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lunedì 27 aprile 2020

White Russian's Bulletin



La primavera è esplosa, la quarantena prosegue - anche se, fortunatamente, comincia ad intravedersi qualche spiraglio di "liberazione" - e anche in casa Ford cerchiamo di limitare i danni dando più spazio possibile alle serate Cinema con i Fordini, che spero possano ricordare questi momenti in un modo più gioioso di quanto non sia stato possibile per noi vecchi del Saloon. 
Spazio, dunque, accanto a Netflix e affini, alla prima cavalcata con Il signore degli anelli dei giovani eredi del vecchio cowboy.


MrFord


GLITCH - STAGIONE 1 (Netflix, Australia, 2015)

Glitch Poster

In pieno recupero da quarantena, che probabilmente ha rappresentato un'occasione per tantissime proposte da piccolo schermo semisconosciute, è giunto al Saloon l'australiano Glitch, ambientato in una ipotetica cittadina dell'entroterra del continente "down under" e basato sull'interessante intro legato al ritorno dalla morte di alcune persone trapassate in contesti ed epoche diverse, tra le quali appare subito come fondamentale la figura della moglie di uno degli agenti di polizia della città, morta neppure due anni prima, che ritrova il marito sposato con la sua migliore amica ed in procinto di diventare padre.
Le idee sono interessanti, la prospettiva per la seconda e terza stagione buona, il cast risulta abbastanza azzeccato - mio preferito assoluto il buon Fitzgerald, una specie di Crocodile Dundee, il più fordiano dei redivivi -, pesa forse una realizzazione a budget senza dubbio limitato e dal taglio molto televisivo.
Per il momento ci rifletto, i tempi comunque di socialità sfrenate, del resto, sono ancora parecchio lontani.




IL SIGNORE DEGLI ANELLI (Peter Jackson, Nuova Zelanda/USA, 2001/2002/2003)

Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re Poster


Una delle cose più belle di essere un grande appassionato di Cinema è senza dubbio quella di poter trasmettere questa stessa passione ai propri figli: che diventino a loro volta fan della settima arte oppure no, avere la possibilità di vedere le emozioni che suscitano titoli che hanno costruito il percorso fatto dall'infanzia all'età adulta in noi è qualcosa di stupefacente, davvero magico.
Approfittando della quarantena e trasformandolo grazie alle versioni estese in una sorta di miniserie in sei puntate, ho potuto vivere la "prima volta" dei Fordini di fronte all'affresco dipinto da Peter Jackson legato al mitico romanzo - che, lo ammetto, non ho mai amato - di Tolkien: il risultato è stato una cavalcata divertentissima, dalla paura provata dai piccoli Ford nelle miniere di Moria alle imitazioni che ora fanno di Gollum, dalla passione del Fordino per Gandalf - anche se sembra più Peregrino Took - alle incitazioni all'indirizzo dell'esercito di "coloro che dimorano sotto la montagna" - detti più propriamente "fantasmi verdi" -.
Il lavoro di Jackson, anche a distanza di ormai quasi vent'anni, risulta sempre epico e magico, velato da quella malinconia da tempo che scorre ma che, se ben sfruttato, può trasformare una vita - anche la più piccola - nella più incredibile delle avventure.
Senza dubbio la meraviglia del Cinema, nel senso più puro e magico del termine, passa attraverso questa trilogia come in pochi altri titoli, e la rende e renderà sempre un Classico irrinunciabile.




TYLER RAKE (Sam Hargrave, USA, 2020, 116')

Tyler Rake Poster

Con le sale cinematografiche chiuse e le uscite scombinate, i network come Netflix diventano fondamentali anche oltre il piccolo schermo, assumendo il ruolo di bacino dal quale andare a pescare le eventuali novità del periodo: già puntato un paio di settimane fa, Tyler Rake - o Extraction - è il tipico action fordiano che indispettirebbe il Cannibale, tutto sequenze adrenaliniche, spari, botte e inseguimenti, costruito come se il fu Tony Scott incontrasse il Cinema action orientale.
Trama e personaggi sono piuttosto tagliati con l'accetta, e senza dubbio il motivo principale per il quale godersi la visione resta la qualità molto alta dei corpo a corpo e delle sequenze di combattimento, girate in uno stile davvero adrenalinico - ma non troppo tamarro, anzi, in stile The Raid - e tirate per il collo in modo da far restare senza fiato il pubblico.
Probabilmente i non appassionati potrebbero alla lunga patire le quasi due ore occupate per buoni due terzi dalla componente action, ma per chi apprezza Tyler Rake potrebbe diventare un piccolo guilty pleasure da quarantena da tenere buono per una qualche revisione anche in future serate da rutto libero e neurone spento.


sabato 24 settembre 2016

Wolf Creek - La miniserie (Stan, Australia, 2016)




