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mercoledì 3 gennaio 2018

Madre! (Darren Aronofsky, USA, 2017, 121')




Aronofsky è uno dei grandi misteri del Cinema, per quanto mi riguarda.
Da sempre esaltato da un nutrito zoccolo duro di sostenitori, qui al Saloon ha avuto una vita difficilissima fin dagli esordi, fatta di delusioni e bottigliate, visioni sconvolgenti - non in senso positivo - ed aspettative sempre più basse.
E d'un tratto, grazie ad un cambio di rotta ed alla scelta di portare sullo schermo una delle mie più grandi passioni - il wrestling -, divenuto un idolo neanche fosse Clint Eastwood: con The Wrestler, infatti, probabilmente uno dei miei film favoriti degli ultimi dieci anni e forse di sempre, il buon Darren riportò piuttosto in alto l'asticella, confermando il suo valore con il successivo ed ipnotico Black Swan, che quasi mi fece pensare che, per un Malick che progressivamente perdevo, andavo forse a guadagnare un nuovo visionario ai miei favoriti.
Niente di più sbagliato: neppure il tempo di consolidare la sua posizione nelle graduatorie fordiane, quand'ecco giungere come una sventagliata di mitra Noah, obbrorio hollywoodiano della peggior specie pronto a scalare le classifiche dei peggiori e a farmi ricredere una volta ancora a proposito di questo autore che definire discontinuo mi pare assolutamente riduttivo.
Con l'arrivo in sala di Madre! le previsioni più ottimistiche prevedevano, da queste parti, una tempesta di bottigliate di quelle delle grandi occasioni, condite da una recensione che avrebbe potuto essere dominata dall'incazzatura o dalla facile ironia rispetto al soggetto: e invece, ecco una nuova sorpresa firmata da Aronofsky.
Madre! mi è parso un film interessante, assolutamente lontano dallo scempio che avevo previsto, con molte idee potenzialmente ottime se ben sviluppate: peccato che, nello specifico, l'autore non sia riuscito neppure per sbaglio proprio in quest'impresa, lanciandosi in una serie di tentativi che vorrebbero apparire estremi e pronti a sconvolgere lo spettatore risultando semplicemente uno di quegli artisti che pensano che basti provocare per essere considerati geniali.
Ad ogni modo, oltre alla canotta senza reggiseno di Jennifer Lawrence, ho trovato questo film a suo modo coraggioso ed intelligente, nonostante la volontà di chi l'ha firmato di esplicitare fin troppo l'abbia minato alle fondamenta, costringendo lo spettatore ad un'agonia che può essere paragonabile a quella della protagonista - e questo potrebbe essere considerato un pregio, da alcuni - e ad una sorta di lezione forzata che rende l'intera operazione spocchiosa ed antipatica, nonostante tematiche come quella del rapporto tra l'artista e la sua arte, il ruolo della donna e la definizione del concetto di sacrificio, che avrebbero senza dubbio potuto trasformare questo titolo nell'ennesimo stupefacente comeback di Aronofsky, che neppure fosse Rocky prende cartoni e critiche all'angolo per poi piazzare il colpo vincente.
A questo giro è mancato, e su questo non ho alcun dubbio, eppure una flebile speranza - al contrario del già citato Malick - esiste ancora, e forse, sotto tutto il suo desiderio di imporsi come autore mistico e complesso, si nasconde un ragazzo che ancora non è cresciuto nonostante si avvicinino i cinquanta che deve ancora trovare la sua strada: personalmente, spero che questa strada possa essere chiara al prossimo film, e che il mancato massacro di Madre! sia un segno che, da qualche parte, lo straordinario narratore di The Wrestler esista ancora.
O quantomeno, che esista la sua Ispirazione.



MrFord



 

venerdì 15 settembre 2017

Quindici19 - Serata conclusiva

 


Qualche mese fa, qui al Saloon, pubblicizzai una di quelle iniziative che dovrebbero fornire linfa vitale al futuro del Cinema in tutto il mondo, il Quindici19 Short Film Festival, che unisce e permette un confronto - ed una gara - tra gli adolescenti italiani e non solo di mettere in mostra le proprie doti dietro la macchina da presa.
Avendo preso parte alle votazioni della giuria ed avendo avuto l'occasione di visionare i titoli finalisti - con tanto di personale classifica - alla vigilia della cerimonia finale porto sugli schermi del Saloon il trailer che presenta la serata, alzo i calici ed auguro a tutti questi ragazzi fortuna nel difficile mondo della settima arte.



MrFord




 

venerdì 10 giugno 2016

The art of rap

Regia: Ice-T, Andy Baybutt
Origine: UK, USA
Anno: 2012
Durata: 106'







La trama (con parole mie): dalle strade di New York alle nuove frontiere della West Coast, il fenomeno del rap analizzato da uno dei suoi più importanti esponenti, Ice-T, pronto a ripercorrere le tappe fondamentali di un'arte divenuta iconica attraverso le rime e le voci dei suoi interpreti più importanti di allora e di oggi, in un viaggio che possa mostrare le radici non tanto sociali, quanto musicali e "magiche" di una realtà nata come espressione di una rivolta furiosa e cresciuta come una sorta di nuova interpretazione della cultura popolare.
Nessun secondo fine, dunque, nessuna ricerca di risposte, solo tanti grandi artisti e tonnellate di talento buttate in rima a seconda dello stile, del passato, delle esperienze e del background dei singoli esponenti di una corrente che ha soltanto iniziato a manifestare il suo enorme potenziale.












