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mercoledì 28 gennaio 2015

Big Eyes

Regia: Tim Burton
Origine: USA
Anno:
2014
Durata: 106'





La trama (con parole mie): siamo sul finire degli anni cinquanta quando Margaret, insieme alla figlia Jane, lascia una vita che le stava stretta per un futuro da costruire da zero a San Francisco. Qui conosce Walter, un uomo dalla parlantina svelta e dalle grandi abilità di venditore, come lei pittore, che si offre di sposarla e garantirle un futuro quando il suo ex minaccia di portarle via la bambina: dalla loro unione e dal sodalizio artistico che ne seguirà nascerà una delle truffe più colossali dell'arte contemporanea, giocata attorno allo scambio d'identità avvenuto tra marito e moglie a proposito della paternità dei quadri dedicati ai bambini dai grandi occhi, dipinti da Margaret ma spacciati come opere di Walter.
Superato un inizio difficile, giungeranno fama e denaro, ma quando il rapporto tra i due coniugi si incrinerà, avrà inizio una vera e propria battaglia giudiziaria atta a dimostrare chi davvero fu l'autore di alcuni dei quadri più famosi, riprodotti e venduti del mondo.








Una delle magie più spettacolari che l'Arte - ed il Cinema con essa - è in grado di regalare è quella dell'illusione, dell'evasione dalla realtà, della reinterpretazione di una vita che, spesso, a chi sta dall'altra parte sta stretta, o troppo larga, ed in quello che guarda cerca un'esistenza che non sia la sua, o quantomeno che sia quella che vorrebbe fosse.
Personalmente, amo molto questa parte dell'esperienza di spettatore, e mi piace, quando non cerco una realtà più vera nella quale specchiarmi, farmi ingannare dal "prestigio" - per dirla come Nolan - legato a quello che non c'è: in un certo senso, i film di Tim Burton sono un cocktail di entrambe le cose. Al buon, vecchio Tim è sempre piaciuto parlare di vicende estremamente quotidiane sfruttando spesso e volentieri cornici inusuali: proprio per questo, forse, uno dei motivi di discussione che maggiormente hanno riguardato questa sua ultima fatica - un biopic con licenze poetiche ispirato dalla vita di Margaret Keane e dal suo rapporto con il marito e complice Walter - è stato quello legato alla sua poca associabilità stilistica a quello che, di norma, si finisce per aspettarsi da un prodotto per l'appunto burtoniano.
Onestamente, trovo che la questione di quanto possa essere associato al suo padre artistico Big Eyes sia assolutamente superflua: il regista di Burbank, di fatto, racconta con perizia - soprattutto rispetto alla ricostruzione d'epoca ed alla fotografia - una vicenda che tocca temi a lui cari - il rapporto tra genitori e figli, le storie d'amore, l'evasione attraverso un'arte a suo modo dark - ispirandosi alla battaglia che vide opporsi Margaret e Walter Keane rispetto alla firma delle "loro" opere.
Il problema di Big Eyes, piuttosto, pare essere la sua assoluta mancanza di carattere: in un certo senso, per essere una pellicola completamente schierata dalla parte di Margaret, il lavoro di Burton appare più simile a Walter, con tutte le sue chiacchiere - insopportabilmente gigione Christoph Waltz, nel ruolo forse peggiore che io ricordi - e fumo negli occhi pronti a distogliere il pubblico dalla questione ben più grave legata alla carenza di ispirazione ed idee dell'uomo dietro la macchina da presa, che si affida ad una sceneggiatura tutto fuorchè impeccabile allontanandosi ancora una volta dai fasti del suo ultimo - e vero - Capolavoro, Big Fish: negli ultimi anni, infatti, il buon Tim si è barcamenato tra blockbuster sopravvalutati - La fabbrica di cioccolato -, sbiadite copie di se stesso - Sweeney Todd, Dark Shadows - ed abomini veri e propri - Alice in Wonderland - illudendo i suoi vecchi fan soltanto con Frankenweenie, del resto rielaborazione di un lavoro giovanile, senza più mostrare freschezza e soprattutto voglia di raccontare.
Di fatto, da narratore, pare essere passato ad essere un mero esecutore, e neppure così strabiliante come ad una certa parte della critica piace dipingerlo, soprattutto in virtù del suo appeal sul grande pubblico.
Più che, dunque, un nuovo capitolo della carriera di Tim Burton o un titolo che si discosta dal suo universalmente noto stile, Big Eyes mi pare rappresentare la già nutritissima - almeno quest'anno - categoria dei biopic da Oscar targati Hollywood senza nulla che possa davvero rimanere impresso nell'audience, che si parli di cuore o di testa.
In un certo senso, la visione di questo film potrebbe essere paragonabile all'acqua della pasta senza sale, o ad una di quelle visite ai musei organizzate ai tempi della scuola, quando di scoprire cosa ci sta attorno è importante solo in relazione al fatto che si potrebbe finire per saltare un giorno intero in classe: e questo sia che sulle pareti si trovino i quadri di Margaret Keane o di qualsiasi altro.
Se gli occhi sono lo specchio dell'anima, quelli di quest'opera e del suo regista appaiono ormai vuoti e privi di qualsiasi scintilla di luce.
E poco importa, a quel punto, quanto saranno grandi.




