimento cui appartiene, la società e la sua stessa esistenza. Dal giovane giornalista Eddie Dunford a BJ, da John Dawson al prete Laws, tutti i segreti delle vicende più sanguinose di un decennio paiono venire a galla insieme alla coscienza dello stesso Jobson, costretto a fare fronte anche ai fantasmi portati a galla da anni di soprusi e trattamenti al di sopra della Legge offerti da lui stesso ed i suoi compagni.
Archiviato il caso dello Squartatore e scongiurato - almeno in apparenza - lo scandalo del loro dipartimento, come reagiranno i fautori di tutti i gesti compiuti anche da Maurice nel corso degli anni? E chi è davvero il rapitore delle bambine? E quali, dei piccoli di una generazione precedente, riusciranno a salvarsi davvero?






L'affresco della trilogia di Red riding, iniziato con grande perizia ma in qualche modo in sordina ed esploso - sempre senza alzare troppo la voce - con il secondo film si chiude con le stesse tinte fosche con le quali si era aperto e attraverso quello che è il suo capitolo più articolato ed ambizioso, in bilico tra presente e passato di narrazione e pronto a fare luce su tutte le vicende raccontate nell'episodio dedicato al settantaquattro così come in quello ambientato nell'ottanta.
Ripescando attori e situazioni già mostrate raccontandole da un punto di vista ed un angolazione differenti, quest'ultimo passaggio tira le fila dei sospesi maggiori rimasti dopo la cattura dello Squartatore dello Yorkshire mostrata sul finire dell'episodio precedente: la questione della corruzione all'interno della polizia locale e quella legata all'assassino delle bambine, passata quasi in secondo piano rispetto alla più clamorosa e rumorosa indagine con oggetto il già citato Squartatore ma non per questo meno inquietante, anzi.
L'atmosfera pesante che aleggiava sulla vicenda di Hunter lascia, anche se soltanto in parte, trasparire un barlume di fiducia nel futuro e nella possibilità di sopravvivere principalmente grazie all'indagine condotta - pur se con riluttanza - dall'avvocato richiamato per risolvere nel modo più giusto possibile la questione del rapitore ed assassino di bambine, alla crisi di coscienza di Maurice, detective implicato in quasi tutti i giochi sporchi del dipartimento e alla lotta per la sopravvivenza di BJ - il Robert Sheehan che rese grandi le prime due stagioni di Misfits, già visto come personaggio secondario negli altri due episodi -, emblema di quei figli dello Yorkshire che, chissà, forse un giorno riusciranno a sopravvivere alla tempesta che, per disgrazia storica, sociale o geografica, si è abbattuta sulle loro teste - e torna vivissimo il confronto soprattutto con il meraviglioso finale del già citato This is England, che potrebbe definirsi speculare rispetto a quello che si affronta qui -.
Accanto a Sheehan restano impressi nella memoria dello spettatore il predatorio Sean Bean - ma il suo charachter si era già affrontato a fondo nel corso del primo dei tre film - ed il mellifluo prete di Peter Mullan, attore e regista notevole - come Paddy Considine che prestò volto ad Hunter - coraggioso nell'affrontare una delle parti più oscure e sgradevoli della sua carriera, di quelle pronte a fare impallidire anche le peggiori "metà oscure" del Cinema dedicato a serial killers e maniaci di vario genere.
A differenza dei due capitoli precedenti, inoltre, a dare man forte a quel quasi impercettibile lumicino di speranza di cui ho già scritto contribuisce un crescendo finale dalla tensione serrata tipico della scuola thriller americana, più che inglese, diverso sotto molti punti di vista dall'atmosfera rarefatta e solo suggerita dei due capitoli precedenti - anche nei loro momenti di massima tensione -: una chiusura diversa ma perfetta per una delle operazioni più importanti e meglio riuscite della televisione anglosassone recente, che non ha nulla di che invidiare alla qualità del grande schermo e che potrebbe senza troppa fatica competere con molte delle proposte distribuite nelle sale.
Impietoso il confronto con la situazione italiana, che fatta eccezione per pochi e clamorosi esperimenti come Romanzo criminale e Gomorra ancora pare lontana dalla maturità necessaria per produrre opere come questa, in grado di soddisfare l'occhio clinico degli appassionati e, seppur con una richiesta di impegno maggiore rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare da una serata da divano, tenere inchiodati al proprio posto anche gli spettatori occasionali.
In fondo, la Red riding trilogy affronta il lato oscuro dell'Uomo, lo stesso che, attraverso telegiornali e siti di news ci troviamo ad incontrare ogni giorno della nostra vita, e che in qualche modo sappiamo esistere anche quando guardiamo dentro noi stessi: l'importante è cercare sempre di distogliere lo sguardo prima che l'abisso lo ricambi.



