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martedì 24 novembre 2015

Accattone

Regia: Pier Paolo Pasolini
Origine: Italia
Anno: 1961
Durata: 120'






La trama (con parole mie): Vittorio Cataldi detto Accattone è un giovane ladro ed approfittatore della periferia romana che non ha mai lavorato un giorno in vita sua, appoggiato alla moglie di un compare cui ha voltato le spalle finito in galera e ad una prostituta, Maddalena, sua protetta.
Quando quest'ultima finisce in galera proprio a causa di Accattone, Cataldi torna alla vita di strada ed ai piccoli raggiri, sempre pronto a salvarsi la pelle a tutti i costi, fino a quando incontra Stella, una giovane donna lontana dal mondo nel quale è abituato a sguazzare: deciso a far prostituire anche lei, l'uomo si prodiga per piegarla e convincerla delle sue ragioni solo per scoprire di essersene innamorato, e decidere di cambiare vita arrivando addirittura a cercare un impiego.
Ma il fascino che il crimine esercita su Accattone è troppo forte, e quest'ultimo non potrà fare a meno di tornare alla vecchia vita.









Questo post partecipa alle celebrazioni del Pier Paolo Pasolini Day.





Esisteva un tempo in cui il Cinema italiano era indiscutibilmente il migliore che si potesse immaginare al mondo: un tempo in cui la necessità di raccontare storie ispirate alla realtà o di pura fiction rappresentava la ricerca di un'identità che si era perduta negli anni della guerra e ritrovata a partire dal boom economico, in cui De Sica, Visconti, Fellini, Monicelli, Risi, Rosi e Pasolini lasciavano un segno indelebile nella Storia della settima arte.
Erano gli anni de Il sorpasso e La dolce vita, ma anche di Accattone, opera prima di uno degli intellettuali più poliedrici del tempo - e della cultura italiana dell'ultimo secolo -, Pier Paolo Pasolini, che di fatto, attraverso questo film disperato e dolente, ancora attuale da molti punti di vista raccontò il lato amaro proprio di quella dolce vita felliniana che si viveva negli ambienti più borghesi ed alternativi di Roma: quasi fosse un antesignano della poetica di autori come i Dardenne, Pasolini porta sullo schermo la vicenda di Accattone, giovane truffatore della periferia profonda della Capitale destinato a lottare per la sopravvivenza e la sua convinzione di vivere senza mai doversi "abbassare" al lavoro - esemplare, in questo senso, la figura del fratello del protagonista, dedito al contrario agli impegni di un'esistenza normale, regolare e regolata, e sbeffeggiato proprio per questo dagli amici di Accattone - e ad un tempo ad un Destino amaro, legato alle scelte alle quali il crimine - piccolo o grande che sia - inesorabilmente porta, e delle cadute che altrettanto inesorabilmente si succedono alle ascese.
E nonostante siano passati più di cinquant'anni, e l'Italia, almeno in apparenza, sia cambiata profondamente, la potenza delle immagini brucia negli occhi e nel cuore, e pur essendo consci del fatto che il personaggio di Vittorio sia senza dubbio alcuno sgradevole e negativo, si finisce quasi per voler bene a questo ragazzo perduto che lotta senza quartiere, destinato alla sconfitta e ad essere schiacciato non tanto dal Sistema, quanto da una vita contro la quale ha ingaggiato una battaglia persa in partenza: nelle sue ultime parole, quel "ora sto bene", c'è tutta la disperazione di chi attraversa questo mondo ai margini, e vede la parte più grande ed apparentemente bella dello stesso e la già citata "dolce vita" solo da lontano, sfiorandola solo quando, per spacconeria, sfida la sorte - le scommesse con gli amici, i tuffi dal ponte -, una presa di coscienza non gridata, quanto accolta come una liberazione, una resa pacifica che è come un lento addormentarsi.
Di fatto, dunque, non solo Accattone si afferma come uno dei film italiani più importanti dell'epoca e più in generale della Storia del nostro Cinema, ma un manifesto proletario della settima arte, un racconto viscerale delle viscere della società, una fotografia dell'uomo della strada come l'avrebbe cantata un altro grande della cultura popolare italiana, Fabrizio De Andrè, ed una testimonianza del grande Cinema che partì con i Lumiere e continua nella sua tradizione con i già citati Dardenne, Loach o Cantet.




