sabato 31 maggio 2014

Trappola in alto mare

Regia: Andrew Davis
Origine: USA, Francia
Anno: 1992
Durata: 103'




La trama (con parole mie): Casey Ryback, un ex seal improvvisatosi cuoco a bordo della storica corazzata Missouri, si trova coinvolto nell'attacco che un gruppo di terroristi guidati dall'ex agente dei servizi segreti Stranix ha organizzato in modo da impadronirsi dei missili a testate nucleari presenti a bordo e pronti per essere smantellati secondo gli accordi internazionali.
Con la complicità del comandante in seconda Krill, gli uomini di Stranix paiono avere completamente sotto controllo la situazione, riuscendo a tenere in scacco perfino lo Stato Maggiore degli USA: nel momento in cui Ryback scenderà in campo, però, la geografia dello scontro cambierà improvvisamente aspetto.
Il "cuoco", dunque, si renderà protagonista di una riscossa a suon di botte e proiettili che archivierà la minaccia ripristinando l'ordine costituito.






Non troppo tempo fa, in occasione del post dedicato alla collana curata da La Gazzetta dello sport dedicata alle gesta di Steven Seagal, uno degli eroi action più sopra le righe degli anni ottanta e novanta, approfittai per recuperare i dvd di due dei titoli di maggior successo con protagonista il ben poco espressivo esperto di arti marziali, Trappola in alto mare ed il suo sequel, Trappola sulle Montagne Rocciose.
Idolo assoluto di mio padre per quanto riguarda le visioni da cervello spento e spesso e volentieri ridicolizzato perfino da un action addicted e tamarro senza ritegno come il sottoscritto, il realtà il corpulento Steven ha finito per essere protagonista, a cavallo tra gli ultimi scampoli di eighties ed i primi ruggiti dei nineties, di pellicole di genere decisamente divertenti che ebbero anche un discreto successo al botteghino, consegnandolo all'Olimpo dei volti dei film di botte senza se e senza ma.
Del novero fa parte senza dubbio Trappola in alto mare, classico filmaccio buzzurro dell'epoca che vede buoni e cattivi tagliati con l'accetta affrontarsi colpo su colpo dall'inizio alla fine grazie ad uno script che più elementare non si potrebbe ed un cast che vede all'opera caratteristi rimasti tali, attori consumati - Garey Busey - e future star anche del Cinema "alto" - Tommy Lee Jones -: esplosioni, lanci di coltelli, gran legnate e proiettili, poi, preparano una cornice da grandi occasioni per un titolo che ricorda, nella sua costruzione, cose decisamente più interessanti come il primo Die Hard nello svolgimento e nella struttura.
Considerate le agghiaccianti esperienze recenti con il Seagal di cose terribili come Killing Point - geniale nella sua disarmante bruttezza -, non mi aspettavo di divertirmi così tanto in un recupero di un suo successo d'annata, impreziosito da alcune evoluzioni del protagonista con il coltello alla mano - legate, presumibilmente, alla sua esperienza nel combattimento corpo a corpo - e dalla presenza della notevole Erika Eleniak, che gli adolescenti di allora ricorderanno in Baywatch, protagonista di almeno un paio di topless che devono aver reso felice il pubblico in piena pubertà ai tempi dell'uscita in sala.
Prodotti come questo, senza alcuna pretesa eppure clamorosamente efficaci nel loro essere di grana grossa, restano il simbolo di un'epoca purtroppo tramontata, e finiscono per mancare come l'aria oggi, in un momento storico della settima arte in cui perfino i film di botte manifestano ambizioni troppo alte e si affidano a minutaggi da record, sfiancando lo spettatore che ai tempi dei Trappola in alto mare finiva per non rendersi neppure conto di quell'ora e mezza o poco più che volavano grazie alle improbabili imprese di spaccaculi capaci di far apparire gente come Jack Bauer agnellini pronti per i cartoni animati del primo pomeriggio.
Un successo, dunque, per Steven Seagal, che finisce per preparare alla grande il terreno per il successivo e già citato Trappola sulle montagne rocciose e stimola la curiosità del sottoscritto rispetto al recupero di altre due chicche della sua carriera, Nico e Duro da uccidere.
E' in corso una almeno parziale rivalutazione del parruccatissimo Stevenone?
Solo il tempo lo potrà dire.
Di sicuro, di trappole come queste, al Saloon vorremmo vederne molto più spesso.