Chi frequenta il Saloon abitualmente ben conosce il rapporto tra il sottoscritto e l'Australia, terra che ospitò i Ford nel corso del loro viaggio di nozze e che da sempre, per le sue componenti wild, di natura incontaminata e nuove possibilità, ha un posto speciale in questo vecchio cuore.
Ai tempi della visione del primo Wolf Creek il continente "down under" era ancora un sogno da viaggiatore da coronare eppure, grazie anche ad una robusta dose di tensione e violenza e a panorami mozzafiato, divenne immediatamente un piccolo cult anche grazie al diabolico Mick interpretato da John Jarrat, una versione psicopatica e sanguinaria del mitico Mr. Crocodile Dundee.
Quando, anni dopo, in sala approdò il sequel, arricchito con una svolta da humour nero non da poco, potei constatare con piacere che Greg McLean non si era fatto abbagliare dal successo, ed era riuscito a trovare una nuova formula per la sua creatura senza per questo mancare il bersaglio o snaturare la stessa: con questa miniserie, ed un ritorno ad atmosfere più cupe e da thriller, i fan del terribile Mick avranno pane per i loro denti e la conferma che il franchise funziona, pur se, come fu anche per i due lungometraggi, non senza difetti disseminati qui e là come buche in una strada perduta nel bush dell'outback.
A prescindere, comunque, da questi stessi difetti - un utilizzo del Tempo non proprio perfetto, e certe coincidenze forse un pò forzate -, le sei puntate di Wolf Creek scorrono che è una meraviglia, facendo luce sull'infanzia e le origini del nostro serial killer ed introducendo un'antagonista per lo stesso finalmente all'altezza, la giovane Eve, atleta americana scampata al massacro della sua famiglia e decisa a vendicarsi dell'uomo che l'ha privata di tutto quello che aveva: a fare da spalla a quest'ultima, i fan di Spartacus ritroveranno con gioia - anche se i capelli corti ed un pò di imbolsimento non gli hanno certo fatto bene - il Dustin Clare che diede volto all'indimenticabile Gannicus, uno dei favoriti del sottoscritto della serie dedicata al trace che sfidò Roma.
Per il resto, tra polvere e casi umani da far impallidire anche il peggiore dei rednecks, la vicenda di Eve e di Mick prosegue con una violenza forse più edulcorata rispetto alle pellicole ma ugualmente efficace, personaggi di contorno scombinati tanto da far pensare siano usciti dritti dritti da Un tranquillo weekend di paura - siano essi positivi o negativi, dalla camionista maori alla banda di rapinatori - ed una Natura che pare ben più di una comparsa, considerato che, negli spazi sconfinati dell'outback australiano, basta anche soltanto un infortunio casuale più grave del previsto per rischiare la vita.
Senza dubbio non si tratta di un prodotto indimenticabile o capace di convincere i non avvezzi al genere, ma per chi ha almeno un minimo di confidenza con squartamenti, morti ammazzati e thrilling, i sei episodi scorreranno come il sangue da una ferita aperta con bisogno di sutura, e l'epopea di Mick e la sua rivalità con la giovane e determinata statunitense incorniciata dall'immensità dell'entroterra australiano avranno il sapore del più fresco e stordente dei cocktail al termine di un pomeriggio assolato di fine estate.




MrFord





 

giovedì 14 agosto 2014

Il pipistrello

Autore: Jo Nesbo
Origine: Norvegia
Anno: 1997
 Editore: Einaudi






La trama (con parole mie): Harry Hole, giovane agente della Squadra Anticrimine di Oslo dal passato recente burrascoso a causa di un incidente in servizio, giunge a Sidney per indagare sull'omicidio di una giovane ex promessa televisiva del suo Paese da qualche anno in Australia per rifarsi una vita. Accolto dall'esuberante collega aborigeno Andrew Kensington, Hole scoprirà che dietro quello che pare un episodio isolato di violenza si nasconde in realtà un feroce e prolifico serial killer e stupratore seriale che rappresenterà la prima, vera, grande sfida della sua carriera come investigatore.
E l'estate australiana rovente e lontana per clima ed approccio ai ricordi lasciati in Norvegia farà da cornice ad un dramma d'amore e morte, una caccia all'ultimo respiro, una sfida che segnerà per sempre Harry ed i suoi demoni interiori.