MrFord









"Quando la morte mi chiamerà
forse qualcuno protesterà
dopo aver letto nel testamento 
quel che gli lascio in eredità
non maleditemi, non serve a niente
tanto all'Inferno ci sarò già."
Fabrizio De Andrè - "Il testamento" - 





giovedì 15 dicembre 2011

Exit through the gift shop

Regia: Banksy
Origine: Uk
Anno: 2010
Durata: 87'



La trama (con parole mie): Thierry Guetta è davvero un tipo strano. Francese, da tempo residente a Los Angeles, proprietario di un negozio di vestiti con la passione - o la mania? - per le riprese amatoriali.
Quasi per caso, nel corso di un viaggio in Francia, viene a contatto con suo cugino, uno street-artist di nome Space Invader che lo introduce alle meraviglie delle escursioni metropolitane atte a ridipingere le città ed i loro angoli nei modi più disparati: nasce così in Guetta il desiderio di continuare a riprendere artisti come il cugino negli States e nel mondo per realizzare un documentario sui più importanti nomi di questa nuova e supercool espressione della pittura - e non solo -.
Thierry diviene così famoso nell'ambiente da riuscire addirittura a stringere amicizia con il leggendario Banksy, che trasforma l'idea di partenza realizzando un film incentrato interamente sulla curiosa figura dell'uomo che, da regista di video casalinghi, si è trasformato prima in un documentarista e dunque in un artista che - chissà cosa dirà il futuro - potrebbe addirittura rubargli la scena.




