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sabato 11 febbraio 2017

Masterminds - I geni della truffa (Jared Hess, USA, 2016, 95')




Di norma, quando si tratta di affrontare i titoli che escono in sala, i film che per un motivo o per un altro stuzzicano la zona cult mia o di Julez, così come le grandi novità, vengono privilegiati rispetto alle proposte eccessivamente autoriali - che utilizzo nelle serate in cui tutti sono a nanna e resto l'ultimo baluardo di casa Ford, e finisco per non ammazzarmi con PES - o a tutti quei film classificati come riempitivi per i pomeriggi a casa con i Fordini o per le serate di stanca: Masterminds - I geni della truffa apparteneva a quest'ultima categoria.
Rimasto in standby per mesi, e passato su questi schermi con la speranza che potesse rivelarsi una commedia sguaiata e senza ritegno oppure una cosa a sorpresa profonda - come fu Pain&Gain, giusto per citare un esempio -, si è rivelata una delle perdite di tempo più clamorose di questo inizio anno: perchè nonostante il cast abbastanza di richiamo - non di valore effettivo, sia chiaro - ed una campagna pubblicitaria ai tempi dell'uscita piuttosto d'impatto che avrebbero voluto spacciarlo per una sorta di incrocio tra i Coen e The nice guys, il lavoro di Jared Hess - che pure non è l'ultimo dei cretini - è risultato volgare, inutile e stantio, così come l'ennesima conferma del fatto che, Birdman escluso, Zack Galifianakis sia uno dei cani maledetti più incredibili che la settima arte mainstream abbia regalato al pubblico di tutto il mondo in questi ultimi anni.
Archiviato il protagonista, Masterminds rappresenta uno dei punti più bassi che abbia visto raggiungere dal Cinema americano di grana grossa degli ultimi mesi ed uno dei più seri candidati alla decina del peggio dell'anno nonostante si sia ancora all'inizio dello stesso: inutile, assolutamente non divertente, chiaramente posticcio e poco coinvolgente, svogliato dall'inizio alla fine e moralmente discutibile anche a livello di messaggio - trattandosi di una storia ispirata da vicende reali -.
Se, infatti, prodotti come Prova a prendermi o I love you Philiph Morris avevano un senso legato al talento che emerge o ad una lotta contro il sistema sociale, questo Masterminds pare quasi una versione nel segno dei peggiori Cinepanettoni o del più agghiacciante Checco Zalone per dimostrare che un certo tipo di visione e di condotta sia in realtà il modello da seguire a prescindere, e la ricetta della felicità.
Un film, dunque, inutile ed assolutamente cestinabile, di quelli talmente poco significativi anche in negativo da diventare un incubo quando si tratta di scrivere un post che possa descrivere nel dettaglio la loro pochezza.
E proprio perchè in questo nuovo corso post-Bullettin non voglio perdere tempo ed energie in recensioni forzate, chiuderò semplicemente così: Masterminds è una vera merdina.
Se potete, evitatelo.
Non avrete la sensazione di aver sprecato del tempo.




MrFord



 

martedì 7 giugno 2016

99 homes

Regia: Ramin Bahrani
Origine: USA
Anno:
2014
Durata:
112'








La trama (con parole mie): Nash, giovane padre single che cerca di sbarcare il lunario in tempi di crisi come operaio edile e che vive con la madre ed il figlio nella casa di famiglia, vede la stessa confiscata dall'immobiliare guidata da Richard Carver, squalo dell'ambiente pronto a riscattare tutte le abitazioni finite fagocitate dalla stessa crisi economica.
Vista la determinazione di Nash e scoperta la sua familiarità con i lavori di ristrutturazione, Carver propone al ragazzo di collaborare con lui in modo da rifarsi della perdita, prendendolo sotto la sua ala e coinvolgendolo nelle operazioni legate agli sfratti lecite e non, portandolo di fatto dall'altra parte della barricata.
Quando la verità sul nuovo lavoro che sta riportando la famiglia alla normalità viene a galla rispetto a madre e figlio, per il giovane Nash iniziano anche i rimorsi di coscienza.











In tempi di crisi economica, probabilmente l'unico dolore superiore a quello della perdita del proprio lavoro è quello di vedere pignorata la propria casa, non solo rifugio, ma anche ricettacolo di ricordi, affetti, momenti che restano nostri e che proteggono dall'esterno come un'armatura.
In un'epoca difficile, in questo senso, come la nostra, in cui si finisce per legarsi ad una banca per una vita in modo da poter sperare di lasciare qualcosa ai propri figli, un lavoro come 99 homes risulta quantomai attuale e pronto a smuovere riflessioni non da poco in ogni spettatore che non abbia avuto la fortuna di nascere con il portafoglio gonfio o di avere un lavoro o genitori in grado di permettere di non contare su un mutuo - due cose delle quali non bisogna vantarsi troppo, ma neppure vergognarsi, considerato che personalmente sarei felicissimo di poter assicurare almeno questo al Fordino e alla Fordina -.
La parabola di Nash, rabbioso e determinato sfrattato - comprensibili le diverse reazioni mostrate nel corso della pellicola da parte della gente allontanata dalla propria casa - pronto ad ingoiare il rospo e passare dalla parte del nemico per mantenere la famiglia è interessante e ben portata sullo schermo dai protagonisti Andrew Garfield e Michael Shannon - che continua a confermarsi non solo perfetto per interpretare i sacchi di merda, ma secondo il sottoscritto uno dei migliori attori della sua generazione -, ben ritmata e coinvolgente, nonostante un calo abbastanza evidente nella parte finale, che pare perdersi di fronte alla scelta di riportare il film su binari più ottimisti e convenzionali o affondare il coltello fino all'impugnatura.
Personalmente avrei preferito questa seconda opzione, considerato che, con ogni probabilità, anch'io in una situazione simile non penso esiterei troppo a raccogliere l'occasione fornita a Nash da Carver in modo da parare il culo alla mia famiglia, anche se si trattasse di passare per il "cattivo" agli occhi delle altre - emblematico, in questo senso, la sequenza in cui Nash viene riconosciuto da uno degli sfrattati appena trasferitosi nel motel dove provvisoriamente vive anche la sua famiglia -, così come ho digerito poco la reazione forse troppo "dura e pura" della madre di Nash e del figlio di quest'ultimo, pronti a criticare neanche il buon Andrew Garfield avesse dato il via ad un commercio di esseri umani per portarli in una nuova - e principesca, occorre dirlo - dimora.
Nonostante questo, comunque, la pellicola di Bahrani funziona e tocca le corde giuste, e pur non centrando un obiettivo che avrebbe avuto tutte le carte in regola per colpire in pieno resta un prodotto senza dubbio interessante per ogni tipo di pubblico, mantenendosi - questa volta giustamente - a metà tra la proposta autoriale e quella da tipico prodotto mainstream "di denuncia": e se, forse, uno come il sottoscritto è troppo stronzo per farsi mettere in crisi a livello etico almeno a mente fredda resta comunque sconvolgente come e quanto il sistema e le banche continuino - e probabilmente continueranno sempre - a prosperare sulle spalle della gente che ogni giorno si fa il culo per garantire ai propri cari un tetto sulla testa e ad approfittare - per usare termini quantomeno civili - della stessa.
In questo senso, così come nella scelta di lavorare per Carver, penso che sarei incazzato forte almeno quanto Nash.
E anche di più.




