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sabato 23 aprile 2016

Ti va di ballare?

Regia: Liz Friedlander
Origine: USA
Anno: 2006
Durata: 118'






La trama (con parole mie): Pierre Dulaine, insegnante di danza abituato agli ambienti di classe del ballo da sala, viene a contatto con la dura realtà dei giovani cresciuti nelle periferie più degradate, abituati a sopravvivere alla meglio e a difendersi dal mondo con le unghie e con i denti.
Convinto di poter fare la differenza, l'uomo decide di farsi avanti con la preside di uno degli istituti più "difficili" dal punto di vista della gestione degli alunni, lo stesso dove studia un ragazzo che Dulaine ha visto di persona vandalizzare un auto: quando, quasi senza speranza, Augustine James - questo il nome della preside - decide di accettare l'offerta di Pierre di insegnare danza agli studenti del doposcuola destinato alle punizioni, non saprà di aver dato inizio ad un progetto destinato a lasciare il segno nella storia delle istituzioni scolastiche newyorkesi.












So già cosa state pensando: se Ford si è ridotto a postare recensioni di titoli legati alla danza deve essere invecchiato forte o ubriaco forte.
Effettivamente, occorre ammettere di essermi imbattuto nella visione di Ti va di ballare? - come di consueto, terrificante adattamento italiano dell'originale Take the lead, ispirato alle reali vicende dell'insegnante di danza Pierre Dulaine - totalmente per caso, nel corso di una delle mitiche cene dalla suocera Ford - sempre pronta a sfamare alla grandissima anche una cavalletta come il sottoscritto - con film in sottofondo a fare numero: eppure, sarà perchè Banderas mi è sempre stato e sempre mi starà simpatico o per la sorpresa che fu, tempo addietro, Battle of the year, non ho trovato affatto terribile - nell'ambito di questo genere, e di un livello comunque ben lontano da quello delle produzioni di qualità - il lavoro di Liz Friedlander, incentrato sul ruolo che Dulaine ebbe rispetto al "recupero" dei ragazzi problematici delle scuole più "toste" di New York negli anni novanta, incentrato sull'insegnamento della danza e sulla focalizzazione del ballo di sala, che nel passato recente anche i cinefili più navigati hanno avuto modo di sperimentare sulla pelle grazie all'ottimo Il lato positivo.
L'unione, dunque, della volontà di riscatto dei ragazzi, della condizione di outsiders degli stessi, della costruzione del rapporto maestro/allievo - spassosi passaggi come l'esibizione di tango di Dulaine e della sua ballerina che convince la maggior parte dei reticenti maschietti della classe, tra i quali spicca l'indimenticato Dante "Rufio" Basco, a dedicarsi con maggiore interesse all'argomento - e del racconto della vita negli istituti più problematici della Grande Mela - quasi come se The Principal incontrasse i teen movies soft degli Anni Zero - ha fatto il resto, a braccetto con la cucina della suocera Ford e ad un ottimo White Russian preparato come di consueto a fine cena dal sottoscritto.
Per il resto, sarei quantomeno ipocrita ad affermare di essere rimasto schifato, considerato che, tutto sommato e pur essendo praticamente un tronco di sequoia quando si tratta di ballare, ho trovato il ritmo della pellicola gradevole ed il lavoro perfetto come sottofondo per passare una serata con chiacchiera libera e passaggi di gioco intensivo con il Fordino: certo, non andrei avanti a titoli di questo genere come se nulla fosse, o li sostituirei ai tanto amati film action perfetti per staccare il cervello, ma di tanto in tanto ho finito per rivalutare perfino questo tipo di proposte: segno di un deterioramento cerebrale a seguito delle sbronze potenti o di un precoce segnale del destino che mi attenderà tra qualche anno, quando la più piccola di casa Ford entrerà nella fase adolescenziale da balla che ti passa.
Sempre che non riesca, nel frattempo, a convertirla al wrestling ed ai calci rotanti.
In quel caso, mi dispiace per Banderas, ma non ci sarà trippa - o ballo - per gatti.




MrFord





"Oh, don't you dare look back.
Just keep your eyes on me."
I said, "You're holding back, "
She said, "Shut up and dance with me!"
This woman is my destiny
She said, "Ooh-ooh-hoo,
Shut up and dance with me."
Walk the Moon - "Shut up and dance" -






domenica 24 gennaio 2016

Non essere cattivo

Regia: Claudio Caligari
Origine: Italia
Anno:
2015
Durata:
100'






La trama (con parole mie): siamo a Ostia, nel pieno degli anni novanta. Cesare e Vittorio, cresciuti insieme ed abituati ad una realtà difficile e degradata, passano le loro giornate rimbalzando tra la piccola criminalità e le serate tra alcool e droga, fino a quando, per caso, Vittorio conosce Linda, che vive mantenendo un figlio tentando di stare lontana dalle zone d'ombra, e decide di mollare tutto, ripulirsi e ricominciare come operaio in cantiere.
Cesare, invece, resta ancorato agli eccessi ed al vecchio mondo dei due amici, rimbalzando tra l'amore per la madre e la piccola nipote malata, i tentativi di reinventarsi un'esistenza normale proprio accanto a Vittorio ed una storia con la ex di quest'ultimo, Viviana, che vorrebbe coronare trovando una casa dove, chissà, un giorno o l'altro potrebbe formare una famiglia.
Quando, però, i nodi di una realtà troppo dura verranno al pettine, Cesare dovrà affrontare il suo destino.





Questo post partecipa alle celebrazioni nostrane ribattezzate Cinema Italiano I love you!