Pochi personaggi, nella mia carriera di lettore - e non solo - sono riusciti a tracciare un solco profondo nel sottoscritto come e quanto Harry Hole: il detective creato dalla mente geniale e dalla penna tagliente di Jo Nesbo, ormai idolo fordiano assoluto, ha costruito negli ultimi anni un vero e proprio mito attorno alla sua figura di antieroe sconfitto e clamorosamente vincente, totalmente inaffidabile e dannato quanto inesorabilmente nato per essere presente, e proteggere chi ama anche quando il Destino conduce ad un finale amaro.
Il mio cammino incrociò quello di Hole grazie allo straordinario Il leopardo, che diede inizio ad una caccia che mi portò a recuperare le sue avventure precedenti - Il pettirosso, Nemesi, La stella del diavolo, La ragazza senza volto, L'uomo di neve - prima di tuffarmi nelle due successive: grazie, ora, ad una tardiva edizione italiana, ho finalmente avuto modo di iniziare dal principio, con quel Il pipistrello che, sul finire degli anni novanta, accese la scintilla di uno dei charachters più importanti del crime e della Letteratura recente.
Ambientato, tra l'altro, nella mia amata Australia - principalmente a Sidney, a dire il vero - questo romanzo rappresenta alla grande la palestra di quello che diverrà Nesbo meno di una decina di anni dopo, ovvero uno scrittore dal talento enorme e cristallino, mostrando al contempo un Hole giovane, impetuoso, romantico, lontano eppure clamorosamente vicino al lupo solitario con il peso del mondo sulle spalle che si imparerà a conoscere con i romanzi successivi, preda degli stessi demoni - battezzati tutti dal Jim Beam - e della voglia di vivere che, ad ogni prova cui viene sottoposto, finisce per avere la meglio sulle ragioni della morte.
Curioso quanto lo stile ancora acerbo - privo o quasi delle geometrie che renderanno i romanzi della maturità una degna rappresentazione dei giochi di prestigio nolaniani cinematografici - ed un'idea probabilmente ancora non completa delle potenzialità del protagonista contribuiscano, al contrario, alla realizzazione di un romanzo godibile e teso, che neppure il fatto di conoscere l'identità del serial killer è riuscito a sminuire - non ricordo, onestamente, in quale dei successivi titoli della serie venga citato -, concluso con un climax da urlo dalla potenza simile a quella riservata dal miglior Winslow, intriso dei gusti, dei panorami e dei sapori di un'Australia decisamente lontana dalla Norvegia dei ricordi dello stesso Hole, talmente giovane da fare quasi tenerezza - ai tempi di questa vicenda doveva avere da poco superato i trenta, nell'ultimo Polizia dovremmo essere ormai alla soglia dei cinquanta - eppure rivelato in alcuni dettagli mai più citati nel corso delle sue vicende.
Senza dubbio, conoscendo il valore delle opere successive, questo romanzo apparirà in una certa misura ingenuo ai fan dell'investigatore, eppure, avendo la possibilità di ricominciare da capo, penso sarebbe una partenza perfetta per chi si avvicina per la prima volta al vecchio Harry: per il sottoscritto, tra un "mate" ed il cognome del protagonista ribattezzato Holy - santo, proprio come il bevitore - fino al veleno scelto da ogni alcolizzato come si deve per mettersi alla prova e scatenare tutti i demoni del proprio inferno, è stato un ritorno al passato goduto dalla prima all'ultima pagina, specchio di quella che diventerà la forza di uno dei più grandi scrittori - di genere e non solo - viventi, e di uno dei charachters più straordinari che un ex calciatore, giornalista ed analista di borsa potesse inventare.
E non solo lui.
E nella morte - in tutte le sue incarnazioni, a partire dal malefico Bubbur - che insegue Harry Hole quanto e più dei suoi demoni, pronta a prendersi spesso e volentieri chi lo stesso Hole cerca di proteggere - e troppo spesso di amare - c'è tutta la struggente passione di chi vive la vita sempre e comunque, anche quando pare troppo impegnato a distruggere se stesso e quello che costruisce: è per quella stessa passione che Harry Hole è il Batman del crime.
Per quella stessa passione che non c'è pipistrello, o serpente che possa fermarlo.
Perchè anche nella sconfitta, la sua voglia di vivere è qualcosa di troppo grande per essere fermata, distrutta, resa cieca da una bottiglia, o un sorso di troppo.
Harry Hole è l'opposto dei serial killer che caccia, pronti a giocarsi tutte le carte per rischiare sempre di più, fino ad essere presi.
Harry Hole rischia per andare oltre. Per essere così leggero da volare in alto.
Più in alto di tutti.
Partendo dalle profondità degli abissi.




MrFord




"Buying bread from a man in Brussels
he was six foot four and full of muscle
I said, "Do you speak-a my language?"
he just smiled and gave me a Vegemite sandwich."
Men at work - "Down under" - 




giovedì 19 giugno 2014

Saloon Mundial: Roja matada

La trama (con parole mie): avevo predetto ieri che questa sarebbe stata una giornata di verdetti, ma non mi aspettavo in modo così clamoroso. In barba a quanto sembrava dopo la partita inaugurale, infatti, questo pare sempre più il Mondiale degli outsiders: la Spagna, costretta a giocarsi il tutto e per tutto contro il Cile, ha fallito clamorosamente la sua occasione.
Il resto, dunque, pare essere passato tutto in secondo piano: e se per Russia - Corea del Sud poteva starci, è un peccato per la bellissima partita che è stata Olanda - Australia.
Ma tant'è. Qui al Saloon siamo comunque contenti così.









Ieri notte, più o meno a questa stessa ora, ha esordito al Mondiale la Russia guidata da Fabio Capello, che non solo dovrebbe farsi pubblicità - in fondo, nel 2018 i Campionati del mondo di calcio si svolgeranno proprio nella patria degli zar -, ma che sulla carta era considerata come una delle potenziali sorprese della kermesse iridata.
Il risultato è stato una partita al limite del pessimo che ha visto i cosacchi di Don Fabio correre ai ripari e salvarsi per il rotto della cuffia a seguito di una papera clamorosa del loro portiere che aveva apparentemente spianato la strada ad una Corea che non è neppure lontanamente quella che una dozzina d'anni fa - e poco importarono gli aiuti arbitrali - arrivò in semifinale.
Secondo pareggio del Mondiale e serio candidato al match più brutto della rassegna.






La seconda partita della giornata, invece, è stata decisamente più interessante: l'Olanda che, una settimana fa, ha pettinato la Spagna come si conviene ha avuto vita durissima contro la "mia" Australia, che seppur destinata a tornare in patria è uscita a testa altissima dal confronto con i vice Campioni del mondo. Gol spettacolari, ribaltamenti di fronte e risultato, tensione fino all'ultimo minuto: dovrebbe essere sempre così.
Occorre però ammettere che, nonostante l'approccio funambolico ed i quintali di gol messi a segno finora, gli Orange non paiono comunque invincibili, e potrebbero avere vita non facile se messi a confronto con formazioni più toste ed arcigne come la Germania o il Cile.