MrFord





MrFord





"And I thank you
for bringing me here
for showing me home
for singing these tears
finally I've found
that I belong here."
Depeche Mode - "Home" - 






domenica 10 aprile 2016

Better call Saul - Stagione 1

Produzione: AMC
Origine: USA
Anno: 2015
Episodi: 10







La trama (con parole mie): prima di divenire l'avvocato sempre pronto ad una soluzione del Walter White di Breaking bad, Saul Goodman era soltanto un piccolo uomo di Legge di Albuquerque pronto a lottare per sbarcare il lunario dal retro di un salone di bellezza, con un fratello socio di uno dei più grandi e rinomati studi della città prigioniero in casa con la convinzione di essere troppo sensibile alle interferenze provocate dai dispositivi elettronici. Prima di Saul Goodman c'era solo James McGill, e prima ancora Slippin' Jimmy, truffatore praticamente professionista allontanatosi da Chicago proprio per evitare un futuro già segnato da criminale.
La scalata al successo di avvocato, però, non sarà così facile, per il vecchio Jimmy: assistiamo dunque alle imprese che posero i mattoni di quello che, anni dopo, si trasformerà in una sorta di impero.








Come ormai qualunque avventore del Saloon, anche casuale, ben saprà, considero Breaking Bad parte della grande trinità di serie televisive imprescindibili per ogni appassionato e non, titoli che, genere, background o provenienza del pubblico, andrebbero visti e vissuti come vere e proprie esperienze quasi mistiche: Vince Gilligan, creatore della saga di Walter White e Jesse Pinkman, proprio per questo avrà per sempre un posto d'onore sull'Arca della gloria di questo blog, e la gratitudine imperitura del sottoscritto.
Dopo aver realizzato, dunque, un Capolavoro come quello, una scommessa come Better call Saul poteva rappresentare un gran rischio, considerati gli inevitabili paragoni che il pubblico - soprattutto ad un primo approccio - avrebbe scomodato: in questo senso, il buon Vinnie ha, secondo il mio parere, vinto la sua scommessa portando in scena un prodotto che ricorda nello stile la mitica BB, ma se ne discosta - almeno per il momento - concentrandosi su un protagonista a dir poco di culto che aveva già creato scompiglio anche alla sua apparizione accanto ai due cuochi di meth più noti del piccolo schermo.
In un certo senso, Gilligan opera con Better call Saul un'operazione simile a quella delle prime due stagioni di Breaking Bad, prendendosi tutto il tempo senza badare troppo alle mille domande dei fan - appariranno Pinkman o White? Quale percorso compirà l'esplosivo Saul per giungere a contatto con loro? - e ripartendo da zero - e forse anche da prima dello zero - rispetto ai tempi in cui Saul Goodman non era neppure un pensiero, figuriamoci una realtà: questa prima stagione di Better call Saul, infatti, si concentra sulla figura di James McGill, ex truffatore dal cuore quasi d'oro trapiantato da Chicago ad Albuquerque per evitare la galera, mosso dal desiderio di seguire le orme del fratello - socio di un importante studio legale locale - e di mostrare la propria abilità ed il proprio valore non tanto agli uomini della strada - quelli lo conoscono fin troppo bene - quanto ad un altro livello della società che, di fatto, continuerà per sempre a considerarlo un outsider, un perdente, un poco di buono.
In questo senso assistiamo ad un viaggio molto vicino a quello della premiata ditta Eisenberg e Pinkman, entrambi losers divenuti qualcosa di mai visto prima, che si contenta di un paio di deviazioni ottimamente riuscite che strizzano l'occhio alla serie che le ha generate - il crossover con Tuco, spassoso e grottesco come le prime incursioni nel mondo criminale dei protagonisti di Breaking bad, ed il ruolo di Mike, protagonista forse del miglior episodio della stagione, dedicato ai suoi trascorsi nelle forze dell'ordine ed alla morte del figlio -, che proprio allo stesso modo pare volersi prendere tutto il tempo possibile per mostrare al pubblico di che pasta è fatto - ricordo bene quanto, senza appello, Gilligan innestò la marcia senza più voltarsi indietro con la terza stagione di BB -, regalando sprazzi di classe cristallina - splendidi i momenti di preparazione all'aula di "Slippin" Jimmy, le sue truffe ed il bellissimo ed emozionante episodio di chiusura -, ironia, riflessione e tempi dilatati che, di fatto, più che scoraggiare finiscono per riuscire ad approfondire ancora meglio un charachter dalle potenzialità enormi come quello del futuro Saul.
Dunque, il tempo di farci una dormita nel pieno stile McGill, ed in casa Ford torneremo sulle strade assolate di Albuquerque per scalare il prossimo gradino insieme al vecchio Jimmy, senza avere fretta di saltarne due per volta e ben consci del fatto che, prima o poi, e basterà dare il meglio ed attendere, la cima sarà nostra.
E non ci sarà più nessun fratello "per bene" o sistema confezionato per i vincenti in grado di fermarci.



 
MrFord




"Collect the bad habits
that you couldn't bare to keep
out of the woods but I love
a tree I used to lay beneath
kissed teeth stained red
from a sour bottle baby girl
with eyes the size of baby worlds."
Fall out boy - "I'm like a lawyer with the way I'm always trying to get you off (Me&You)" - 





venerdì 26 febbraio 2016

Heist

Regia: Scott Mann
Origine: USA
Anno: 2015
Durata:
93'







La trama (con parole mie): Vaughn è un outsider del mondo del crimine, ex promessa di un boss proprietario di un casinò in procinto di ritirarsi costretto dalla malattia che con la malattia deve fare i conti, perchè il cancro si sta portando via sua figlia.
Quando viene avvicinato da Cox, infiltratosi nel suo stesso casinò per progettare un colpo, inizialmente rifiuta, cercando di ottenere dal grande capo i soldi necessari per coprire i costi dell'operazione della piccola: vedendosi rifiutare malamente il favore, Vaughn decide di accettare la proposta e gettarsi a capofitto in un'impresa che rispolvererà il suo passato militare e lo vedrà rischiare il tutto e per tutto pur di salvare la persona che conta di più nella sua vita.
Ma anche in un piano perfetto si rischia l'inghippo, e dunque Vaughn, Cox ed i loro due complici finiranno per dover improvvisare per portare a casa la pelle ed il bottino: riusciranno nella loro impresa, o dovranno soccombere alla morsa delle forze dell'ordine e del "padrino" Pope, che pare avere occhi e uomini ovunque?