"Bruno, tu ci sei mai salito, su una barca come quella?"
"No."
"Mi sa che non ci saliremo mai."
Recita più o meno così il confronto nell'ombra tra Cesare e Bruno, pronti ad osservare un pezzo grosso - che sia criminalità, politica o chissà cos'altro poco importa - allontanarsi dopo la loro consegna con una donna al seguito su uno yacht di lusso, mentre a loro non resta altro che tornare alla quotidiana desolazione del litorale ostiense.
Potrebbe essere quasi tutto qui, il senso dell'ultimo, potentissimo film di Claudio Caligari, uno che ha dovuto lottare con le unghie e con i denti ad ogni sua produzione - questa compresa - solo per finire "a morire come uno stronzo avendo fatto solo due film", come confessò all'amico Valerio Mastandrea, grazie all'impegno del quale è riuscito ad arrivare in sala postumo anche Non essere cattivo.
Ma nella storia di Cesare e Vittorio - interpretati straordinariamente da Luca Marinelli e Alessandro Borghi - c'è molto di più: tutta l'energia della gioventù bruciata, della voglia di riscatto, della condanna sancita dal luogo in cui si nasce, dello scoramento che porta ad una candela che brucia dai due lati o ad una quotidiana lotta pronta a logorarci - e ancora una volta un altro dialogo, quello tra Vittorio e la sua compagna a tavola nel finale, risulta quasi agghiacciante, con lei che quasi scocciata domanda a lui, che proprio per starle accanto ha rinunciato al crimine ed alle droghe per guadagnarsi il pane con il sudore della fronte ed i calli sulle mani, se quello che hanno davvero gli basta -, la potenza del Pasolini di Accattone e, in tempi più recenti, dei Loach e dei Dardenne, le risate e le lacrime, la tristezza senza possibilità di appello ed anche, perchè no, una speranza.
E chissà se Cesare guarderà a Vittorio come ad un modello, e lotterà per uscire da una periferia così grande da fagocitare anche più della grande città, o se il destino di suo padre segnerà per lui un percorso definito, come è stato per la cugina che non conoscerà mai, quella che abbraccia un orso di peluche e vede un Cesare che nessun'altro può vedere, al quale può chiedere, implicitamente, di non essere cattivo, e guardare al futuro con la speranza di qualcosa di meglio di quello che hanno.
Nessuno dei ragazzi di Ostia ha una risposta, probabilmente, non ce l'ha Bruno, che assicura a Vittorio che quello che considera come il figlio di quest'ultimo non avrà posto tra i suoi uomini, perchè non vorrebbe mai vedere il sangue del sangue di un amico entrare nel giro, non ce l'ha lo stesso Vittorio, che probabilmente si sentirà, nella sua vittoria contro l'ovvio fato che pareva prestabilito, come il peggiore degli sconfitti, non ce l'ha chi resta, e chi se n'è andato.
Non da un'altra parte, migliore.
Ma sottoterra.
Forse, ad averla, è solo Cesare.
Il Cesare del futuro, che sorride a quello che per suo padre è stato come un fratello, e che deve ancora costruire tutta la sua vita.
E può sognarla senza dover per forza lottare.
Senza dover essere per forza cattivo.





MrFord





"Se scoppio questo è un ciao 
non è un addio 
se hai un fratello che ti vuole bene quello sono io 
un nuovo giorno nasce 
blu come la sorte 
io inseguo i miei fantasmi 
e ti abbraccerò due volte 
uno è per l'amore 
uno per la forza 
perderò la strada e troverò la mia salvezza 
staccarsi non è facile per niente ma va bene 
il mondo sconosciuto è il mondo che mi appartiene."

Assalti frontali - "Va tutto bene" -




Partecipano alla festa made in Italy anche:

Solaris: Io sono l'amore
Pensieri Cannibali: Non essere cattivo
Director's Cult: Il volto di un'altra
Mari's Red Room: Shadow
Non c'è paragone: Basilicata Coast to Coast
In Central Perk: Maicol Jecson
Bollalmanacco: Almost Blue
Delicatamente perfido: Italiano medio





lunedì 12 ottobre 2015

Straight Outta Compton

Regia: F. Gary Gray
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 147'






La trama (con parole mie): siamo a Compton, un sobborgo degradato di Los Angeles, nell'ottantasei quando la Storia del Rap cambia radicalmente. Da quelle strade sempre in bilico tra droga, polizia, scontri razziali e morti ammazzati dalle quali è difficile fuggire, un gruppo di giovani più o meno legati alla criminalità decide di sfruttare la musica per evitare di finire per essere solo statistiche di cronaca nera.
Mossi dalla mente organizzata e dagli stimoli di Andre "Dr. Dre" Young, Eazy-E, Ice Cube, DJ Yella e MC Ren fondano gli NWA, che diventano prima un fenomeno cult locale, e dunque, spinti dal manager Jerry Heller, una nuova sensazione musicale in tutti gli States, arrivando perfino a sfidare il potere costituito dalle forze dell'ordine, di fatto stabilendo gli standard per tutti quelli che, da quel momento, verranno considerati gangsta-rapper. 
Ma l'impero che gli NWA costruiscono a partire dall'amicizia finisce presto per crollare schiacciato dal denaro e dalla fiducia destinata a scemare, lanciando le carriere da solisti di Dre e Ice Cube e portando Eazy-E sempre più vicino a Heller.
La storia di un gruppo che ha fatto la Storia della Musica.








