venerdì 30 settembre 2011

Contagion

Regia: Steven Soderbergh
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 106'


La trama (con parole mie): Beth Emhoff, in viaggio in oriente per affari - mescolandoli senza troppi patemi con il piacere - torna a casa in Minnesota portando con se un misterioso, aggressivo virus ad altissimo potenziale che è il principio di una pandemia su larghissima scala in grado di uccidere una persona ogni dodici contagiate.
In tutto il mondo scoppiano focolai dell'infezione, le organizzazioni per la sanità si muovono, le aziende farmaceutiche sperimentano i possibili vaccini sperando di accaparrarsi fatturati milionari, internet e stampa sono in subbuglio, e intanto chi è più informato cerca di fare il possibile per mettere al sicuro i propri cari.
Fondamentalmente, un ritratto tendenzialmente abbastanza fedele dell'umanità in caso di calamità di questo genere.



Soderbergh è davvero un regista in grado di sorprendermi spesso e volentieri: dall'autorialità del suo esordio con Sesso, bugie e videotape vincitore a Cannes ai blockbusteroni con gli amiconi Clooney e Pitt, dalle sperimentazioni di Bubble al Cinema finto autoriale d'impatto e un pò ruffiano come questo.
Perchè, volendo dirla proprio tutta, Contagion non è così brutto come lo aveva dipinto una buona parte della critica, soprattutto web: è un prodotto valido, girato in modo da mascherare la sua palese ruffianeria dietro una facciata da fittizia docufiction, infarcito di star di grosso calibro pronte a ritagliarsi anche parti decisamente minori, in grado di turbare almeno i più ipocondriaci e timorosi degli spettatori e tutto sommato scorrevole dall'inizio alla fine.
Eppure, con altrettanta sicurezza, è impossibile affermare che si possa trattare di una pellicola dalle potenzialità d'impatto pari a quelle del virus che mostra all'opera o dell'incredibile campagna pubblicitaria che l'ha vista protagonista: la sceneggiatura, pur se non malvagia, risulta assolutamente accademica ed influenzata dalle storie dei singoli personaggi - alcune decisamente meno riuscite di altre -, molti degli attori reclutati giocano al ribasso e fanno tutto il possibile per non strafare - Matt Damon pare la copia sbiadita del protagonista del meraviglioso Hereafter, e la stessa, normalmente fenomenale Kate Winslet pare fondamentalmente portarsi solo la pagnotta da contratto a casa - ed i tentativi di sperimentazione sono lasciati dal regista nello stesso piccolo angolo in cui si rifugia quando decide di produrre cose assolutamente interessanti come il già citato Bubble.
Certo, l'approccio politico dell'autore si fa comunque sentire, ed appare più che chiara la posizione critica rispetto alle grandi istituzioni e corporazioni al vertice della catena "alimentare" del pianeta e della società così come agli squali, a prescindere dal livello in cui essi nuotano - il personaggio dell'ottimo Jude Law è un esempio perfetto della categoria, ed il regista non risparmia una discreta dose di ironia nei suoi confronti -, eppure non bastano poche intuizioni per rendere Contagion un appuntamento imperdibile di questo inizio autunno, soprattutto considerato che del genere catastrofico, nel mondo post-undici settembre in cui viviamo, la settima arte pare avere clamorosamente abusato rischiando ad ogni nuova pellicola di sconfinare nel terrificante campo dello studioapertismo da allarme globale che tanto facilmente scatena nel sottoscritto la voglia di distribuire bottigliate come se piovesse.
La stessa idea di sciogliere il mistero del cosiddetto "paziente zero" solo nel finale perde molta della sua potenza non tanto per la soluzione scelta, quanto per la tensione progressivamente calata a seguito dell'accelerazione che subisce il tempo di narrazione a partire dalla fine della prima parte, dedicata al propagarsi del contagio, e la seconda, quando l'elaborazione del vaccino e la sua distribuzione rubano la scena alle singole storie a scapito del consueto tentativo di spettacolarizzazione all'ammmeregana di cui tanto spesso ho parlato - e mai con accezione positiva - in questi ultimi post.
Peccato per Soderbergh e anche per la materia trattata, assolutamente attuale e potenzialmente di grande impatto: a volte un pò di coraggio e di sperimentazione sono necessari per raggiungere il risultato.
Un pò come scoprire un vaccino rivoluzionario.

MrFord

"You and me have a disease,
you affect me, you infect me,
I'm afflicted, you're addicted,
you and me, you and me."
Bad Religion - "Infected" -

giovedì 29 settembre 2011

Attack the block

Regia: Joe Cornish
Origine: Uk
Anno: 2011
Durata: 88'


La trama (con parole mie): Sam è un'infermiera che abita in una zona poco raccomandabile di Londra, ed una sera, al suo rientro a casa, viene rapinata dalla baby gang guidata dall'ombroso Moses. Quando il peggio pare prospettarsi per la ragazza, una strana creatura piove letteralmente per le strade della periferia permettendole la fuga e dando inizio a quella che può essere tranquillamente definita come un'invasione aliena a tutti gli effetti.
I piccoli criminali, dopo aver ucciso lo strano essere, dovranno infatti cercare di giocare al meglio sfruttando il "fattore campo" per sopravvivere e sgominare gli agguerriti figli dello spazio giunti in massa dopo di lui, stringendo una non proprio solida alleanza con la stessa Sam.
Chi vincerà la partita? La strada o lo spazio profondo?