Fin dagli anni della scoperta del mondo musicale a trecentosessanta gradi - coincidenti con il periodo mitico tra i banchi del Virgin Megastore a Milano - la cultura hip hop, per quanto distante per molti versi dalla mia anima molto rock e molto cowboy, ha sempre solleticato curiosità ed interesse nel sottoscritto principalmente per la sua natura di espressione urbana e musicale della Poesia nel senso paradossalmente più classico in cui la si possa intendere: con ogni probabilità, e citando Lou Reed, probabilmente se Rimbaud fosse nato e cresciuto oggi, sarebbe stato un artista hip hop, una specie di novello Eminem francese pronto a sputare una parola dietro l'altra al microfono, sfidando il sistema e, chissà, forse anche i colleghi.
Ed è proprio la sfida - in termini positivi e di rime, Ice-T sta bene attento a non scivolare negli stilemi classici dei gangsta rapper pronti a regolare i conti a suon di pistolettate - ed il confronto con Maestri, compagni ed avversari - nelle classifiche da milioni di copie o nelle battle agli angoli delle strade - a buttare benzina nel motore di questa grande macchina, che spesso e volentieri dal desiderio di emergere, di essere il primo o uno dei primi o dalla rabbia del riscatto porta illustri sconosciuti alla ribalta internazionale, che si tratti di New York - patria dei primi, grandi maestri dell'hip hop - o Los Angeles, mostrando una carrellata che gli appassionati non potranno non gustarsi dalla prima all'ultima linea - dai Run DMC a Eminem, passando per Kanye West, Dre, Snoop Dogg, i Cypress Hill, il Wu Tang e tutti i più grandi che possiate ricordare, conoscere o voler conoscere dopo aver visto questo documentario -: di contro, è quasi doveroso affermare che questo The art of rap rischia di rimanere, purtroppo, un lavoro ad uso e consumo degli appassionati del genere, e forse ancora troppo lontano dal pubblico occasionale per poter davvero rompere qualche muro sia in termini di pregiudizi in merito sia rispetto alla parte più autoriale e tosta dell'hip hop, negli ultimi anni forse fin troppo commercializzato anche in Italia.
Ad ogni modo, superata qualche difficoltà iniziale, qualunque appassionato di Musica anche non abituato al ritmo forsennato che questi ragazzi - o ex ragazzi, quando parliamo dei mostri sacri che hanno dato origine al fenomeno - non potrà che rimanere affascinato, stupito e stimolato dagli esperimenti vocali, grammaticali e di velocità d'esecuzione portati avanti di continuo dagli artisti hip hop, a prescindere dal fatto che con le loro parole cantino la rivolta popolare, i problemi razziali, le pose da macho o le follie della rockstar, che scrivano in compagnia di qualche donzella - Snoop Dogg su tutti - o chiusi nei loro studi senza interferenze esterne, allietandosi soltanto con dosi massicce di marijuana.
Per chi, invece, non vede i ruoli dell'MC o del producer come qualcosa di alieno e strambo, The art of rap rappresenta un'occasione per osservare i propri idoli alle prese con qualche rima che vada oltre il loro repertorio classico, rinforzare la stima per alcuni di loro o stimolare la curiosità per scoprirne o riscoprirne altri: in fondo, nella Musica come nel Cinema non si finisce mai di imparare, ed il bacino della cultura hip hop è solo al principio del suo fermento.
Con ogni probabilità, infatti, questo genere così giovane - benchè le sue radici peschino a fondo nel blues, nel jazz o nel soul - diverrà un riferimento sempre più importante nei prossimi decenni, raccogliendo, chissà, un giorno, il testimone proprio dal rock che ha cresciuto il sottoscritto: e se l'omaggio a tutti i "caduti" del rap sui titoli di coda ha il sapore amaro di tutte le pagine più oscure della storia di quest'arte, l'energia che sprizza ed esplode letteralmente in ogni rima pronunciata nel corso del documentario fa associare l'hip hop a qualcosa di estremamente stimolante, vivo e ribollente.
Una di quelle energie che, se giustamente incanalata, rischia davvero di cambiare il mondo.
Anche se a modo suo.






MrFord






"Ticket to ride, white line highway
tell all your friends, they can go my way
pay your toll, sell your soul
pound for pound costs more than gold
the longer you stay, the more you pay
my white lines go a long way
either up your nose or through your vein
with nothin to gain except killin' your brain."
Grandmaster Flash - "White lines" -






mercoledì 24 febbraio 2016

The Danish Girl

Regia: Tom Hooper
Origine: UK, USA, Belgio, Danimarca, Germania
Anno: 2015
Durata: 119'






La trama (con parole mie): Einar e Gerda Wegener sono marito e moglie, due artisti piuttosto conosciuti nella comunità della pittura di Copenaghen negli Anni Venti del Novecento. In particolare, è il primo a riscuotere successo e raccogliere riconoscimenti, fino a quando, a seguito di un gioco legato alle pose per alcuni quadri della moglie, si risveglia in lui il desiderio sopito fin dall'infanzia di vivere la propria vita come una donna.
Entrato in crisi creativa e personale, giudicato pazzo dai medici ed assistito dall'inseparabile Gerda, Einar si muove con la compagna a Parigi, dove la donna trova la sua realizzazione artistica proprio grazie alla serie di dipinti che ritraggono il marito nelle sue vesti femminili: quando anche la capitale francese e l'aver ritrovato un amico d'infanzia di Einar, Hans, cominciano a stare stretti ai Wegener, Einar prende una decisione che sarà destinata a cambiare la Storia.
Seguito dal professor Warnekros, un pioniere della chirurgia, l'uomo ha infatti intenzione di dire addio per sempre alla sua parte maschile e diventare donna a tutti gli effetti.












Se qualcuno mi avesse detto, anche solo scherzando, che il giorno dopo essermi goduto senza ritegno una cosa grandiosa e scoppiettante come Deadpool, sarei riuscito non solo a digerire, ma anche a trovare interessante The Danish Girl, drammone romantico ambientato tra la Danimarca, Parigi e Dresda nel corso della seconda metà degli Anni Venti del Novecento, firmato dal finto radicalchicchissimo Tom Hooper pronto a portarlo sullo schermo con l'eleganza più di un fotografo che di un cineasta, avrei riso della grossa.
A dispetto, invece, della predizione di bottigliate selvagge che pendeva sul capo di questo film come la più pesante delle spade di Damocle, ho finito non solo per non patirne il ritmo ed i toni, ma anche per appassionarmi alla storia di Einar e Gerda Wegener come ad un romanzo da sturm und drang di quelli che mi facevano impazzire a sedici o diciassette anni, quando sognavo una carriera sfolgorante come poeta e scrittore maledetto ed una morte appena dopo i trenta: inoltre, la tematica trattata, per quanto lontana anni luce dalla galassia del Saloon, risulta importante a livello sociale soprattutto in questo periodo e per il futuro, quando si spera che la civiltà prenderà finalmente le redini rispetto alle questioni legate alle differenze culturali, sessuali, razziali, religiose e via discorrendo e finirà - si spera - per farne un punto di forza, e non di debolezza del nostro impianto sociale.
Interpretato benissimo dai due protagonisti - entrambi, comunque, a mio parere enormemente sopravvalutati in termini di bellezza oggettiva -, puntellato su comprimari convincenti ed un'estetica senza dubbio notevole, The Danish Girl pare quasi ipnotizzare sfruttando la sensibilità del singolo spettatore, da chi subirà il fascino della "storia d'amore al contrario" di Gerda ed Einar o di Lili a chi, invece, seguirà con più partecipazione il viaggio verso l'emancipazione della stessa Lili, così come chi, semplicemente, si gusterà il tutto come una vicenda molto passionale per quanto, di fatto, vissuta tutta per sottrazione, dal rapporto tra i due sposi a quello tra Gerda ed Hans: il risultato è un viaggio emotivo e, perchè no, anche estetico che lascia senza dubbio più di un brivido pur concedendo troppo specialmente nella parte finale, con una strizzata d'occhio decisamente marcata all'Academy ed alla retorica.
Ma sono peccati veniali di un film che resta profondamente intenso, e che riesce a fotografare - pur se non bene come in The end of the tour, presto qui al Saloon - con grande sensibilità il disagio profondo di chi non si sente al proprio posto in questo mondo, che sia a causa del proprio corpo o della propria mente: un disagio che non è figlio di follia, ma di una sensibilità che viaggia su binari differenti da quelli che ci si aspetterebbe di percorrere in una quotidianità incasellata, e che spesso, nel corso della Storia, ha significato una vera e propria condanna per chi l'ha vissuta sulla pelle.
Una critica, invece, senza appello, è rivolta all'utilizzo dell'inglese come unica lingua parlata della pellicola: comprendo la facilità in termini di produzione - il danese, in effetti, non dev'essere così semplice da imparare per un attore anglosassone -, ma le sfumature delle inflessioni - specialmente rispetto ai personaggi di Hans e del professor Warnekros, interpretati dal belga Schoenaerts e dal tedesco Sebastian Koch -, sarebbero state indubbiamente più incisive.
Dettagli, comunque - un pò come quella sciarpa nel vento del finale, hollywoodiana oltre misura - , per un film che non solo si lascia guardare e colpisce, ma è riuscito nell'impresa di lasciarsi guardare e colpire anche un tamarro vecchio stile come il sottoscritto.
Un risultato già notevole.