MrFord




"I saw you creeping around the garden
what are you hiding?
I beg your pardon don't tell me "nothing"
I used to think that I could trust you
I was your woman
you were my knight and shining companion
to my surprise my loves demise was his own greed and lullaby."
Lana Del Rey - "Big eyes" - 




martedì 27 maggio 2014

Onirica - Field of dogs

Regia: Lech Majewski
Origine: Polonia
Anno: 2014
Durata:
96'





La trama (con parole mie): Adam, giovane promessa della poesia, è vittima ed unico superstite di un gravissimo incidente d'auto che lo lascia segnato nel corpo e nell'anima, incapace di riprendersi davvero superando il dolore e dipendente da sogni che finiscono per sostituire la realtà, legati a rappresentazioni di opere d'arte e della Divina Commedia di Dante, un tentativo estremo della mente del ragazzo di scoprire il mistero dietro la sua permanenza sulla Terra.
E tra un giorno e l'altro di un lavoro lontano dalla sua essenza e le visite alla zia, Adam assiste inerme alle tragedie che colpiscono il suo Paese, cercando di trovare nelle stesse una risposta per i suoi drammi personali: riuscirà ad uscire dalla selva oscura e tornare a riveder le stelle?







La prima volta che lessi il nome Lech Majewski storsi il naso, in occasione dell'uscita de I colori della passione, sbirciato grazie alla rubrica settimanale che mi tocca condividere con l'antagonista di sempre Cannibal Kid: l'idea che mi feci, guardando il trailer del suddetto titolo, era dell'ennesima proposta autoriale radical a tutti i costi che una decina d'anni or sono mi avrebbe fatto impazzire, e che ora finisce per avere lo stesso effetto di una badilata di sabbia negli occhi.
Fortunatamente, dovetti ricredermi, dato che il buon Majewski seppe far coesistere una tecnica da Autore maiuscolo con la voglia di raccontare davvero a fondo una storia: apprezzai moltissimo il tentativo, promuovendolo anche in occasione dei Ford Awards di fine duemiladodici.
Dunque, all'uscita di Onirica, l'asticella delle aspettative partiva, al contrario del suo precedente, decisamente più in alto, considerati anche i riferimenti alla Divina Commedia - che ho sempre amato fin dai tempi delle superiori - che in mano ad un regista di questo tipo potevano dare voce ad uno dei titoli sulla carta più sorprendenti della stagione: peccato che, purtroppo per il sottoscritto, la visione della nuova fatica di Majewski si sia rivelata una fatica abnorme prima di tutto per il vecchio Ford, che rimbalzando tra i ritmi del lavoro, del pendolarismo e del Fordino comincia ad avere parecchie difficoltà a gestire, la sera, pellicole pronte a fare polpette delle parti basse.
E purtroppo Onirica - Field of dogs fa inesorabilmente parte della categoria: tolti, infatti, un paio di momenti interessanti - legati alla figura della zia visitata dal protagonista Adam e legati alle disquisizioni a proposito della natura della Morte e del Tempo -, il resto pare un'accozzaglia senza criterio di visioni buone giusto per essere proiettate nel soggiorno di casa Majewski ma che finiscono per avere poco senso agli occhi dello spettatore esterno al suo mondo, se non per i riferimenti alle tragedie che hanno colpito la Polonia negli ultimi anni - ricordavo la morte del Presidente in un incidente aereo, non l'alluvione - e le citazioni dell'opera di Dante, che comunque avrebbe meritato senza dubbio uno spazio maggiore, specialmente per mano di un aspirante Sokurov come il buon Lech, più che dotato quando si tratta di sfruttare al meglio la macchina da presa ed i suoi movimenti.
Peccato che, in fase di scrittura, il film latiti e non poco, assumendo le connotazioni di un unico, gigantesco, noiosissimo flusso di coscienza privo del fascino di opere come Enter the void e della capacità di ipnotizzare ed attrarre l'audience, che probabilmente tenderebbe a lasciare la sala entro i primi venti minuti, se non fosse che, di norma, per un titolo di questo genere si è già fortunati a trovare qualche altro coraggioso pronto ad affrontare la "via verso le stelle" attraverso la "selva oscura" ben rappresentata dalla confusione nelle idee e negli intenti del regista.
Senza dubbio si troverà, in rete e non, qualche accanito sostenitore del Cinema d'essai a tutti i costi pronto a difendere a spada tratta la visionarietà di questo lavoro, il suo coraggio, l'importanza data al proprio Paese, ai suoi limiti ed alle sue tragedie neanche fosse cosa viva, eppure, con tutti gli anni passati a nuotare nelle acque più profonde di questa parte della settima arte, sento il cuore in pace affermando che, in realtà, dietro operazioni di questo genere c'è ben poco cuore, o forse troppo, così tanto da non mettere in condizione il pubblico - anche quello, come il sottoscritto, disposto sulla carta ad amare un film - di godere appieno delle sensazioni che lo stesso può regalare.
Senza contare che un protagonista pronto ad ogni piè sospinto a schiacciare un pisolino non è certo d'aiuto nell'affrontare un titolo che rende la sua ora e quaranta scarsa l'equivalente di quattro abbondanti.