Che fosse un anno buono per la cara, vecchia Inghilterra si era capito già dallo scorso inverno, quando, complice la segnalazione del Cannibale, in casa Ford fu scoperta quella meraviglia delle meraviglie di Misfits, una delle candidate più importanti al titolo di mio personale serial dell'anno, cui sono seguiti il trionfo de Il discorso del re - per la verità un film assolutamente dimenticabile - alla notte degli Oscar, la riscoperta in terra italiana di This is England e l'attesa sempre più fervente del nuovo Batman firmato Nolan.
Eppure, le meraviglie nate sotto la Union Jack non sono finite, perchè dal cilindro di Joe Cornish salta fuori quasi a sorpresa questo piccolo gioiellino spassosissimo pronto ad allietare il nostro rientro ufficiale alla routine che segna la fine dell'estate: un mix clamorosamente azzeccato di sci-fi, humour in pieno stile Edgar Wright - giustificato anche dalla presenza di Nick Frost nel cast -, un pò di sana violenza ed effetti speciali pane e salame ma clamorosamente efficaci come piacciono dalle mie parti, complici della creazione di alcune tra le creature cinematografiche più interessanti che mi sia capitato di incontrare negli ultimi anni della mia vita di spettatore insieme a Christopher il gamberone ed il mostro gigante spaccatutto di Cloverfield.
Gli invasori ciechi e dai denti fluorescenti di questo intelligentissimo Attack the block, un pò Stitch e un pò Critters, catturano l'attenzione dello spettatore fin dalla prima apparizione, guadagnandosi la scena quasi quanto i giovani protagonisti umani ed offrendo, oltre ad un sano intrattenimento, anche qualche riflessione neppure troppo scontata - l'azione dei feromoni dell'alieno femmina come vero e proprio traino della furia cieca a tutti gli effetti delle orde dei maschi è clamorosamente associabile alla condizione media di noi terrestri - da affiancare alle tematiche sociali legate alla situazione delle periferie che dalla Francia all'Inghilterra ha spesso e volentieri fatto parlare di se negli ultimi anni - altro momento magico, il richiamo a L'odio grazie all'utilizzo dello splendido pezzo Assassin de la police di Cut Killer e Ntm, uno dei migliori della colonna sonora del film firmato Kassovitz -.
Una rivincita delle periferie che pesca a piene mani da un immaginario sicuramente noto ma che riesce a ritagliarsi una sua identità, e trova sei suoi giovani e sbandati protagonisti una sorta di nucleo di fratellini minori degli indimenticabili condannati ai lavori socialmente utili del già citato Misfits, che pur non giungendo alle vette offerte dal serial riesce a fotografare una realtà spesso e volentieri spiacevole trasformandola in una riflessione celata dall'intrattenimento puro e semplice: e l'affermazione finale di Moses, acclamato dalla folla come una sorta di salvatore a fronte della battaglia con gli alieni, ha il sapore di una chance di riscatto data a tutti i figli del "fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene".
Il tutto senza mai dimenticare quanto può essere utile sapersi prendere in giro - i personaggi di Ron e Brewis sono un esempio lampante -, giocare con i propri mostri e non dimenticarsi mai da dove si viene.
Una cosa che qui da noi, ultimamente, pare essersi persa.
Non ci resta che sperare in una bella, sanguinosa, adrenalinica invasione aliena.

MrFord

"She comes to take me away
it's all that i needed
I don't breathe another lover
I'm an alien
you're an alien."
Bush - "Alien" -


mercoledì 28 settembre 2011

Crazy stupid love

Regia: Glenn Ficarra, John Requa
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 118'




La trama (con parole mie): Cal ed Emily Weaver, una coppia apparentemente collaudatissima, tre figli, una bella casa, una vita tranquilla, decidono di divorziare.
Emily, infatti, è in profonda crisi dopo aver tradito Cal con il collega David Lindhagen, e la stessa notizia porta allo sconforto Cal, che si rifugia in serate solitarie in un locale alla moda. Qui è avvicinato da Jacob Palmer, un casanova impareggiabile che, spinto da una sorta di compassione, decide di trasformare l'impacciato uomo di mezza età in un seduttore come lui.
Così, mentre Cal si reinventa come una macchina da sesso pur rimpiangendo la vita in famiglia, suo figlio minore Robbie scopre di essere perdutamente innamorato di Jessica, la babysitter dei Weaver, a sua volta segretamente cotta dello stesso Cal.
David, intanto, non desiste dal corteggiare Emily e Jacob trova l'amore in Hannah.
Ma le sorprese non sono affatto finite.



Sono davvero sorpreso.
A volte, nonostante le presentazioni, le impressioni, la distribuzione e la pubblicità completamente fuorvianti, c'è anche la possibilità di ritrovarsi di fronte ad una pellicola fresca, divertente e piacevole come Crazy stupid love, un vero gioiellino del suo genere che rappresenta, senza dubbio, il meglio della commedia sentimentale made in Usa di quest'anno accanto all'altrettanto interessante Easy A, cui risulta legato dalla presenza di Emma Stone e di Nathaniel Hawtorne, che con il suo La lettera scarlatta torna a far parlare di sè in una delle sequenze più divertenti che coinvolgono Robbie, il figlio adolescente o quasi di Cal ed Emily.
Ma le sorprese che Crazy stupid love è in grado di offrire sono molte, distribuite con equilibrio, ed intelligentemente in bilico tra la risata sguaiata e fracassona e la riflessione malinconica e quasi amara: dal divorzio e le sue implicazioni alla magnifica macchietta interpretata da Marisa Tomei - sempre più milf e sempre bravissima -, dal rapporto tra genitori e figli alla costruzione di una delle amicizie sullo schermo che più ho gradito negli ultimi tempi, quella tra l'inizialmente sfigatissimo Cal/Steve Carell ed il tutto d'uno pezzo Jacob/Ryan Gosling, che ribaltano il concetto maestro/allievo - ottime le citazioni di Karate kid - e si tuffano quasi senza volerlo - grande merito della sceneggiatura - in quello tra padre e figlio, complice la storia personale di Jacob, svelata soltanto con il passaggio del ruolo dello stesso giovane da seduttore ad innamorato.
Tornando al già citato Robbie, inoltre, va sottolineato un lavoro eccellente in fase di script, tanto da rendere il piccolo Weaver uno dei personaggi più azzeccati e ben strutturati dell'intera pellicola - da urlo il suo faccia a faccia con David Lindhager nell'ufficio di sua madre -, senza contare che l'intero cast pare clamorosamente in forma e a proprio agio nel portare in scena i protagonisti della vicenda, regalando al pubblico momenti magici come l'inconsueta "riunione di famiglia" che porta tutte le storie a confluire in una situazione clamorosamente grottesca nel giardino dei Weaver, curato maniacalmente da Cal anche dopo la sua separazione da Emily, in gran segreto, neanche fosse la più losca delle relazioni extra coniugali.
Il tutto senza mai perdersi in sbrodolate inutilmente romantiche o nella consueta gestione della risoluzione delle vicende - uno dei grandi drammi delle commedie sentimentali è proprio dato non tanto dal lieto fine, quanto dalla banalità dello stesso -, qui, seppur non con un'inventiva da film d'autore rivoluzionario a tutti gli effetti, gestita con grande sensibilità ed un occhio ad un pubblico ben più attento ed esigente di quello da distributore automatico in stile bancomat del film da vedersi sul divano il mercoledì sera tanto per non rischiare la coda al Cinema.
Un lavoro riuscitissimo, dunque, sotto ogni punto di vista, che vale una e più visioni e non rischia in alcun modo di stancare lo spettatore: e da lui a lei, passando per la prole eventuale o i gruppi di amici, non c'è un protagonista che non rappresenti almeno in parte lo spettatore, quasi come se potessimo in qualche modo prenderci una pausa e, senza accorgerci di guardare a noi stessi, potessimo scoprire, riscoprire e farci una risata su uno dei più grandi misteri della vita: l'amore.
Pazzo stupido amore, per l'appunto.
E, a volte, anche un pò stronzo.
Parola di Nathaniel Hawthorne. E di Robbie.