MrFord



"Dream on, dream on
there's nothing wrong
if you dream on, dream on
of being a swan
but I know you're thinking..."
Elisa - "Swan" - 



sabato 20 settembre 2014

Red riding trilogy: in the year of our Lord 1980

Regia: James Marsh
Origine: UK
Anno:
2009
Durata: 93'




La trama (con parole mie): Peter Hunter, un detective di stanza a Manchester, viene chiamato nel West Yorkshire in modo da supportare le indagini fino a quel momento infruttuose legate alla ricerca del famigerato Squartatore, che dalla seconda metà degli anni settanta ha messo in ginocchio l'intero corpo di polizia facendosi beffe dello stesso.
In realtà, l'incarico ufficioso di Hunter è quello di scoprire quali potrebbero essere le mele marce del dipartimento, divorato da tempo e dall'interno dalla corruzione.
L'uomo, in crisi con la moglie e legato ad una collega, dovrà guardarsi le spalle rispetto alla caccia serrata allo Squartatore ma, ancora di più, alle indagini interne: i colleghi locali, infatti, paiono decisi a fare fronte comune contro di lui affinchè i loro panni sporchi restino tali.
E saranno disposti a celarli con ogni mezzo.







Sul finire dello scorso anno, una serie di recensioni a dir poco entusiastiche mi spinsero a premere sull'acceleratore per il recupero di una delle trilogie più celebrate del piccolo schermo, realizzata nel Regno Unito e legata ad alcuni fatti che insanguinarono lo Yorkshire tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli ottanta: quando, però, affrontai la visione del primo capitolo, per quanto interessante e ben realizzato, mi trovai almeno parzialmente deluso rispetto quelle che erano le aspettative della vigilia, che probabilmente speravano di incontrare quello che, non troppo tempo dopo, sarebbe diventato True detective.
Dunque il progetto Red Riding finì nel cassetto di casa Ford, rimanendo a prendere polvere fino ad una serata in solitaria di fine estate, che divenne un'occasione per scoprire se la fama che aveva preceduto quest'opera fosse effettivamente meritata o mal riposta: fortunatamente per il sottoscritto, già da questo secondo capitolo l'intero lavoro pare ingranare una marcia in più, alimentando la tensione e l'inquietudine che nella prima parte erano rimaste forse troppo ingabbiate dalla cura decisamente autoriale dell'intero progetto.
La vicenda di Peter Hunter, interpretato dalla vecchia conoscenza del Cinema UK che conta Paddy Considine, e l'indagine che porta lo stesso detective di Manchester ad addentrarsi non solo nel percorso compiuto dallo Squartatore dello Yorkshire ma anche e soprattutto in quelli che sono i giochi di potere e corruzione del dipartimento che lo ospita, è una di quelle storie fosche ed oscure, brumose ed inquietanti come il clima locale o la desolazione di scenari che farebbero felice il T. S. Eliot di Wasteland: il percorso compiuto dall'uomo partendo da una vicenda sepolta neppure troppo bene in un passato recente, il rapporto con la moglie e la collega ed amante, il campo di battaglia di fatto nascosto sul terreno sul quale si trova a doversi battere delineano un affresco potente e disarmante, che non lascia fiato o speranze in uno scioglimento della tensione, neppure di fronte al successo di un'indagine che finisce per avere più ombre che luci.
Interessante come, in un episodio che dovrebbe concentrarsi, di fatto, sui delitti efferati di un serial killer da manuale, un mostro inquietante pronto a confondersi con la folla ed il buon vicinato, i brividi maggiori vengano, al contrario, dagli uomini che dovrebbero essere non solo i designati a catturarlo, ma anche, di fatto, i protettori della comunità: una critica dunque feroce al Sistema e agli uomini incaricati di esercitarne il potere, che ricorda la drammaticità - per quanto affrontata su un campo di gioco completamente differente - di This is England e l'oscurità di cult cinematografici come Se7en e Memories of murder.
Il percorso del detective Hunter - curiosamente, e letteralmente, cacciatore -, passo dopo passo sempre più segnato - l'isolamento dai riluttanti colleghi, l'incendio alla casa, il rapporto con le due donne della sua vita - porta il pubblico ad un crescendo finale ancora più amaro di quello già affrontato con il film precedente, di fatto gettando ombre più che pesanti sulla visione del terzo episodio di questa miniserie e nel cuore di chi, a prescindere dal fatto che la realtà - e l'autorialità cinematografica con lei - prediliga l'essere amara, spera sempre e comunque in una minima parte di speranza da custodire e considerare il vero e proprio baluardo per la sopravvivenza non solo propria, ma dell'intera società.
Se, dunque, la speranza è una vostra speranza, mettete in conto di non trovarne dalle parti di questo Red riding, costellato di miserie umane oscure e profonde che non sfigurerebbero in un romanzo del romanticismo più cupo o in una canzone da carne e sangue di De Andrè, allargate le spalle ed affrontate un viaggio nella parte nascosta dell'Inghilterra di provincia che riuscirà ad essere così duro e cattivo da far sembrare un insuccesso perfino la cattura di un assassino tra i peggiori che possiate immaginare abitare gli incubi della porta accanto.