Ricordo bene la voracità musicale degli anni passati come commesso da Virgin, tempi in cui, come fu per il Cinema, cercai di costruire le basi più solide possibili per la mia cultura musicale, senza sapere che, soltanto qualche anno dopo, mi sarei divertito molto più con tamarri sguaiati e simili piuttosto che con pietre miliari e proposte autoriali: risale a quel periodo anche il mio amore per il rap, che passa dai Beastie Boys ai Public Enemy, senza dimenticare i Cypress Hill - forse il loro Black Sunday è il mio disco di genere preferito in assoluto -, Notorius e, ovviamente, gli NWA.
La compagnia di Eazy E, Dre e Ice Cube mi colpì dritta allo stomaco dal primo ascolto: tosti, duri, senza mezze misure, tamarri e prodotti di un ambiente difficile giunti al successo e, di fatto, bruciatisi - come gruppo - in un tempo davvero troppo breve.
Personalmente, attendevo con trepidazione la trasposizione cinematografica dedicata alla loro parabola dal ghetto ai grandi palcoscenici ed alla fama internazionale, nonostante fosse stato annunciato che la stessa sarebbe stata firmata dal mediocre F. Gary Gray, già dietro la macchina da presa del dal sottoscritto detestato Giustizia privata di qualche anno fa.
Il risultato è stato un solido film tosto e con due discrete palle, dalla colonna sonora favolosa - del resto, gli NWA spaccavano davvero il culo -, la ricostruzione anni ottanta/novanta ottima, un gruppo di attori selezionati con grande cura- O'Shea Jackson Jr, che interpreta Ice Cube, è impressionante per somiglianza con il cantante ed attore - ed una giusta importanza data alla figura di Dre, il vero e proprio cervello dietro la costruzione del fenomeno che furono i Niggaz With Attitude.
Certo, senza dubbio il risultato finale risulta forse un pò troppo patinato e nel rispetto delle regole della grande distribuzione - non credo sia un caso che dietro l'operazione ci sia il colosso Universal e che negli States abbia fatto il botto al botteghino, in barba alla pochezza culturale del Bel Paese, che l'ha fondamentalmente snobbato -, eppure finisce per risultare intenso ed interessante per tutti i suoi quasi centocinquanta minuti di durata, alternando riscatto sociale, grandissima musica ed una sensibilizzazione legata agli anni del tristemente famoso pestaggio subito da Rodney King, che ispirò cantautori - Ben Harper su tutti - e fu la scintilla per le rivolte razziali che seguirono il primo processo agli agenti colpevoli nell'ormai lontano novantadue.
Di fatto, comunque, l'aspetto più interessante ad essere mostrato è quello legato all'importanza ed alle insidie dei ruoli di manager e produttore all'interno del processo creativo ed economico del mondo delle sette note: le figure di Dre e Jerry Heller, in questo senso, sono indicative, e decisamente più efficaci delle fugaci apparizioni a sensazione di figure come Snoop Dogg o Tupac, entrambi "creature", almeno agli esordi, dello stesso Dre, ed ugualmente forse più noti del loro stesso mentore, come sarebbe accaduto qualche anno dopo con Eminem.
Un film, dunque, buono ma non grande come avrebbe potuto essere, da un certo punto di vista simile al gruppo del quale racconta la storia: in fondo, se non fossero implosi a seguito di problemi legati a soldi e rivalità, gli NWA avrebbero potuto aspirare ad un posto anche più importante di quello che hanno nel mondo musicale, ed ora sarebbero ricordati non solo dagli appassionati e dagli addetti ai lavori, ma anche da chi li vede solo come i precursori della figura del "gangsta" o dagli ascoltatori occasionali.
Ad ogni modo, se non conoscete la loro storia o il mondo del rap, la musica o le gesta degli NWA, questo film e soprattutto i dischi della straordinaria band californiana continueranno ad essere un'ottima scintilla per appiccare un incendio, ed anche tra un paio di secoli, quando tutto parrà morto e sepolto, brani come Fuck the police - notevole la sequenza dedicata all'arresto dei membri del gruppo a Detroit - o Straight Outta Compton continueranno a lasciare il segno, ed ispirare qualunque ragazzo con la rabbia veicolata in modo costruttivo così da tenere la testa sempre alta e la voglia di esprimere la propria libertà - ed identità - oltre ogni misura.




MrFord





"Niggaz start to mumble, they wanna rumble
mix em and cook em in a pot like gumbo
goin off on a motherfucker like that
with a gat that's pointed at yo ass."
NWA - "Straight Outta Compton" -





sabato 10 ottobre 2015

Le formiche della città morta

Regia: Simone Bartolini
Origine: Italia
Anno: 2014
Durata: 81'





La trama (con parole mie): Simon Pietro, un aspirante rapper eroinomane, allontanatosi dalla famiglia e naufragate le speranze, è ormai un piccolo spacciatore indebitato con il boss locale Alfio. Nel corso di ventiquattro ore, assistiamo alla rincorsa del ragazzo all'impresa di mettere insieme la cifra necessaria per saldare il suo debito, tra riscossioni, vecchi debiti, favori ed un piccolo mondo ai margini che si sviluppa per le strade della periferia romana.
Riuscirà il giovane ad uscire dalla spirale in cui pare essere caduto, o verrà schiacciato come una formica da una forza più grande della sua, sia essa espressa dal crimine o dalla droga?
In un sottobosco in cui tutti paiono fregare tutti, riuscirà a fidarsi delle persone giuste e tornare a pensare di poter avere un futuro?








I più abituali tra gli avventori del Saloon ben sapranno che, nel corso di questi cinque anni, più volte è capitato di dare spazio a produzioni indipendenti italiane che potessero mostrare il lato nascosto della nostrana settima arte, tentativi di ragazzi con mezzi più o meno consistenti di ritagliarsi uno spazio in un mondo che facile non è neppure per scherzo.
Quando sono stato contattato a proposito della possibilità di affrontare la visione de Le formiche della città morta, ammetto di aver avuto più di un dubbio leggendo la sinossi, anche perchè i riferimenti a cult come Christiane F o l'atmosfera che ricordava L'odio scomodavano paragoni decisamente importanti per una produzione made in Italy ambientata nella periferia romana, ben confezionata ma certo lontana dalla potenza - anche in termini di produzione - dei titoli succitati: eppure devo ammettere che il lavoro di Simone Bartolini ha finito per guadagnarsi spazio ed una buona dose di rispetto - parlando in termini quasi rap - agli occhi di questo vecchio cowboy, mantenendo un ritmo decisamente sostenuto, raccontando una storia forse nota ma ugualmente sentita e profondamente umana, sfruttando numerose citazioni cinefile senza renderle fastidiose - è evidente che il buon Bartolini, prima ancora che un regista, sia un grande appassionato - e regalando chicche anche "basse" come la sequenza del bacio saffico in apertura di pellicola - che da queste parti si fa sempre molto, molto apprezzare -.
La vicenda di Simon Pietro, con il suo arrancare paranoide tipico del tossico e la sua lotta - starebbe bene, in questo senso, il termine anglofono struggle - per accumulare nel giro di ventiquattro ore i soldi necessari a respirare di nuovo, a pensare di poter avere ancora una chance, è diretta e coinvolgente sia nei suoi momenti ancorati alla realtà della periferia e del degrado, sia in quelli che suggeriscono la fuga verso ricordi, mondi paralleli, finali differenti da quelli che, inevitabilmente, richiamano situazioni come quelle raccontate da Bartolini.
Certo, i mezzi sono limitati, si potrebbe lavorare - e neppure poco - sulla recitazione - un esempio su tutti, il creditore di Simon, Alfio, troppo sopra le righe - e sul montaggio, eppure il risultato è assolutamente onesto e con le palle, quasi fosse una versione molto più drammatica del già apprezzato da queste parti Fame chimica, privo della pretesa di spacciarsi per il nuovo cult metropolitano italiano eppure, in qualche modo, dotato di tutte le potenzialità per esserlo: lo spirito del tossico - e della dipendenza -  è raccontato alla grande nella parabola discendente del protagonista, tanto da stimolare più di un dubbio rispetto al valore effettivo di titoli sopravvalutati e pluripremiati come Sacro Gra, sempre parlando delle realtà di periferia della Capitale.
Sfruttando, poi, un finale furbo ma non per questo criticabile, assistiamo, di fatto, ad uno di quei piccoli miracoli che, fortunatamente, ci fanno sperare a proposito di un Cinema italiano diverso e di carattere, che si spera prima o poi possa tornare ad essere un esempio per tutto il mondo.