MrFord





"One man, one woman
two friends and two true lovers
somehow we'll help each other through the hard times
one man, one woman
one life to live together
one chance to take that never comes back again
you and me, to the end."

ABBA - "One man, one woman" - 








lunedì 10 agosto 2015

Youth - La giovinezza

Regia: Paolo Sorrentino
Origine: Italia, Francia, Svizzera, UK
Anno:
2015
Durata:
118'





La trama (con parole mie): Fred Ballinger e Mick Boyle, il primo ex direttore d'orchestra in pensione, il secondo regista pronto ad affrontare il suo film testamento, vecchi amici con ricordi ed esperienze condivise e due figli sposati tra loro, si ritrovano come di consueto tra le Alpi svizzere per una vacanza in un prestigioso albergo che ospita celebrità di tutti i campi.
Proprio entro i confini della località di villeggiatura si incrociano storie che riguardano il presente ed il passato di ognuno dei protagonisti e delle persone che vi si avvicinano nel corso del soggiorno, siano esse artistiche, professionali, emotive, riguardanti il tempo che fu o quello a venire: da Lena, figlia di Fred, lasciata di colpo da Julian, figlio di Mick, pronta a ricominciare a sentire la libertà, passando per il giovane attore Jimmy, fino ai bambini e a Diego Armando Maradona, si osservano le cadute e le ascese di individui che, pur protagonisti, finiscono per essere comparse della grande commedia umana, proprio come Fred e Mick.
Come si approcceranno, i due vecchi compari, all'idea della fine che si avvicina sempre di più?








In condizioni normali, da gestore del Saloon e portatore sanissimo di un certo tipo di approccio alla vita ed al Cinema, dovrei detestare profondamente un regista come Paolo Sorrentino.
Colto, vagamente snob ma ugualmente autoironico, membro di un'elite della settima arte invisa al grande pubblico così come ai critici più radical - gli stessi che, probabilmente, ai tempi de Le conseguenze dell'amore si facevano le seghe sui suoi movimenti di macchina salvo poi voltare le spalle all'autore non appena il successo e l'Academy giunsero a benedire il regista partenopeo -, capace, erede di una tradizione nata prendendo a piene mani dall'immaginario di un signore chiamato Federico Fellini, probabilmente il più grande cineasta che l'Italia abbia mai conosciuto.
Dovrei proprio detestarlo, questo talentuoso figlioccio non autorizzato del Maestro riminese.
Eppure, fatta eccezione per il mezzo scivolone di This must be the place, non ce la faccio proprio.
Ed ogni volta che approccio un suo lavoro, finisco come ipnotizzato e stimolato alla riflessione benchè parta con tutte le riserve ed i dubbi del caso: era accaduto anche con La grande bellezza, e si è ripetuto, inesorabilmente, con questo Youth, che probabilmente in molti speravano di vedere premiato all'ultimo Festival di Cannes.
Le vicende parallele di Fred e Mick, il primo ex direttore d'orchestra burbero ed apatico - almeno a suo dire - ed il secondo regista ancora smanioso di dimostrare il suo valore al mondo, incrociate a quelle degli ospiti di un albergo d'elite nel cuore delle Alpi svizzere, pur concedendo tutto il possibile al Cinema d'essai che spesso e volentieri tanto detesto sono riuscite a colpirmi al cuore per la loro disarmante semplicità, unita alla voglia di raccontarle ed un desiderio di confronto con l'ignoto rappresentato dal passato e dal futuro - bellissima la scena del cannocchiale tra Mick e Lena - cui nessuno di noi - almeno tra quelli che davvero vogliono vivere a fondo - riesce a resistere.
Senza dubbio, prima di apprezzare tutti questi aspetti mi sono trovato a dover superare anche passaggi nati ad uso e consumo di un certo tipo di pubblico intellettualoide e poco sopportabile - la "direzione d'orchestra" della Natura di Fred, su tutti - ed una confezione impeccabile e patinatissima che pare distante anni luce dagli standard che trovano i posti migliori qui al Saloon, eppure dal bellissimo confronto padre/figlia di Fred e Lena a proposito del perchè Julian abbia deciso di lasciarla ad uno straordinario Paul Dano - che non solo non sfigura davanti a due mostri sacri come Caine e Keitel, ma finisce quasi per superarli -, passando per i punti focali di vecchiaia e giovinezza - tematiche in grado di toccare qualsiasi pubblico, in quanto fasi della vita che siamo tutti destinati a sentire sulla pelle, scandite da "un'ultima illuminazione" come potrebbe essere Miss Universo ed il numero di pisciate giornaliere - ed una sequenza che non solo finisce per essere grande, grande Cinema, ma anche per dare un senso all'intero lavoro di Sorrentino, legato a doppio filo agli interrogativi sospesi tra passione e talento: Maradona, el pibe de oro, forse il più grande giocatore di calcio di tutti i tempi, sformato da una quasi obesità e provato dal fiato corto, che palleggia in modo praticamente fantascientifico con una pallina da tennis.
Basterebbe quel momento, per vedere tutta la grandezza di Youth e del suo regista.
Un passaggio in grado di far passare quella che pare una marchetta da tifoso nostalgico del suo idolo di gioventù una metafora di quello che è il passaggio dalla giovinezza in cui tutto è vicino, conquistabile, divorabile, alla vecchiaia che trova anche nell'impresa più facile difficoltà enormi: eppure, dietro tutto questo, ci sono voglia, desiderio - e di nuovo torna a galla l'inserimento di Dano -, libertà, genio.
Quello che ci aspetta nel mondo, è sempre la giovinezza.
Basta saperla accettare, cogliere, vedere dalla giusta prospettiva.
La stessa che porta Fred e Mick, in due modi diversi, con due percorsi quasi opposti, a mettersi in gioco ancora una volta.
Non si finisce mai di imparare, del resto.
E non si finisce mai di crescere.
E' questo il bello della vita.
E della giovinezza.




MrFord




"May you grow up to be righteous
may you grow up to be true
may you always know the truth
and see the lights surrounding you
may you always be courageous
stand upright and be strong
may you stay forever young
forever young, forever young
may you stay forever young."
Bob Dylan - "Forever young" - 




martedì 31 marzo 2015

Mortdecai

Regia: David Koepp
Origine: USA
Anno:
2015
Durata:
107'






La trama (con parole mie): Mortdecai è un non troppo pulito mercante d'arte di base in Inghilterra, pronto ad occuparsi dei suoi baffi come dell'amata moglie Johanna e delle opere che i suoi bisogni economici o le circostanze lo inducono a recuperare, comprare o vendere.
Quando il vecchio rivale in amore ed agente dell'MI6 Martland lo coinvolge nella ricerca di un Goya misteriosamente trafugato a seguito della morte della restauratrice che se ne stava occupando, i nodi sentimentali, economici ed artistici vengono al pettine: Mortdecai dovrà dunque venire a patti con se stesso, i baffi che di recente l'hanno contraddistinto, il suo fido guardaspalle Jock e tutto il mondo dell'arte - più o meno sotterraneo - per poter risolvere il caso, tirarsi fuori dai guai e rimediare al recente precipitare della sua reputazione.
Riuscirà l'impacciato ed assolutamente inaffidabile ed improvvisato uomo d'azione a portare a termine la più importante delle missioni che mai si è trovato ad affrontare?