Non riesco davvero mai a resistere, alla tentazione di concedermi ad un film d'azione.
Non importa che non siano più gli anni ottanta, gli interpreti dei tempi d'oro siano ormai, purtroppo, solo un ricordo e tutto viva, di fatto, come avvolto in un'atmosfera di attesa di qualcosa di nuovo che, purtroppo, raramente arriva a stupire.
Dunque, quando ho incrociato il cammino di Heist, non ho davvero saputo resistere: rapine, tensione, minutaggio perfetto per il genere, il buon vecchio Batista e Gina Carano - anche se, questo devo proprio rimproverarlo a Scott Mann, sarebbero stati da spremere decisamente di più dal punto di vista fisico -, una parte affidata al fu Zach di Bayside School - secondo giro di amarcord -, il discreto Jeffrey Dean Morgan come protagonista, il vecchio leone De Niro - anche se, ormai, è ben lontano dall'essere una garanzia di qualità -, il classico tema del riscatto unito al crimine ed una buona dose di riflessioni sul rapporto tra padri e figli.
In poche parole, un passaggio obbligato per il vecchio cowboy.
Sinceramente, non mi aspettavo nulla, da questo Heist, se non il classico film da riempimento di serata buono per gli infrasettimanali resi più pesanti dalle sveglie alle sei con allenamento prima del lavoro, e devo dire che, a parte una certa consistente mancanza in termini di botte ed esplosioni - con Batista e Gina Carano, per l'appunto, nel cast, occorre che si ci applichi in questo senso quasi per contratto - il risultato è stato onestamente raggiunto nonostante un plot ed una sceneggiatura assolutamente derivativi ed elementari - il twist principale è facilmente individuabile fin dalle prime sequenze - ed una serie di elementi che ricordano, senza ovviamente poterli replicare, cult degli anni ottanta e novanta come Speed - palesemente citato ed imitato grazie allo sfruttamento del bus -, conditi da qualche strizzata d'occhio al cultissimo firmato da Spike Lee, Inside Man.
Per tutti coloro per i quali, come il sottoscritto, il genere ha un significato non solo legato ai ricordi ma resta sempre un divertissement o un guilty pleasure, comunque, Heist - che non credo verrà mai distribuito in Italia, se non in home video - finisce per risultare una visione quasi doverosa, considerata la penuria di produzioni valide - almeno in Occidente - per quanto riguarda i film di botte e spari: non che ci si debba illudere di trovare l'Eldorado degli action tamarri del secondo decennio degli anni zero, quanto più disporsi nel miglior modo possibile ad una sorta di shake tra il tentativo di rispolverare i vecchi valori, il riscatto in stile Stand up guys e l'approccio senza troppi pensieri che vide tanti attori ormai di culto anche da queste parti fare le loro fortune ormai una trentina di anni or sono.
Una volta accettata questa realtà dei fatti, Heist risulterà un artigianale ed a suo modo riuscito tentativo d'intrattenimento sopra le righe in grado di mescolare tensione ed a suo modo profondità - e sento già il Cannibale fare l'eco ai riferimenti del sottoscritto ai legami tra padri e figli - pur senza rappresentare un nuovo standard, un perfetto omaggio ad un'epoca purtroppo tramontata ed un riempitivo senza pretese che farà quasi sorridere chi quei tempi li ha vissuti sulla pelle e li porta in una certa misura ancora nel cuore.





MrFord





"Didn't believe in love until we fell out
gave the keys back, now I'm on the homie's couch
always going out, sleeping ‘round with strangers
danger! But you can't live without her
now you're paranoid, checking on her cellphone
making sure she ain't like you alone
haven't made love with the lights still on
it's like you're hiding something from me."

Macklemore&Lewis - "Thin line" - 






domenica 7 febbraio 2016

Maverick

Regia: Richard Donner
Origine: USA
Anno: 1994
Durata: 127'






La trama (con parole mie): Bret Maverick, un giocatore di carte abilissimo di mano e di testa, è alla ricerca degli ultimi tremila dollari che gli servono per l'iscrizione ad un torneo di poker pronto a tenersi a bordo di una grande nave da fiume. Cercando di riscuotere vecchi crediti e recuperare il resto del denaro facendo quello che gli riesce meglio - il poker, per l'appunto - si imbatte nell'abile giocatrice e truffatrice Annabelle Bransford e nello sceriffo Zane Cooper, che volenti o nolenti si troveranno coinvolti nelle avventure dello stesso Maverick, pronto a fronteggiare i banditi guidati dal pericoloso Angel, nativi con propositi di vendetta e tutte le insidie della Frontiera pur di giungere al tavolo da gioco tanto agognato.
Ed anche allora, le sorprese ed i guai saranno ben lontani dall'essere finiti.









Per quanto strano possa sembrare almeno ad un'occhiata superficiale al Saloon ed ai suoi occupanti, e per quanto non possa essere considerato un Western classico quanto più una brillante commedia d'avventura, fino a poco tempo fa Maverick mancava alla lista di visioni del sottoscritto ma non da quella di Julez, che è stata più che felice di sposorizzare il recupero di questo lavoro di Richard Donner che pare un incrocio tra La stangata e lo spirito di Arma letale inseriti in una cornice assolutamente piacevole e divertente da vecchio West più guascone che violento e "spietato".
Inutile dire che, per quanto assolutamente votato all'intrattenimento e non particolarmente profondo, Maverick è riuscito a conquistarmi fin dalle prime sequenze grazie, oltre all'ambientazione, ad un ottimo ritmo, ad un Mel Gibson scatenato pronto a portare in scena la sua specialità - quella del cazzaro -, un cast mitico - da James Garner, che fu protagonista della serie televisiva anni cinquanta alla quale il film si ispira, fino all'indimenticato James Coburn, passando per Alfred Molina e Jodie Foster - ed un'ambientazione che non può che sfondare una porta aperta da queste parti, resa ancora più frizzante dai toni da commedia, dalle schermaglie amorose tra Maverick e Annabelle e dalla componente pokeristica, che esercita sempre un certo fascino sul sottoscritto, per quanto non possa certo definirmi un gran giocatore.
Come se tutto questo non bastasse, a Richard Donner vorrò sempre bene - del resto, quando un regista regala al suo pubblico la saga di Arma letale e I Goonies, per quanto mi riguarda avrà il culo parato a vita e anche oltre -, adoro a prescindere le storie di truffe e simili ed i film leggeri ma non per questo privi di senso pronti ad alleggerire le serate più pesanti ed in particolare il minutaggio pur discretamente importante di Maverick non pesa minimamente proprio grazie al continuo rinnovarsi delle situazioni affrontate dal protagonista e dai suoi compagni ed antagonisti.
In questo senso mi è parso quasi di assistere ad uno spettacolo brillante e disimpegnato che pare una versione comedy di road movies western come Il texano dagli occhi di ghiaccio, con rimembranze di Sergio Leone - la sequenza d'apertura con Maverick costretto in una posizione certo non comoda da Angel e la sua banda - ed il giusto equilibrio tra il film di cassetta made in USA e l'intrattenimento in grado di unire nonni, padri, figli e nipoti quasi si fosse tutti sulla stessa barca - che sia, poi, per un torneo di poker o no, poco importa - pronti a stuzzicarsi a vicenda e godersi il fatto di poter condividere un'avventura come se si fosse complici.
La sorpresa del finale e l'evoluzione del rapporto tra i tre protagonisti - Maverick, lo sceriffo e Annabelle -, imprevista e decisamente divertente, così come la finale del torneo, giocata all'ultimo respiro, fanno il resto e confezionano un film d'intrattenimento come se ne facevano a mazzi ai bei tempi e che ora stanno diventando, purtroppo, merce più rara: come i simpatici figli di buona donna come Bret Maverick.