MrFord



"From the tick tick tick of your time's up
to the yes yes yes of 'I'll sell'
from the fact fact fact of the souless
to the pact pact pact with hell
corruption corruption corruption
rules my soul
corruption corruption corruption
chills my bones
corruption corruption corruption
rules my soul
corruption corruption corruption
chills my bones."
Iggy Pop - "Corruption" - 



mercoledì 16 luglio 2014

Locke

Regia: Stephen Knight
Origine: UK, USA
Anno: 2013
Durata: 85'


 

La trama (con parole mie): Ivan Locke, irreprensibile e preciso esperto in costruzioni, alla vigilia di una delle più importanti date della sua carriera, decide di mollare il cantiere e l'appuntamento dell'indomani per mettersi alla guida della sua auto e, invece di tornare a casa per una serata in famiglia di fronte ad un'attesissima partita di calcio, dirigersi verso Londra.
Tutti paiono stupiti della scelta: i suoi figli, sua moglie, i colleghi, i superiori.
Ivan Locke, con un gesto inatteso ed imprevedibile, rischia tutto: dal lavoro agli affetti.
Questo perchè, a neppure due ore di macchina da dove si trova, una donna praticamente sconosciuta con la quale si è concesso una notte di sesso al termine di un incarico tempo prima, sta per partorire un bambino.
Il suo terzo figlio.
E Ivan Locke è uno che va per la sua strada. E non vuole percorrere quella che fu di suo padre.






Ivan Locke è un tipo tosto, tutto d'un pezzo.
E' come uno degli edifici che ha finito di edificare mattone su mattone, con cura quasi maniacale ed attenzione ad ogni dettaglio.
Ed è uno che non molla, anche quando una crepa potrebbe mandare in frantumi anni e anni di fatica.
Ed è evidente che dietro la sua solidità vi sia un lavoro certosino e di spalle larghe: quello di Stephen Knight, che si fece conoscere nientemeno che con la sceneggiatura del gioiello La promessa dell'assassino e le ossa con Redemption, action dai risvolti insolitamente profondi con protagonista Jason Statham.
Ma Locke non è soltanto un road movie tesissimo e clamorosamente tirato, per essere, di fatto, un one man show girato esclusivamente all'interno dell'abitacolo di una vettura reso ancora più funzionale
da un Tom Hardy strepitoso, che pare riportare sullo schermo l'esplosività dell'interpretazione che regalò al pubblico in Bronson tirando il freno a mano e restando clamorosamente sotto le righe, in
bilico tra monologhi in pieno stile La 25ma ora - i confronti con il padre ed il passato - e botta e risposta telefonici con gli altri protagonisti della vicenda, come un burattinaio che cerchi di far
rientrare nei ranghi una schiera di pupazzi imbizzarriti pur essendo imbizzarrito lui stesso.
Locke è, infatti, un concentrato di adrenalina e tensione come raramente se ne sono visti anche nell'ambito thriller ed action, una corsa accanto - più che contro - il Tempo che pare nascondere insidie e preparare al peggio lo spettatore ad ogni singola inquadratura, neppure ci trovassimo vittime dell'ennesimo trucco di un altro anglosassone divenuto, negli anni, l'illusionista numero uno del Cinema, Christopher Nolan.
La cosa, però, che rende Locke così ben riuscito, è, paradossalmente l'aspettativa disillusa: perchè sfido chiunque, tra gli spettatori che hanno deciso di salire in macchina accanto al coriaceo Ivan, a non aver atteso il momento in cui sarebbe giunto, all'improvviso, un incidente mortale, o una qualche evoluzione in pieno stile "collaterale" neanche ci trovassimo in un turbinio di fotografia e stile firmato da Michael Mann, o sconvolgimento personale per il protagonista.
E invece, Locke e la sua notte all'inseguimento di un se stesso migliore di quello che fu suo padre per lui, finiscono per metterci di fronte al thriller più complesso e teso possibile: la vita vissuta.
Niente esplosioni, inseguimenti, chissà quale trama da film di genere in agguato: semplicemente un uomo non privo di difetti che decide di affrontare di petto una vita che, per quanto controllata, ha finito per sfuggirgli di mano.
E lui, che è abituato ad avere tutto sotto controllo, solido come una roccia, non riesce a pensare di restare fermo: e in una notte che non sfigurerebbe in un Fuori orario con i piedi decisamente per terra - o sulla strada - imbraccia due degli strumenti che più hanno cambiato la società negli ultimi cinquant'anni - l'automobile ed il telefono - e cerca di sistemare le cose.
Questo perchè, spalle larghe oppure no, Ivan Locke sa bene che il motivo di quel viaggio è più importante di Chicago e dei milioni di dollari, della tranquillità e di una partita di calcio, e che proprio contando sul motivo del suo viaggio troverà la forza di ricominciare.
Fosse anche dopo aver perso tutto.
E quando, con il fiato corto ed il cuore a mille, sempre pronti ad aspettarci di precipitare, giungiamo a quella liberatoria, ultima telefonata, è come chiudere gli occhi e lasciarsi andare.
Ivan Locke è presente. E sta arrivando.
Ed è questo che conta. E conterà per una vita intera.



MrFord



"Whatever tomorrow brings, I'll be there
with open arms and open eyes yeah
whatever tomorrow brings, I'll be there
I'll be there."
Incubus - "Drive" - 



lunedì 7 luglio 2014

Still life

Regia: Uberto Pasolini
Origine: Italia, UK
Anno:
2013
Durata: 88'





La trama (con parole mie): John May è un impiegato del Comune di Londra che da ventidue anni si occupa di dare un nome, un volto ed una storia alle persone morte sole, fornendo loro esequie ed una sepoltura come se si trattasse di suoi congiunti.
E' un solitario, estremamente meticoloso, legato profondamente alle vite di cui si occupa: quando viene chiamato per intervenire sul caso di William "Bill" Stokes, morto da settimane e segnalato soltanto a causa dell'odore avvertito dai vicini di casa del defunto, John si mette alla ricerca di parenti ed amici parte della vita dell'uomo e disposti a presenziare al suo funerale.
Quando viene licenziato a causa di una riduzione del personale, John porta avanti privatamente quello che è stato il suo ultimo incarico ufficiale: la scoperta del passato e della vita di Bill cambieranno di fatto la sua esistenza.