In tutta onestà, pensavo che quest'anno non ci sarebbe stata gara, rispetto alla prima posizione nella classifica dedicata al peggio, considerato il livello garantito da Cinquanta sfumature di grigio.
Purtroppo per me, ero in errore: Mortdecai, infatti, ha rappresentato senza ombra di dubbio una delle esperienze da spettatore più agghiaccianti degli ultimi mesi, una fiera del ridicolo di un'ora e quaranta capitanata da un inguardabile Johnny Depp, ormai degno erede di Robert De Niro rispetto allo sputtanamento di se stessi e di una carriera un tempo da brividi, pessimo prodotto di finta avventura patinata assolutamente ridicola.
Trovare altro da scrivere a proposito dello scempio firmato da David Koepp - che sarà pure un mestierante, ma in passato è riuscito anche a portare in sala cose discrete - è davvero difficile, e a nulla servono ambientazioni europee finto alternative - almeno per gli abitanti degli States - o un cast sulla carta stellare - il già citato e spompatissimo Depp, Paul Bettany, Gwyneth Paltrow, Ewan McGregor -, così come un impegno prossimo allo zero dei neuroni per trovare almeno una parziale giustificazione all'esistenza di una roba inutile sotto tutti i punti di vista come questa.
Neppure l'azione e l'utilizzo almeno sulla carta ironico del tuttofare Jock riescono a salvare il salvabile, specie quando ad ogni piè sospinto il protagonista pare non attendere altro se non l'occasione per gigioneggiare risultando, più che un improvvisato James Bond shakerato con Clouseau, una pallida e patetica imitazione di Mr.Bean, uno dei fenomeni di grande e piccolo schermo che più ho detestato nel corso della mia vita.
Non ricordo quando fu l'ultima volta in cui dovetti lottare con il desiderio di mandare avanti veloce una pellicola - il già citato Cinquanta sfumature di grigio escluso -, ma è giusto che sappiate che resistere, in questo caso, è stato di una difficoltà da record: se possibile, dunque, a meno che non cerchiate un titolo destinato a finire per certo in cima alle classifiche del peggio dell'anno, fate in modo di non incrociare neppure per sbaglio il cammino di Mortdecai e dei suoi ridicoli baffi, resi protagonisti di un tormentone di coppia noioso quanto il film stesso.
Vorrei poter trovare lo spunto per rendere più interessante il post, corposo ed in grado di compensare l'eventuale visione di questo Merdecai, ma è davvero, davvero troppo perfino pensando di mettersi alla tastiera - o davanti allo schermo - con in corpo una robusta dose di White Russian.
Senza contare che, effettivamente, questa roba davvero non merita niente più di due righe che la possano liquidare il più in fretta possibile.




MrFord




"State, state, state, state of the art
(state of the art)
(hold the phone, it's so)
state, state, state, state of the art
(listen to the difference!)
state, state, state, state of the art
(by use of a computer)
(oh my God, it's so)
state, state, state, state of the art."
Gotye - "State of the art" - 




mercoledì 28 gennaio 2015

Big Eyes

Regia: Tim Burton
Origine: USA
Anno:
2014
Durata: 106'





La trama (con parole mie): siamo sul finire degli anni cinquanta quando Margaret, insieme alla figlia Jane, lascia una vita che le stava stretta per un futuro da costruire da zero a San Francisco. Qui conosce Walter, un uomo dalla parlantina svelta e dalle grandi abilità di venditore, come lei pittore, che si offre di sposarla e garantirle un futuro quando il suo ex minaccia di portarle via la bambina: dalla loro unione e dal sodalizio artistico che ne seguirà nascerà una delle truffe più colossali dell'arte contemporanea, giocata attorno allo scambio d'identità avvenuto tra marito e moglie a proposito della paternità dei quadri dedicati ai bambini dai grandi occhi, dipinti da Margaret ma spacciati come opere di Walter.
Superato un inizio difficile, giungeranno fama e denaro, ma quando il rapporto tra i due coniugi si incrinerà, avrà inizio una vera e propria battaglia giudiziaria atta a dimostrare chi davvero fu l'autore di alcuni dei quadri più famosi, riprodotti e venduti del mondo.








Una delle magie più spettacolari che l'Arte - ed il Cinema con essa - è in grado di regalare è quella dell'illusione, dell'evasione dalla realtà, della reinterpretazione di una vita che, spesso, a chi sta dall'altra parte sta stretta, o troppo larga, ed in quello che guarda cerca un'esistenza che non sia la sua, o quantomeno che sia quella che vorrebbe fosse.
Personalmente, amo molto questa parte dell'esperienza di spettatore, e mi piace, quando non cerco una realtà più vera nella quale specchiarmi, farmi ingannare dal "prestigio" - per dirla come Nolan - legato a quello che non c'è: in un certo senso, i film di Tim Burton sono un cocktail di entrambe le cose. Al buon, vecchio Tim è sempre piaciuto parlare di vicende estremamente quotidiane sfruttando spesso e volentieri cornici inusuali: proprio per questo, forse, uno dei motivi di discussione che maggiormente hanno riguardato questa sua ultima fatica - un biopic con licenze poetiche ispirato dalla vita di Margaret Keane e dal suo rapporto con il marito e complice Walter - è stato quello legato alla sua poca associabilità stilistica a quello che, di norma, si finisce per aspettarsi da un prodotto per l'appunto burtoniano.
Onestamente, trovo che la questione di quanto possa essere associato al suo padre artistico Big Eyes sia assolutamente superflua: il regista di Burbank, di fatto, racconta con perizia - soprattutto rispetto alla ricostruzione d'epoca ed alla fotografia - una vicenda che tocca temi a lui cari - il rapporto tra genitori e figli, le storie d'amore, l'evasione attraverso un'arte a suo modo dark - ispirandosi alla battaglia che vide opporsi Margaret e Walter Keane rispetto alla firma delle "loro" opere.
Il problema di Big Eyes, piuttosto, pare essere la sua assoluta mancanza di carattere: in un certo senso, per essere una pellicola completamente schierata dalla parte di Margaret, il lavoro di Burton appare più simile a Walter, con tutte le sue chiacchiere - insopportabilmente gigione Christoph Waltz, nel ruolo forse peggiore che io ricordi - e fumo negli occhi pronti a distogliere il pubblico dalla questione ben più grave legata alla carenza di ispirazione ed idee dell'uomo dietro la macchina da presa, che si affida ad una sceneggiatura tutto fuorchè impeccabile allontanandosi ancora una volta dai fasti del suo ultimo - e vero - Capolavoro, Big Fish: negli ultimi anni, infatti, il buon Tim si è barcamenato tra blockbuster sopravvalutati - La fabbrica di cioccolato -, sbiadite copie di se stesso - Sweeney Todd, Dark Shadows - ed abomini veri e propri - Alice in Wonderland - illudendo i suoi vecchi fan soltanto con Frankenweenie, del resto rielaborazione di un lavoro giovanile, senza più mostrare freschezza e soprattutto voglia di raccontare.
Di fatto, da narratore, pare essere passato ad essere un mero esecutore, e neppure così strabiliante come ad una certa parte della critica piace dipingerlo, soprattutto in virtù del suo appeal sul grande pubblico.
Più che, dunque, un nuovo capitolo della carriera di Tim Burton o un titolo che si discosta dal suo universalmente noto stile, Big Eyes mi pare rappresentare la già nutritissima - almeno quest'anno - categoria dei biopic da Oscar targati Hollywood senza nulla che possa davvero rimanere impresso nell'audience, che si parli di cuore o di testa.
In un certo senso, la visione di questo film potrebbe essere paragonabile all'acqua della pasta senza sale, o ad una di quelle visite ai musei organizzate ai tempi della scuola, quando di scoprire cosa ci sta attorno è importante solo in relazione al fatto che si potrebbe finire per saltare un giorno intero in classe: e questo sia che sulle pareti si trovino i quadri di Margaret Keane o di qualsiasi altro.
Se gli occhi sono lo specchio dell'anima, quelli di quest'opera e del suo regista appaiono ormai vuoti e privi di qualsiasi scintilla di luce.
E poco importa, a quel punto, quanto saranno grandi.