MrFord





"I'm a joker
I'm a smoker
I'm a midnight toker
I sure don't want to hurt no one."
Steve Miller Band - "The joker" - 






mercoledì 13 gennaio 2016

La grande scommessa

Regia: Adam McKay
Origine: USA
Anno: 2015
Durata:
130'








La trama (con parole mie): siamo nei primi anni duemila quando alcuni outsiders, geni, giovani rampanti e folli legati al mondo della finanza americana profetizzano quello che era da sempre considerato impensabile, l'implosione del mercato immobiliare, da sempre sostenuto fondamentalmente dalle truffe legalizzate perpetrate dalle banche a partire dai mutui.
Michael Burry, Jared Vennett, Mark Baum e Ben Rickert - di fatto mentore dei giovani Jamie Shipley e Charlie Geller - decidono di lanciare una sfida all'intero sistema attendendo come squali il momento in cui le loro intuizioni si riveleranno fondate: il tempo richiesto finirà per essere più del previsto, le difficoltà e i dubbi decisamente maggiori, ma quando alla fine i nodi verranno al pettine, per questo insolito manipolo di uomini arriverà l'attimo non solo della vittoria, ma anche dell'affermazione e della ricchezza.
Peccato che, di fatto, questo avrà significato la bancarotta per un intero Paese.










Non ho mai capito nulla, di finanza e simili.
E non sono mai stato attaccato ai soldi, come concetto o anche fisicamente.
Nel corso della mia vita, ho sempre speso quel poco che ho guadagnato, finendo per mettere a frutto l'amore per l'esperienza rispetto a quello che potrebbe dare un conto in banca ben ingrassato.
In un mondo come quello descritto con ironia pungente e sagacia da Adam McKay, ispiratosi ad un romanzo ed a fatti reali, probabilmente, risulterei fuori luogo almeno quanto in canotta e bermuda con tatuaggi in vista in una festicciola di radical chic hipster.
E forse anche di più.
Ammetto, dunque, di essermi sentito un povero stronzo in più di un'occasione, nel corso della visione de La grande scommessa, pronto a raccogliere i suggerimenti - spassosissimi - delle varie Margot Robbie o Selena Gomez chiamate a spiegare a noi comuni mortali cosa accade nei corridoi dell'alta finanza usando esempi e termini più vicini a quelli cui siamo abituati nella vita di tutti i giorni: in un certo senso, il lavoro del buon McKay ha riportato alla mente del sottoscritto la visione di Margin Call, più di quella di The Wolf of Wall Street, e la coscienza del fatto che, essendo così poco legato ai soldi, probabilmente finirò per essere per tutta la vita fregato da chi tira le fila del mondo in questo senso, spinto come sono più dal senso di sopravvivenza e dalla dedizione al succhiare il midollo della vita che non a preoccuparmi di tenere i conti o del fatto che la mia banca mi stia allegramente inculando con il mutuo.
Del resto, io non controllo neppure il cedolino della busta paga, giusto per darvi un'idea.
Ad ogni modo, La grande scommessa è senza dubbio uno dei titoli più interessanti di questo inizio anno molto promettente, un film corale che non è un film corale, una sorta di docu-fiction legata a fatti realmente accaduti che riesce a mantenere la giusta distanza dall'eccessiva freddezza della cronaca così come dall'enfasi a rischio retorica della grande pellicola strappa-Oscar, interpretato da applausi da un cast in grandissimo spolvero - su tutti, gli ottimi Christian Bale, sempre strepitoso, e Steve Carell, ormai diventato una garanzia - ed impreziosito da una serie di espedienti - l'utilizzo di Ryan Gosling e degli "ospiti" del regista prima di tutto - pronti ad alleggerire quello che, diretto diversamente, sarebbe apparso come un polpettone buono giusto per gli studenti di economia e gli aspiranti yuppies.
Pur riconoscendo il valore dell'opera, però, devo ammettere di aver amato La grande scommessa molto meno di quanto avrei voluto, finendo per giudicarlo "solo" un gran bel film, interessante e divertente ad un tempo, nonchè una denuncia per nulla sottile di un sistema - il nostro, figlio del consumismo e della corsa al possesso - che non può e non potrà fare nient'altro che danni e rimanere uguale a se stesso - emblematico il finale, in questo senso -: probabilmente, per un tipo pane e salame e poco interessato all'argomento come il sottoscritto, un prodotto di questo genere potrà sempre e solo apparire distante, e privo dell'emozione che, ogni volta che mi siedo sul divano, davanti al computer o in sala mi aspetto di ricevere come se fosse il bicchiere bello pieno dall'uomo dietro il bancone.
Di fatto, in casi come questo, è come se mi si porgesse un calice di vino - per quanto strepitoso - al posto di un Islay, o di un whisky giapponese.
Da par mio, dunque, scommetto sul valore de La grande scommessa pur non avendolo sentito così nel profondo, rimanendo a distanza con il bicchiere in mano pensando a quanti criminali sono a piede libero nel mondo senza neppure avere le palle per essere criminali veri, e quanto riesce ad essere davvero grande il Cinema americano quando si libera dalla retorica e decide di raccontare una storia, anche quando quella stessa storia è distante anni luce da quella che vorremmo ascoltare.





MrFord





"Master of puppets I’m pulling your strings
twisting your mind and smashing your dreams
blinded by me, you can’t see a thing
just call my name, ‘cause I’ll hear you scream
master
master
just call my name, ‘cause I’ll hear you scream
master
master."
Metallica - "Master of puppets" - 






domenica 12 luglio 2015

Two much - Uno di troppo

Regia: Fernando Trueba
Origine: USA, Spagna
Anno: 1995
Durata: 118'





La trama (con parole mie): Art Dodge è un giovane gallerista nonchè ex pittore ispano-americano che vive di espedienti a Miami con il vecchio padre, sbarcando il lunario vendendo opere alle famiglie di persone appena defunte.
Quando, nel corso di un tentativo di "vendita" che potrebbe finire molto male incappa nella ricca e fresca di divorzio Betty, la sua vita cambia: la donna, impulsiva e sopra le righe, decide che sarà lui il suo terzo marito, e decide di bruciare le tappe spingendo Art verso l'altare.
L'ex artista, già poco convinto, finisce per innamorarsi della sorella intellettuale di Betty, Liz: per poterla conquistare, però, considerata l'aperta ostilità che quest'ultima nutre per lui, Art inventa di punto in bianco un gemello appena arrivato dalla Spagna che riporta in superficie il suo talento di pittore.
Come finirà il doppio incastro?