E proprio parlando di Cile, giungiamo al piatto forte della serata: la spocchiosa Spagna, vincitrice degli Europei del 2008 e 2012 - e noi lo sappiamo bene - e degli ultimi Mondiali, esce a testa bassissima dopo aver incassato due pere sonore anche nella sua seconda partita dopo le cinque della prima.
Complimenti a Vidal e compagni, che appaiono arrabbiati e grintosi quanto basta per poter sperare di avanzare almeno fino ai quarti - anche se, con ogni probabilità, agli ottavi dovranno vedersela con il Brasile -, e grande delusione per Casillas e soci: un peccato, perchè la Roja era una grande squadra venuta dalle profondità del mondo degli outsiders, passionale e sfrenata, rovinata irrimediabilmente dal suo stesso infighettamento e dalla fame ormai nulla di vittorie.
Per la prima volta, dunque, la squadra Campione del mondo esce matematicamente dopo due sole partite su tre, conferma di una regola non scritta dei Mondiali che, almeno nella Storia recente, hanno visto le vincitrici dell'edizione precedente deludere alla grande al loro ritorno in competizione - la Francia nel 2002, eliminata all'ultima partita del girone, il Brasile nel 2006, fuori agli ottavi, l'Italia nel 2010, pronta ad imitare i cugini transalpini -.
Probabilmente non paga la scelta dei ct di puntare troppo sull'ossatura dei vincitori passati: evidentemente arrivare sul tetto del mondo - sogno, probabilmente, di ogni calciatore - soddisfa più di quanto non si possa pensare.
Al contrario, qui al Saloon si festeggia quello che, finora, è un Campionato del mondo quasi esclusivamente incentrato sulle sorprese: speriamo che si possa continuare così.



MrFord



P. S. Nel frattempo continuano gli aggiornamenti sulle partite in corso in notturna. Al momento la Croazia è in vantaggio sul Camerun, ridotto in dieci uomini. Se continua così, Mandzukic e compagni potranno giocarsi il tutto per tutto contro il Messico nell'ultima partita del girone.




venerdì 6 giugno 2014

Wolf Creek 2

Regia: Greg McLean
Origine: Australia
Anno:
2013
Durata: 106'





La trama (con parole mie): Mick Taylor, cacciatore e terrificante serial killer venuto dall'outback australiano, è ancora libero sulle strade apparentemente infinite di un Paese che vede migliaia di persone scomparire senza lasciare traccia ogni anno, prede della Natura o dei suoi predatori.
Dunque, nel territorio dell'area nota per il cratere di Wolf Creek, vedremo l'incontenibile Crocodile Dundee dell'horror entrare nelle vite - e nelle morti - di una pattuglia di poliziotti dal facile abuso di potere, di una coppia di fidanzati autostoppisti tedeschi e di un turista inglese capitato per caso tra il cacciatore e la sua vittima designata: sangue, morte, inseguimenti e violenza saranno dunque i connotati di un quadro che avrà ancora e sempre per cornice la stupenda e crudele wilderness del cuore dell'Australia.









Come gli storici - e non - avventori del Saloon ormai ben sapranno, in casa Ford l'Australia è ben più di una meta da sogno per un qualsiasi viaggio: il Paese "down under" è infatti un pezzo del cuore del sottoscritto e di Julez da ancora prima che si potessero percorrere quelle straordinarie strade in mezzo al nulla insieme, esattamente dal momento in cui, amici e colleghi, proposi per una serata horror il primo e fenomenale Wolf Creek, che da queste parti si era amato davvero parecchio.
Julez, ai tempi, risultò tiepidina rispetto alla visione, alimentando quella sorta di rivalità e gioco di provocazioni che fu il nostro forte ai tempi - e che, pur se in misura diversa, continua anche oggi -, mentre io rimasi in attesa di un sequel che rendesse ulteriore giustizia ad uno dei personaggi più interessanti che il genere abbia regalato agli appassionati negli ultimi dieci - e forse più - anni: Mick Taylor.
Interpretato da un roccioso John Jarratt - anche se, occorre ammetterlo, in questo secondo giro di giostra pare parecchio invecchiato -, il charachter considerato da subito una sorta di versione spietata di Mr. Crocodile Dundee assunse, infatti, le dimensioni di charachter cult totale, regalando perle a profusione riproposte dal regista Greg McLean anche in questo secondo capitolo sfruttando regole forse più facili - quelle del grottesco e della black comedy - ma senza dubbio utili a non trasformare lo stesso cacciatore in una sorta di fotocopia di se stesso, come spesso accade per i "mostri" dell'horror in genere.
L'atmosfera, infatti, inquietante e spaventosa del primo film è sostituita da un gusto decisamente sopra le righe per il gioco sporco del protagonista, che passa senza colpo ferire - o quasi - da una vittima all'altra neanche si trattasse dell'eroe di turno, finendo per prendersi gioco perfino dell'Australia stessa, dei suoi luoghi comuni - a dir poco geniale l'inseguimento in autostrada con tanto di canguri involontari vittime dell'alta velocità, o l'interrogatorio finale - e dei turisti che finiscono - giustamente - per trasformare quella meravigliosa terra in una sorta di realizzazione dei loro sogni, di viaggiatori o semplicemente di aspiranti fuggiaschi da una vita che la vecchia Europa si può solo sognare.
Andando comunque oltre alle questioni "alte" - che, senza dubbio alcuno, non farebbero certo impazzire il vecchio Mick - e alla sempre splendida cornice dell'outback - dal cratere di Wolf Creek al deserto, che è esattamente così come lo si vede, una strada a due sensi in mezzo al nulla -, l'intuizione di McLean di porre sul cammino di Taylor vittime completamente diverse tra loro in grado di farci prendere le parti dello psicopatico - i poliziotti -, provare compassione - i giovani fidanzati tedeschi, la coppia di anziani - o pura e semplice partecipazione cinematografica rispetto ad una fuga praticamente senza speranze - il turista inglese - risulta vincente, in grado di soddisfare sia i fan della prima ora di questa sorta di neonato brand ed i nuovi viaggiatori giunti ad incrociare il cammino di un assassino che pare mescolare Chopper e Jack lo squartatore, Mad Max e Le colline hanno gli occhi.
Non stiamo parlando certo di Cinema d'alta scuola, o di qualcosa che coccoli le visioni di puristi e pusillanimi - vero, Cannibal? - eppure Wolf Creek 2 riesce a convincere e divertire, sporcare i panni quanto basta perchè sembrino vissuti, dare l'idea e la percezione della Legge della giungla, seppur in versione umana e senza dubbio psicotica.
Potrebbe essere definito in molte misure old school, ed essere detestato per altrettante, eppure questo crudele giocattolo funziona alla grande, e pur non essendo destinato a cambiare la Storia del Cinema, resterà un ricordo più che piacevole per gli appassionati, quasi resi fiduciosi dal senso di inquietudine crudele e divertita della conclusione, fedele come quella del predecessore alla leggenda di Mick Taylor, che come un coccodrillo pare muoversi davvero soltanto quando ha la certezza di non lasciare scampo alla preda.
Del resto, lui è un vincente.
E chi gli capita tra le mani e il coltello, potete immaginare cosa sia.