MrFord




"I saw you creeping around the garden
what are you hiding?
I beg your pardon don't tell me "nothing"
I used to think that I could trust you
I was your woman
you were my knight and shining companion
to my surprise my loves demise was his own greed and lullaby."
Lana Del Rey - "Big eyes" - 




mercoledì 5 marzo 2014

The Monuments men

Regia: George Clooney
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 118'




La trama (con parole mie): sul finire della Seconda Guerra Mondiale l'esperto d'arte Frank Stokes, preoccupato per la sorte delle opere trafugate dai nazisti negli anni di conquista della Francia e dell'Europa centrale, ottiene dal Presidente degli Stati Uniti il permesso di costituire una squadra che si occupi di recuperare le stesse opere e restituirle ai legittimi proprietari, siano essi privati o musei pubblici.
L'improvvisato team di architetti e restauratori dovrà riadattarsi alla vita militare ed affrontare gli orrori della guerra in prima linea, pur se in misura minore e legato alla ritirata verso Berlino dei tedeschi: sacrificare tutto, vita compresa, per mettere in salvo Capolavori importanti per la Storia dell'umanità varrà davvero la pena?
E riusciranno Stokes ed i suoi a recuperare tutte le meraviglie sottratte dal Reich?






Fin dai tempi di E. R., George Clooney mi è sempre stato simpatico: quell'aria da Cary Grant un pò più gigione e bastardo - in senso buono - ha sempre esercitato un certo fascino vintage sul sottoscritto, quasi il volto del Giorgione ormai italianizzato potesse rispolverare le atmosfere dei Classici che, di fatto, mi hanno cresciuto - cinematograficamente parlando -.
Il passaggio alla regia di qualche anno fa, inoltre, aveva mostrato al mondo della settima arte talenti che non ci si sarebbero aspettati da un attore spesso e volentieri divenuto un riferimento come sex symbol per il pubblico femminile adulto e poco altro: da Confessioni di una mente pericolosa a Good night and good luck, senza contare il piacevolissimo In amore niente regole e l'ottimo Le idi di marzo, invece, Mr. Nespresso è riuscito nell'impresa di convincere perfino i suoi critici più agguerriti, riuscendo nella non facile impresa di trovare l'accordo tra l'audience mainstream e le ristrette platee dei Festival.
Con queste premesse giungiamo a The Monuments men.
Clooney è senza dubbio un professionista, un uomo che conosce bene il suo mestiere ed un artigiano di buon livello, eppure il salto di qualità che ci si sarebbe potuti aspettare non è, di fatto, avvenuto: quest'ultimo lavoro, infatti, ricorda più gli spavaldi exploit del "suo" Danny Ocean che non il definitivo salto di qualità di un aspirante Autore con la a maiuscola, a partire dal cast - che pare una superband messa insieme giusto per un concerto che possa portare il massimo in termini di incassi - fino ad arrivare allo sfruttamento di una retorica quasi spielberghiana che potrebbe addirittura finire per irritare i meno avvezzi all'approccio più sguaiato del Cinema americano.
Delusione - pur se parziale - smaltita in corso di visione, personalmente mi sono sentito nel mezzo, conquistato da alcune trovate decisamente ad effetto - la morte di Donald a Bruges, momento di grande emozione sapientemente sfruttato - e soprattutto nella prima parte annoiato da un ritmo clamorosamente blando, che finisce per promettere senza mai, di fatto, permettere di consumare, un pò come la storia d'amore rimasta "in fieri" tra i personaggi interpretati da Matt Damon e Cate Blanchett.
In tutta onestà, dunque, occorre ammettere di trovarsi di fronte al punto più basso della carriera del Clooney regista, ma allo stesso tempo ad un solido prodotto commerciale, diretto con mano esperta da un furbo cialtrone in grado di sedurre senza mai davvero giungere alla conclusione che si vorrebbe: resta interessante, comunque, la riflessione sul fatto che un'opera d'arte possa oppure no valere la vita di un uomo, e quanto si finisce per essere disposti a sacrificare per qualcosa cui si è consacrata la propria vita - perfino improvvisarsi soldati quando non si è certo un manipolo di action men spaccaculi -.
In uno scenario come quello, terribile, della Seconda Guerra Mondiale, non credo che avrei dato troppo peso alle opere - seppur grandi - che i geni dell'arte avevano regalato al mondo intero, quanto più alla sopravvivenza mia e di chi amo, ma allo stesso modo l'insolita lotta condotta da Stokes e dai suoi uomini è stata, a posteriori, una delle più importanti a livello sociale e culturale degli ultimi decenni, tanto da influenzare anche i bambini che, al giorno d'oggi, in gita scolastica o accompagnati da un parente, finiscono per trovarsi faccia a faccia con un Capolavoro che qualcuno ha pagato con la vita per portare in salvo senza neppure saperlo.
Un film dalla doppia anima, dunque, questo The Monuments men.
Come il suo regista.
Un simpatico cialtrone da non prendere troppo sul serio.
Giusto per evitare di restare troppo delusi.



MrFord



"Some days I feel like my shadow's casting me
some days the sun don't shine
sometimes I wonder why I'm still running free
all up and down the line."
Warren Zevon - "Dirty life and times" - 




lunedì 29 luglio 2013

La migliore offerta

Regia: Giuseppe Tornatore
Origine: Italia
Anno: 2013
Durata: 124'





La trama (con parole mie): Virgil Oldman è uno dei critici d'arte e specialisti in aste più apprezzati del mondo. Schivo e solitario per natura, passa la maggior parte del suo tempo libero a proteggersi dal contatto con l'esterno e ad organizzare acquisti mirati insieme al suo vecchio amico Billy Whistler in modo da rendere la sua personale collezione di ritratti di donna sempre più consistente.
Quando viene contattato da una giovane intenzionata a commissionargli la valutazione delle opere ereditate dai genitori per organizzare un'asta delle stesse, Virgil viene travolto dallo strano mondo della ragazza, che soffre di agorafobia e vive reclusa nella villa di famiglia che sogna, un giorno, di poter vendere per poter tornare ad uscire e conquistare quel "fuori" che le è sempre mancato.
Tra i due, così diversi eppure in qualche modo simili, comincia ad instaurarsi un legame sempre più profondo, che dai primi conflitti li porterà a vivere una storia d'amore intensa ed unica quanto la collezione dello stesso Oldman.
Cosa sarà più importante, alla fine? L'arte o la vita? E all'asta per il cuore di Virgil chi farà la migliore offerta?