MrFord



"If I'm butter - if I'm butter- 
if I'm butter, then he's a hot knife, 
he makes my heart a cinemascope, 
he's showing the dancing bird of paradise."
Fiona Apple - "Hot knife" - 




venerdì 30 maggio 2014

La mafia uccide solo d'estate

Regia: Pif
Origine: Italia
Anno: 2013
Durata: 90'





La trama (con parole mie): Arturo, un ragazzino che vive nel cuore di Palermo, attraversa le tappe fondamentali della crescita - il rapporto con i genitori, la scuola, il primo amore - sotto il segno degli omicidi che la Mafia ordinò ed eseguì nel ventennio che corse tra l'inizio degli anni settanta e dei novanta, che culminò con le stragi che portarono alla morte i giudici Falcone e Borsellino.
Il sentimento per Flora, dai banchi di scuola all'impegno lavorativo, sviluppato accanto ai sogni di una carriera giornalistica, porteranno Arturo a sfiorare e vivere sulla pelle anche una delle stagioni più sanguinose e terribili della nostra Storia, figlia di governi dal silenzio assenso e di atti barbari compiuti per le strade.
Riuscirà il ragazzo, cresciuto e pronto a non arrendersi, a raggiungere i suoi obiettivi? Il cuore di Flora ed una nuova vita a Palermo rimarranno miraggi o diverranno possibilità concrete?