Ho sempre trovato profondamente riduttivo il termine "natura morta", nella sua resa italiana.
Still life, così come è proposto nei paesi anglofoni, suona decisamente meglio.
Personalmente, mi da l'idea di qualcosa di attaccato alla vita, come se un'affezione come quella che io stesso provo per il viaggio che ognuno di noi percorre da queste parti fosse così evidente da vincere perfino la morte, inevitabile conclusione che, purtroppo, prima o poi verrà a ricordarci che non possiamo pensare di rimanere in giro in eterno.
Quando penso alla morte, i due istanti che maggiormente hanno segnato la mia vita finora sono il momento in cui visitai mio nonno nell'obitorio dell'ospedale, il giorno prima del funerale, e la visione del monitor dell'ecografo che non mostrava il battito di quella che sarebbe stata Agnese, il ventotto maggio scorso.
Due esperienze diverse, passate sulla mia pelle ad età ed in fasi così distanti tra loro nel tempo e nella loro dimensione da risultare quasi estraneee l'una all'altra, eppure accomunate dalla sensazione terribile di assenza: solo in quella minuscola stanza con la persona che più di ogni altra aveva influenzato la mia crescita o accanto a quella che più ha contribuito al mio diventare adulto osservando speranzosi che potesse non essere vero quello che stavamo osservando, la sensazione provata è stata senza dubbio quella di qualcosa che non c'era, che non aveva più una sua presenza nel mondo.
Eppure capisco molto bene l'approccio di John May, protagonista cui presta perfettamente volto il caratterista Eddie Marsan in questo splendido Still life - evidentemente un titolo che porta più che bene, considerato l'omonimo film cinese di qualche anno fa, anch'esso memorabile -: le tracce lasciate dalle persone nel corso della loro vita definiscono la presenza delle stesse anche dopo la morte, divenendo, di fatto, la testimonianza effettiva di una sorta di aldilà vissuto proprio qui, invece che in qualche paradiso ad uso e consumo di una qualche divinità.
"L'immortalità sta nel ricordo di chi ci ha amati", si diceva dalle parti dell'Antica Grecia, ed in una certa misura penso che possa essere proprio così.
"Live together, die alone", venne recuperato in Lost, ed anche in questo caso non siamo troppo lontani dalla realtà.
In fondo, non esiste esperienza che possa toccare ognuno di noi, se non la morte: anche i più semplici gesti quotidiani, a volte, vengono negati dal Destino, dalla Natura o da mille altri fattori, ma nulla, dal momento in cui veniamo concepiti, può risparmiare il confronto con la nostra stessa fine.
John May lo sa bene, e da buon, meticoloso cercatore si dedica alla caccia di ogni segno lasciato da chi se ne va, soprattutto quando quello stesso qualcuno è morto così lontano da tutti da far sentire la propria mancanza soltanto al gatto - emblematico l'episodio della vecchia signora e delle lettere della "figlia" -: il suo viaggio alla scoperta di William Stoke, narrato con semplicità disarmante da Uberto Pasolini, nipote di Luchino Visconti e cervello in fuga dal Cinema italiano, tanto da scomodare paragoni con l'asciuttezza del Clint dei tempi migliori, o del Ken Loach più straziante, è una delle sorprese più incredibili del duemilaquattordici del Saloon, dalla forza emotiva dirompente almeno quanto quella di due dei titoli più in grado di toccarmi degli ultimi anni, Alabama Monroe e Departures.
Dove porta la strada di John? Dove finiscono le sue aspettative, la dedizione messa nella ricerca legata alla vita di uno sconosciuto divenuto, di fatto, un amico?
E dove stiamo andando, tutti noi?
La vita con tutti i suoi ricordi, i momenti migliori e peggiori, i sogni, dove finisce nel momento in cui la morte arriva a riscuotere il suo credito?
Non mi è dato sapere - e non mi sarà dato - cosa accadrà quando anch'io me ne sarò andato, o se qualcuno e chi si occuperà di quello che resterà di me una volta che lo spettacolo sarà finito.
Eppure l'impressione che ho è proprio quella del titolo di questo film, che l'interpretazione italiana ha reso così lugubre e macabra: still life.
Niente nature morte.
Ancora vita.
Quella che portiamo con noi, e quella che lasciamo al nostro passaggio.
Anche se quel giorno ho toccato il viso di mio nonno, e l'ho sentito come un freddo oggetto inanimato, l'amore che ho per il West e i suoi racconti della Seconda Guerra Mondiale vissuti sulla pelle li porto con me.
E anche se non avrò mai la possibilità di toccare il viso di Agnese, e dirle che andrà tutto bene, perchè ci sono io, so che posso farlo ogni giorno con Alessandro Leone, e così sarà, fino a quando la signora morte dovrà venire a strapparmi da qui con tutte le sue forze.
Perchè io sono ancora vivo.
E lo sarò anche quando avrò fatto sudare alla suddetta quanto più possibile per avermi.
Still life.
Ancora vivo.
Neanche fossi Bruce Willis nel remake di Kurosawa.
Grazie anche a film meravigliosi come questo.