MrFord



"You better lose yourself in the music, the moment
you own it, you better never let it go (go)
you only get one shot, do not miss your chance to blow
this opportunity comes once in a lifetime (yo)
you better lose yourself in the music, the moment
you own it, you better never let it go (go)
you only get one shot, do not miss your chance to blow
this opportunity comes once in a lifetime (yo)."
Eminem - "Lose yourself" - 





domenica 21 giugno 2015

A touch of sin - Il tocco del peccato

Regia: Jia Zhangke
Origine: Cina, Giappone, Francia
Anno: 2013
Durata: 133'




La trama (con parole mie): un operaio in perenne lotta contro il Potere rappresentato dai padroni e la loro corruzione, solo e provato dai soprusi, decide di porre fine con la violenza all'ingiustizia che ha dominato la sua vita; un giovane padre con una passione quasi incontrollabile per le armi da fuoco viaggia tra la Cina e la Birmania lasciando dietro di sè una scia di sangue all'insaputa della famiglia; una giovane receptionist di un centro massaggi, segnata dalla fine della storia con un uomo sposato e molestata da un cliente, reagisce nel modo più estremo possibile, ed è costretta a fuggire; un giovane si barcamena tra un lavoro e l'altro cercando di mantenere una vita dignitosa ed inviare soldi alla madre, ma le difficoltà quotidiane ed emotive rendono l'impresa di difficile realizzazione.
Quattro storie per quattro spaccati di violenza nella Cina di provincia attuale.








Questo post partecipa alle celebrazioni del China Day: inside the tradition, through the revolution.




Da parecchio tempo, qui al Saloon, non si tornava a viaggiare per le strade tracciate dal Cinema orientale, e di quello d'autore, che come spesso mi capita di scrivere quando parlo di qualche tamarrata di valore, è stato ed è una parte importante della mia vita di spettatore, in grado di regalare emozioni e riflessioni diverse ma ugualmente potenti - se non di più - rispetto a tutto quello che è puro intrattenimento.
Avevo scoperto Jia Zhangke quasi per caso, anni fa, in occasione della sua vittoria al Festival di Venezia con lo strepitoso Still Life, e per troppo tempo avevo rimandato la visione di questo celebratissimo A touch of sin, uscito un paio d'anni or sono, che ho approfittato per recuperare in occasione del Day dedicato al Cinema cinese organizzato dalla nostra compare Alessandra, promotrice di un'iniziativa che ho amato dal primo istante.
Tornare per le strade della Cina di provincia, lontana dall'immaginario che noi stranieri e potenziali turisti coltiviamo rispetto ad una delle terre e delle culture più affascinanti del mondo è stato decisamente intenso, nonostante debba ammettere mi sia mancato e non poco l'approccio grottesco che aveva letteralmente illuminato, a tratti, il già citato Still life.
Le quattro storie raccontate quasi fosse un esponente del nostrano neoralismo da Jia Zhangke sono espressione di un disagio nascosto sotto il tappeto da quella che è considerata una delle potenze economiche emergenti mondiali, di un'inquietudine e di una violenza che si consumano spesso senza possibilità di scampo o di ritorno, e che sono legate ad un background sociale che mostra ancora numerose zone d'ombra sia in materia di diritti che di condizioni di vita: cornici di imponenti ed agghiaccianti strutture architettoniche, palazzi formicai e condizioni igieniche precarie, treni ad alta velocità di nuova generazione accanto a motorini che paiono usciti dagli anni sessanta europei, una vita che separa i nuovi ricchi - ovviamente pochissimi - ad una moltitudine di sconfitti, derelitti, outsiders, minoranze destinate ad essere schiacciate da un peso enorme che continua ad aumentare.
E dalla vicenda dell'operaio pronto ad imbracciare il fucile per raddrizzare i torti - che rimanda, con una spettacolarizzazione pari a zero, al concetto espresso anche da noti cult hollywoodiani come Un giorno di ordinaria follia - al lavoratore pronto a rimbalzare tra un impiego e l'altro giusto per vedersi negare l'amore ed una vita dignitosa, passando attraverso la violenza cieca del giovane padre appassionato di pistole e della vendetta della receptionist vessata emotivamente e fisicamente dal genere maschile, ci troviamo di fronte ad un affresco dolente e terribile, che neppure nel finale - con il rimando al Teatro cinese tradizionale che in passato amai anche in Addio mia concubina - dal sapore di monito al Paese, più che alla gente che lo abita, pare trovare una qualche consolazione o seppur fioca speranza per il futuro.
Jia Zhangke non si preoccupa di piacere troppo, o di fare concessioni al grande pubblico, nonostante una cura notevole di tutti gli aspetti tecnici della pellicola - bellissima, a mio parere, la fotografia, ed almeno in paio di occasioni i movimenti di macchina lasciano a bocca aperta -, eppure, e nonostante non raggiunga le vette di Still Life, A touch of sin scava dentro mano a mano che trascorre tempo dalla visione, radicandosi e sedimentando, quasi rappresentasse l'abisso che si dovrebbe temere di guardare perchè potrebbe decidere di ricambiare lo sguardo.
E credetemi, quello di Zhangke e della sua Cina "nascosta" fa davvero paura.



MrFord



Mi accompagnano in questo viaggio lungo la Grande Muraglia:


China: inside the tradition.

Storia di fantasmi cinesi (Siu-Tung Ching, 1987) sul Bollalmanacco di Cinema
The Killer (John Woo, 1989) su Director's Cult
Lanterne rosse (Yimou Zhang, 1991) su Scrivenny 2.0

China: through the revolution.