MrFord

"This thing called love I just can't handle it
this thing called love I must get round to it
I ain't ready crazy little thing called love."
Queen - "Crazy little thing called love" -

martedì 27 settembre 2011

L'alba del pianeta delle scimmie

Regia: Rupert Wyatt
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 105'



La trama (con parole mie): Will Rodman è un promettente scienziato alle prese con lo studio di una potenziale cura per l'alzheimer - di cui soffre il suo stesso padre - che parte dalle scimmie ed è basata sull'utilizzo di un virus molto aggressivo. 
Quando Bright eyes, l'esemplare più ricettivo del laboratorio, attacca il personale e viene abbattuta, il progetto viene riportato alla fase di studio molecolare: ma Will scopre che il cucciolo avuto dalla scimpanzè prima di morire ha assorbito geneticamente il virus, e si presenta più intelligente di qualunque membro della sua specie.
Per quasi dieci anni Caesar vive dunque in segreto con la famiglia Rodman sviluppando la sua intelligenza in misura sempre maggiore, mentre Will sperimenta in segreto sul padre la potenziale cura, scoprendo che la stessa è in grado di vincere l'alzheimer. 
Ma tutto è destinato a precipitare: a causa di un litigio legato al ripresentarsi della malattia, il vecchio Charles Rodman viene minacciato da un vicino e Caesar interviene in suo aiuto finendo rinchiuso in un centro di detenzione in attesa di un responso giudiziario. 
Credendo di essere abbandonato da Will, Caesar comincia ad approntare un piano di rivolta dei suoi compagni di cella rispetto agli umani.


A volte esistono film destinati a finire male a partire dal titolo.
L'alba del pianeta delle scimmie, infatti, non è inserito nella continuity della serie di fantascienza classica, o nel contesto del più recente remake burtoniano: si tratta infatti di una sorta di reboot che colloca i protagonisti di una delle realtà più cult del genere in un contesto tutt'altro che spaziale - quanto più sociale, o addirittura catastrofico, pensando a quello che lascia presagire la pellicola stessa - per nulla legato al famoso brand, ma sfruttato, a quanto pare, soltanto per questioni di mero marketing.
Inoltre, a questa critica volendo perfino un pò spocchiosa, si aggiunge il risultato: una pellicola dalle discrete potenzialità clamorosamente rovinata dopo una prima parte tutto sommato promettente per essere immolata sul consueto altare della retorica e dell'azione all'ammeregana che, quando presenti in dosi massicce e fastidiose, tendono a scatenare l'impulso da bottigliata selvaggia quasi più di un pretenzioso film radical chic di quelli che tanto detesto.
La vicenda di Caesar ed il suo legame con Will e suo padre, infatti, partita come una progressiva presa di coscienza da parte del primo e di un sotterraneo sentimento sempre meno celato di non voler essere considerato alla stregua di un animale domestico qualsiasi diviene, a partire da quella che avrebbe potuto essere la svolta in positivo dell'intera pellicola - il momento della cattura di Caesar e l'inizio della sua detenzione -, la più classica sequela di situazioni da blockbusterone finto impegnato con tanto di rivoluzione scimmiesca come se fosse atta a sensibilizzare il pubblico senza però dimenticare che lo stesso fa sempre parte della più illuminata razza umana - nonostante le scelte, per quanto sentite, di Will risultino una più fallimentare dell'altra -.
La svolta catastrofica della pellicola di cui parlavo sopra, inoltre, rende clamorosamente concreta l'ipotesi di assistere ad un eventuale sequel e trasforma un potenziale dramma sci-fi tutto domestico in stile seventies in un banalissimo film da multisala che gioca con la politica - peccato che non si tratti di V per vendetta - e si perde nello scontro neanche ci trovassimo nel pieno dell'epoca degli Independence day.
Un vero e proprio tracollo minuto per minuto, talmente evidente da far sorgere il dubbio che a realizzare il prodotto finale siano stati più registi, o che ai tentativi dell'uomo dietro la macchina da presa di renderlo più interessante si siano opposti con fermezza i capoccioni della produzione, convinti di ottenere un risultato migliore in termini di pubblico e denaro - e, purtroppo, i dati che arrivano dagli States paiono perfino dare loro ragione -: un vero spreco, insomma, perchè materiale potenzialmente ottimo si intravede fin dall'arrivo di Caesar in casa Rodman, ed un eventuale triangolo che coinvolgesse Will, la sua donna e lo stesso Caesar sarebbe stato degno del miglior Romero - ricordate Monkey Shines!? -, ma evidentemente chi mette i fondi ed ancor più il grande pubblico paiono non essere pronti per un salto di qualità di questo genere.
Un plauso va, ad ogni modo, alla consueta ottima performance come "mimo" di Andy Serkis - che, continuo a sostenerlo, avrebbe meritato l'Oscar con il suo Gollum, qualche anno fa -, un vero pioniere di una nuova forma di interpretazione - aiutato dagli effetti speciali, questo è indubbio, ma di sicuro primo grande interprete di questa inedita prospettiva attoriale -, unico a spiccare clamorosamente in un cast crogiolatosi troppo facilmente nell'idea di lavorare all'interno di un blockbuster - James Franco, discretamente anonimo, e John Lithgow, adagiato nelle meraviglie cui ci aveva abituati nel ruolo di Trinity nel corso della quarta stagione di Dexter e, pertanto, nel pieno di una sorta di "gioco di rimessa" interpretativo -.
Ma, chissà, così come per la rivalità crescente tra Uomo e Scimmia - ma è davvero così presente, date le similitudini evidenti? -, forse la questione è tutta legata ai punti di vista: chi si aspetterà una schifezza atomica probabilmente resterà sorpreso, e chi si fiderà delle prime valutazioni dei critici oltreoceano si troverà di fronte ad una cocente delusione.
O forse il contrario.
Resta il fatto che la sequenza iniziale di 2001 resta ancora il meglio che la Scimmia abbia potuto dare alla settima arte.
E, riflettendoci bene, anche l'Uomo.