MrFord




"My soul is painted like the wings of butterflies,
fairy tales of yesterday, will grow but never die,
I can fly, my friends!
the show must go on! Yeah!"
The Queen - "The show must go on" - 



mercoledì 30 aprile 2014

Dom Hemingway

Regia: Richard Shepard
Origine: UK
Anno: 2013
Durata:
93'





La trama (con parole mie): Dom Hemingway è uno scassinatore, ma sarebbe riduttivo etichettarlo solo in questo modo. E' un vecchio figlio di puttana che per dodici anni è rimasto dentro tenendo la bocca cucita e giocandosi, in questo modo, la possibilità di assistere la moglie malata di cancro e alla crescita della figlia. Giunto il grande giorno della Libertà, Dom si trova a dover ricostruire la sua vita proprio a partire dal credito da riscuotere presso il beneficiario del suo silenzio, il letale Fontaine, boss e killer russo riconvertitosi alla campagna francese: ma i suoi guai da cittadino che ha pagato il debito alla società sono appena iniziati, così come il percorso che potrebbe portarlo a ricucire il rapporto con Evelyn, che lo vide uscire dalla sua vita ancora prima di essere un'adolescente e tornare proprio nel momento in cui la sua famiglia pare aver preso una forma ed una direzione ben precise.
L'esatto opposto rispetto al destino del sanguigno Hemingway.








"A volte si incontra un uomo...", recita lo Straniero nell'incipit del supercult Il grande Lebowski, "a volte si incontra un uomo che è l'uomo giusto, nel posto giusto, al momento giusto".
E in questo caso, con buona pace dell'eroe dei Fratelli Coen, è Dom Hemingway, accento più che british e piglio decisamente oltre il pane e salame.
Perchè il lavoro di Richard Shepard - giovane newyorkese cresciuto nel mondo delle serie tv -, nonostante alcune ingenuità di direzione, delinea un charachter assolutamente memorabile, interpretato alla grandissima da un Jude Law in stato di grazia e finisce per essere illuminato da dialoghi serratissimi ed al fulmicotone, assolutamente impensabili da seguire se non in originale per poter essere apprezzati al meglio.
Onestamente, non sapevo cosa aspettarmi, da una visione come questa: in fondo, quello che cercavo era un intrattenimento old school nello stile di Stand up guys, a metà tra la malinconia ed il divertimento - promessa assolutamente mantenuta, tra le altre cose - che non sfociasse in una delusione, ed al contrario si è materializzato dalle parti del Saloon come un cocktail in grado di dare il colpo del KO un prodotto travolgente e sentito, che rende l'allucinata lezione del recente Il lercio qualcosa di più simile all'emozionante Hesher, ed il suo protagonista un antieroe da ricordare, non fosse altro per il turpiloquio al servizio di un cuore non così nero come finisce per dipingerlo lui stesso.
Andando, dunque, oltre alla cornice pulp di matrice tarantiniana - nonostante l'atmosfera ricordi più il Guy Ritchie dei tempi d'oro -, le presenze illustri di comprimari pescati dall'universo dei serial come Nathan Stewart-Jarrett ed Emilia Clarke, Dom Hemingway rappresenta quello che, fossimo dall'altra parte dell'Atlantico, di tanto in tanto, il Sundance e le pellicole indie finiscono per regalare al pubblico inizialmente scettico sequenza dopo sequenza convinto quasi alla commozione grazie ad una partecipazione sempre maggiore rispetto alle vicende narrate.
Ma, in tutta onestà, non voglio scrivere di questo film come se fosse mera materia tecnica, o analisi critica: perchè non si tratta di una pellicola perfetta, il voto che le ho assegnato potrebbe perfino risultare esagerato, la dimensione finisce per essere decisamente quella della proposta di nicchia, l'approccio e l'estetica appaiono senza dubbio derivativi, eppure Dom Hemingway c'è.
Nonostante le avversità, il Destino, il passato.
Il coriaceo Dom è presente. E lo sarà sempre. Perchè non è il tipo da tirarsi indietro di fronte ad una scommessa o ad una sfida. Perchè è un tipo da rimorsi, più che da rimpianti.
Se volete qualcosa che vi diverta, sollevando i pesi della vita ed allargando le spalle in modo da portarli in vostra vece, avete trovato pane per i vostri denti.
Nonostante non sia affatto certo che possiate uscirne con i suddetti completamente al loro posto. E soprattutto intatti.
Ma ancora una volta ci sto girando troppo attorno: questo è un film che va vissuto, indipendentemente da quanto se ne possa leggere in giro. Probabilmente, se fosse il vecchio Don a parlarne - si veda lo splendido monologo di apertura - non ci sarebbero mezze misure, da un "fottiti" in caso di disapprovazione - con tanto di cazzotto già pronto in canna - ad un sincero e molto alcolico abbraccio dal sapore di patto di sangue.
Dom c'è, con tutto se stesso.
E ci sarà sempre.
Perchè il mondo è il suo boccale, o la sua vagina.
E lui non potrà mai e poi mai rinunciare all'uno e all'altra.
Tranne quando si tratterà di alzarsi presto un lunedì mattina.
Vedere per credere.
Io mi fido di lui.