MrFord




"Get your motor runnin'
head out on the highway
lookin' for adventure
and whatever comes our way
yeah Darlin' go make it happen
take the world in a love embrace
fire all of your guns at once
and explode into space."
Steppenwolf - "Born to be wild" - 




martedì 12 novembre 2013

Two mothers

Regia: Anne Fontaine
Origine: Australia, Francia
Anno: 2013
Durata: 100'




La trama (con parole mie): Lil e Roz sono amiche da una vita, ed oltre all'amore per l'oceano hanno coltivato un legame così forte da superare quello per gli amici ed i partners. Eccezione a questa regola sono Ian e Tom, i loro due figli, che vivono spensierati la post-adolescenza tra surf e speranze nel futuro.
Quando il marito di Roz si trasferisce a Sidney per un nuovo lavoro, tra quest'ultima ed Ian, figlio di Lil, nasce un rapporto ben oltre l'amicizia, scatenando la gelosia di Tom, figlio di Roz, che si spinge così tra le braccia della madre dell'amico.
Questo strano gioco delle coppie prosegue causando prima la separazione di Roz dal marito, dunque minando i rapporti che, negli anni, vedranno i due giovani costruire con le rispettive fidanzate e spose.




A volte capita di trovarsi di fronte ad alcune pellicole finendo per chiedersi il perchè della loro stessa esistenza: in alcuni casi si tratta di abomini vergognosi ed agghiaccianti come A serbian film, altre volte semplicemente di titoli buoni giusto per il cestino della spazzatura del Cinema.
E' il caso di questo Two mothers, robetta dal sapore di melò pruriginoso e finto autoriale firmata da Anne Fontaine, una regista che non ho mai apprezzato che porta in scena la sua versione "in famiglia" di Cinquanta sfumature di grigio raccontando la storia di Roz e Lil, amiche da una vita, prima madri e dunque nonne e sempre insieme, pronte come se niente fosse a sollazzarsi con il figlio ventenne l'una dell'altra.
Non che il sottoscritto possa scandalizzarsi per un rapporto con una così decisa differenza d'età - finchè si tratta di adulti consenzienti, ognuno è libero di divertirsi tra le lenzuola con chi vuole -, quanto più che altro per la malizia - mal gestita, tra le altre cose - che traspare da un film all'interno del quale finisce per non salvarsi nulla che non siano i meravigliosi paesaggi australiani e l'ancora splendida Robin Wright, in grado di fare mangiare parecchia polvere ad una Naomi Watts sempre più spenta e lontana dagli standard dei tempi di Mulholland Drive: i livelli di trash e di ridicolo involontari in grado di venire a galla nel corso della pellicola risultano clamorosamente alti, e senza soffermarsi sparando sulla croce rossa della vicenda portante finiscono per bastare passaggi agghiaccianti quali il confronto tra il pretendente di Lil che di colpo pensa di aver realizzato che la donna della quale è innamorato è in realtà lesbica ed ha una storia con la sua migliore amica o l'agghiacciante parte finale, con le nuore delle due inarrestabili cougars pronte a lasciare i loro mariti portandosi via le figlie di entrambi senza che gli stessi battano ciglio per aver perso la loro famiglia, contenti di potersi divertire l'uno con la madre dell'altro.
Come se non bastassero, inoltre, l'atmosfera da Beautiful su grande schermo unita a questo tipo di scivoloni, finiamo per incappare in una sceneggiatura tagliata con l'accetta pronta a fare fuori i personaggi "scomodi" in men che non si dica, dal marito di Roz - che nel giro di un paio d'anni finisce per costruirsi una nuova famiglia a Sidney, rimanere in ottimi rapporti con la moglie che l'ha lasciato per stare con il figlio ventenne della sua migliore amica senza preoccuparsi che il suo stesso rampollo abbia ricambiato mettendosi con quella stessa amica - alle mogli dei due ragazzi, conosciute praticamente per caso ed altrettanto a caso rimosse dalla storia nel momento clou per concentrare una volta ancora tutta l'attenzione sulla doppia coppia protagonista.
Un film, dunque, evitabile ed inutilmente "scandaloso", scritto più che male e patinato come se fosse uno di quei prodotti finto autoriali buoni solo - in questo caso - per stuzzicare qualche fantasia erotica nelle signore di mezza età da the delle cinque e finto film d'essai in sala, casalinghe - d'alto bordo - disperate che continueranno a non confessare neppure alle amiche di essere corse a casa a toccarsi pensando che non sarebbe poi male avere la possibilità di vivere lo stesso destino delle due protagoniste di questa sciapissima pellicola.
Per quanto mi riguarda, roba come questa può essere tranquillamente messa alla stessa stregua delle schifezze made in Italy che i distributori continuano a propinarci di settimana in settimana, rubando spazio a prodotti di tutt'altro livello che qui nella Terra dei cachi troppo spesso e volentieri rimangono un miraggio.
Forse perchè, in qualche modo, siamo un Paese di "quelli che benpensano".
Almeno in superficie.
Perchè sott'acqua è tutta un'altra cosa.