MrFord

"Hey monkey, where you been?
This lonely spiral I've been in.
Hey monkey, when can we begin?
Hey monkey, where you been?"
Counting crows - "Monkey" -


lunedì 26 settembre 2011

Sergio Bonelli (1932 - 2011)


So long, MrTex.

MrFord

"Posso procurarti una cura di piombo con successivi impacchi di terra fresca."
Tex Willer

Cowboys&aliens

Regia: Jon Favreau
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 118'


La trama (con parole mie): Jake Lonergan, bandito quasi redento, si risveglia privo della memoria in pieno deserto con uno strano bracciale metallico fissato al polso. 
Neanche il tempo di sgominare una banda di cacciatori di taglie e tornare ad Absolution - che dovrebbe essere la sua città -, e il nostro si mette immediatamente nei guai malmenando Percy, figlio del proprietario terriero dominatore del circondario Dolarhyde, pronto, ovviamente, a vendicare il torto subito dal rampollo sbruffone.
Detta così, sembrerebbe la più classica trama da spaghetti western.
Ma neppure il tempo di crederlo, e gli abitanti di Absolution si troveranno nel bel mezzo di un'invasione aliena con tutti i crismi, e dovranno mettere da parte le rivalità per fronteggiare uniti il nemico venuto dallo spazio: grazie a pallottole, sudore, sangue e quello strano bracciale che Lonergan porta al braccio, che si rivela un'arma tostissima contro le creature figlie dello spazio.



Occorre ammettere, senza ombra di dubbio, che quando gli ammmeregani si mettono al lavoro su qualcosa arrotolandosi le proverbiali maniche, difficilmente si assiste ad una loro debacle: il mestiere che i suddetti riescono a far confluire in progetti che in qualunque altro luogo del globo - e dello spazio, perchè no - si rivelerebbero dei buchi nell'acqua clamorosi rendendoli così patinati e funzionali da sembrare quasi roba figa è indiscutibile. 
Un pò come quello che Spielberg, Favreau e il team di sceneggiatori che fu uno dei segreti del successo della serie di culto Alias mettono al servizio di una pellicola ispirata ad un fumetto e divenuta già una sorta di cult nel corso della sua campagna promozionale, complice un cast a dir poco stellare: Daniel Craig, Keith Carradine, Paul Dano, Sam Rockwell e soprattutto Harrison Ford hanno garantito da soli un incasso che si prospetta già tra i più alti dell'autunno, complice un ritorno in auge del genere sci-fi, rivisto per l'occasione in una salsa western che parte dal nostro Sergio Leone per arrivare a tutti i più consueti stereotipi del Cinema a stelle e strisce di grana grossa.
D'altro canto, infatti, è altrettanto legittimo sottolineare, oltre ad un mestiere ed una messa in scena certamente indiscutibili, un'altra grande verità rispetto a Cowboys&aliens: trattasi di un film irrimediabilmente, clamorosamente, qualsiasicosamente vi venga in mente noioso, già visto, già sentito, già - una volta ancora - tutto quello che potrebbe venirvi in mente in proposito.
Nonostante regista e cast ce la mettano davvero tutta, infatti, le emozioni suscitate sono pari a quelle di una bella siesta pomeridiana sotto il più classico dei pergolati western, e a ben poco servono le numerose citazioni di cult più o meno interessanti e più o meno cult - andiamo da It a Men in black, passando per John Ford e il già nominato Sergio Leone - così come una messa in scena certamente d'impatto, dalle torri di osservazione aliene al variegato gruppo di protagonisti alla ricerca dei cari rapiti dagli invasori - che fa molto Il texano dagli occhi di ghiaccio -, eppure l'insieme stenta a decollare, e l'impressione di assistere ad una minestra riscaldata - presentata bene, ma pur sempre riscaldata - è pericolosamente vicina a divenire certezza, specie se a questa pellicola vengono associati gioiellini di genere usciti di recente come Super 8 o Attack the block.
Un blockbusterone a tutti gli effetti buono giusto giusto per una non troppo nociva visione da sala la domenica pomeriggio, un gradino - e più, questo va ammesso - sopra a molte schifezze dello stesso genere ma ugualmente ben lontano dal soddisfare le sue ben visibili ambizioni da pseudo cult.
Probabilmente una buona fetta delle mancanze della pellicola è imputabile all'effettiva inconsistenza della controparte aliena, fisicamente minacciosa neanche ci trovassimo nel più roboante degli sparatutto ma priva del carisma manifestato da molti degli ultimi invasori del nostro pianeta passati sul grande schermo: onestamente, era dai tempi dell'orrore spielberghiano de La guerra dei mondi che non mi capitava di posare gli occhi su un gruppo di alieni più insignificante di questo.
Peccato, perchè con la giusta verve ed un pizzico di talento in più, questa ottima confezione avrebbe potuto rivelare anche qualche sorpresa, invece di lasciare con l'amaro in bocca il pubblico come un bambino cui Babbo Nachele ha lasciato soltanto una curatissima scatola vuota.

MrFord

"They're coming in from the sea
they've come the enemy
beneath the blazing sun
the battle has to be won.
Invaders ... Pillaging
Invaders ... Looting."
Iron maiden - "Invaders" -

domenica 25 settembre 2011

Il demone sotto la pelle

Regia: David Cronenberg
Origine: Canada
Anno: 1975
Durata: 87'

La trama (con parole mie): il tranquillo complesso residenziale ad alta tecnologia costruito in modo da essere una sorta di nuovo emblema del progresso detto L'Arca è sconvolto da un brutale omicidio compiuto da un anziano professore. 
L'evento, che scatena l'attenzione dei media, non sarà che l'inizio di una vera e propria invasione "dall'interno" legata ad una specie di parassiti in grado di scatenare tutti i lati più violenti e selvaggi dell'istintività umana.
I residenti dovranno dunque battersi per mantenere la propria coscienza e preservare le loro stesse vite dalle orde scatenate e a piede libero in quello che era una sorta di vero e proprio "paradiso artificiale".