MrFord




"Got me a movie
I want you to know
slicing up eyeballs 
I want you to know
girlie so groovy
I want you to know
don't know about you."
Pixies - "Debaser" - 





sabato 5 ottobre 2013

Extras - Stagioni 1 e 2

 Produzione: BBC
Origine: UK
Anno: 2005/2007
Episodi: 12




La trama (con parole mie): Andy Millman è un attore che cerca disperatamente di uscire dall'anonimato e dal suo usuale ruolo di comparsa grazie all'aiuto decisamente non troppo utile dell'agente Darren Lamb, che almeno in teoria dovrebbe occuparsi di piazzare un copione del suo assistito che porrebbe le basi per una sit-com. Nel frattempo, accanto all'amica attrice Maggie, Andy finisce per incontrare sul set, comparsata dopo comparsata, numerose celebrità di Hollywood e non solo pronte a rivelarsi ai suoi occhi per quello che sono oltre la facciata dei personaggi che interpretano.
E non sempre le cose andranno proprio nel migliore dei modi.



Questo post partecipa alle celebrazioni mancate per il compleanno di Jean Claude Van Damme divenuto a causa di un sabotaggio quello di Kate Winslet.


L'umorismo inglese, fin dai tempi dei mitici Monty Phyton, si è ritagliato un posto speciale nel cuore di questo vecchio cowboy, grazie alla sua verve nerissima ed ai toni spesso più sotto che sopra le righe: uno dei titoli che maggiormente è riuscito a rappresentarlo sul piccolo schermo nel passato recente è stato lo spassosissimo Extras, prodotto dalla BBC e responsabile del lancio verso la grande industria hollywoodiana del caratterista Ricky Gervais, che con il suo Andy Millman ha regalato al pubblico uno dei personaggi più antipatici eppure irresistibili della tv.
La condizione di comparsa dell'aspirante attore cui presta fisicità e lingua tagliente proprio Gervais permette allo spettatore di esplorare da dietro le quinte il mondo dorato del Cinema attraverso le opinioni che il protagonista si costruisce, lavoro occasionale dopo lavoro occasionale, a proposito delle personalità dello spettacolo con le quali si trova a lavorare, dal borioso Ben Stiller allo spaurito - ed allora profondamente bambino - Daniel Radcliffe, passando per David Bowie, Samuel Jackson, Ian McKellen e molti altri.
Il rapporto con la celebrità, gestito in maniera intelligente dagli sceneggiatori, porta ognuno di noi a ripensare a quelle volte in cui ci si è trovati ad avere a che fare con grossi nomi scoprendo che potevano rivelarsi una sorpresa o una delusione: io stesso, dagli abbracci di Joe Lansdale e Ben Harper alla capatina in bagno con Serj Tankjan fino all'avversione per Capossela, Devandra Banhart o Dani Filth ho potuto scoprire lati che non conoscevo di qualche "big", così come accarezzare la strana sensazione di stare tranquillamente chiacchierando con qualcuno in grado di toccare milioni di persone in tutto il mondo.
Parallelamente a questo più universale discorso, la rincorsa del successo da parte di Andy si traduce anche nel complesso - ed irresistibile - rapporto con il suo inetto agente, che regala alcune delle perle più divertenti della serie, mentre Maggie, sua spalla e compagna "sul campo", fornisce gli assist ideali per le migliori chicche del main charachter, specie quando si tratta di essere dissacranti e pungenti.
Ma dato che oggi stiamo celebrando un compleanno - anche se quello sbagliato, perchè nonostante la buona Kate Winslet sia da sempre una delle mie favorite, sia fisicamente che come attrice, non ci sarebbe dovuta essere neppure gara con il mitico, inossidabile, straordinario re dei calci rotanti, Jean Claude Van Damme -, il riferimento principale del post va ovviamente all'episodio della prima stagione all'interno del quale compare proprio la nostra festeggiata, protagonista di un film ad argomento Olocausto nei panni di una suora.
Il ruolo e le opinioni della pane e salamissima Kate, pronta a dare man forte a Andy nei momenti in cui si tratta di confrontarsi con Maggie a proposito delle telefonate spinte che la stessa riceve da un attrezzista con il quale ha appena iniziato una relazione - indimenticabile il momento in cui le loro prese per il culo vengono notate dall'interessato - e a dispensare consigli senza peli sulla lingua - "Vuoi un Oscar? Fai un film sull'Olocausto e vai tranquilla!", oppure "Ecco un altro bel modo per vincere la statuetta: interpretare un disabile" - agli aspiranti attori.
Accanto alle performance certamente sboccate della storica protagonista di Titanic - che, in effetti, avrebbe conquistato l'Academy proprio grazie ad un ruolo legato all'Olocausto con The reader - impazza Andy, reclutato per figurare come soldato nazista e protagonista di un tentativo di approccio rispetto ad una delle "suore" che si rivela essere una fervente cattolica, ostacolo non da poco per l'assolutamente ateo Millman - leggendaria la sequenza del confronto con i fedeli del circolo di preghiera, così come il primo "contatto" con la sorella del "bersaglio" di Andy, che porta i segni di una paralisi cerebrale -.
Un episodio tra i più divertenti, dunque, questo incentrato su Kate Winslet, simbolo delle potenzialità di una serie troppo poco nota qui nella Terra dei cachi ma che andrebbe recuperata fosse anche giusto per godersi l'altra faccia della medaglia delle celebrità.