Ricordo ormai vagamente, e me ne dispiaccio, la stagione del terrore del millenovecentonovantadue: ero ancora un bambino, preso dall'inizio della quasi adolescenza e dalla recita in teatro che portammo in scena con la scuola proprio alla fine di maggio, nei giorni appena precedenti la morte di uno dei più grandi eroi della Storia Italiana, Giovanni Falcone.
Non passarono neppure due mesi, e toccò al suo amico e collega Paolo Borsellino: ero in montagna con i miei e mio nonno, e l'avvenimento mi parve lontano, incredibile, cinematografico, distante anni luce da quella che era la quotidianità di un quasi tredicenne milanese.
Soltanto tempo dopo mi accorsi dell'importanza che quegli eventi e le persone che avevano perso la vita negli stessi - non dimentichiamo le scorte, come giustamente non dimentica Pif - ebbero nel panorama non solo del Bel Paese, ma internazionale.
E come, fin dai tempi di Dalla Chiesa, fossimo tutti coinvolti in quello che accadde a Palermo, in Sicilia e a Roma: gli anni del terrore furono e rimangono una ferita aperta per l'Italia, il segno di tempi che dovevano e dovranno continuare a cambiare, a partire dagli esponenti politici fino ad arrivare ai criminali di strada.
Ma non voglio perdermi in un pistolotto retorico, pensando a La mafia uccide solo d'estate: in fondo, l'ironia e l'intelligenza - e di nuovo chiamo in causa il regista - sono strumenti decisamente più utili, in alcuni casi.
Certo, l'esordio cinematografico di Pif, ex Iena ed ottimo conduttore de Il testimone, non è esente da difetti, dalla recitazione alla scelta di un ibrido tra fiction e documentario, e sfrutta in parte il ritorno emotivo dell'indignazione che ancora oggi, a distanza di vent'anni e più, si prova rispetto a tutto quello che portò ai massacri di quel periodo, dalle indicazioni di Totò Riina al silenzio assenso della classe politica - neanche fossimo tornati all'epoca di Aldo Moro -.
Eppure il lavoro di Pierfrancesco Diliberto è di quelli venuti dal cuore e dalla pancia, che qui al Saloon godranno sempre e comunque di stima, pur se non riusciti e confezionati come un qualche grande cosiddetto Capolavoro del Cinema d'autore: il mosaico che il buon Pif confeziona, a partire da una rappresentazione che mescola Ovosodo a E' stato il figlio per giungere all'inchiesta di In un altro paese - splendido documentario che raccontò proprio l'escalation che condusse alla morte di Falcone e Borsellino -, funziona e coinvolge, risvegliando anche nel pubblico non solo una certa dose di coscienza sociale e politica, ma anche e soprattutto la sensazione di appartenere ad un luogo e alla sua cultura, sia essa bagnata di sangue, oppure no.
Personalmente, non credo avrei mai avuto la forza di fare ciò che hanno fatto persone come Falcone e Borsellino: sono un individuo dedito all'istintività, e senza dubbio la mia indole è più egoista ed oscura, che non onesta e votata al sacrificio.
Eppure non posso rimanere indifferente di fronte alla forza di chi si è opposto fino alla fine ad un corso delle cose che pareva non si potesse cambiare, ed ha continuato per la sua strada: e credo che, in una situazione estrema come quelle che si sono vissute in Sicilia in quegli anni, avrei finito per essere ammazzato anche io, troppo lontano dal silenzio che certa gente - seduta in Parlamento o in un'aula di tribunale come imputata - continua a sponsorizzare.
E continuo a pensare, come racconta Pif nel finale, che sia un'importante responsabilità, quella di mostrare ai nostri figli cos'è accaduto, e dare loro gli strumenti affinchè possano, in futuro, avere la possibilità di scegliere se vivere con la bocca cucita o alzare la mano e dire la loro.
Anche a costo di pagarne il prezzo.
In fondo, è quello che facciamo anche noi tutti, qui, scrivendo ogni giorno.
E quello che hanno fatto, in misura enormemente maggiore, Falcone e Borsellino.
Gli uomini e le donne che erano al loro fianco, e quelli che li hanno preceduti.
Pif non avrà portato sullo schermo un film perfetto, ma ha trovato il modo migliore per risvegliare i miei ricordi ed i sentimenti rispetto a tante cose.
E per questo va ringraziato anche lui.



MrFord



P. S. Questo post è dedicato ad Agnese, alla quale non avrò la possibilità e la responsabilità di insegnare ad alzare la mano e dire la sua, ma che non dimenticherò - e non dimenticheremo - mai.



"Quanti giardini di aranci e limoni
balconi traboccanti di gerani
per Pasqua oppure quando ci si sposa
usiamo per lavarci
petali di rose
e le lucertole attraversano la strada
com'è diverso e uguale
il loro mondo dal mio.
Vivere più a sud
per trovare la mia stella
e i cieli e i mari
prima dov'ero."
Franco Battiato - "Giubbe rosse" -





giovedì 29 maggio 2014

Thursday's child

La trama (con parole mie): per la prima volta da settimane in sala giunge un film valido, ed ecco che, giusto per fare un dispetto al sottoscritto e al suo rivale Cannibal Kid, scomodo co-autore di questa rubrica, si tratta di un titolo che entrambi noi abbiamo già visto e recensito.
Almeno potrò gustarmi l'ennesima tamarrata con l'eternamente giovane Tom Cruise, alla facciazza di quel radical del mio antagonista.


"Cannibal, io sono Dom Hemingway, e tu sei un pusillanime."

Maleficent



Cannibal dice: Per un film con Angelina Jolie protagonista assoluta, e pure una produzione Disney, sono già pronto a tirare fuori il mio lato più Maleficent. Manco mi trovassi a dover fronteggiare l’ormai sempre più innocuo Mr. Ford dei tempi migliori.
Ford dice: Angelina Jolie + inutile ripresa stile Once upon a time di un personaggio che stava bene nel Classico Disney e soltanto lì. Direi che si prospetta una visione degna dei Ford Awards dedicati al peggio dell'anno.