MrFord




"I did not believe because I could not see
though you came to me in the night
when the dawn seemed forever lost
you showed me your love in the light of the stars."
Loreena McKennitt - "Dante's prayer" -




lunedì 23 aprile 2012

I colori della passione

Regia: Lech Majewski
Origine: Polonia
Anno: 2011
Durata: 92'



La trama (con parole mie):  siamo nel cuore delle Fiandre dominate dai cattolici spagnoli, a metà del sedicesimo secolo, e Pieter Bruegel, pittore riconosciuto come un Maestro, decide di testimoniare la brutalità della repressione verso i protestanti da parte degli occupanti del suo paese grazie ad uno dei dipinti che lo renderanno famoso nei secoli seguenti: La salita al Calvario, infatti, rappresenta uno dei vertici dell'arte fiamminga, e ancora oggi è oggetto di culto e studio da parte degli appassionati di pittura di tutto il mondo per la ricchezza degli elementi e la potenza della rappresentazione.
Attraverso una scelta estetica ed un percorso che portano il quadro sul grande schermo passaggio dopo passaggio, assistiamo alle vicende che hanno definito la sua realizzazione in un esperimento quasi completamente nuovo nell'ambito della settima arte.




Raramente mi capita di vedere un film e giudicarlo quanto di più lontano esista dalla mia attuale sensibilità di spettatore arrivando quasi a detestarlo, eppure rimanere ammirato di fronte al suo valore: di recente, è successo con Synecdoche, New York.
Ora, replico con I colori della passione.
Certo, il lavoro di Majewski è molto diverso da quello di Kaufman - quest'ultimo decisamente più complesso e potente -, eppure questa sorta di fratellino minore del Faust di Sokurov, che mi avrebbe letteralmente fatto impazzire una decina d'anni fa, riesce a scavare nello spettatore a colpi di meraviglie visive celando - ma neppure troppo - una riflessione ben più profonda sull'arte ed il suo valore di fronte alla Storia e all'Uomo.
D'altro canto è indiscutibile che, nonostante la durata decisamente abbordabile si tratti di un film lento come solo i Classici più Classici dei russi sanno essere, costruito per essere ostico rispetto allo spettatore che non sia un assatanato adepto del Cinema d'autore senza compromessi, legato da un ritmo clamorosamente statico e ad intuizioni, più che ad una sceneggiatura vera e propria.
Probabilmente Majewski non aveva altro modo per rappresentare quello che, a tutti gli effetti, è il primo tentativo di portare sul grande schermo la rappresentazione più fedele possibile del lavoro di un pittore rispetto alla nascita di una sua opera: un viaggio complesso e non privo di difficoltà - artistiche e produttive - che può essere associato alla realizzazione di un film, pur se riferito, di fatto, all'opera di un solo artista - ma anche in questo caso si potrebbero considerare i soggetti di un lavoro incredibile come La salita al Calvario come attori, o parte integrante della stesso -.