Tra i guilty pleasures che nel pieno degli anni novanta dell'adolescenza io e mio fratello consumammo nel videoregistratore, titoli che avremmo quasi disconosciuto nel periodo appena successivo, dedicato quasi esclusivamente a Classici e film d'autore, spicca senza dubbio Two much, commedia romantica di grana grossa con protagonista il Banderas degli anni d'oro che da tempo e considerata la bella - e disimpegnata - stagione avevo intenzione di recuperare qui al Saloon.
Penso fossero indicativamente quindici - se non addirittura venti - gli anni passati dall'ultima visione delle disavventure sentimentali e non solo di Art Dodge, eppure devo ammettere che, pur conoscendo a memoria il lavoro di Trueba, ho finito per godermelo e divertirmi come fosse la prima, con tutti i limiti del caso ed i passaggi decisamente troppo facili che questa pellicola regala: momenti, inoltre, come il primo incontro tra Art e Liz nella doccia, la fuga dagli sgherri di Gene/Danny Ajello in compagnia degli arzilli vecchietti amici del padre - grandissimo, come sempre, il mitico Eli Wallach -, il rimbalzare da una stanza da letto all'altra delle due sorelle ed il finto faccia a faccia nel giorno del matrimonio con un Banderas ipergiogioneggiante - e sempre simpatico, devo ammetterlo, qualsiasi sia il suo "volto" - sono riusciti a strapparmi risate genuine e sincere, quasi l'affetto per questo titolo fosse tornato a galla proprio grazie alla sua leggerezza.
Lo scambio di persona e la commedia degli equivoci, del resto, se sfruttati a dovere riescono sempre a fare il loro, in quest'ambito, e l'idea di giocarli come fossero jolly in una commedia romantica funziona anche quando non ci si trova all'interno del caotico triangolo dei protagonisti - spassosi i siparietti che vedono Art tentare di convincere il padre, non sempre lucidissimo, della reale esistenza del suo gemello Bart -, e fanno tornare a mente almeno al sottoscritto le capriole ed i conseguenti incasinamenti nati dai tentativi di far coesistere due o più storie in contemporanea, e senza fratelli gemelli fasulli a complicare le cose.
Solidarietà maschile, dunque, per il buon Banderas/Art, che preda dell'istinto e della capacità di generare guai tipica di un certo tipo di uomini finisce per prendere i benefici ma anche tutti gli svantaggi - e le ferite - che la situazione comporta, nonostante, ovviamente, per questo tipo di prodotti è sempre previsto un salvagente conclusivo che possa permettere a tutti di vivere felici e contenti come nelle migliori favole.
Ma poco importa di questo e di tutti gli altri limiti della pellicola: tornare a gustarmela è stato come rivedere un vecchio amico dopo troppo tempo, farsi quattro risate, una bella bevuta e tanti saluti, senza troppi pensieri.
Ed in bilico tra la cornice di Miami, un'atmosfera molto estiva, doppie conquiste e doppi guai, godersi questo amarcord è stato come fare ritorno in un locale frequentato ai bei tempi e scoprire che quel mojito veicolo di molteplici sbronze continua ad avere lo stesso dolce e piacevole sapore.



MrFord



"Sometimes mister I feel sunny and wild 
lord I love to see my baby smile 
then dark clouds come rolling by 
two faces have I ."
Bruce Springsteen - "Two faces" - 




sabato 13 giugno 2015

Mi fido di te

Regia: Massimo Venier
Origine: Italia
Anno:
2007
Durata:
100'





La trama (con parole mie): Alessandro e Francesco sono due uomini dalle vite molto diverse. Il primo è sempre campato di momenti, sopravvivendo, ed è giunto a giocarsi il suo futuro truffando, giorno per giorno. Il secondo, dopo aver costruito la "vita perfetta" - una moglie, due figli, una casa con giardino, un lavoro come manager a seguito di una carriera da studente modello - si ritrova disoccupato e senza un vero stimolo.
Il loro incontro scatenerà una serie di eventi che porteranno uno sconvolgimento nella vita di entrambi, decisi a prendersi delle rivincite alla faccia del mondo esterno: e se nel caso di Alessandro riguarderanno la possibilità di costruirsi una vita come di norma si finisce per sognare, Francesco cercherà la realizzazione che, con la perdita dell'impiego, è mancata nella sua vita.
Ma è davvero tutto destinato a finire bene? O la fiducia dei due improvvisati amici sarà mal riposta?







Non troppo tempo fa, mi è capitato di dedicare una recensione a Generazione 1000 euro, prodottino italiano sponsorizzato da uno dei ragazzi che, durante lo scorso periodo natalizio, hanno dato una mano sul luogo di lavoro in cui questo vecchio cowboy sconta la sua pena in attesa di un futuro imprecisato dedicato alla sola scrittura: lo stesso, il buon Davidone, che mi sono preoccupato di pettinare sul campo di beach volley in barba alla differenza d'età, ha deciso di interpretare la parte di critico cinematografico consigliando, oltre al titolo già citato, anche questo Mi fido di te, firmato da Massimo Venier - autore dei migliori tra i film con protagonisti Aldo, Giovanni e Giacomo - ed interpretato da Ale e Franz, coppia di comici piacevoli le prime due o tre volte che li si guarda e dunque ridotti a macchiette - senza contare che, di persona, non mi pare risultassero particolarmente affabili quando ebbi modo di incrociarli -.
Il risultato è stato senza dubbio inferiore alle aspettative, ed ha finito per ribaltare il pronostico che lo vedeva favorito rispetto al già citato Generazione 1000 euro: Mi fido di te, infatti, è il classico prodotto all'italiana che vorrebbe essere alternativo quantomeno rispetto al suo genere - la commedia trainata dal successo di uno o più comici televisivi -, poco plausibile a livello di trama - ma questo, se si trattasse di un prodotto di qualità, potrebbe anche essere perdonato -, interpretato a livelli amatoriali - essere cabarettisti di successo non significa, di fatto, essere buoni attori - e diretto con il piglio dell'artigiano che necessita di portare a casa la pagnotta, di quelli buoni per essere fondamentalmente ignorati a meno che non capitino occasioni come quella che si è presentata al sottoscritto, se non altro utile per regalare un paio di bottigliate al già abbastanza massacrato Cinema nostrano, che pare essersi ormai completamente dimenticato dei suoi anni d'oro e dei grandi registi e prodotti popolari regalati alla settima arte specialmente tra gli anni sessanta e settanta.
Certo, un paio di sequenze divertenti sono riscontrabili, il prodotto finito è innocuo e godibile, i trucchi ai quali i due protagonisti fanno ricorso - quantomeno entro una certa misura - sono quasi credibili, eppure tutto questo non basta neppure per sbaglio a dare l'illusione che si possa ricreare la magia di operazioni riuscitissime in termini di equilibrio tra resa ed incassi come Tre uomini e una gamba o Chiedimi se sono felice.
Da milanese, non posso neppure dire di avere avuto modo di vedere sfruttata al meglio una città che, nonostante non possa contare su gran parte degli abitanti - parliamoci chiaro, siamo un pò la Parigi d'Italia -, se osservata a fondo e riscoperta potrebbe davvero regalare grandi soddisfazioni a chi la affronta, così come a chi la vive giorno dopo giorno: quello che resta, invece, è un sottofondo senza carattere per un film che passa e va, con buona pace di chi me l'ha spacciato come una piccola chicca.
Titoli come questo, al contrario, finiscono per affossare anche le speranze residue che nutro ad oggi rispetto alle produzioni made in Terra dei cachi, e che per quanto ormai non più recentissimo, rispecchia la condizione precaria non solo sociale con la quale siamo costretti a confrontarci non solo nel quotidiano, ma anche ed in questo caso come spettatori.
Due risate - neppure troppo convinte -, un pò di improvvisate e a denti stretti, e tutto finisce.
Non basta neppure la sequenza Kusturica-style, senza dubbio la migliore del film, per salvare da un anonimato che pesa più di una bocciatura: la verità è che, in qualche modo, abbiamo imparato ad assuefarci all'essere truffati dai distributori.
Perchè in caso contrario non penso potrebbe esistere, in un paese civile, farsi fregare da titoli come questo.