Lo ammetto: ho approcciato La migliore offerta - vincitore netto degli ultimi David di Donatello - con ben più di una perplessità, dalla confezione apparentemente laccata al regista, Giuseppe Tornatore, uno dei cineasti nostrani più amati e premiati all'estero dal sottoscritto sempre considerato fin troppo sopravvalutato.
Come spesso accade, poi, nei casi in cui le aspettative partano dal basso, ho finito non solo per considerare il film decisamente ben riuscito, ma anche per ritenerlo forse uno dei migliori del buon Tornatore, in grado senza dubbio di orchestrare con un piglio ed un respiro assolutamente internazionali un cast in grande spolvero riuscendo a portare sullo schermo tutto il fascino di una vicenda che intreccia un gusto ed una cornice assolutamente radical chic con un incedere a metà tra il melò ed il thriller di rimembranze polanskiane.
Sorretto come sempre con esemplare bravura da un ottimo Geoffrey Rush, l'impianto narrativo legato alla sceneggiatura scritta dallo stesso regista sfrutta alla perfezione il gioco di specchi fornito dalla storia d'amore tra i due protagonisti attirando l'audience in una direzione senza mostrare - almeno alla luce del sole, un pò come la giovane ed agorafobica Claire - quelli che sono i suoi reali intenti, scomodando grandi temi come l'Amore e l'Arte in modo che i piccoli dettagli, gli ingranaggi di un automa pronto a svelare la Verità, non possano essere individuati ed assemblati dallo spettatore, più impegnato a perdersi nel gioco delle parti che avvicina progressivamente Virgil e la già citata Claire - impagabili i loro litigi da ragazzini da una parte all'altra del muro - che non a cogliere il filo che lega tutti i misteriosi e splendidi ritratti che Oldman colleziona un'asta dopo l'altra grazie all'apporto del fedele amico Billy Whistler e lo stesso banditore, un uomo che si rifugia dal mondo eppure lo anela disperatamente, perso negli occhi, nei sorrisi e nei lineamenti di ognuna di quelle misteriose donne che custodisce nel suo caveau privato.
E in questo continuo rimbalzare di cuori, nella complessa lotta che parallelamente porta Virgil e Claire a specchiarsi l'uno nell'altra, si inserisce il solo apparentemente semplice e lineare personaggio di Robert, vero e proprio deus ex machina del riscopertosi in balìa dei sentimenti Oldman pronto ad aprire al suo interlocutore un mondo nuovo, ben più complesso e sfaccettato di quello delle opere e dei dipinti che lui conosce così a fondo, nel pubblico come nel privato: quello dell'amore e dell'universo femminile.
Ed ecco scendere prepotentemente in campo il concetto della "migliore offerta", tutto quello che ci giochiamo nell'asta più importante, quella per il cuore di chi ci sta di fronte: e tanto più profondi saranno i nostri sentimenti per lei, tanto più accanita sarà la concorrenza, più alto il rischio, più vibrante l'attesa di quel martello che batte il colpo che ci assegnerebbe la vittoria.
Ma davvero l'amore è un'asta? Un gioco al rialzo? Un azzardo? Una compravendita?
E' possibile imprigionare in un dipinto - o in dieci, cento, mille - l'essenza di una vita, di una storia, di qualcosa pronto a travolgerci e portarci via tutto quello che abbiamo?
Nessuno potrà mai dirlo.
Non potrà Claire, impegnata a rappresentare se stessa.
O Billy, generosamente coccolato dal suo ruolo di gregario.
O Robert, che rimetterà insieme i pezzi dell'automa in grado di rivelare la Verità senza poterla scoprire davvero.
O Virgil, che dovrà ricominciare da capo, e scoprire cosa accade quando la pagina è voltata, la tela vuota, lo specchio in pezzi.
A volte la migliore offerta è accettare di essersi buttati ed avere perso, ed essere ancora più desiderosi di ricominciare.


MrFord


"I just called to say I want you to come back home
I found your picture today
I swear I'll change my ways
I just called to say I want you to come back home
I just called to say, "I love you. Come back home""
Kid Rock feat. Sheryl Crow - "Picture" -


giovedì 13 giugno 2013

Il cacciatore di teste

Autore: Jo Nesbo
Origine: Norvegia
Anno:
2008 (2013 in Italia)
Editore: Einaudi




La trama (con parole mie): Roger Brown è il miglior headhunter di Oslo, forse addirittura della Norvegia. E' un uomo intelligente, acuto, in grado di manipolare e compensare con l'abilità della parola il suo metro e sessantotto di altezza. Ha una moglie bellissima cui ha fatto dono di una galleria d'arte, un tenore di vita che va ben oltre le sue possibilità e coltiva in segreto il desiderio di sistemarsi per sempre godendosi la fortuna sentimentale che ha avuto ripagando la sua sposa con il figlio che le ha sempre negato. Tutto questo attraverso una seconda esistenza legata ai furti e al traffico di opere d'arte, pronta a finanziare il suo futuro.
Quando Clas Greve, uomo dal fascino magnetico e dalle mille qualità giunto dall'Olanda, entra nel mirino di Roger per un ruolo manageriale di altissimo livello e lo stesso scopre che il candidato è venuto in possesso di un rarissimo quadro di Rubens dato per disperso nel corso della Seconda Guerra Mondiale, tutto pare destinato a cambiare in meglio.
Quello che Roger Brown non sa, però, è che un incubo su misura per lui sta per cominiciare.