Ogni generazione - più o meno - porta con lei alcuni volti simbolo dell'arte, dello sport o dello spettacolo.
Di certo, la pittura degli anni zero non potrà non tenere in considerazione come uno dei suoi più grandi esponenti Banksy, misterioso e da tempo leggendario personaggio che si dice sia originario di Bristol, da sempre sfuggente e misterioso, una sorta di fantasma noto solo ed esclusivamente ai suoi più intimi amici, confidenti e collaboratori.
La street-art, nata dai primi murales e divenuta con il tempo - e grazie ad artisti come Banksy - la voce di una nuova generazione di quelli che furono pittori e scultori, quasi a definire una sorta di Rinascimento metropolitano, è ormai un curioso status symbol delle città che ne ospitano i pezzi più pregiati e dei collezionisti che, di colpo, hanno cominciato a sborsare cifre astronomiche per accaparrarsi le opere più provocatorie di questi paladini del sottobosco urbano.
Exit through the gift shop nacque da un progetto di quello che, ora, è considerato uno degli elementi di spicco di questa nuova corrente, quel Thierry Guetta che, mosso da un'incrollabile passione - e da parecchia follia, c'è da ammetterlo -, è passato dall'essere l'amico ed il compagno d'avventure degli street-artists ad una stella di prima grandezza del loro firmamento: a dire il vero, e a quanto si evince nel corso di questa curiosa e divertente visione, proprio un progetto non era, questo film.
Exit through the gift shop, infatti, nasce e cresce come l'appagamento del desiderio quasi compulsivo di registrare tutto nato dalla perdita della madre in giovane età dello stesso Guetta, che a partire dai suoi figli fino al cugino Space Invader e tutti i più grandi pionieri della street-art decide di immortalare ogni momento di ogni sua giornata, quasi si trovasse in una sorta di reality dai contorni assolutamente folli e creativi.
L'escalation del curioso ruolo che l'uomo piano piano riesce a ritagliarsi all'interno di una comunità certo non aperta ad intrusioni esterne - anche a causa dei problemi che molti di questi artisti sono costretti ad affrontare con le forze dell'ordine nel corso dell'esercizio delle loro creazioni - è assolutamente unica, a tratti disturbante ed in alcuni frangenti geniale: lo stesso Banksy, autore del documentario - davvero un buon esordio, complimenti - e con il tempo grande amico di Guetta - che conobbe grazie ad un caso fortuito durante una sua trasferta a Los Angeles -, risulta colpito dalla "carriera" di quello che, a tutti gli effetti, poteva essere il suo Sancho Panza divenuto d'improvviso - e su un suo suggerimento nato dai pessimi risultati avuti da Thierry come regista - un Don Chisciotte in grado di bruciare le tappe ed affermarsi come artista milionario ed amatissimo dal jet set culturale californiano.
La posizione dell'enigmatico Banksy rispetto a Guetta - e soprattutto al suo successo - resta in bilico, quasi come se fosse in corso una sorta di battaglia tra l'amicizia ed il valore di alcuni gesti clamorosi di Thierry nel corso delle sue disavventure accanto allo street-artist di Bristol - la collaborazione totale nel corso della già citata prima trasferta losangelina in cui si conobbero ed il clamoroso interrogatorio della "sicurezza di Topolinia", forse la sequenza migliore del documentario, nonchè la più simbolicamente importante rispetto alle battaglie di questi eroi della controcultura - e la "colpa" di aver amplificato la moda della loro arte fino a renderla, a tutti gli effetti, una merce d'alto bordo monetizzata proprio come i monopoli che gente come Banksy lotta da sempre per far apparire squallidi e alla berlina di un mezzo ben più potente: l'arte pura e semplice.
Alle spalle dell'intero lavoro, dunque, restano gli interrogativi che ogni aspirante artista o nome affermato - non soltanto nell'ambito della pittura - si sarà fatto almeno una volta nella vita: dove finisce la passione ed inizia l'interesse? E sono davvero due cose separate tra loro?
In fondo, fare qualcosa che ci piace da impazzire non è, in qualche modo, un esercizio del nostro bene?
Da questo punto di vista, probabilmente, sia Banksy che Guetta dovranno ancora trovare una risposta.
Se una risposta, effettivamente, c'è.
Nel frattempo, noi ci godiamo i risultati della loro lotta, interiore e non.

MrFord

"Do you know why you got feelings in your heart?
Don’t let fear of feeling fool you
what you see sets you apart
and there’s nothing here to bind you
it’s no way for life to start
do you know that tonight the streets are ours
tonight the streets are ours
these lights in our hearts they tell no lies."
Richard Hawley - "Tonight the streets are ours" -


giovedì 6 ottobre 2011

Chi non salta bianco è

Regia: Ron Shelton
Origine: Usa
Anno: 1992
Durata: 115'



La trama (con parole mie): Billy è un ottimo giocatore di basket che ha fallito la grande occasione e si diverte a girare di città in città scommettendo sulle partite di strada in attesa che la sua donna possa avere la grande occasione in tv e diventare campionessa di un gioco a premi.
Arrivato a Los Angeles si imbatte in Sidney, figlio delle realtà delle periferie, sbruffone dall'ego smisurato, e vince con lui una sfida giocando sul suo apparente svantaggio di "uomo bianco": sarà l'inizio di un'amicizia che porterà i due ad iscriversi ad un torneo in coppia per poter guadagnare la cifra utile ad entrambi per far riprendere una direzione sensata alla propria vita.
Ovviamente, le cose non andranno proprio da copione.