MrFord


"Ognun per se, Dio per se, 
mani che si stringono tra i banchi delle chiese alla domenica, 
mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano 
altrimenti le altre mani chissà cosa pensano, si scandalizzano. 
Mani che poi firman petizioni per lo sgombero, 
mani lisce come olio di ricino, mani che brandiscon manganelli, 
che farciscono gioielli, che si alzano alle spalle dei fratelli."
Frankie Hi-Nrg - "Quelli che benpensano" - 





lunedì 16 settembre 2013

Drift - Cavalca l'onda

Regia: Ben Nott, Morgan O'Neill
Origine: Australia
Anno: 2013
Durata:
113'
 


La trama (con parole mie): Andy e Jimmy Kelly, fuggiti accanto alla madre da Sidney e da un padre violento ed alcolizzato all'inizio degli anni sessanta si ritrovano tra i pionieri del surf sulle spiagge mozzafiato dell'Australia più selvaggia e rurale, ragazzoni di provincia pronti a rischiare il tutto e per tutto tra le onde e non solo.
Andy, tutto d'un pezzo e più responsabile, sogna di mettere in piedi un business legato all'equipaggiamento per il surf, mentre il fratello minore Jimmy, genio e sregolatezza della tavola, con l'amico Gus finisce sempre per essere in bilico tra le cattive compagnie ed un destino incerto.
L'arrivo del filosofo itinerante J.B. e della sua compagna di viaggio Lani porterà i due fratelli a confrontarsi con i propri sogni, la realtà ed una crescita che non sempre si rivelerà piacevole come una giornata in spiaggia.




Scrivo questo post in una sera di fine estate che ha portato in dono uno dei primi temporali con il sapore fresco e pungente dell'autunno, conscio del fatto che lo programmerò per il giorno in cui, dopo tre mesi e mezzo, farò ritorno al lavoro.
Ora, poco importa del perchè sia riuscito a concedermi e godermi una stagione come quelle che si facevano ai tempi della scuola, che il mio voto ad un film di cuore ma non così perfetto sia fin troppo generoso, che l'Australia mi manca, e vorrei che tutta la famiglia Ford avesse occasione di trasferirsi lì, down under, per ricominciare in un luogo in cui ricominciare pare proprio essere possibile.
Nel cuore di luglio, quando la nostalgia crescente di questi giorni ancora appariva come un miraggio, rividi e recensii - e non per la prima volta - Point break, parlando dell'importanza che l'estate ha avuto e continua ad avere nella mia formazione e vita, nonostante il sottoscritto non abbia mai di fatto messo piede su una tavola da surf in vita sua - per il momento il massimo, in questo senso, è stato il parasailing, sempre goduto ai tempi dell'Australia - e Julez sia nata tra le onde decisamente più di questo vecchio cowboy decisamente più a suo agio sulla terra, o al massimo tra le onde di una sbronza da record.
Eppure Drift - Cavalca l'onda è riuscito - malgrado la presenza del cane maledetto Sam Worthington - a conquistarmi dal primo all'ultimo minuto, ricordando i tempi in cui riuscivo a godermi il piacere di una visione senza pensare troppo al suo valore artistico, alla tecnica o a tutti quegli aspetti che ora finiscono, volenti o nolenti, per influenzarmi nel momento in cui mi metto alla scrivania e decido quale voto assegnare ad un film, se bottigliarlo oppure no o cosa lasciarmi scappare nel momento in cui scrivo dello stesso.
Sarà che si tratta della già citata Australia, dei mitici anni settanta, di fratellanza o di sogni per i quali ci si ritrova a combattere con le unghie e con i denti, ma le vicende dei Kelly e dei loro amici hanno finito per fare breccia nel cuore del sottoscritto neanche si trattasse di compari di mille disavventure, appartenenti ad una classe sociale che ben conosco e che ha nel suo futuro i calli sulle mani per il troppo lavoro o il rischio di finire un pò troppo in là rispetto al confine, perdendosi e perdendo chi è importante davvero.
Nel corso di queste quasi due ore, dunque, ho finito per accantonare qualsiasi proposito prettamente critico, gli accostamenti con le riprese magistrali dei due capisaldi del surf sul grande schermo - il già citato Point break e Un mercoledì da leoni - e l'analisi di una sceneggiatura forse troppo facile o già sentita per godermi una storia onesta, semplice e diretta neanche si trattasse di un'onda che si decide di cavalcare in un momento di follia, senza pensare a nient'altro che alla grandezza della Natura di fronte a noi, mentre il tubo romba e si chiude alle nostre spalle, sperando di essere sempre quell'istante più veloci di lui, perchè sarà proprio lì che si giocherà la differenza tra la vita e la morte.
E quando le prospettive non saranno così estreme, si lotterà comunque, perchè un lavoro, un amore, un futuro spesso e volentieri non arrivano - e soprattutto non si difendono e custodiscono - senza un pò di sano sudore e fatica: neppure il talento cristallino del giovane Jimmy può bastare, infatti, per domare l'oceano che tutti i giorni il mondo ci riversa contro.
E allo stesso modo, neppure la ferrea determinazione di Andy.
C'è bisogno di entrambi, per finire a fondo e tornare a galla.
C'è bisogno del coraggio di una madre, dell'amore di una donna, di una Famiglia accanto.
C'è bisogno perfino di una nemesi e di un quasi santone che, alla fine, si rivela più pane e salame di chi pane e salame ci è nato.
C'è bisogno di un'onda, per cavalcare l'oceano.
E di un film senza troppe pretese per tirare fuori, finalmente, un post come volevo scriverne dal mio ritorno dalle vacanze.
Niente Autori, niente Capolavori, niente tecnica sopraffina o interpretazioni da urlo.
Solo tanto cuore, le onde del mare, grande musica e l'estate.
La stessa che ora pare scivolarmi via dalle mani.
La stessa che mi porto dentro per sopravvivere all'inverno.