Raramente mi era capitato di imbattermi in un film rispecchiato così clamorosamente dal suo titolo - ebbene sì, quello italiano, nonostante io sia un fermo detrattore degli adattamenti - come Il demone sotto la pelle: quest'opera dell'ormai stratosferico Cronenberg - i suoi ultimi due lavori sono oltre misura, e l'attesa per A dangerous method fervente - era una delle due che ancora mancava all'appello delle mie visioni, e ringrazio di essere qui a scriverne il post a distanza di qualche giorno.
Questo perchè, terminata la visione, ammetto di essere rimasto un pò deluso rispetto allo standard che è solito garantire il regista canadese: è indiscutibile, infatti, che Il demone sotto la pelle, a distanza di più di trentacinque anni dalla sua realizzazione, risulti inevitabilmente datato sia visivamente che in termini di stile e narrazione, portatore della tipica atmosfera da complotto soffocante figlia del pessimismo dei seventies segnati dal Vietnam e dalla Guerra Fredda.
Eppure, lasciando riposare il tutto e per tornare a pensarci ora, mi ritrovo ad attribuire numerosi meriti - e soprattutto riconoscere un coraggio spropositato dal punto di vista delle immagini proposte, senza dubbio sconvolgenti per l'epoca - a questo tentativo del vecchio David, ancora all'inizio della sua ricerca e sperimentazione attorno alla corruzione dei corpi e delle anime ma già clamorosamente deciso nella piega da prendere fotogramma dopo fotogramma: certo, i mezzi economici ed un cast non sempre all'altezza - resta comunque doverosa una citazione per una delle attici simbolo del "grindhouse" del tempo, Barbara Steele - non aiutano certo la visione, specialmente ad un pubblico smaliziato e glamour come quello odierno, eppure i riferimenti a quelli che furono L'invasione degli ultracorpi - Capolavoro indiscutibile di Don Siegel - o saranno i futuri Exsistenz e La mosca sono evidenti, così come la volontà dell'autore di mostrare una ricerca visivamente molto fisica ma tutta incentrata sulla profondità dell'anima e sui suoi abissi, marchio di fabbrica di quello che sarà il Cronenberg della completa maturità artistica che ancora oggi abbiamo la fortuna di ammirare.
Non mancano i richiami ad un certo Cinema politico e di sopravvivenza come quello romeriano, legati a doppio filo ad una critica sociale da sempre presente nelle opere del regista canadese, che paiono infettarci come gli schifosissimi parassiti protagonisti della pellicola ed infiltrarsi nel nostro intimo, tornando a farsi sentire a posteriori mostrando tutta la potenza di un lavoro che potrebbe correre il rischio di essere erroneamente sottovalutato ad una prima valutazione.
Certo, non mi sentirei di consigliarlo ad un non cinefilo, o a un detrattore del regista de La promessa dell'assassino, eppure mi ritrovo clamorosamente a pensare e ripensare a quanti e quali risvolti siano presenti in un'ora e mezza scarsa di un'opera assolutamente acerba e ben lontana dai Capolavori che avrebbe successivamente confezionato il suo incredibile autore: scusate se è poco.

MrFord

"But each time I do
just the thought of you
makes me stop before I begin
'cause I've got you under my skin."
U2 - "I've got you under my skin" -


sabato 24 settembre 2011

Butterfly kiss

Regia: Michael Winterbottom
Origine: Uk
Anno: 1995
Durata: 88'





La trama (con parole mie): la folle e disequilibrata Eunice, nel corso delle sue peregrinazioni omicide per le strade d'Inghilterra, conosce in una stazione di servizio la passiva e timida Miriam, dando inizio ad una storia d'amore che porta le due compagne a proseguire il viaggio e la ricerca della prima e ad un confronto tra i loro punti di vista quasi fossero l'incarnazione di bene e male in lotta per corrompersi ed influenzarsi l'un l'altro.
Così, alternando momenti di gioia e completamento ad altri di aperto conflitto, sangue e morte, le due parti della coppia giungono ad un faccia a faccia con se stesse e l'altra unendo all'amore il sacrificio.



Questo Free drink è per Ciku.

A volte esistono film completamente imperfetti, assolutamente frammentari, a loro modo anche un pò pretenziosi in grado, comunque, di riuscire a pizzicare le corde giuste nel cuore dell'audience grazie ad un contenuto che, più che mancare, tende a perdersi in un'esecuzione non sempre convincente.
Butterfly kiss è senza dubbio un esempio clamorosamente calzante della categoria, e a rappresentarlo in questo senso troviamo le sue protagoniste: da un lato Amanda Plummer, eccessiva e sopra le righe come quasi sempre nel corso della sua carriera, esagerata e così oltre da far apparire la Charlize Theron di Monster - titolo quasi "gemello" di questa pellicola d'esordio di Michael Winterbottom - una sorta di Madre Teresa con il risultato di procurare una discreta irritazione anche negli spettatori più favorevolmente propensi a concederle il beneficio del dubbio, e dall'altro Saskia Reeves, strepitosa controparte "passiva" della Plummer, camaleontica ed intensa sia nel presente che nel passato della narrazione.
Lo stesso Winterbottom pare essere fortemente influenzato dalle sue protagoniste, alternando momenti decisamente ispirati - le corse sulla spiaggia, l'incontro con il camionista Robert - ad altri in cui domina l'impressione che il tutto non sia altro che un gioco futile volto ad impressionare lo spettatore, peraltro senza riuscirci completamente - l'incontro con il venditore porta a porta - : a tenere a galla l'intero impianto narrativo e legati alla visione gli spettatori è la coinvolgente riflessione sulle dinamiche di un rapporto di coppia - che sia estremizzato, come in questo caso, oppure no, poco importa -, dei ruoli di dominante e dominato - ma chi ha davvero il potere, in fondo? L'esplosiva Eunice che grida ordini o la timida Miriam, che ha in mano tutto ciò che può dare pace alla compagna? - e del ruolo del concetto di sacrificio in amore, sia esso un gesto del quotidiano atto a mantenere gli equilibri o qualcosa di estremo, unico, legato a doppio filo ai massimi sistemi, in grado di consacrare per sempre una coppia ed il suo destino.
Da questo punto di vista Butterfly kiss rappresenta un più che discreto esordio per un regista che, negli anni successivi, avrebbe mantenuto la stessa instabilità delle sue antieroine, nonchè un esempio sicuramente efficace di Cinema autoriale in grado di parlare, grazie ad un linguaggio comunque popolare che passa attraverso sentimenti "di pancia", potenzialmente ad ogni tipo di pubblico.
Certo, non stiamo parlando delle vette - e degli estremi di radicalchicchismo - dei fratelli Dardenne, ma certo quest'opera prima non sfigurerebbe troppo accanto alle pellicole più sociali di Ken Loach o agli esempi "on the road" del primo Frears o del recente, meraviglioso, This is England.