La tecnica "a livelli" utilizzata, inoltre, risulta ipnotica ed affascinante, solo apparentemente statica - tanto da scomodare paragoni importanti come quello con una delle prime sequenze di Quarto potere, con la scena concentrata sull'interno della casa in cui il piccolo Kane è cresciuto con lui intento a giocare all'esterno, ben visibile in secondo piano dalla finestra - e trova il suo apice nella carrellata avanti e indietro che porta da Bruegel alla cima del monte e al mulino e di nuovo a Bruegel, in uno dei passaggi più intensi di questa sorprendente quanto sicuramente non per tutti visione.
In tutta onestà - e considerata la fama pane e salame del saloon - mi sentirei di consigliarvi di evitare I colori della passione - tra l'altro, pessimo titolo italiano -, davvero troppo votato all'arte "dura e pura" per trovare un riscontro effettivo nelle emozioni dello spettatore: eppure è curioso quanto il complesso di questo lavoro incredibile sia costituito da singole sequenze ispirate dalla quotidianità più fisica e vera possibile, come fosse un poema del popolo oltre che una chiara allegoria della lotta dell'arte rispetto all'oppressione - anche e soprattutto in questo caso religiosa -.
Doveste decidere di affrontarne comunque la visione, vi consiglio di liberare la mente dai pregiudizi per il radicalchicchismo e considerare di essere di fronte ad una sorta di lezione, una ricerca che porti da Bruegel come individuo inserito nel suo tempo a La salita al Calvario, che ancora oggi è in grado di fare rimanere ammirati visitatori di tutto il mondo - in questo senso, illuminante la sequenza finale -: superati questi scogli, I colori della passione sarà in grado di aprire occhi e cuore di chi sarà disposto a venire a patti con tutta la fatica che richiede.
E merita.


MrFord


"And I'll see your true colors
shining through
I see your true colors
and that's why I love you
so don't be afraid to let them show
your true colors
true colors are beautiful,
like a rainbow."
Cindy Lauper - "True colors"-


giovedì 15 dicembre 2011

Exit through the gift shop

Regia: Banksy
Origine: Uk
Anno: 2010
Durata: 87'



La trama (con parole mie): Thierry Guetta è davvero un tipo strano. Francese, da tempo residente a Los Angeles, proprietario di un negozio di vestiti con la passione - o la mania? - per le riprese amatoriali.
Quasi per caso, nel corso di un viaggio in Francia, viene a contatto con suo cugino, uno street-artist di nome Space Invader che lo introduce alle meraviglie delle escursioni metropolitane atte a ridipingere le città ed i loro angoli nei modi più disparati: nasce così in Guetta il desiderio di continuare a riprendere artisti come il cugino negli States e nel mondo per realizzare un documentario sui più importanti nomi di questa nuova e supercool espressione della pittura - e non solo -.
Thierry diviene così famoso nell'ambiente da riuscire addirittura a stringere amicizia con il leggendario Banksy, che trasforma l'idea di partenza realizzando un film incentrato interamente sulla curiosa figura dell'uomo che, da regista di video casalinghi, si è trasformato prima in un documentarista e dunque in un artista che - chissà cosa dirà il futuro - potrebbe addirittura rubargli la scena.