MrFord




"Di stare collegato
di vivere di un fiato
di stendermi sopra al burrone
di guardare giù
la vertigine non è
paura di cadere
ma voglia di volare."
Jovanotti - "Mi fido di te" -




martedì 24 marzo 2015

Focus - Niente è come sembra

Regia: Glenn Ficarra, John Requa
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 106'




La trama (con parole mie): Nicky è un professionista della truffa, uno specialista cresciuto da un nonno ed un padre fuoriclasse del mestiere. Nel corso della preparazione della settimana del Superbowl a New Orleans con tutti i colpi che l'occasione offre è vittima del tentativo di truffa dell'intraprendente Jess, giovane e bellissima aspirante borseggiatrice: smascherata la ragazza e maturata la decisione di addestrarla e portarla a NOLA sotto la sua ala, Nicky orchestrerà una serie di truffe culminate con un raggiro ai danni di uno scommettitore in grado di mettere in crisi perfino la stessa Jess.
Per evitare di cadere vittima del legame nel frattempo creatosi con la partner, al termine della settimana di eventi Nicky decide di scaricare malamente la ragazza, in modo che non ci possano essere influenze nello svolgimento del suo lavoro.
Tre anni dopo, a Buenos Aires, Nicky è ingaggiato dal magnate e proprietario di una scuderia di auto da corsa Garriga, che vorrebbe tagliare fuori dal campionato il suo più acerrimo rivale: pianificato il progetto, Nicky si troverà però sconvolto da una scoperta in grado di mettere in difficoltà perfino un professionista come lui. Jess, infatti, pare essere la nuova fiamma dello stesso Garriga, ed i sentimenti torneranno a mescolarsi al lavoro: riuscirà Nicky a tenere le redini di entrambi? E sarà tutto esattamente come appare?








Meglio ammetterlo subito: Focus - Niente è come sembra, nonostante la presenza di uno degli attori-garanzia di bottigliate più importanti del panorama delle bottigliate, Will Smith, non mi è affatto dispiaciuto, con tutti i suoi limiti.
Certo, si tratta di un prodotto ad uso e consumo del grande pubblico, patinato all'inverosimile e fastidioso in numerosi passaggi, per nulla innovativo e legato al classico canovaccio della truffa cinematografica che ormai abbiamo imparato a conoscere a menadito anche rispetto all'illusionismo e la magia - da Nolan a Now you see me -, eppure devo ammettere di essere stato intrattenuto a dovere e di aver perfino sentito una certa tensione in almeno un paio di passaggi - su tutti, la sfida con lo scommettitore cinese al Superbowl, notevole nonostante l'utilizzo reiterato dell'abusatissima Sympathy for the devil degli Stones, comunque spiegato con una logica niente male poco dopo -, tanto da non aver patito troppo neppure l'ex simpatico Principe di Bel Air ed aver goduto della notevole presenza di Margot Robbie nonostante resti dell'idea dell'australiano proprietario della scuderia rivale del Garriga di Rodrigo Santoro a proposito del seno non troppo "prepotente", per usare un eufemismo.
Il merito di questa mancata delusione, probabilmente, va assegnato ai registi Glenn Ficarra e John Requa, da queste parti in passato apprezzati per Crazy, stupid love e Il mago della truffa, che seppur alla loro prova meno convincente costruiscono un giocattolo che tutto sommato passa indenne alla visione senza avere speranze di rimanere nella memoria dello spettatore ma, dall'altra parte, senza neppure scomodare le peggiori incazzature da visione: certo, la mediocrità non è mai una buona cosa, e spesso e volentieri anche io preferisco avere materiale più interessante per scrivere che non cercare di arrangiarmi sulla tastiera affrontando il nulla, eppure devo ammettere che, per una serata da relax sul divano una cosetta come Focus funziona perfino quasi bene, ed accompagna l'audience senza richiedere troppo impegno permettendo ai più esperti di riposare i neuroni ed al pubblico occasionale di aver avuto l'impressione di aver assistito ad uno spettacolo più profondo di quanto in realtà non sia.
Una truffa, in parole povere.
Ma per quanto suoni assurdo detto da qualcuno che, considerato il numero di visioni alle spalle, dovrebbe considerare titoli come questo il male assoluto esportato da Hollywood in tutto il mondo, ho finito per farmi fregare volentieri, godendo della cornice prima di New Orleans e dunque di Buenos Aires, due città che mancano alla mia lista di viaggi compiuti ma che prima o poi mi piacerebbe davvero esplorare: mescolando questo ingrediente ad un ritmo tutto sommato sostenuto ed alla presenza della Robbie, il cocktail è risultato senza dubbio annacquato ma comunque dal buon sapore.
Considerate le premesse da zero assoluto che nutrivo in proposito, si può addirittura definire un successo per nulla trascurabile.



MrFord



"Gimme danger, little stranger
and I'll give you a piece
gimme danger, little stranger
and I'll feel your disease
there's nothing in my dreams
just some ugly memories

kiss me like the ocean breeze."
The Stooges - "Gimme danger" -





mercoledì 28 gennaio 2015

Big Eyes

Regia: Tim Burton
Origine: USA
Anno:
2014
Durata: 106'





La trama (con parole mie): siamo sul finire degli anni cinquanta quando Margaret, insieme alla figlia Jane, lascia una vita che le stava stretta per un futuro da costruire da zero a San Francisco. Qui conosce Walter, un uomo dalla parlantina svelta e dalle grandi abilità di venditore, come lei pittore, che si offre di sposarla e garantirle un futuro quando il suo ex minaccia di portarle via la bambina: dalla loro unione e dal sodalizio artistico che ne seguirà nascerà una delle truffe più colossali dell'arte contemporanea, giocata attorno allo scambio d'identità avvenuto tra marito e moglie a proposito della paternità dei quadri dedicati ai bambini dai grandi occhi, dipinti da Margaret ma spacciati come opere di Walter.
Superato un inizio difficile, giungeranno fama e denaro, ma quando il rapporto tra i due coniugi si incrinerà, avrà inizio una vera e propria battaglia giudiziaria atta a dimostrare chi davvero fu l'autore di alcuni dei quadri più famosi, riprodotti e venduti del mondo.