Quando lessi di una nuova uscita targata Jo Nesbo priva della figura ormai mitica qui al Saloon di Harry Hole ammetto che storsi e non poco il naso, quasi il fatto che il talentuoso scrittore norvegese avesse - anche solo momentaneamente - preso una pausa dal suo personaggio più importante - nonchè responsabile del suo successo internazionale - rappresentasse in qualche modo un peccato dal quale neppure il vincitore degli ultimi due Ford Awards dedicati ai libri avrebbe potuto mai affrancarsi.
Evidentemente, nonostante l'ammirazione che provo per lo scaltro Jo, ho finito per sottovalutare - e decisamente troppo - l'abilità di un uomo fuori dal comune, che iniziò come calciatore - costruendosi una carriera che non andò mai oltre la serie A norvegese - per poi finire a fare il broker, l'analista finanziario e, per l'appunto, lo scrittore noir di successo.
Le risorse di questo intelligentissimo romanziere e musicista - perchè il suo gruppo, i Di Erre, continua ad esibirsi in tutto il suo Paese ancora oggi -, infatti, paiono essere infinite, e perfino quando all'interno di una sua opera manca all'appello il personaggio più importante e profondo che potesse creare il risultato risulta convincente e terribilmente appassionante, giocato dalla prima all'ultima pagina su una tensione continua ed un ritmo da grandissimo thriller che non viene intaccato neppure dalla scelta della narrazione in prima persona, notoriamente avversa ad ogni soluzione che riguardi in qualche modo la suspance e l'incertezza.
La vicenda di Roger Brown, cacciatore di teste perennemente in cerca di una rivincita sul mondo e la società, la Natura ed il ruolo da outsider che fisicamente gli è stato cucito addosso - la sua statura ed un'apparenza decisamente molto poco "norvegese" e giusta per ricoprire qualche incarico di spicco in Società il cui solo nome riesce ad incutere soggezione in qualsiasi candidato -, è un thriller classico della migliore tradizione possibile, Hitchcock che incontra Stieg Larsson, gli anni sessanta degli intrighi a sfondo passionale che riscoprono il macabro e la violenza dei moderni David Fincher.
Dal rapporto con la bellissima moglie Diana - stupendo il flashback dei loro anni a Londra, e l'aneddoto a proposito dei Queens Park Rangers, squadra minore della capitale inglese nonchè preferita della signora Brown - a quello con l'amante Lotte, dal confronto con l'apparentemente perfetto Clas Greve, statuario e forte, deciso e seducente, a quello con il padre, autista per personale diplomatico duro e dipendente dall'alcool - toccante il racconto della partita a scacchi e del confronto tra i due a proposito del barare -Roger vive in un mondo agli occhi del quale è ad un tempo temuto e sottovalutato, un lupo in un recinto di agnelli di colpo gettatosi nella gabbia delle tigri.
Perchè questo è quello che si scopre attorno l'apparentemente inappuntabile Brown, quello che nasconde l'altezza dietro una maschera di intelligenza ed acume, lucidità e sicurezza di portare a casa il successo: un campo da gioco all'interno del quale lui è l'anello debole, la vittima braccata, il candidato che dovrà essere esaminato e al quale "verrà fatto sapere", ben sapendo quanto quella frase di norma sta a significare.
Il problema è dato dal fatto che, questa volta, in gioco non ci saranno un posto di lavoro, o una carriera promettente, ma la vita stessa: e Roger dovrà guardare dentro di sè e capire cosa sarà disposto a sacrificare, di se stesso e del mondo perfetto - o quasi - che aveva voluto come un biglietto da visita, pronto a dimostrare quanto l'apparenza possa contare in un qualsiasi colloquio, e l'impressione di essere vincenti, se ben utilizzata, rappresenti di fatto la chiave per ogni porta.
Il cambiamento di Roger sarà decisamente più drastico di quanto non si sarebbe mai aspettato, e chissà, forse meno lontano dalla sua vera natura di quello che crede: di fatto era dai tempi di Breaking bad che non osservavo un personaggio messo alle strette allo stesso modo rivelare un carattere decisamente più determinato e pericoloso di chi avrebbe voluto sgranocchiare le sue ossa come stuzzichini ad un vernissage da galleria in.
Resta da vedere se Roger saprà trovare il candidato giusto per ogni ruolo - il suo compreso - e rimettere le cose a posto portando avanti la propria vita conscio del fatto di aver guardato l'abisso negli occhi, e di portare dentro almeno un pò di quel buio che lascia in eredità il brivido di un duello all'ultimo sangue.
Per un cacciatore di teste, chissà, potrebbe anche risultare più facile del previsto.


MrFord


"Well, I met a girl in West Hollywood
I ain't naming names
she really worked me over good
she was just like Jesse James
she really worked me over good
she was a credit to her gender
she put me through some changes, Lord
sort of like a waring blender."
Warren Zevon - "Poor poor pitiful me" -


sabato 9 febbraio 2013

Pina

Regia: Wim Wenders
Origine: Germania
Anno: 2011
Durata:
103'




La trama (con parole mie): Pina Bausch, storica coreografa nonchè nome di riferimento del teatro danza mondiale scomparsa nel 2009, omaggiata grazie alla sua opera ed alla sua compagnia dal talento dietro la macchina da presa di Wim Wenders, che sceglie di raccontarla al pubblico attraverso sequenze dei suoi lavori riproposte in teatro così come in spazi che possano esaltare una visione unica di questa commistione tra arte e disciplina.
Un incontro tra il Cinema ed il Teatro, tra la macchina da presa e la danza, come non se ne erano mai visti prima: ed insieme agli interpreti dei passaggi più noti creati a volte da un solo movimento suggerito dagli interpreti a Pina Bausch danzano senza dubbio l'occhio del regista ed il suo braccio, quello in grado di catturare questa magia e trasmetterla ad un pubblico fisicamente non presente.




Non è la prima volta che, nel corso della storia del Saloon, si presenta agli occhi del sottoscritto una pellicola considerata praticamente un Capolavoro che, inevitabilmente, finisce per deludere in qualche modo - e non di poco - le aspettative che si erano create attorno al suo nome: Pina, omaggio splendido e spettacolare - questo, almeno dal punto di vista tecnico, è indubbio - che Wenders elaborò per commemorare, per l'appunto, Pina Bausch, una delle più grandi coreografe mai vissute per quanto riguarda il teatro danza, disciplina che prevede una commistione tra l'espressività del primo e la perfezione stilistica della seconda, rientra appieno nella suddetta categoria.
Incensato dalla critica illustre ed al centro fin dai tempi della sua uscita in sala di un tam tam tra spettatori - spesso radical chic, occorre ammetterlo - neanche si trattasse del nuovo miracolo della settima arte, il lavoro di Wenders è riuscito ad incuriosirmi a tal punto da non riuscire più ad attendere l'approccio con lo stesso, saltando a piè pari titoli che erano in lista d'attesa decisamente da più tempo: il risultato è stato una visione dai due volti, in tutto e per tutto.
Da una parte, la curiosità rispetto ad una parte di teatro che non conosco affatto, l'ammirazione per un lavoro incredibile svolto dal regista tedesco dal punto di vista delle inquadrature, del dinamismo delle riprese e della profondità di campo - pur avendolo visto in dvd sul mio divano, e non nella versione originale pensata per il 3D cinematografico, sono rimasto strabiliato da alcune sequenze in cui pareva quasi che il quarantasei pollici si fosse animato e stesse per fagocitare ogni occupante di casa Ford -, dall'altra una staticità nello stile di narrazione - giocato tutto sullo schema dato dagli spezzoni delle opere seguiti dalle interviste dei membri della compagnia della Bausch ad inquadratura fissa, girate tutte "nel silenzio" con la voce off dello stesso intervistato ad accompagnarne la visione - ed un'ostilità non dichiarata all'indirizzo del pubblico non avvezzo al teatro danza - che poi fosse non voluta, è un altro discorso - in grado di rendere la visione, nonostante la qualità visiva, noiosa e ripetitiva, più simile ad una ripresa in grande stile di uno spettacolo che non ad un documentario incentrato su una personalità artistica e sfaccettata che non è possibile cogliere se non attraverso i passaggi dei suoi spettacoli - non sempre chiari, come se non bastasse -.
Tipico esempio, dunque, di uno sfoggio di tecnica pazzesco cui manca, di fatto, il cuore che permette a film decisamente meno incisivi qualitativamente di questo di raggiungere non soltanto il pubblico, ma ogni sfumatura di esso: a tratti, infatti, osservando le complesse coreografie della Bausch, mi sono sentito come un bambino delle elementari portato a teatro dalle maestre senza alcuna spiegazione che rischia di addormentarsi durante lo spettacolo ed è trattenuto, in questo, soltanto dall'eventuale discussione o interrogazione legata ai contenuti dello stesso.
Certo, io sono un cowboy vecchio e tamarro, e forse le meraviglie della coreografia non sono proprio il mio pane quotidiano, ma ho sempre pensato che un grande regista è in grado di parlare al suo pubblico indipendentemente dalla materia trattata, e considerata la stima che ho sempre avuto di Wenders in questo caso ho avuto l'impressione che l'autore di piccoli gioielli come Il cielo sopra Berlino si sia voluto accontentare dell'appoggio di un'elite di pseudo intenditori che l'avrebbero portato in palmo di mano pur non considerando il fatto che la grandezza di Pina non sta nell'aver mostrato all'audience la grandiosa potenza del lavoro della Bausch, quanto la perizia tecnica del buon Wim, che da vero furbastro si è giocato - benissimo - la carta dell'illusione neanche fosse Christopher Nolan.
Peccato, perchè se invece di sfruttare il gioco delle tre carte della potenza della macchina da presa l'uomo che la conduce mi avesse preso per mano ed aperto le porte del mondo di Pina Bausch, sarei uscito dalla visione con gli occhi decisamente più luminosi.
In fondo, questo dovrebbe essere il bello del Cinema.