Ogni generazione - più o meno - porta con lei alcuni volti simbolo dell'arte, dello sport o dello spettacolo.
Di certo, la pittura degli anni zero non potrà non tenere in considerazione come uno dei suoi più grandi esponenti Banksy, misterioso e da tempo leggendario personaggio che si dice sia originario di Bristol, da sempre sfuggente e misterioso, una sorta di fantasma noto solo ed esclusivamente ai suoi più intimi amici, confidenti e collaboratori.
La street-art, nata dai primi murales e divenuta con il tempo - e grazie ad artisti come Banksy - la voce di una nuova generazione di quelli che furono pittori e scultori, quasi a definire una sorta di Rinascimento metropolitano, è ormai un curioso status symbol delle città che ne ospitano i pezzi più pregiati e dei collezionisti che, di colpo, hanno cominciato a sborsare cifre astronomiche per accaparrarsi le opere più provocatorie di questi paladini del sottobosco urbano.
Exit through the gift shop nacque da un progetto di quello che, ora, è considerato uno degli elementi di spicco di questa nuova corrente, quel Thierry Guetta che, mosso da un'incrollabile passione - e da parecchia follia, c'è da ammetterlo -, è passato dall'essere l'amico ed il compagno d'avventure degli street-artists ad una stella di prima grandezza del loro firmamento: a dire il vero, e a quanto si evince nel corso di questa curiosa e divertente visione, proprio un progetto non era, questo film.
Exit through the gift shop, infatti, nasce e cresce come l'appagamento del desiderio quasi compulsivo di registrare tutto nato dalla perdita della madre in giovane età dello stesso Guetta, che a partire dai suoi figli fino al cugino Space Invader e tutti i più grandi pionieri della street-art decide di immortalare ogni momento di ogni sua giornata, quasi si trovasse in una sorta di reality dai contorni assolutamente folli e creativi.
L'escalation del curioso ruolo che l'uomo piano piano riesce a ritagliarsi all'interno di una comunità certo non aperta ad intrusioni esterne - anche a causa dei problemi che molti di questi artisti sono costretti ad affrontare con le forze dell'ordine nel corso dell'esercizio delle loro creazioni - è assolutamente unica, a tratti disturbante ed in alcuni frangenti geniale: lo stesso Banksy, autore del documentario - davvero un buon esordio, complimenti - e con il tempo grande amico di Guetta - che conobbe grazie ad un caso fortuito durante una sua trasferta a Los Angeles -, risulta colpito dalla "carriera" di quello che, a tutti gli effetti, poteva essere il suo Sancho Panza divenuto d'improvviso - e su un suo suggerimento nato dai pessimi risultati avuti da Thierry come regista - un Don Chisciotte in grado di bruciare le tappe ed affermarsi come artista milionario ed amatissimo dal jet set culturale californiano.
La posizione dell'enigmatico Banksy rispetto a Guetta - e soprattutto al suo successo - resta in bilico, quasi come se fosse in corso una sorta di battaglia tra l'amicizia ed il valore di alcuni gesti clamorosi di Thierry nel corso delle sue disavventure accanto allo street-artist di Bristol - la collaborazione totale nel corso della già citata prima trasferta losangelina in cui si conobbero ed il clamoroso interrogatorio della "sicurezza di Topolinia", forse la sequenza migliore del documentario, nonchè la più simbolicamente importante rispetto alle battaglie di questi eroi della controcultura - e la "colpa" di aver amplificato la moda della loro arte fino a renderla, a tutti gli effetti, una merce d'alto bordo monetizzata proprio come i monopoli che gente come Banksy lotta da sempre per far apparire squallidi e alla berlina di un mezzo ben più potente: l'arte pura e semplice.
Alle spalle dell'intero lavoro, dunque, restano gli interrogativi che ogni aspirante artista o nome affermato - non soltanto nell'ambito della pittura - si sarà fatto almeno una volta nella vita: dove finisce la passione ed inizia l'interesse? E sono davvero due cose separate tra loro?
In fondo, fare qualcosa che ci piace da impazzire non è, in qualche modo, un esercizio del nostro bene?
Da questo punto di vista, probabilmente, sia Banksy che Guetta dovranno ancora trovare una risposta.
Se una risposta, effettivamente, c'è.
Nel frattempo, noi ci godiamo i risultati della loro lotta, interiore e non.

MrFord

"Do you know why you got feelings in your heart?
Don’t let fear of feeling fool you
what you see sets you apart
and there’s nothing here to bind you
it’s no way for life to start
do you know that tonight the streets are ours
tonight the streets are ours
these lights in our hearts they tell no lies."
Richard Hawley - "Tonight the streets are ours" -


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