Una delle magie più spettacolari che l'Arte - ed il Cinema con essa - è in grado di regalare è quella dell'illusione, dell'evasione dalla realtà, della reinterpretazione di una vita che, spesso, a chi sta dall'altra parte sta stretta, o troppo larga, ed in quello che guarda cerca un'esistenza che non sia la sua, o quantomeno che sia quella che vorrebbe fosse.
Personalmente, amo molto questa parte dell'esperienza di spettatore, e mi piace, quando non cerco una realtà più vera nella quale specchiarmi, farmi ingannare dal "prestigio" - per dirla come Nolan - legato a quello che non c'è: in un certo senso, i film di Tim Burton sono un cocktail di entrambe le cose. Al buon, vecchio Tim è sempre piaciuto parlare di vicende estremamente quotidiane sfruttando spesso e volentieri cornici inusuali: proprio per questo, forse, uno dei motivi di discussione che maggiormente hanno riguardato questa sua ultima fatica - un biopic con licenze poetiche ispirato dalla vita di Margaret Keane e dal suo rapporto con il marito e complice Walter - è stato quello legato alla sua poca associabilità stilistica a quello che, di norma, si finisce per aspettarsi da un prodotto per l'appunto burtoniano.
Onestamente, trovo che la questione di quanto possa essere associato al suo padre artistico Big Eyes sia assolutamente superflua: il regista di Burbank, di fatto, racconta con perizia - soprattutto rispetto alla ricostruzione d'epoca ed alla fotografia - una vicenda che tocca temi a lui cari - il rapporto tra genitori e figli, le storie d'amore, l'evasione attraverso un'arte a suo modo dark - ispirandosi alla battaglia che vide opporsi Margaret e Walter Keane rispetto alla firma delle "loro" opere.
Il problema di Big Eyes, piuttosto, pare essere la sua assoluta mancanza di carattere: in un certo senso, per essere una pellicola completamente schierata dalla parte di Margaret, il lavoro di Burton appare più simile a Walter, con tutte le sue chiacchiere - insopportabilmente gigione Christoph Waltz, nel ruolo forse peggiore che io ricordi - e fumo negli occhi pronti a distogliere il pubblico dalla questione ben più grave legata alla carenza di ispirazione ed idee dell'uomo dietro la macchina da presa, che si affida ad una sceneggiatura tutto fuorchè impeccabile allontanandosi ancora una volta dai fasti del suo ultimo - e vero - Capolavoro, Big Fish: negli ultimi anni, infatti, il buon Tim si è barcamenato tra blockbuster sopravvalutati - La fabbrica di cioccolato -, sbiadite copie di se stesso - Sweeney Todd, Dark Shadows - ed abomini veri e propri - Alice in Wonderland - illudendo i suoi vecchi fan soltanto con Frankenweenie, del resto rielaborazione di un lavoro giovanile, senza più mostrare freschezza e soprattutto voglia di raccontare.
Di fatto, da narratore, pare essere passato ad essere un mero esecutore, e neppure così strabiliante come ad una certa parte della critica piace dipingerlo, soprattutto in virtù del suo appeal sul grande pubblico.
Più che, dunque, un nuovo capitolo della carriera di Tim Burton o un titolo che si discosta dal suo universalmente noto stile, Big Eyes mi pare rappresentare la già nutritissima - almeno quest'anno - categoria dei biopic da Oscar targati Hollywood senza nulla che possa davvero rimanere impresso nell'audience, che si parli di cuore o di testa.
In un certo senso, la visione di questo film potrebbe essere paragonabile all'acqua della pasta senza sale, o ad una di quelle visite ai musei organizzate ai tempi della scuola, quando di scoprire cosa ci sta attorno è importante solo in relazione al fatto che si potrebbe finire per saltare un giorno intero in classe: e questo sia che sulle pareti si trovino i quadri di Margaret Keane o di qualsiasi altro.
Se gli occhi sono lo specchio dell'anima, quelli di quest'opera e del suo regista appaiono ormai vuoti e privi di qualsiasi scintilla di luce.
E poco importa, a quel punto, quanto saranno grandi.




MrFord




"I saw you creeping around the garden
what are you hiding?
I beg your pardon don't tell me "nothing"
I used to think that I could trust you
I was your woman
you were my knight and shining companion
to my surprise my loves demise was his own greed and lullaby."
Lana Del Rey - "Big eyes" - 




martedì 1 aprile 2014

Prova a prendermi

Regia: Steven Spielberg
Origine: USA
Anno: 2002
Durata: 141'




La trama (con parole mie): siamo sul finire degli anni sessanta in una cittadina dello Stato di New York, quando Frank Abagnale Jr, ad appena sedici anni, fugge di casa sconvolto per la separazione dei suoi genitori. Sfruttando un talento ed una prontezza di spirito fuori dal comune, il ragazzo viaggerà negli States e in tutto il mondo per quasi quattro anni, fingendosi un pilota di linea, un medico ed un avvocato, affinando l'abilità di emettere assegni fasulli arrivando a truffare il governo USA per una cifra superiore ai quattro milioni di dollari. Carl Hanratty, un agente dell'FBI al lavoro nella sezione antifrode, assume l'incarico di catturarlo, iniziando di fatto una sfida a due che renderà il loro rapporto più simile a quello che è mancato ad entrambi tra padre e figlio.






Questo post partecipa alla giornata della truffa organizzata dai cinefili della blogosfera per festeggiare il pesce d'aprile.



Steven Spielberg, uno dei registi simbolo del Cinema made in USA, responsabile, di fatto, di aver influenzato almeno una generazione di spettatori e cineasti, ha avuto fortune alterne - soprattutto ultimamente - qui al Saloon, passando dalle celebrazioni per classici intramontabili come Lo squalo alle bottigliate per i recenti War horse e Lincoln: da tempo, però, aspettavo l'occasione giusta per scrivere la mia a proposito di quello che ritengo sia il suo miglior lavoro, considerando gli ultimi quindici anni di produzione circa, Prova a prendermi.
Occasione giunta prontamente grazie a questo primo aprile festeggiato da noi cinefili della blogosfera.
Tratto dall'autobiografia del protagonista Frank Abagnale Jr, uno dei più dotati e talentuosi truffatori della Storia americana, e presentato con l'eleganza ed il ritmo dei classici anni cinquanta e sessanta - a partire dai fenomenali titoli di testa -, il lavoro del buon Steven è un esempio perfetto di tecnica e voglia di raccontare una storia, in grado di tirare fuori il meglio sia dal come sempre ottimo Leonardo Di Caprio che dall'altrettanto spesso e volentieri detestato Tom Hanks.
La cosa più interessante, però, di questo gioiellino, andando oltre al cast - curiose le presenze delle allora semisconosciute Amy Adams ed Ellen Pompeo -, la fotografia da manuale, la sceneggiatura ad orologeria, il ritmo trascinante, è legata alla "truffa" presente dietro l'ossatura dell'opera, mascherata da crime movie d'inseguimento quasi slapstick eppure legata ad una delle tematiche più care al sottoscritto: il rapporto tra padri e figli.
Dall'ammirazione che lega il giovanissimo Frank - un talento puro come ne nascono pochi ogni secolo, per quanto lo stesso fosse indirizzato, ai tempi delle vicende narrate, ad attività non propriamente legali - al padre - un Christopher Walken marginale, eppure straordinario - a quello che porta "l'uomo del cielo" a sviluppare un rapporto unico con il suo persecutore, agente dell'FBI ligio alle regole che, negli anni della loro sfida a distanza, porta sullo schermo tutte le difficoltà di una vita normale al confronto degli agi e dei lussi che si concede il rivale sfruttando le sue abilità: il loro primo faccia a faccia - con tanto di riferimento a Barry Allen, che un fumettaro come il sottoscritto colse alla prima visione - e le telefonate divenute rito della vigilia di natale assumono una valenza decisamente più profonda di quella che potrebbe apparire ad un'occhiata superficiale, e trovano il loro compimento nel faccia a faccia che precede la conclusione della pellicola nel tunnel dell'aeroporto e in quello che, di fatto, è l'incontro di due solitudini che, negli anni di inseguimenti e lotta tra loro, finiscono per ritrovarsi non più sole proprio grazie alla presenza dell'altra.
E la rivincita dell'uomo comune che finisce per mettere in scacco il genio in nome del sistema diviene veicolo di una rinascita dello stesso genio, che arriva a sfruttare la Legge che lo aveva messo in ginocchio finendo per ricevere un riconoscimento perfettamente entro i limiti della stessa, traformandolo in un riconoscimento anche economico delle sue abilità straordinarie: in questo senso, pare di assistere al passaggio di testimone tra due generazioni - e di nuovo si torna al rapporto tra padri e figli - e ad una delle lezioni più importanti che la cultura a stelle e strisce si preoccupa di trasmettere, legata alla meritocrazia e alla fiducia nelle proprie capacità e nella strada che le stesse possono lastricare per noi.
A prescindere, comunque, dalle apparenze e dai temi più o meno legati ai massimi sistemi, dalla tecnica e dalla messa in scena, la grandezza di Prova a prendermi sta tutta e principalmente nella passione espressa nel raccontare questa storia appassionante, divertente, drammatica, capace di portare da una parte e dall'altra della barricata e mostrare che, a volte, tenere aperti gli occhi e pronto il cervello può valere più di titoli e posizioni sociali.
Anche quando, a spiegare il mistero più grande, basta la risposta più semplice.
"Il genio è fantasia, colpo d'occhio, intuizione e velocità d'esecuzione", affermavano i cari, vecchi, Amici miei.
Credo proprio che Frank Abagnale Jr non potrebbe essere più d'accordo.