I love Beijing (Ning Ying, 2000) su The Obsidian Mirror
Infernal Affairs (Wai-Keung Lau e Alan Mak, 2002) su Non c’è paragone
Life without principle (Johnnie To, 2011) su Solaris
Closed Doors Village (Xing Bo, 2014) su Mari's Red Room
Mountains may depart (Zhangke Jia, 2015) su Montecristo



"It comes down to this.
Your kiss.
Your fist.
And your strain.
It get's under my skin.
Within.
Take in the extent of my sin."
Nine inch nails - "Sin" - 





domenica 21 settembre 2014

Red riding trilogy: in the year of our Lord 1983

Regia: Julian Jarrold
Origine: UK
Anno:
2009
Durata: 102'




La trama (con parole mie): Maurice Jobson, ufficiale nella polizia dello Yorkshire e testimone delle luci e delle ombre dei casi legati allo Squartatore e alla scomparsa di una serie di bambine, riannoda i fili delle vicende che, dai primi anni settanta, hanno di fatto segnato il dipartimento cui appartiene, la società e la sua stessa esistenza. Dal giovane giornalista Eddie Dunford a BJ, da John Dawson al prete Laws, tutti i segreti delle vicende più sanguinose di un decennio paiono venire a galla insieme alla coscienza dello stesso Jobson, costretto a fare fronte anche ai fantasmi portati a galla da anni di soprusi e trattamenti al di sopra della Legge offerti da lui stesso ed i suoi compagni.
Archiviato il caso dello Squartatore e scongiurato - almeno in apparenza - lo scandalo del loro dipartimento, come reagiranno i fautori di tutti i gesti compiuti anche da Maurice nel corso degli anni? E chi è davvero il rapitore delle bambine? E quali, dei piccoli di una generazione precedente, riusciranno a salvarsi davvero?






L'affresco della trilogia di Red riding, iniziato con grande perizia ma in qualche modo in sordina ed esploso - sempre senza alzare troppo la voce - con il secondo film si chiude con le stesse tinte fosche con le quali si era aperto e attraverso quello che è il suo capitolo più articolato ed ambizioso, in bilico tra presente e passato di narrazione e pronto a fare luce su tutte le vicende raccontate nell'episodio dedicato al settantaquattro così come in quello ambientato nell'ottanta.
Ripescando attori e situazioni già mostrate raccontandole da un punto di vista ed un angolazione differenti, quest'ultimo passaggio tira le fila dei sospesi maggiori rimasti dopo la cattura dello Squartatore dello Yorkshire mostrata sul finire dell'episodio precedente: la questione della corruzione all'interno della polizia locale e quella legata all'assassino delle bambine, passata quasi in secondo piano rispetto alla più clamorosa e rumorosa indagine con oggetto il già citato Squartatore ma non per questo meno inquietante, anzi.
L'atmosfera pesante che aleggiava sulla vicenda di Hunter lascia, anche se soltanto in parte, trasparire un barlume di fiducia nel futuro e nella possibilità di sopravvivere principalmente grazie all'indagine condotta - pur se con riluttanza - dall'avvocato richiamato per risolvere nel modo più giusto possibile la questione del rapitore ed assassino di bambine, alla crisi di coscienza di Maurice, detective implicato in quasi tutti i giochi sporchi del dipartimento e alla lotta per la sopravvivenza di BJ - il Robert Sheehan che rese grandi le prime due stagioni di Misfits, già visto come personaggio secondario negli altri due episodi -, emblema di quei figli dello Yorkshire che, chissà, forse un giorno riusciranno a sopravvivere alla tempesta che, per disgrazia storica, sociale o geografica, si è abbattuta sulle loro teste - e torna vivissimo il confronto soprattutto con il meraviglioso finale del già citato This is England, che potrebbe definirsi speculare rispetto a quello che si affronta qui -.
Accanto a Sheehan restano impressi nella memoria dello spettatore il predatorio Sean Bean - ma il suo charachter si era già affrontato a fondo nel corso del primo dei tre film - ed il mellifluo prete di Peter Mullan, attore e regista notevole - come Paddy Considine che prestò volto ad Hunter - coraggioso nell'affrontare una delle parti più oscure e sgradevoli della sua carriera, di quelle pronte a fare impallidire anche le peggiori "metà oscure" del Cinema dedicato a serial killers e maniaci di vario genere.
A differenza dei due capitoli precedenti, inoltre, a dare man forte a quel quasi impercettibile lumicino di speranza di cui ho già scritto contribuisce un crescendo finale dalla tensione serrata tipico della scuola thriller americana, più che inglese, diverso sotto molti punti di vista dall'atmosfera rarefatta e solo suggerita dei due capitoli precedenti - anche nei loro momenti di massima tensione -: una chiusura diversa ma perfetta per una delle operazioni più importanti e meglio riuscite della televisione anglosassone recente, che non ha nulla di che invidiare alla qualità del grande schermo e che potrebbe senza troppa fatica competere con molte delle proposte distribuite nelle sale.
Impietoso il confronto con la situazione italiana, che fatta eccezione per pochi e clamorosi esperimenti come Romanzo criminale e Gomorra ancora pare lontana dalla maturità necessaria per produrre opere come questa, in grado di soddisfare l'occhio clinico degli appassionati e, seppur con una richiesta di impegno maggiore rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare da una serata da divano, tenere inchiodati al proprio posto anche gli spettatori occasionali.
In fondo, la Red riding trilogy affronta il lato oscuro dell'Uomo, lo stesso che, attraverso telegiornali e siti di news ci troviamo ad incontrare ogni giorno della nostra vita, e che in qualche modo sappiamo esistere anche quando guardiamo dentro noi stessi: l'importante è cercare sempre di distogliere lo sguardo prima che l'abisso lo ricambi.