MrFord


Si uniscono ai festeggiamenti mancati di Van Damme a favore di Kate Winslet anche i blog:

Bette Davis eyes
Combinazione causale
Director's Cult
Ho Voglia di Cinema
Il Bollalmanacco di Cinema 
In Central Perk
Movies Maniac
Pensieri Cannibali
Recensioni Ribelli
Scrivenny 2.0

"When I wake up in my makeup
it's too early for that dress
wilted and faded somewhere in Hollywood
I'm glad I came here
with your pound of flesh
no second billing cause you're a star now."
Hole - "Celebrity skin" - 



giovedì 28 febbraio 2013

Cockneys vs zombies

Regia: Matthias Hoene
Origine: UK
Anno: 2012
Durata: 88'




La trama (con parole mie): Andy e Terry sono due fratelli figli di rapinatori che non hanno combinato troppo nella vita, e che il nonno - reduce della Seconda Guerra Mondiale - non esita a bastonare a dovere per la loro poca concretezza. Un giorno, per salvare la casa di riposo dove il vecchio combattente vive, i ragazzi decidono di organizzare un colpo che possa mettere al sicuro la struttura dalle speculazioni edilizie di un'impresa che vorrebbe piazzare al suo posto - almeno sulla carta - una serie di palazzoni ultramoderni, senza sapere che nel frattempo proprio dai cantieri degli stessi è pronta a propagarsi un'epidemia destinata a trasformare Londra in un teatro di guerra tra superstiti umani e zombies.
I fratelli, una volta ottenuto il denaro grazie all'aiuto della cugina e di due strampalati compagni di banda, dovranno dunque fare fronte ad una minaccia ben peggiore della polizia e tornare a salvare il nonno ed i suoi arzilli compagni di "riposo".




Fino a qualche anno fa parlare di zombie significava, in ambito cinematografico, confrontarsi volenti o nolenti con l'eredità lasciata dalla saga realizzata da quel geniaccio cattivo di George A. Romero, che con la sua nerissima critica sociale ha, di fatto, segnato l'immaginario collettivo della settima arte - e non solo -.
D'improvviso, poi, come un fulmine a ciel sereno è giunto lo strepitoso Shaun of the dead firmato da Edgar Wright, che oltre a stupire il Maestro in persona - che omaggiò il giovane regista anglosassone ospitando lui ed il suo protagonista ed attore feticcio Simon Pegg in La terra dei morti viventi, proprio nel ruolo di zombies - ha di fatto settato un nuovo standard per i prodotti di questo genere, realizzando quella che, senza dubbio, è stata la prima vera e propria commedia horror autoriale portata sul grande schermo.
Cockneys vs zombies si inserisce nel filone generato proprio da quest'ultima pellicola, mescolando atmosfere e stile che ricordano quelli di Misfits - riuscitissimi i titoli di testa in stile comic book - allo sfruttamento di una delle figure cardine della mitologia horror di tutti i tempi, che nonostante la mancanza di mobilità o espressività particolari ha mietuto successi ad ogni latitudine: lo zombie, per l'appunto.
Il regista Matthias Hoene, cool abbastanza e furbo ad utilizzare gli anziani ospiti della casa di riposo come asso nella manica per colpire e divertire il pubblico, però, risulta decisamente più acerbo dietro la macchina da presa del già citato - e mitico - Wright, finendo per portare sullo schermo un film assolutamente divertente e fresco ma incapace di bissare il successo - ed eguagliare la qualità - di Shaun e dei suoi creatori.
Senza dubbio, comunque, il risultato finale risulta quantomeno piacevole e perfetto per una serata senza troppo impegno da passare schiantati sul divano con il cervello spento: e nonostante il cast sia per la maggior parte non all'altezza di una distribuzione internazionale la scrittura e le situazioni forniscono un ottimo contrappeso regalando momenti assolutamente esilaranti ed un setting - la casa di riposo - sfruttato in precedenza solo da Don Cosciarelli nel suo mitico Bubba Ho Teep.
Le gag sfornate dalla giovane banda di aspiranti rapinatori, infatti, non bastano per conferire loro il ruolo di veri protagonisti della vicenda, saldamente nelle mani degli anziani in lotta con gli zombies - la fuga con il deambulatore dai basculanti mostri liberi nel giardino è già un piccolo cult fordiano - guidati dal battagliero nonno dei protagonisti, reduce della Seconda Guerra Mondiale che non sfigurerebbe di certo accanto al Walt Kowalski di Gran Torino in quanto a palle d'acciaio e ruvidità di maniere.
Dunque, tra una sventagliata di mitra ed un colpo di katana, una risata ed una bella, sana esplosione di teste di morti viventi, con Cockneys vs zombies non si assiste di certo ad una rivoluzione del genere ma ad un comodo, godurioso, senza pretese divertissement, che nei tempi di magra o in caso di eccessiva stanchezza a seguito degli impegni quotidiani finisce senza dubbio alcuno per starci da dio.
O da qualunque cosa abbia deciso di scoperchiare le fosse e liberare qualche cadavere per le strade del nostro tempo: in ogni caso, le capicollanti minacce troveranno sempre qualche battagliero nonnetto pronto a fare loro un considerevole culo a strisce.