MrFord



Partecipano all'iniziativa - ma sarà davvero così!? - anche i colleghi: 


"I got you 
I got everything 
I’ve got you 
I don’t need nothing 
more than you 
I got everything 
I’ve got you."
Jack Johnson - "I got you" - 




venerdì 10 gennaio 2014

American hustle

Regia: David O. Russell
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 138'




La trama (con parole mie): Irving Rosenfeld di professione fa il truffatore. Ingannare le persone è il suo mestiere e la sua vocazione nella vita, fino a che lui e la sua socia in affari e in amore vengono ingannati a loro volta ed incastrati dall’agente dell’FBI Richie DiMaso. 
Quest’ultimo però, invaghito della socia di Irving, propone loro un accordo. In cambio dell’immunità, i due dovranno aiutarlo ad incastrare un gruppo di politici corrotti, in un gioco di inganni che si fa sempre più complesso e stratificato. Chi trufferà chi? 
 




La vita sa sorprenderti. A volte ti inganna e ti frega, altre volte riesce a stupirti in una maniera positiva come mai avresti immaginato. Le cose migliori, come quelle peggiori, sono quelle che non ti aspetti. Io ho vissuto i miei anni adolescenziali e post-adolescenziali come uno sbandato. 
Come un ribelle senza causa che vuole solo una vita spericolata, come quelle dei film. 
Non dovevo rendere conto a niente e a nessuno, ma poi è capitata una cosa. È capitata la vita. 
Sono arrivati una donna, una moglie, una mamma, Julez, e un figlio, il Fordino unchained
Tutto è cambiato, la routine quotidiana così come anche il mio rapporto con il Cinema. Il rituale della visione di una pellicola in santa pace senza pause adesso ad esempio può essere interrotto dal cambio di un pannolino, ma è così che vanno le cose ora. È la vita.
Anche il cinema sa sorprenderti. Ti inganna e ti frega. Proprio come questo film. American Hustle dal trailer e dalle immagini promozionali è venduto come la nuova pellicola con protagonista Jennifer Lawrence, che poi alla fine dei conti compare giusto qua e là ogni tanto. 
Lasciando il segno in alcune delle scene più memorabili. 
Un’altra grande prova d’attrice, la sua, che ci fa dimenticare la sua partecipazione a Hunger Games, la saghetta per teenager in crisi ormonale come il mio rivale Cannibale, che ormai dovrebbe essere troppo vecchio per certe stronzate.
Non è certo l’unico inganno del film. Anzi, è soltanto uno tra i tanti. La pellicola si apre con l’immagine non proprio bellissima di Christian Bale che si sistema il riporto dei capelli, con tanto di pancetta di fuori. Forse qualche allenamento insieme a me gli farebbe ritrovare la forma dei tempi della serie nolaniana di Batman. Da questa apertura sembra che ci aspetti una commedia, poi arriva una scena più da film di truffa e poi ancora si torna indietro, con un racconto di formazione esistenziale del protagonista. Non è che l’inizio. American Hustle ci offre tutta una serie di svolte repentine, di cambi di narratore, di cambi di registro stilistico e narrativo. 
Il regista David O. Russell, apprezzato qui al saloon per Three Kings, The Fighter ed il sorprendente Il lato positivo, sembra gestire il tutto in maniera molto precisa e puntuale. 
Anche quello non è però che un inganno. Russell si diverte un mondo a giocare con zoom e carrellate come fosse un novello Martin Scorsese e a ricreare ambientazioni anni Settanta che riportano alla memoria il Paul Thomas Anderson di Boogie Nights, altra pellicola amatissima da queste parti. L’apparenza però inganna. Lo dice un noto detto popolare e lo dice anche il sottotitolo italiano della pellicola, per una volta non così campato per aria. Via via che si procede con il minutaggio, il grande spettacolo d’intrattenimento imbastito nella prima ora comincia a perdere colpi. Si cambia ancora tono e generi cinematografici, passando dagli accenni di intrecci romantici alla commedia gangster, con tanto di apparizione di un ormai onnipresente ma non onnipotente come un tempo Robert De Niro.
American Hustle inserisce al suo interno di tutto e di più. Lo spettacolo in alcune parti funziona alla grande, soprattutto per merito di un cast in formissima. 
Oltre alla già citata sempre splendida Jennifer Lawrence, Christian Bale ingrassato e parrucchinato gigioneggia alla grande e non si rende per fortuna ridicolo come il Nicolas Cage degli ultimi tempi. Amy Adams convince e ammalia come non mai, mentre Bradley Cooper, dimenticato il dimenticabile Limitless, si conferma nelle mani di Russell attore sorprendentemente valido, così come un Jeremy Renner che per una volta non fa da riserva panchinara di Matt Damon in qualche action movie. 
Una serie di attori che si sfidano in una gara recitativa, una bella atmosfera da Cinema anni ’70 ed una ottima colonna sonora anch’essa naturalmente legata a quel periodo che sfoggia gli America così come Elton John, oltre ad una grande “Live and let die” dei Wings di Paul McCartney “interpretata” dalla Lawrence.
Eppure le apparenze ingannano. Nonostante gli ingredienti per creare uno dei cult dell’anno ci siano tutti, non tutto funziona alla perfezione. La trama è troppo ingarbugliata e man mano che si va avanti con la visione, l'ispirazione a fatti realmente accaduti perde di interesse. I personaggi sono tutti ben costruiti e accattivanti, ma poi non vanno da nessuna parte. Questo film intrattiene bene per una buona metà del suo percorso ma non riesce mai a diventare il grande film che in apparenza sembrava destinato ad essere, finendo per risultare solo un bell’imbroglio. 
Divertente ed accattivante fin che si vuole, ma pur sempre un imbroglio. 
David O. Russell all’inizio sembra controllare tutti i fili della narrazione come un perfetto burattinaio, poi si perde clamorosamente nella confusione generale della pellicola. E noi spettatori insieme a lui.
E voi lettori pure…
Pensavate che questo post fosse stato scritto dal grande e potente Ford?
Invece no. Sorpresa!
L’ho scritto io, Cannibal Kid, quel pusillanime del suo acerrimo blogger nemico. C’eravate cascati?
D’altra parte ve lo detto e ripetuto: le apparenze ingannano.



MrFord Cannibal Kid



“But if this ever changing world in which we live in
makes you give it a cry, say live and let die
live and let die, live and let die, live and let die”
Paul McCartney & Wings - “Live and let die”



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