MrFord



"Dream on, dream on
there's nothing wrong
if you dream on, dream on
of being a swan
but I know you're thinking..."
Elisa - "Swan" - 



domenica 1 giugno 2014

The walking dead - Stagione 1

Produzione: AMC
Origine: USA
Anno: 2010
Episodi: 6




La trama (con parole mie): Rick Grimes, sceriffo di provincia, viene colpito da un proiettile nel corso di un conflitto a fuoco e cade in coma. Al suo risveglio, il mondo come lo conosceva è completamente stravolto: a causa di un virus che attacca il cervello, infatti, gran parte della popolazione è stata trasformata in zombies assetati di sangue. Muovendosi in una realtà ormai distorta, Grimes si mette alla ricerca della moglie e del figlio, che pensa siano riusciti a fare i bagagli e fuggire prima dell'esplosione dell'invasione dei non morti.
Giunto ad Atlanta nella speranza di trovare un presidio dell'esercito, Rick incontra un gruppo di sopravvissuti capeggiato dal suo vecchio vice Shane, che non ha soltanto portato in salvo la famiglia Grimes, ma nel frattempo ha stretto una relazione con Lori, moglie dello stesso Rick.
L'improvvisato gruppo dovrà trovare il modo di gestire gli equilibri interni ed un piano a lungo termine per sopravvivere.






Allo stesso modo di Fringe, anche The walking dead, una serie nota ed amatissima da una fetta ben consistente di pubblico, era passata dalle parti del Saloon ai tempi dell'uscita di questa prima stagione, finendo nel dimenticatoio dopo un pilota tecnicamente ben realizzato - regia di Frank Darabont, trucco affidato al veterano Tom Savini - ma che non riuscì a coinvolgere i Ford come avrebbero voluto.
Conclusa l'avventura con la creatura di Abrams, abbiamo così deciso di ritentare con quella dell'appena citato Darabont, ispirata ai classici di genere e nel frattempo divenuta un vero e proprio cult del piccolo schermo: questa prima stagione, che conta soltanto sei episodi e che finisce per dare l'impressione di un lungo pilota sfruttato per il rodaggio di protagonisti e situazioni, non è riuscita a convincere fino in fondo - confermando l'impressione avuta qualche anno fa - pur mantenendo alto il livello di puro e semplice intrattenimento, ricordando al sottoscritto e a Julez lo splendido e concluso ad inizio anno videogioco The last of us, una vera e propria meraviglia gaming che probabilmente deve più di un'ispirazione a The walking dead.
Quello che, comunque, almeno finora manca a questa proposta per effettuare un vero e proprio salto di qualità va ricercato senza dubbio nell'ambientazione "apocalittica" - del resto ci aveva già pensato Romero sul finire degli anni sessanta - e nel cast, che pare mancare del carisma necessario per imporsi già dai primi episodi - in questo senso, l'esempio di Lost rimane assolutamente insuperato -: fa eccezione il già favorito fordiano Daryl, redneck di sawyeriana memoria e turbolento elemento dell'eterogeneo gruppo di sopravvissuti cui si aggiunge il protagonista Rick Grimes, che insieme all'amico/rivale Shane dovrebbe essere l'anima della serie ma che fatica a trovare uno spazio da protagonista anche soltanto fisicamente.
Non mancano, comunque, spunti interessanti ed episodi decisamente ben realizzati - l'aggressivo charachter interpretato da Michael Rooker, che sono sicuro rivedremo in futuro, e la prima fuga da Atlanta grazie ai veicoli recuperati in gioco di squadra da Rick e Glenn -, e l'impressione è quella di un titolo con margini di miglioramento molto ampi, che tornerò volentieri a mettere alla prova per scoprire se, effettivamente, ne sarà valsa la pena.
Intanto farò come se non fosse stata girata la conclusione della stagione nel Centro di controllo malattie - paradossalmente, più che un climax, si è trattato del punto meno interessante della season - e concentrerò le mie speranze sulla futura lotta per la sopravvivenza dei protagonisti e sull'evoluzione dei rapporti tra loro: in fondo, non potendo considerare gli zombies come nemesi particolarmente affascinanti, le aspettative più alte sono tutte riservate ai disequilibri umani: se le cose dovessero andare bene, mi ritroverò tra le mani una piccola chicca di genere che mi gusterò fino all'ultimo infetto cui verranno fatte saltare le cervella, mentre in caso contrario avrò sempre pronte le bottigliate delle grandi occasioni.
In un certo senso, mi sento decisamente più al sicuro che Grimes e compagni.



MrFord



"Somebody help me
I've got to eat,
somebody help me
to stand on my feet."
The Zombies - "I want you back again" -



venerdì 23 maggio 2014

Out of the furnace

Regia: Scott Cooper
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 116'




La trama (con parole mie): Russell Baze è un uomo da duro lavoro e silenzi prolungati, sepolto in fabbrica nella provincia americana profonda. Suo fratello Rodney, invece, veterano della Guerra in Iraq e testa calda, non pensa a lavorare e a farsi una famiglia, quanto a cercare di fare soldi grazie ai combattimenti illegali, supportato dal piccolo boss locale John Petty.
Quando Russell finisce in carcere a seguito di un incidente stradale e Rodney è lasciato solo a se stesso, finisce per incrociare la strada di Harlan DeGroat, un losco individuo violento e senza regole che di tanto in tanto traffica con Petty: quando Russell tornerà in libertà e Rodney si deciderà a combattere per l'ultima volta, le cose vanno a rotoli ed il minore dei Baze scompare.
Constatata l'incapacità della polizia di intervenire contro DeGroat, Russell deciderà di farsi giustizia da solo.