MrFord


"If you say run, I'll run with you
and if you say hide, we'll hide
because my love for you
would break my heart in two
if you should fall
into my arms
and tremble like a flower."
David Bowie - "Let's dance" -



giovedì 8 novembre 2012

Hors Satan

Regia: Bruno Dumont
Origine: Francia
Anno: 2011
Durata: 110'




La trama (con parole mie): un uomo che pare uscito da una leggenda e che cammina nella campagna francese come uno zingaro è sfamato e seguito nelle sue peregrinazioni da una ragazza che ha aiutato liberandola del dispotico patrigno.
Attorno a loro gli elementi figli della Natura prendono le distanze dalle miserie umane fatte di violenza, malattia, disagio e follia.
Lei vorrebbe l'unione delle loro strade, lui è alla ricerca della prossima tappa, che farà seguito ad un miracolo lasciato libero nel sole pregato ogni mattina: profondamente fisico e profondamente filosofico uniti da un anelito assolutamente terreno eppure tendente all'infinito.
Oppure no?






Ricordo quando, all'esame di maturità, il commissario esterno di letteratura italiana mi squadrò con aria irritata al termine della mia prova orale mostrandomi il tema che, qualche giorno prima, avevo compilato per quella scritta: "Quando vai a comprare il pane parli così?", mi interrogò.
Lì per lì mi incazzai non poco, anche perchè il mio fu il voto più alto che diede, e ritenni l'ometto che credevo di avere di fronte soltanto l'ennesimo professorino incapace di capire alcunchè di quello che la mia mente aveva partorito nell'illustrare il rapporto tra fede e scienza.
Sono passati quasi quindici anni, da allora, e solo il pensiero di tentare una rilettura della mia "opera" provoca un certo malessere nel sottoscritto, almeno quanto l'idea di riprendere in mano il libro di racconti che, proprio in quel periodo, iniziai a scrivere e che venne pubblicato un paio d'anni dopo.
Escrementi, direbbe Keating di quelle righe da adolescente preso dalla voglia di mostrare a tutti i costi di essere un grande scrittore, migliore prima di tutto dei suoi eventuali lettori.
Ed escrementi dico anche io, pur se utili senza dubbio alla formazione di quello che sono diventato in seguito.
Ma cosa c'entra tutto questo con uno dei titoli che più nell'ultimo anno ha fatto gridare al miracolo gli appassionati del Cinema d'autore estremo?
C'entra semplicemente perchè trovo che un'opera come quella di Dumont, per quanto grande, artistica, potente, visionaria possa essere considerata, sia supponente e per nulla rispettosa del pubblico, ma nata per compiacere quei pochi che, considerandosi eletti, continueranno a guardare dall'alto in basso il resto dei poveri stronzi incapaci di vedere la grandezza di pellicole come questa.
Nel corso della mia vita di spettatore mi è capitato di affrontare di tutto, dal film muto a quello d'avanguardia, dal grande classico al blockbuster d'azione, di spaziare tra gli orizzonti di culture a me decisamente lontane e panorami decisamente più vicini alla mia sensibilità e background.
Sugli schermi di casa Ford sono passati i Bunuel, i Marker, gli Jodorowski, i Kubrick, i Von Trier, i Malick, i Tarkovskij, i Lynch, i gusti delle angurie e le frontiere più becere dell'horror: non mi sono mai tirato indietro, dai mattonazzi che richiedono un impegno quasi fisico ai titoli che non si sentono neppure, e distorcendo il tempo volano al cuore più veloci della luce.
Se c'è una cosa che in tutto questo tempo è sempre riuscita ad irritarmi profondamente è la supponenza degli autori, il desiderio non tanto di raccontare una storia quando di raccontarsi una storia.
Dumont, indubbiamente fenomenale nel fotografare istantanee che paiono uscite dritte dritte dalle eredità della Pittura, più che del Cinema, è riuscito ad apparirmi così pieno di sè nel portare sullo schermo le gesta del suo Jim Caviezel di provincia da incarnarsi in una versione d'elite del Mel Gibson più estremista e squilibrato, completamente incurante del pubblico - fatta eccezione, ovviamente, per i pochi eletti di cui sopra - e di ogni passione per la sua creatura.
Qualche mese addietro, parlando della clamorosa delusione che fu Detachment, allusi ad una sorta di "pedofilia culturale" rispetto all'approccio dell'insegnante interpretato da Adrien Brody: nel caso di Hors Satan e del suo miracoloso uomo dei boschi, potrei quasi considerare la visione come un vero e proprio stupro dell'anima, un boccone forzato dai sicuramente potenti ingredienti che il suo creatore pare non trovare altro modo di propinare a chi si è fidato di lui - e delle recensioni che hanno accompagnato questo titolo - se non cacciandolo dritto in fondo alle tonsille con tanto di naso tappato.
E così, mentre il nostro golem o presunto tale vendica i soprusi di una giovane che vorrebbe ricambiarlo con il suo corpo e che dopo i colpi di fucile a sangue freddo non esita a sconvolgersi di fronte ad una sua battuta di caccia andata storta - passaggio gratuito in grado di farmi incazzare almeno quanto fu per la sequenza dell'uccisione del gatto in Kynodontas -, le immagini volutamente ricercate fanno da contraltare ad una storia che storia non è, e che maschera di semplicità un approccio, al contrario, volutamente estremo ed artificioso.
Non bastano, nonostante restino una trappola ben congeniata, le preghiere ed il finale messianico, la redenzione mascherata da aggressione, i miracoli di un animale che finge di mettersi allo stesso livello dei mortali, ma che, di fatto, si trastulla nella sua posizione di potere: Hors Satan è un trabocchetto, una religione fatta per essere l'oppio dei popoli, o di chiunque si lasci stregare da un canto di sirene portato sullo schermo da vagabondi costruiti a tavolino che paiono - ed in alcuni casi, sono - presi dalla strada.
La mia risposta alla domanda di quel professore fu: "No, non parlo così. Ma questo è tutta un'altra cosa".
Non avevo ancora capito che non c'è un'altra cosa, a parte la vita.
Ed è l'arte a farne parte, e non il contrario.
A Dumont questo pare sfuggire ancora.
O forse è di quelli cui piace perdersi nell'illusione dell'onnipotenza.
Una di quelle che è facile far degenerare in uno degli "ismi" da cui continuo a tenermi fieramente a distanza.


MrFord


"Ma l' animale che mi porto dentro
non mi fa vivere felice mai
si prende tutto anche il caffè
mi rende schiavo delle mie passioni
e non si arrende mai e non sa attendere
e l' animale che mi porto dentro vuole te.
Dentro me segni di fuoco è l'acqua che li spegne
se vuoi farli bruciare tu lasciali nell' aria
oppure sulla terra."
Franco Battiato - "L'animale" -



   
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