MrFord

"Why is the bedroom so cold?
You've turned away on your side.
Is my timing that flawed?
Our respect runs so dry.
Yet there's still this appeal
That we've kept through our lives."
Joy Division - "Love will tear us apart" -

venerdì 23 settembre 2011

Funny people

Regia: Judd Apatow
Origine: Usa
Anno: 2009
Durata: 146'







La trama (con parole mie): George Simmons è un comico all'apice del successo, protagonista di film demenziali dagli incassi record ed idolo delle folle. Soffre anche di una rarissima forma di leucemia che lo rende un malato terminale all'ultima spiaggia, costretto a tentare la via delle medicine sperimentali.
Ira Wright è un giovane comico in erba che divide l'appartamento con i due aspiranti attori Leo e Mark, lavora in una rosticceria e si accontenta di qualche serata di cabaret per pochi spiccioli se va bene.
Quando, proprio in una di queste occasioni, i due si incontrano, George comincia a mostrare interesse per Ira, che di colpo si ritrova assistente ed unico confessore della star, che pare quasi prepararlo a raccogliere il testimone: ma proprio quando le speranze paiono affievolirsi, la malattia regredisce, e George, da uomo alla fine del suo spettacolo pronto ad aprirsi ai sentimenti torna ad essere lo squalo di sempre. O quasi.


Che Apatow ci sapesse fare è stato chiaro, dalle parti di casa Ford, fin dalla mitica prima visione di Suxbad - muchas gracias, Dembo! -: il buon Judd, che non è un regista o uno sceneggiatore da strapparsi i capelli, è riuscito, nel tempo, non solo a reinventare in una certa forma la commedia in pieno stile anni ottanta mixando alla perfezione volgarità e sentimenti, ma ha contribuito a creare un vero e proprio genere, uno stile, una scuderia di attori ormai indissolubilmente legati al suo nome e all'approccio ad un tempo scanzonato e malinconico dei suoi lavori.
Funny people danzava da un pò di tempo nella cartella dei film in attesa di visione ma, complice una durata insolita per il genere e pellicole più recenti passate avanti nella lista delle visioni spinte dalla curiosità, non aveva avuto troppa fortuna nello sgomitare per uno dei posti più al sole: eppure, posso senza indugi affermare che si tratti di uno dei lavori senz'altro più maturi del regista/sceneggiatore/produttore, che diverte e si diverte senza rinunciare ad un certa dose di coraggio - temi come la malattia ed il rapporto con la famiglia, un protagonista per nulla positivo, o almeno non del tutto, e non ultima la suddetta durata potevano minare la fiducia del suo pubblico di affezionatissimi cazzoni pronti a godersi l'ennesima sequela di risate senza troppi pensieri - e costruendo quella che, a tutti gli effetti, può essere considerata la sua pellicola più "classica".
Il rapporto tra Ira e George, fatto di vicinanza e sopportazione, amicizia e colpi bassi, è descritto quanto più umanamente possibile, ed appare realistico in quasi tutta la sua evoluzione, legandosi a doppio filo al tema della "fratellanza" tanto caro ad Apatow e al suo entourage: la visione di Ira del mondo dorato della star, inoltre, risulta credibile ed assolutamente empatica con il pubblico "normale", di pancia quanto basta per compensare qualche sbaglio e tremendamente sincera nel rispetto dei punti di vista che assumono le persone comuni rispetto a chi è stato investito dal successo - a prescindere dal talento o dalle vicissitudini personali -.
Questione di invidia? Sicuramente in parte.
Di capacità di gestire i sentimenti? Senza dubbio.
Di soldi? Non c'è neppure da chiederlo.
Eppure, a fronte di roba grossa come la malattia o l'amore, la famiglia o la responsabilità, il divario sociale ed economico scompare, e ci ricorda di quanto, in realtà, si sia tutti clamorosamente simili, con i nostri piccoli e grandi egoismi, le colpe, i difetti, la voglia di riscatto e redenzione che finisce nel momento stesso in cui le cose si mettono bene, ma anche la presenza, lo stare ad aspettare che una persona si addormenti, il fatto di essere sempre al proprio posto, anche quando si vorrebbe prendere a bottigliate chi abbiamo di fronte, anche e soprattutto perchè gli vogliamo bene.
Dunque forse le star resteranno le star, i George continueranno a scopare ragazze soltanto perchè le stesse possano raccontare alle amiche di averlo fatto e gli Ira resteranno gli Ira, dietro il bancone di una rosticceria sempre in attesa di una grande occasione che non arriverà, almeno non nella forma che si aspetterebbero: eppure, di fronte alle questioni importanti della vita - e ridere lo è di certo -, ci si ritroverà sempre uno di fronte all'altro, inesorabilmente sullo stesso piano di Uomini.
Apatow, questo, pare saperlo bene, ed applicarlo altrettanto al suo modo di fare Cinema, e Adam Sandler - ottimo, curiosamente -, Seth Rogen - che continuo a preferire nella versione grassoccia di Zack&Miri - ed Eric Bana - esilarante il suo ruolo di marito australiano pronto a sfoderare i muscoli per difendere il suo rapporto di coppia - traducono al meglio questa sorta di stato di coscienza.
Per essere una semplice commedia da cazzoni, direi che non è niente affatto male.

MrFord

"Funny the way it is 
if you think about it
somebody’s going hungry and someone else is eating out
funny the way it is
not right or wrong
somebody’s heart is broken and it becomes your favorite song."
Dave Matthews Band - "Funny the way it is" -

giovedì 22 settembre 2011

Nord

Regia: Rune Denstad Langlo
Origine: Norvegia
Anno: 2009
Durata: 78'







La trama (con parole mie): Jomar, ex promessa dello sci crollato sotto il peso di un esaurimento nervoso, lavora svogliatamente come guardiano in un impianto quasi abbandonato, sperando sempre di poter convincere la direttrice della clinica psichiatrica locale a ricoverarlo. 
Quando il suo ex migliore amico torna a cercarlo, Jomar scopre di essere padre di una bambina di quattro anni che vive nell'estremo Nord del paese, e così, pur se riluttante, decide di mettersi in viaggio a bordo della sua motoslitta per incontrare la piccola.
Attraverso gli scenari quasi incantati dominati dalla neve il giovane incontrerà personaggi curiosi e malinconici come lui, riscoprendo l'avventura di un vero e proprio - pur se insolito - road movie.