La Frontiera è da sempre uno dei luoghi che più affascina il sottoscritto, come ormai ogni avventore del Saloon ben saprà: un altro tema molto caro a questo vecchio cowboy è quello legato al rapporto tra fratelli, che ho vissuto e vivo intensamente sulla pelle ogni giorno.
La provincia americana - o almeno, una parte molto ruvida e selvaggia della stessa - offre uno dei terreni migliori per raccontare storie di vite consumate "tra il nulla e l'addio", che nel corso delle ultime stagioni sono state raccontate con piglio e risultati non uniformi ma con la stessa passione da pellicole come Un gelido inverno, Lawless o Come un tuono: Out of the furnace si colloca proprio in questo stesso filone disperato e rabbioso, sporco e decisamente senza speranze che possano essere alimentate da sogni larger than life come quello americano.
La vicenda dei fratelli Baze, narrata in stile classico dal regista del decisamente fordiano Crazy heart, è di quelle da ballad strappacuore di uno Springsteen o di un Neil Young, un dramma che finisce per ritrovarsi più legato alla disperazione ed al male di vivere che non alla vendetta ed al suo compimento, e che mostra quanto, in luoghi dimenticati come quello in cui i protagonisti si ritrovano a dover crescere e lottare per la loro sopravvivenza, le possibilità di rifuggire da una quotidianità che porta in fabbrica, nell'esercito o nell'illegalità siano prossime allo zero.
Il lavoro di Cooper, decisamente più efficace nella prima parte che nella seconda, forse troppo frettolosa e stereotipata, riesce comunque ad avvincere e coinvolgere l'audience grazie ad una carica emotiva che, seppur non raggiungendo gli stessi livelli, è riuscita a riportare alla mente del sottoscritto lo splendido Prisoners, grazie anche al lavoro di un cast di altissimo livello, da un Bale clamoroso soprattutto per l'accento - se non l'avessi saputo, avrei giurato che, più che inglese, fosse americano fino al midollo - ad un sempre convincente Woody Harrelson, qui nelle vesti di uno dei personaggi più oscuri e selvaggi che abbia mai interpretato - esemplare, in questo senso, l'ottima sequenza d'apertura -, spalleggiati da grandi nomi sfruttati come comprimari - Defoe e Whitaker - e giovani volti come Casey Affleck - che a livello interpretativo è decisamente anni luce superiore al fratello - e Zoe Saldana, mai parsa così intensa.
Ma la cosa che più mi ha fatto voler bene a Out of the furnace è stata senza dubbio la passione espressa nel raccontarlo, quasi fosse il regista stesso a dibattersi per uscire da una provincia che pare più soffocante e senza prospettive di un carcere o di una missione dall'altra parte del mondo pronti a dare la vita - e a toglierla - in nome di un Paese che, ma è storia vecchia, finisce per abbandonarti a te stesso una volta sulla via del ritorno.
Nella disperazione sommessa di Russell rimasto solo sul ponte dopo il confronto con quella che era e potrebbe essere ancora la sua donna, futura madre di un figlio che avrebbe voluto per lui, o nella resa incondizionata di Rodney di fronte all'inevitabile c'è tutta l'amarezza di chi è perduto dalla nascita, e dalla fornace cui la vita l'ha destinato potrà uscire sempre e soltanto nel peggiore dei modi.
Ed anche così, le prospettive paiono migliori di quelle che una vita di sopravvivenza quasi animale può offrire.



MrFord



"Stab the knife into the face and then
wrench the blade inside
murder this piece of shit
scraps of flesh and severed bone are on the floor
these I must hide."
Cannibal corpse - "Evidence into the furnace" - 




mercoledì 19 marzo 2014

Prossima fermata: Fruitvale Station

Regia: Ryan Coogler
Origine: USA
Anno: 2013
Durata:
85'





La trama (con parole mie): Oscar Grant III, un ventiduenne dal passato problematico di Oakland, poco dopo le due del mattino del primo gennaio duemilanove fu freddato da un colpo di pistola sparato da un agente di polizia appartenente alla pattuglia intenta ad effettuare un fermo dello stesso Oscar e di alcuni suoi amici di ritorno dai festeggiamenti per l'ultimo dell'anno passato a San Francisco.
I passeggeri del treno sul quale i ragazzi viaggiavano ed i testimoni, filmando con i cellulari l'accaduto, portarono alle dimissioni dell'intera squadra di agenti, del capo della polizia e dell'accusa di omicidio - prima di primo, dunque colposo - del responsabile.
Questa è la storia delle ultime ventiquattro ore di vita di Oscar.








Il Destino è davvero una gran brutta bestia.
Da lostiano convinto dovrei esserci abituato, eppure continuo a pensare alla vita come ad una sorta di corsa contro il Tempo e le difficoltà che fin dal principio ci poniamo l'obiettivo di affrontare sperando di scappare proprio da Lui, maledetto bastardo.
Il fatto è che presto o tardi, ed in barba a qualsiasi regola, quello arriverà comunque.
E si prenderà quello che vorrà, senza fare complimenti.
Onestamente, non conoscevo la storia di Oscar Grant III, che probabilmente avrà avuto i suoi ultimi istanti di lucidità sulla banchina di una stazione della metropolitana della Bay Area - Fruitvale Station, per l'appunto - ed altrettanto probabilmente avrà pensato a sua figlia.
La prima cosa che mi è tornata alla mente già dal principio di questo film - che documenta fatti purtroppo accaduti realmente - è stata la morte di Carlo Giuliani: certo, il contesto è completamente diverso, la dinamica molto più chiara, le versioni quasi completamente concordi.
Eppure, l'assurdità e l'assoluta freddezza del suddetto Destino mi sono parse decisamente simili: due giovani dal passato difficile con un'intera vita davanti portati via da un colpo di pistola esploso da un agente, quasi della stessa età al momento della morte, entrambi divenuti simboli di lotta di un'intera comunità.
Fruitvale Station, pellicola d'esordio del giovane regista e sceneggiatore Ryan Coogler, riporta - sfruttando le due ottime interpretazioni di Michael B. Jordan, già noto per Friday night lights, ed Octavia Spencer, letteralmente fenomenale - le ultime ventiquattro ore di vita di Oscar, impegnato a battersi con i suoi demoni rispetto all'idea di tornare a spacciare erba - occupazione che aveva causato la sua detenzione non troppo tempo prima -, di trovarsi un lavoro legale, rimettere a posto le cose con la famiglia e vedere gli amici per festeggiare l'ultimo dell'anno.
Mettendo per un momento da parte i riconoscimenti - più che giusti - ottenuti al Sundance, occorre sfatare ogni dubbio ed affermare che Fruitvale Station è un film che non lesina colpi bassi: a partire dall'agghiacciante apertura - che sfrutta un filmato reale del fatidico momento che costò la vita ad Oscar - fino alla conclusione - anche in questo caso legata a riprese di non fiction -, troviamo tutti gli ingredienti capaci di sconvolgere, commuovere, colpire ed indignare lo spettatore che, seppur non sfruttati con la tipica ruffianeria dei prodotti mainstream, rendono l'idea di quello che Coogler desiderava portare a compimento con il suo lavoro: commuovere il mondo attraverso la storia di un ragazzo morto davvero per nulla, a causa di un abuso di potere sconvolgente e terribile.
E sia che lo si veda attraverso gli occhi della madre di Oscar - credo che nessun genitore, in nessuna occasione e tantomeno per cause come questa vorrebbe trovarsi dall'altra parte di un vetro per il riconoscimento del cadavere del proprio figlio, impossibilitato perfino a toccarlo a causa delle indagini in corso -, sia attraverso quelli della figlia - splendida la chiusura muta sotto la doccia, taglio che non aggiunge parole altrimenti superflue ad una perdita enorme -, il risultato è un misto di lacrime e denti stretti, che vorrebbe una punizione ben superiore agli undici mesi che sono stati stabiliti per l'agente responsabile della morte del ragazzo - che ottenne il ridimensionamento dell'accusa da omicidio di primo grado a colposo nel momento in cui dichiarò di aver confuso il taser con la pistola -.
Destino o no, è sempre terribile pensare che ogni volta in cui salutiamo qualcuno dei nostri cari potrebbe essere l'ultima in cui li vediamo vivi, o viceversa.
E se il concetto non è concepibile in generale, figurarsi per tutti coloro che avrebbero ancora una vita da vivere.
Un applauso, dunque, a Ryan Coogler, che non ha dimenticato, e ha fatto conoscere al mondo una storia che si spera possa non ripetersi.
Uno ad Oscar Grant III.
Ed uno a sua figlia Tatiana.
Oggi è la Festa del papà, e sono sicuro che il suo vecchio apprezzerebbe.