"Cannibal, vedi di tacere. O ti mando Tom Hanks a casa."

Edge of Tomorrow – Senza domani


Cannibal dice: Tom Cruise prova a risollevare la sua carriera ultimamente un pochetto spenta con un action fantascientifico fracassone che si preannuncia come la più classica delle abominevoli fordianate. Più che senza domani, si può anche stare senza questo film.
Ford dice: Tom Cruise + film futuribile e tamarro per la tipica visione fordiana da neuroni spenti. Sono già molto, molto felice. Anche perchè ho come l'impressione che al mio antagonista farà venire una crisi cardiorespiratoria.

"Peppa Kid, per te non ci sarà un tomorrow."

Dom Hemingway


Cannibal dice: Ooh, finalmente un bel film! E in grado di mettere d’accordo me e Ford! E a Ford è persino piaciuto più che a me! E qui potete recuperare la mia recensione! http://pensiericannibali.blogspot.it/2014/04/dom-hemingway-lo-scazzinatore.html
E perché non la smetto di urlare frasi con il punto esclamativo come un isterico?!?
Ford dice: questo sì, che è un cazzo di film. Che, tra le altre cose, è riuscito a mettere d'accordo perfino i due (ex) antagonisti della blogosfera.
Correte a vederlo, e se volete, prima leggetevi la mia recensione, senza dubbio migliore di quella del mio rivale: http://whiterussiancinema.blogspot.it/2014/04/dom-hemingway.html.

"Se quello è il famigerato Cannibal Kid, allora le donne me le porto a casa io: lui non saprebbe che farsene!"

Pane e burlesque


Cannibal dice: Versione al femminile e terrona di Full Monty, dal trailer non sembra nemmeno troppo terribile. E la visione di una Laura Chiatti che fa burlesque poi non la escluderei del tutto…
Ford dice: visione agghiacciante tipica delle proposte purtroppo non solo italiote, ma anche di questo periodo decisamente fiacco in sala. Passo la palla al mio rivale, sperando che possa davvero essere una roba inguardabile e pesantissima.

"Dobbiamo davvero esibirci per quei due bloggers!? Mi passa tutta la poesia!"

Bologna 2 agosto… I giorni della collera


Cannibal dice: Film sulla strage di Bologna del 1980 che pare interessante come ricostruzione storica, molto meno a livello cinematografico. Mi sa che passo, riservando tutta la mia collera contro Ford!
Ford dice: per quanto si parli di uno degli avvenimenti più importanti e sconvolgenti della storia recente del nostro paese, al momento, ed in vista dell'estate, mi piacerebbe concentrarmi su proposte più fracassone, o anche semplicemente interessanti a livello cinematografico, come sempre meno accade di recente.

Cannibal e Ford intenti a sabotare la prima dell'ennesimo film italiano.

Goool!


Cannibal dice: Pellicoletta d’animazione che sono sicuro Ford non si perderà, d’altra parte WhiteRussian negli ultimi tempi parla più di film per bambini che action con eroi degli anni ’80. E non so cosa sia peggio…
In più si tratta di una pellicola a tematica calcistica e, il mitico L’allenatore nel pallone a parte, di solito ciò è sinonimo di porcheria. Il regista però è Juan José Campanella dello splendido Il segreto dei suoi occhi… ma che davvero?
Ford dice: Campanella e Il segreto dei suoi occhi convincono eccome, ma la campagna pubblicitaria massiva di questo Goool e quello che ho intravisto mi fa pensare alla tipica bambinata come di recente sono stati i deludentissimi Mr. Peabody & Sherman - http://whiterussiancinema.blogspot.it/2014/04/mr-peabody.html - e Operazione noccioline - http://whiterussiancinema.blogspot.it/2014/05/operazione-noccioline-nut-job.html -. Dunque, per il momento rimanderò.

Ford - l'ultimo da sinistra - e Cannibal - accanto a lui - non sono per nulla felici di essere nella stessa squadra.