MrFord


"Watching the people get lairy
it's not very pretty I tell thee
walking through town is quite scary
it's not very sensible either
a friend of a friend he got beaten
he looked the wrong way at a policeman
would never of happened to Smeaton
an old leodensian."
Kaiser Chiefs - "I predict a riot" -


lunedì 7 novembre 2011

Misf(ac)ts

Produzione: E4
Origine: Uk
Anno: 2011
Episodi: 8



La trama (con parole mie): E' ricominciata Misfits.
Non mi pare ci sia bisogno di aggiungere altro.
O no!?!?



Avete visto bene.
E vi dirò, quasi anche io non ci credo ancora.
Bottigliate per Misfits, incredibile.
Dopo due stagioni straordinarie capaci di sconvolgere, divertire, stupire e farmi pensare di essere di fronte ad una nuova, clamorosa pietra angolare per il mondo delle serie tv, è successo quello che non mi sarei davvero mai e poi mai aspettato.
E non sto alludendo alla dipartita del Nathan interpretato da Robert Sheehan, uno dei personaggi più importanti e strabilianti che il piccolo schermo abbia mai partorito.

"Ho proprio la sensazione che senza di me questa serie diventerà una vera cazzata!"

E' vero, trattasi del primo episodio.
E' vero, il rodaggio dopo un cambio così importante all'interno del cast può durare qualche puntata.
E' vero, ci sono ancora sette serate sette che aspettano i ragazzi terribili del servizio sociale.
Eppure la sensazione permane.
La stessa che aveva cominciato a palesarsi quando, dopo la sosta invernale ed i primi premi ricevuti, Glee aveva preso la via inesorabile del declino.
La prima cosa che ho notato nel nuovo inizio di quella che avrebbe dovuto essere la serie migliore del mio 2011 è che, fondamentalmente, non si ride più: dramma oppure no, l'ironia dirompente delle due passate stagioni era stata una delle più importanti testimonianze di freschezza del prodotto che avessi constatato.
La seconda, addirittura più grave, è quanto la sceneggiatura - fino ad ora sempre curatissima - sia diventata una sorta di accessorio per un prodotto ormai uscito dalla nicchia e diventato, in un certo senso, di moda: il mistero dell'uomo mascherato - sottotrama fondamentale delle prime due stagioni - ridotto ad un paio di sequenze di parcour, l'idea geniale dei nuovi poteri introdotta al termine della scorsa annata bruciata con una selezione a dir poco pessima - di merda sarebbe il termine corretto da usare -, l'aggancio che porta Rudy ad unirsi ai nostri è banale e privo di qualsiasi mordente.
E veniamo all'imputato principale della debàcle: Rudy.
Personalmente non ho nulla contro Joseph Gilgun, che avevo già apprezzato nell'ottimo This is England, quanto rispetto gli scellerati autori: ma io dico hai Nathan - e di Nathan, si sa, ce n'è uno e soltanto uno -, Sheehan molla e tu che fai!?
Lo sostituisci con la sua copia, come se non bastasse malriuscita.
Sarebbe stato decisamente più interessante - oltre che nel pieno spirito della serie - sostituire il vecchio Nate con un personaggio completamente diverso da lui, in modo da evitare l'imbarazzante quanto inevitabile confronto da parte dei fan.
E invece abbiamo questo Rudy che cerca di muoversi come Nathan, essere politicamente scorretto come Nathan, volgare come Nathan, spiritoso come Nathan, senza mai riuscirci.
Come se non bastasse, tolto il potenzialmente interessante potere di Curtis, il resto delle nuove acquisizioni dei nostri pare davvero al limite del ridicolo - ma davvero esiste qualcuno che chiederebbe come superpotere quello di essere un ingegnere aerospaziale!?!? Sul serio!?!? - nonchè assolutamente ingiustificato - lo stesso Curtis che afferma "ho preso questo perchè gli altri erano finiti", eddai! -.
Una delusione, dunque, per ora cocente, che getta nubi oscure sul futuro di quello che era diventato, senza se e senza ma, oltretutto con pochissimi episodi, il mio punto di riferimento rispetto alle serie tv.
E dato che non possiamo sperare in un ritorno di Nathan, conviene confidare in una presa di coscienza da parte degli autori ed un nuovo inizio che sia davvero all'altezza di ciò che è stato: perchè ora come ora la sensazione è proprio quella di quando si incontra un/una ex che si ricordava come una sorta di divinità del sesso, ci si torna a letto e si finisce per pensare "dovevo avere le pigne nel cervello quando credevo quello che credevo".
Dio è morto, diceva Nietzsche.
Nathan, invece, era immortale.
Speriamo che, nello scambio di poteri, quello sia finito dritto alla serie stessa.
Perchè ora, invece di affermare perentoriamente in pieno stile Kelly "I'm fuckin' luv ya!" mi viene da gridare ai quattro venti "whattafuck's that shit!?!?".

MrFord

"Stand up and admit it, tomorrow's never coming
This is the new shit
Stand up and admit it
Do we need it? NO!
Do we want it? YEAH!"
Marilyn Manson - "This is the new shit" -

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