MrFord



"So I'm taking the Mr.
from out in front of your name
cause it's a Mr. like you
that puts the rest of us to shame
it's a Mr. like you
that puts the rest of us to shame."
Ben Harper - "Excuse me Mr." - 



venerdì 7 marzo 2014

Sacro Gra

Regia: Gianfranco Rosi
Origine: Italia
Anno: 2013
Durata: 93'




La trama (con parole mie): il Grande Raccordo Anulare, tratto autostradale urbano di proporzioni titaniche, abbraccia Roma come gli anelli Saturno, e lungo il suo percorso si incrociano vite, disagio, situazioni al limite e storie da raccontare che rievocano i tempi del Cinema neorealista e di Pasolini, della ricerca della Realtà ben oltre le immagini e la fiction.
Testimonianze divertenti e drammatiche, quotidiane e grottesche, che trasformano quest'arteria urbana in una sorta di gigantesco formicaio all'interno del quale si incrociano veicoli e vite che, di norma, finiscono per sparire agli occhi del mondo.








I grandi Festival di Cinema sono, da sempre, una delle migliori occasioni per gli appassionati di riuscire a concedersi visioni e scoperte che di norma finiscono per restare ai margini della grande distribuzione, e che a volte finiscono per rivelarsi delle vere e proprie sorprese miracolose.
A volte, però, gli stessi Festival, condizionati da giurie e giochi di potere, campanilismo o gusto personale, rischiano di lasciare l'audience sola con la sensazione di essere stata in qualche modo fregata, lasciando libere di impazzare delusione e scarsa empatia con le scelte e le assegnazioni dei premi.
In quest'ultima categoria rientra Sacro Gra, vincitore del Leone d'oro all'ultimo Festival di Venezia recuperato con grande curiosità ed aspettative dal Saloon, considerata la passione che il sottoscritto ha sempre coltivato rispetto ai documentari, e proprio nella settimana che ha sancito il ritorno alla ribalta del Cinema italiano grazie alla vittoria del Premio Oscar come Miglior film straniero de La grande bellezza: il lavoro di Gianfranco Rosi, infatti, per quanto ottimamente realizzato e strutturato secondo una sorta di reinterpretazione del microcosmo che vive attorno a quella che è una delle arterie urbane più importanti d'Italia - e forse non solo - come un formicaio, o una comunità di brulicanti larve dalla singolare storia ed individualità, ha finito per lasciarmi decisamente indifferente all'esperienza visiva, ricca di spunti molto "Cinema verità" e di acuti lirici da grande fotografo ma poco incisivo dal punto di vista emotivo, senza contare che l'impressione ricevuta è stata più quella della furbata d'autore buona per i palcoscenici, per l'appunto, delle grandi kermesse dedicate alla settima arte.
Certo, l'effetto di passaggi come quelli del raccordo sotto la neve, delle bare aperte e dei dimenticati agli angoli delle strade, o mangiafuoco ai semafori, ricorda molto la ricerca che rese grande, ad esempio, l'opera di Pasolini, ma dal punto di vista passionale e di esigenza di raccontare una vera storia, o un insieme di storie, e non presentare una collezione di vite con un approccio così freddo da far raggelare il sangue nelle vene anche ad un qualsiasi Haneke, finisce per essere davvero scarsino.
Come se non bastasse, gli anni di lavoro a contatto con il pubblico mi hanno portato ad avere esperienza di molteplici casi umani non troppo distanti da quelli mostrati in questa pellicola, tanto da non rimanere così stupito, sconvolto o colpito dalla grottesca tristezza o assurdità di personaggi di norma persi negli anfratti della realtà quotidiana "normale" - pur considerata quanta stranezza alberga, spesso e volentieri, anche tra le pieghe di esistenze all'apparenza ligie a tutte le regole -.
L'idea, dunque, di Rosi si rivela, di fatto, interessante sulla carta ma decisamente impersonale una volta portata sullo schermo, lontana dai ritratti che di Roma fecero De Sica, il già citato Pasolini o Fellini, si parli di fiction oppure no: considerato quanto è stato detto, costruito, vissuto e provato lungo quell'anello, da una parte e dall'altra dello stesso, in secoli di Storia di una delle città più importanti del mondo, forse sarebbe stato lecito aspettarsi decisamente di più.
Prima o poi, comunque, si tratti di uno scrittore venuto dal nulla, un abitante desideroso di mostrare quella che è la sua visione della sua città, un regista famoso o chissà chi altro, il Grande Raccordo Anulare riuscirà a raccontare di nuovo, e davvero, la sua poliedrica, straordinaria esistenza.



MrFord



"Grazie Roma che ci fai piangere abbracciati ancora
grazie Roma, grazie Roma che ci fai vivere e sentire ancora
una persona nuova.
Dimmi cos'è cos'è
quella stella grande grande in fondo al cielo
che brilla dentro di te e grida forte forte dal tuo cuore."

Antonello Venditti - "Grazie Roma" - 





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