MrFord


"L'estate sta finendo
e un anno se ne va
sto diventando grande
lo sai che non mi va."
Righeira - "L'estate sta finendo" -


domenica 26 agosto 2012

Mr. Crocodile Dundee

Regia: Peter Faiman
Origine: Australia
Anno: 1986
Durata:
97'




La trama (con parole mie): Mick Dundee, un cacciatore di coccodrilli che vive placidamente nei territori più selvaggi dell'outback australiano, salva da un destino poco felice una reporter americana che sfrutta l'incontro e decide di portare l'eccentrico uomo a New York per un'intervista che potrebbe valerle molto come giornalista.
L'uomo, poco avvezzo ai ritmi e alle vicissitudini della moderna vita di città, troverà un passo alla volta la misura di una giungla d'asfalto diversa da quella cui lui è abituato ma non per questo meno spietata o selvaggia: e tra un criminale rimesso al suo posto grazie al coltello da caccia ed un'insolita camminata sulla folla, ci sarà tempo per il vecchio Dundee di trovare perfino l'amore.





Ho due ricordi ben distinti di questo film tamarro e scombinato come solo le proposte anni ottanta - e, spesso e volentieri, gli australiani - possono essere: il primo va ricercato negli anni dell'infanzia, quando lo vidi per la prima volta e sognai - oltre all'Australia - di diventare un duro che viveva in mezzo al nulla e finiva per spaccare qualche culo anche nella grande città degli yuppies - del resto, eravamo nel pieno degli eighties di Wall Street ed affini -.
Il secondo ha il ritmo delle sospensioni del bus guidato da Max, la guida che condusse me, Julez ed una decina di altri aspiranti esploratori attraverso l'immenso Kakadu National Park, facendoci scoprire angoli di bellezza mozzafiato, nuotare in lagune splendide avvertendoci di fare attenzione ai "freshy" - coccodrilli d'acqua dolce, meno pericolosi dei loro parenti "salty" ma comunque da lasciare in pace -, avvisando quando giungeva il momento di acquistare l'alcool per la serata perchè nei cento o duecento chilometri che ci separavano dal campo tendato non avremmo più incontrato alcun segno di civiltà.
Proprio su quel bus, nel pieno rispetto di quello che è ormai un costume locale, la nostra decisamente imponente guida ci propose una visione di quello che è uno dei simboli del Cinema australiano d'esportazione: Mr. Crocodile Dundee.
Spinti dall'esaltazione di essere stati in alcuni dei luoghi delle riprese, aver scoperto dettagli incredibili di quelle zone - pitture rupestri sfruttate dagli aborigeni per segnalare le zone "cattive", ovvero quelle parti del Kakadu ricche di elementi radioattivi nel sottosuolo, responsabili di malanni che venivano identificati con innaturali rigonfiamenti attorno alle articolazioni degli uomini nei disegni - ed aver visitato il drugstore dove è conservato imbalsamato il bufalo "ipnotizzato" dal granitico Mick Dundee nel corso del film - campeggia accanto al computer la foto di Julez nella stessa posa di Dundee -, la visione down under della pellicola firmata Peter Faiman fu clamorosamente divertente, e ancora oggi è uno dei ricordi più sopra le righe di un viaggio fantastico, decisamente il più bello della mia vita.
Realizzato come una sorta di parodia dei modi made in Usa - la reporter Sue rappresentava tutta la fighetteria lontana anni luce dal panesalamismo australiano, simile a quello che qui in Europa riescono a sfoggiare soltanto i fantastici irlandesi - divenne ai tempi una sorpresa al botteghino andando da subito a collocarsi tra i cult più tamarri del decennio rendendo il protagonista Paul Hogan una star nota in tutto il mondo - e spianando la strada a due purtroppo poco riusciti sequel - divenendo, di fatto, uno dei simboli dell'Australia almeno quanto la hit Down under realizzata dai Men at work, bellissimo pezzo che ancora oggi, ad ogni ascolto, mi provoca un misto di gioia e malinconia per luoghi ai quali farei ritorno prima di subito.
Forse non staremo parlando del film del secolo, e neppure del più sguaiato dei titoli figli di un decennio più che prodigo da questo punto di vista, eppure per tutti coloro che amano l'Australia e la sua gente, i suoi luoghi e le sue stranezze, o anche per chi la sogna ancora - e a tutti loro dico: fate il possibile per andarci, è una meraviglia che non dimenticherete mai - questo è un titolo assolutamente imprescindibile, nonchè divertente nel suo confronto tra la down under e l'american way of life.
E come se non bastasse, riesce ad alimentare la curiosità rispetto ad una vita selvaggia a contatto con predatori di ogni tipo - coccodrilli su tutti: e vi assicuro, quei ragazzoni fanno davvero una discreta impressione, specie mentre mangiano - neanche fosse una puntata dello show del compianto Steve Irwin così come a mescolare gli elementi di una commedia romantica con l'approccio da duro di un protagonista indimenticabile.
Per essere un film nel quale inizialmente neppure i produttori credevano, direi che è abbastanza.