In ordine di sparizione


Cannibal dice: Co-produzione Norvegia + Svezia che potrebbe non essere malaccio, considerando come il cinema nordico di recente mi abbia regalato buone soddisfazioni, e con in più protagonista il pupillo vontrieriano Stellan Skarsgard. Se WhiteRussian è un blog che merita un ordine di sparizione, questo film sembra invece meritare una visione.
Ford dice: ormai, quando si parla di Norvegia, per quanto mi riguarda, si sfonda una porta aperta. Dunque questo In ordine di sparizione assume da subito i connotati della potenziale sorpresa della settimana. Sempre che non si riveli la solita, inutile cannibalata.

Abbattete Ford! Non gli permettete di mettersi alla guida!

Giraffada


Cannibal dice: Adesso nei cinema italiani non c’è più spazio solo per cani e porci, ma pure per le giraffate?
Ford dice: non commento neppure. Siamo assolutamente alla frutta.

Il Cucciolo Eroico e la sua nuova amichetta.

Song of Silence


Cannibal dice: Mattonazzo autoriale cinese di quelli pronti a far gridare Ford al capolavoro. E di quelli capaci di farmi gridere a Ford una marea di insulti.
Ford dice: fino a qualche settimana fa, forse, mi sarei anche mosso per recuperarlo. Dopo la delusione di Onirica - http://whiterussiancinema.blogspot.it/2014/05/onirica-field-of-dogs.html -, penso invece di averne abbastanza di presunti filmoni da sala d'essai. Potrei però propinarlo a Peppa Kid, giusto per metterlo un po’ in crisi.

"Niente male, questa hit!" "E' la nuova sigla del cartone di Peppa Kid!"

mercoledì 28 maggio 2014

Venere in pelliccia

Regia: Roman Polanski
Origine: Polonia, Francia
Anno: 2013
Durata: 96'





La trama (con parole mie): Thomas è un autore teatrale all'esordio con la regia in cerca dell'attrice protagonista per l'opera ottocentesca che ha adattato, Venere in pelliccia.
Quando, ad audizioni finite, si presenta nel teatro ormai vuoto l'aspirante Vanda, l'uomo si trova prima a respingerla professionalmente, dunque coinvolto nel tentativo di quest'ultima di convincerlo ad assegnarle la parte.
La lettura delle prime tre pagine della piece si trasforma dunque in una sorta di duello di corpi, cuori e menti dei due, in un passaggio di consegne tra dominante e dominato che parte dalla pagina scritta per sconfinare nella realtà, e divenire una riflessione ironica e profonda sul rapporto tra Uomini e Donne. Chi la spunterà?