Fin dai tempi del mio primo post, e come ormai tutti voi avete imparato a conoscere, sono stato uno strenuo difensore del panesalamismo cinematografico e non solo in opposizione all'atteggiamento spesso spocchioso ed irritante di chi vive praticamente in simbiosi con il solo Cinema autoriale, e guarda tutti gli altri poveri stronzi sempre un pò dall'alto in basso.
Ho anche ammesso in più di un'occasione che il mio approccio attuale, frutto certo delle esperienze di vita vissuta e non solo di visioni, nasce dal fatto che qualche anno fa, ai tempi dell'esplosione vera e propria della mia passione per il Cinema, ho vissuto un paio di stagioni da "sbruffone che se ne intende di Cinema al contrario di tutti voi che andate a vedere il blockbuster da sabato sera, poveri rincoglioniti" in cui riuscivo - complici gli impegni lavorativi meno pressanti - a schiaffarmi anche tre o quattro mattonazzi sconosciuti al giorno senza battere ciglio, a volte addirittura alzandomi la mattina presto per spararmi il film russo di turno prima di andare in negozio.
Fortunatamente, sono uscito da un vortice che mi avrebbe privato di tutta una serie di visioni necessarie - fosse anche solo al divertimento e alla distensione -, senza contare il fatto che sono ormai convinto che chi ama il Cinema lo ama indiscutibilmente in toto, a prescindere dai generi e dall'autorialità in senso "alto" del termine - con alcune eccezioni, ovviamente, ma per questo esistono le bottigliate! -.
Ma perchè mai mi sto dilungando in questa sorta di manifesto programmatico?
Semplicemente perchè Nord, che è indiscutibilmente, clamorosamente, inesorabilmente autoriale dall'inizio alla fine, esponente della tipica categoria dei "film da Festival" con pochi dialoghi, atmosfere grottesche, inquadrature ricercate e certamente non costruito per piacere al grande pubblico, risulta essere un'opera cui mi pare davvero difficile non voler bene.
Certo, è evidente fin dal principio quanto lo script sia poco importante per il regista - ex documentarista concentrato principalmente sull'immagine e sull'idea del viaggio - e risulti in qualche modo estremamente convenzionale, malgrado i bizzarri personaggi che lo popolano, ed altrettanto evidente appare la sterilità di alcune situazioni, completamente al servizio dell'aspetto visivo e della colonna sonora - magnifica, ad opera degli altrettanto incredibili Motorpsycho in una delle loro identità alternative -, ma poco importa.
Sarà che da sempre sono affascinato dal viaggio - come concetto ed esperienza -, o che il protagonista Jomar conquista subito grazie alla sua involontaria piromania - impagabile la sequenza del rifugio in cui trova riparo dalla tormenta di neve -, ma questo piccolo film che da alcuni è stato esageratamente paragonato al meraviglioso Una storia vera di David Lynch è riuscito a farsi strada nel mio cuore quasi come se non fosse l'odioso prodotto da cineforum che, a ben guardare, indiscutibilmente è.
I personaggi incontrati dal protagonista lungo la strada, persi in quel candore splendido e terribile, a metà strada tra la follia e le magiche atmosfere che in passato hanno illuminato il Maestro Bergman, o "tra il nulla e l'addio", come direbbe Clint, più che apparire distanti ed "altolocati" come i radical chic cinematografici vorrebbero, si mostrano estremamente umani, e clamorosamente vicini allo spettatore proprio nella loro condizione di entità smarrite, perennemente alla ricerca di qualcosa - o qualcuno - che dia il significato che cercano alla vita.
Così, alternando l'ottimo confronto con il vecchio nella tenda alla sbronza "in fieri" a suon di capelli rasati ed assorbenti interni imbevuti d'alcool legati attorno alla testa secondo "le indicazioni di un polacco" culminata con l'esibizione dei passati talenti del protagonista come professionista dello sci - un momento quasi alla Jackass, grottesco ed esilarante -, Jomar ci conduce, non proprio per mano, attraverso un deserto algido ed accecante, all'incontro che potrebbe cambiare la sua vita: senza neppure rendersi conto che il cambiamento potrebbe già essere giunto attraverso il viaggio stesso.

MrFord

"Have you seen the North
that cold grey place
don't want its shadow anymore
on my face."
Elton John - "The North" -

mercoledì 21 settembre 2011

Tenacious D e il destino del rock

Regia: Liam Lynch
Origine: Usa
Anno: 2006
Durata: 93'



La trama (con parole mie): JB fin da bambino è stato un fanatico del rock allo stato puro, tanto da essere vessato dai religiosissimi e puritani genitori e fuggire di casa alla ricerca della Hollywood ispiratagli da Ronnie James Dio in persona.
Dopo lunghe peregrinazioni attraverso tutte le Hollywood degli States, il giovane giunge in California ed incontra fortuitamente KG, chitarrista mammone e squattrinato con il quale capisce immediatamente di avere un destino in comune: i due, superate le prime divergenze, decidono di mettere in piedi una band e andare alla ricerca del segreto del successo di ogni grande rockstar planetaria, un antico artefatto che si dice essere stato costruito partendo da uno dei canini del Diavolo in persona.
Questo artefatto è il plettro del destino.