Personalmente, ho avuto un rapporto davvero curioso con il basket.
Fino ai quattordici anni, essendo alto praticamente un metro e un bluray a fronte di compagni di scuola in diretta dalle periferie dai connotati - e probabilmente anche dalle fedine penali - di quarantenni, il mio rapporto con la pallacanestro è sempre stato piuttosto conflittuale, tanto da lasciarmi ben ancorato al calcio e ai ricordi di quando, da bambino, con le mie scivolate in pieno stile Holly e Benji da terzino destro un pò bastardo facevo volare anche avversari due o tre volte più grossi di me.
Poi arrivò Slam dunk - il fumetto, non il cartone animato -, che, unito ad una crescita vertiginosa nel giro di un'estate - una ventina di centimetri almeno - tra i quindici e i sedici anni, portò una rivoluzione nel mio rapporto con lo sport in quegli anni dominato in lungo e in largo dagli inarrestabili Bulls di Michael Jordan.
Nel fumetto di Takehiko Inoue trovai il consueto riferimento di "cattivo" preferito in Mitsui, che divenne un modello per il mio modo di giocare basato principalmente sui tiri da tre - anche perchè, nonostante l'altezza non fosse più quella di un lillipuziano, con il mio metro e settantacinque non potevo certo pensare di fare della schiacciata il mio punto di forza -, e fu l'inizio di un triennio di campetti di cemento, pesi alle caviglie, tre contro tre selvaggi, un sacco di fatica e altrettanto divertimento.
Ma per quale motivo, starete pensando, mi sono dilungato in questo sproloquio da tempi andati legato al basket "di periferia"?
Semplicemente perchè, pur non essendo affatto un film memorabile, credo che Chi non salta bianco è sia indubbiamente il miglior prodotto legato a questo sport assolutamente entusiasmante nella sua accezione da strada, quella lontana dai parquet e dalle grandi stelle, giocata a suon di provocazioni e qualche spinta di troppo di fronte ad un anello dalla rete metallica - in genere, quelle normali vengono irrimediabilmente strappate a tempi di record, spesso da gente che non gioca e non coglie l'importanza delle stesse per chi le usa come un mirino quando fa partire il tiro - e sempre e comunque fino all'ultimo punto - in questo caso, difficile parlare di secondi -.
Se, infatti, Space Jam si concentra sull'aspetto ludico di questo sport e Voglia di vincere sui sogni di gloria di qualsiasi giovane giocatore, Chi non salta bianco è ci trasporta nell'atmosfera street di quei primi anni novanta a metà tra il "Fight the power" dei Public Enemy e le spacconate in pieno stile amicizia virile che tanto piacciono a noi maschietti sempre in cerca di un buddy con cui aggirarci per i bassifondi a fare culi a strisce a destra e a manca.
Divertente e ben realizzato nelle fasi di gioco, il film si concentra anche sull'aspetto - tipicamente anni novanta anche questo - da commedia romantica destinata a non finire così bene del periodo, risultando tutto sommato abbastanza credibile ed attuale anche ora, nonostante quella  che è stata l'epoca della mia adolescenza risulti oggi una scheggia impazzita di un'altra epoca a tratti apparentemente più distante dei precedenti ed incredibili eighties.
Ottima la colonna sonora, che passa da Hendrix ai Cypress Hill, discreti sia Harrelson che Snipes - che risulta più credibile come cazzone in stile Eddie Murphy piuttosto che come duro spaccaculi da film action -, godibile al massimo la vicenda: insomma, un filmetto che intrattiene da scoprire o riscoprire con gli amici più stretti in una serata da sbronza o, perchè no, prima o dopo una bella partita, pensando quasi di essere di fronte ad un fratellino - molto, molto minore, sia chiaro - di Point break.

MrFord

"L. a. Lakers fast break makers
kings of the court shake and bake all takers
back to back is a bad ass fact a claim that remains in tact
m-a-g-i-c see you on the court
buck has come to play his way and his way is to thwart
m-a-g-i-c magic of the buck."
Red Hot Chili Peppers - "Magic Johnson" -



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