MrFord


"Do you come from a land down under?
Where women glow and men plunder?
Can't you hear, can't you hear the thunder?
You better run, you better take cover."
Men at work - "Down under" -


martedì 12 giugno 2012

Interceptor

Regia: George Miller
Origine: Australia
Anno: 1979
Durata: 88'



La trama (con parole mie): "Mad" Max Rockatansky, poliziotto al lavoro lungo le strade di un'Australia violenta e selvaggia del prossimo futuro, è da tempo combattuto se abbandonare il lavoro per trasferirsi con la compagna Jessie ed il figlio in un posto lontano dal degrado e dalla morte.
Quando il collega Jim Goose rimane ferito mortalmente in uno scontro con la banda di bikers di Toecutter, Max capisce che la misura è colma, e con la sua famiglia si muove verso il mare: ma la violenza è difficile da lasciare alle spalle, e quando Jessie ed il bambino stessi cadranno vittime della pericolosa banda di criminali, l'uomo si guadagnerà appieno il soprannome di Mad perseguendo una vendetta che segnerà la fine di ogni suo sogno di vita normale.




Da parecchio tempo accarezzavo l'idea di ripescare dal passato e dalla mia infanzia la trilogia dedicata all'antieroe che lanciò Mel Gibson nel firmamento degli idoli action ben prima di Arma letale, e la recente visione del nuovo cult Bellflower è stata, in questo senso, la proverbiale goccia in grado di far traboccare il vaso: l'occasione è stata perfetta anche per recuperare il primo capitolo della saga, che personalmente ancora non avevo visto e che per molti, almeno qui da noi, non esiste neppure, considerato che il sequel Interceptor - Il guerriero della strada è spesso e volentieri ritenuto l'ufficiale, vero, grande exploit del personaggio di Mad Max.
In realtà, per poter comprendere ed apprezzare anche di più le gesta successive dello scorbutico personaggio questa pellicola risulta assolutamente fondamentale, gettando di fatto le basi per il carattere difficile, schivo e decisamente poco socievole che Max sfoggerà nel corso di tutte le sue avventure: girato con un'ottica assolutamente low budget ed aiutato da locations che nella magnifica Australia non necessitano di particolari modifiche o ricerche - ricordo quando, con Julez, percorremmo l'autostrada che portava da Alice Springs al pieno centro del continente, tra Kings Canyon ed Ayers Rock: una striscia d'asfalto senza guard rail che pareva essere inghiottita dalla sabbia rossa, animali in ogni dove, due macchine incrociate in senso opposto in mille e passa chilometri di strada -, Interceptor accarezza quella che sarebbe divenuta l'ottica più "wild" della Letteratura, del Cinema e del Fumetto cyberpunk accostandovi elementi profondamente legati all'horror figlio dei seventies e del concetto di survival, senza lesinare sulla violenza - che troverà il suo apice nel capitolo successivo - e sugli inseguimenti tra auto e moto, motore della parte più spettacolare della vicenda.
Mel Gibson, allora giovanissimo - il futuro e totalmente instabile regista ed attore aveva soltanto ventitre anni - fu lanciato verso la carriera che ora tutti noi ben conosciamo, diretto con mestiere da un George Miller che, pur senza strafare in originalità, confeziona un prodotto in grado di mettere in linea l'estetica tamarra del fumettone con una certa misura drammatica figlia della letteratura da futuro distopico che da Orwell in avanti segnò generazioni intere di lettori: il risultato è una realtà in tutto e per tutto simile a quella degli anni ruggenti estremizzati da una legge della giungla applicata agli uomini che funziona alla grande, e nonostante la caratterizzazione dei protagonisti e della banda di Toecutter risulti abbastanza elementare, il ritmo e la carica quasi animalesca della produzione finiscono per supplire ad una solo apparente mancanza di profondità, ponendo le basi per quello che diverrà un cult per almeno un ventennio di spettatori, oltre a divenire uno dei primi fenomeni made in down under.
Personalmente ho trovato molto più efficace la seconda parte, legata al sogno improvvisamente spezzato di una vita normale inseguito da Max con il piede premuto sull'acceleratore, culminato con l'incredibilmente violenta sequenza che porta alla morte di Jessie e del figlio del protagonista, che resta negli occhi pur non mostrando direttamente nulla di esplicito: la vendetta dell'ex poliziotto, selvaggia ed aggressiva come, del resto, la stessa pellicola, è dunque portata sullo schermo con una carica che pare Rockatansky abbia trasmesso a Miller e Gibson, nonchè assolutamente lontana dagli standard di invicibilità degli action heroes che negli anni ottanta vennero settati dagli Usa.
Max è un combattente vulnerabile, un lupo ferito, uno cui costano lacrime e sangue le imprese compiute, e che porterà i segni del suo confronto finale con Toecutter ed i suoi per sempre, nel corpo e nell'anima.
Max è un uomo della strada, ed anche se la sua resta decisamente più "wild" della nostra, non possiamo che sentirci al suo fianco, spinti dalla speranza prima e dalla furia poi.
Se il West e la Frontiera sono finiti, Max ancora non lo sa.
E forse va bene così.


MrFord


"I am a pistol packin' man with a gun in my hand
looking for a woman that will understand
you like to roll and I like to ride
I'll stop at nothing, never take me alive
I'm a man with a fast hand
loving on a last stand
outlaw, quick draw
evil talking bandit man."
Ac/Dc - "Badlands" -


 
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