Qualche tempo fa, a seguito di una discussione tra i commenti, ho preso l'impegno di essere arbitro di una questione in sospeso tra la tagliente Ciku ed il sorprendente Pesa a proposito di Tenacious D e il destino del rock, film di culto per quasi una generazione di metallari e rockettari di tutto il mondo.
E che posso dire, a visione avvenuta, a proposito di questa pellicola!?
Ok, il rock è forte, il rock è tosto, io amo il rock.
Ok, anche Jack Black è - o sarebbe meglio dire era - forte, Jack Black canta molto bene, Jack Black cerca a tutti i costi di apparire simpatico.
Ok, Kyle Gass suona molto bene, Kyle Gass cerca di stare al passo di Jack Black, Kyle Gass è quello che si potrebbe definire lo "sfigato orsacchiotto" che dovrebbe portare il pubblico dalla parte dei protagonisti.
Ok, c'è Ronnie James Dio - che Dio l'abbia in gloria -, e la parte in stile musical in apertura ambientata nella casa del piccolo JB è mitica.
Ok, ci sono poster di grandissime band che ricordano a tutti quanto è stato grande - ed è ancora, pur se con nomi certo meno importanti - il rock per la Storia della musica e non solo.
Ok tante cose.
Ma posso dirlo, caro Pesa?
Tenacious D e il destino del rock è proprio un film di bassa, bassissima lega.
Battute stanche, protagonisti mai davvero simpatici - mi hanno fatto venire in mente quegli sfigati da rabbia repressa che vorrebbero che la loro invidia verso il mondo non trasparisse così clamorosamente -, regia e comparto tecnico pessimi: a poco serve l'abilità di musicisti di Jack Black e Kyle Gass a sopperire ad una montagna di limiti così enorme.
Qualche risata potrà anche farsi, ma dai tempi di Alta fedeltà e School of rock - certo, Frears e Linklater non sono Liam Lynch, che a sua volta non è certo David - il buon Jack Black pare essere diventato la brutta, bruttissima copia di se stesso, finendo come il De Niro dalla paresi facciale degli ultimi anni senza avere alle spalle nemmeno un briciolo dello spessore del Robert scorsesiano e non solo.
E se ad alcune sequenze si può passare sopra quasi per compassione - tutta la parte legata al passato di KG -, altre, come il trip da funghi di JB ed il conseguente excursus in un mondo in stile Teletubbies propinato come se si volesse ricordare Il grande Lebowski ed i "viaggi" del Drugo o l'assalto al museo per recuperare il plettro sono davvero il peggio che ha da offrire il fondo raschiato del barile.
Ricordando Funny people, mi viene da pensare al momento in cui Adam Sandler consiglia a Seth Rogen di evitare di concentrare le sue battute su scoregge e visione pessimistica di se stesso, perchè in quel modo non troverà mai neanche una ragazza con cui scopare.
Ecco, se penso a Liam Lynch e ai Tenacious D - e sto sorvolando sull'incontro con la versione metal di Tim Robbins, inguardabile, e con il Diavolo in persona, ancora più inguardabile -, penso che la bravura con la chitarra sia uscita fuori da un costante esercizio delle mani.
Perchè altre possibilità "al femminile" mi paiono, a vedere questa roba, ben oltre la loro portata.
MrFord

"Have I fallen too far to rise
been burning too long in the fire
then it all falls down 
tearing the night away."
Ronnie James Dio - "Fever dreams" -


martedì 20 settembre 2011

Bad teacher

Regia: Jake Kasdan
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 92'


La trama (con parole mie): Elizabeth è un'insegnante alla strenua ricerca di un buon partito da sposare per sistemarsi, godersi vizi e vestiti ed avere come principale preoccupazione il massimale della carta di credito del malcapitato consorte. 
Quando pare sia ad un passo da mettere nel sacco la sua vittima sacrificale, però, il suo fidanzamento viene rotto, e la donna è costretta a tornare tra i banchi di scuola: così, in piena lotta con la perfezionista collega Amy, dovrà battersi per avere il predominio sul corpo insegnanti e sul preside, guadagnare quello che le servirebbe per operarsi al seno, trovare l'uomo della sua vita e capire cosa davvero potrebbe essere importante per lei.
Il tutto, ovviamente, seguendo strade non sempre alla luce del sole.



La commedia made in Usa, sempre più influenzata dal successo di Kevin Smith e, soprattutto, Judd Apatow, negli ultimi anni pare aver virato con decisione verso la demenzialità al limite e puntato su protagonisti non sempre "di bucato" come se fossimo ancora negli anni cinquanta o nel più smielato dei film Disney: eppure, così come accade parallelamente per l'horror, in un vero e proprio oceano di proposte e visioni, sono poche quelle che riescono a presentare idee originali e divertire il pubblico senza che le trovate più "di pancia" risultino solo volgari, invece che clamorosamente divertenti.
Senza troppi dubbi, posso affermare che Bad teacher non appartiene certo alla categoria dei più stupefacenti film di questo genere, e certo è ben distante dalle produzioni migliori di Smith ed Apatow, pur scorrendo e strappando qualche risata senza essere bottigliato selvaggiamente come la peggiore delle pellicole.
Certo, se l'ottima Lucy Punch non fosse della partita e Cameron Diaz difettasse in autoironia il tutto risulterebbe certamente più scialbo, dunque non abbiamo che da ringraziare e pensare di dedicare all'opera di Jack Kasdan - ben lontano dagli standard paterni - una serata con il minor numero di pretese possibili, se possibile in compagnia femminile in modo da poter trovare un punto d'incontro nei gusti e nelle personalità - che siate più simili all'accoppiata dei perfettini Squirrel/Delacorte o ai panesalamissimi Elizabeth e Russell poco importa - e, chissà, chiudere in bellezza la nottata, in barba ad una visione certo non memorabile.
Tornando al cast, una menzione va certo spesa per Justin Timberlake - che, continuo a pensarlo, come attore è sicuramente più interessante che come musicista -, in grado di dare corpo ad un personaggio che pare una versione irritante e priva di carattere del Will Shuester di Glee.
Poco resta da dire a proposito dello script e del film stesso, che riprende in una versione sporca il filo conduttore delle zuccherose commedie che sul finire degli anni ottanta diedero origine ad un vero e proprio fenomeno assolutamente simile a quello che ora si cavalca in sala con l'Apatow-style, ovvero "un buon prodotto ogni dieci tentativi (se va bene)": molto meglio, dovendo fare confronti recenti, Le amiche della sposa, sicuramente meno politicamente corretto, più divertente e tagliente nella sua visione "in rosa" del mondo.
Vanno segnalate, giusto per non essere troppo cattivi, una colonna sonora discreta ed una riflessione che nasce rispetto alla scorrettissima protagonista, che spesso e volentieri giunge al successo attraverso giochi sporchi che, in una condizione di realtà, provocherebbero certo un odio immediato - e valanghe di bottigliate - rispetto ad una vera e propria arrampicatrice in grado di giungere furbescamente in cima approfittando di scorrettezze così plateali da risultare quasi incredibili.
Ma, giusto per non essere troppo buoni, di Bad teacher restano soltanto, a ben guardare, i tentativi fallimentari di Lucy Punch di affermarsi sulla rivale, la natura doppiogiochista e la faccia da culo - come si diceva poco sopra - della Diaz ed almeno un paio di sequenze tranquillamente in grado di strappare più di una risata - le pallonate da apprendimento ed il petting selvaggio con Timberlake -, degne di una pellicola decisamente migliore di quella firmata dal Kasdan "minore", in tutti i sensi.


MrFord

"Gotta break it loose
gonna keep 'em movin' wild
gonna keep a swingin' baby
I'm a real wild child."
Iggy Pop - "Real wild child" -

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