Non era facile, per Polanski, dopo la delusione che fu per il sottoscritto Carnage, tornare a convincere. Personalmente, ho sempre trovato il lavoro del regista polacco ormai francese d'adozione stupefacente, dagli esordi fino ad oggi, fatta eccezione per l'appena citato massacro borghese newyorkese ed il deludente La nona porta: eppure, come spesso accade quando le bottigliate vengono stuzzicate, pur non raggiungendo i livelli del passato o millantati dalle recensioni lusinghiere lette fin dai tempi della sua uscita, Venere in pelliccia è uscito a testa alta dal Saloon.
Da questo punto di vista, dunque, il risultato ottenuto dal vecchio Roman è stato senza dubbio un successo: perchè questo lavoro è indiscutibilmente un concentrato di ironia, intelligenza, capacità di muovere la macchina da presa così come di dirigere al meglio gli attori - specie in coppia, come fu per La morte e la fanciulla -, nonchè una riflessione colta e profonda sul confronto eterno tra Uomo e Donna, che passa dal cervello per giungere inevitabilmente alla zona sotto la cintura.
Perchè, signori e signore, non esiste pezzo d'arte, discussione, appuntamento o qualsiasi altra cosa vogliate metterci, che non coinvolga, in un modo o nell'altro, proprio le energie scaturite dal fulcro di molto più di quanto si continui a non ammettere di ogni tipo di rapporto: ed Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric portano in scena alla grande proprio questa tensione, erotica quanto cerebrale, figlia di un legame che, prima ancora delle leggende legate alla religione, da Adamo ed Eva in avanti, finisce per essere un impulso naturale.
Eppure, il lavoro di Polanski, una volta superati gli entusiasmi per il sempre stimolante "faccia a faccia" tra i sessi, non può definirsi allo stesso tempo completo, quasi parlassimo di un coito interrotto, o di un bacio rubato quando vorremmo con ogni fibra del nostro corpo finire a letto: dalla strepitosa e divertentissima parte iniziale, infatti, al finale, ad un tempo grottesco e drammatico, e clamorosamente vero - almeno per quanto riguarda l'assoluta dipendenza di noi maschietti rispetto al potere esercitato dalle signorine, pronte a rispondere, anche se si trattasse soltanto di alimentare ulteriormente la sfida, con un sonoro ed ancora più attraente "attaccati al cazzo" -, attraversiamo una lunga - troppo lunga, oserei dire, nonostante il minutaggio limitato - fase di studio e stimolo a distanza che a tratti appare fastidiosamente compiaciuta, neanche fosse una figa di legno in vena di tirarsela per bene, come diremmo noi beceri pane e salame.
La cornice da film da salotto - molto radical e molto chic -, dunque, rimane, con tutti i suoi limiti, di fatto riportando Venere in pelliccia ad un livello assolutamente discreto ma non in grado di far gridare al miracolo - da questo punto di vista, Repulsion fu un ritratto decisamente più inquietante e quasi seducente della lotta tra i sessi -, lasciando che la mia soddisfazione di vedere Polanski tornare a fare il Polanski fosse soddisfatta solo in parte, neanche mi ritrovassi ad essere il Thomas della situazione, lasciato alla mercè di un cactus reduce dalla versione musical di Ombre rosse - e rabbrividisco al solo pensiero -.
Non posso comunque lamentarmi, e non lo vorrei, anche perchè non è detto che doversi sudare qualcosa non porti ad un risultato finale ancora più sorprendente di quello che ci saremmo aspettati in principio: dunque torno a dare fiducia ad uno dei più importanti registi degli ultimi trent'anni nel convogliare velleità autoriali e capacità di narrazione ad un pubblico senza limiti di sorta o di gusto, che seppur non al meglio lascia ancora una volta intravedere tutta la sua scintillante bravura di giocoliere della tensione.
Erotica, orrorifica o semplicemente cinematografica che dir si voglia.




MrFord




"Shiny, shiny, shiny boots of leather
whiplash girlchild in the dark
comes in bells, your servant, don't forsake him
strike, dear mistress, and cure his heart."
The Velvet Underground - "Venus in furs" - 




martedì 27 maggio 2014

Onirica - Field of dogs

Regia: Lech Majewski
Origine: Polonia
Anno: 2014
Durata:
96'





La trama (con parole mie): Adam, giovane promessa della poesia, è vittima ed unico superstite di un gravissimo incidente d'auto che lo lascia segnato nel corpo e nell'anima, incapace di riprendersi davvero superando il dolore e dipendente da sogni che finiscono per sostituire la realtà, legati a rappresentazioni di opere d'arte e della Divina Commedia di Dante, un tentativo estremo della mente del ragazzo di scoprire il mistero dietro la sua permanenza sulla Terra.
E tra un giorno e l'altro di un lavoro lontano dalla sua essenza e le visite alla zia, Adam assiste inerme alle tragedie che colpiscono il suo Paese, cercando di trovare nelle stesse una risposta per i suoi drammi personali: riuscirà ad uscire dalla selva oscura e tornare a riveder le stelle?







La prima volta che lessi il nome Lech Majewski storsi il naso, in occasione dell'uscita de I colori della passione, sbirciato grazie alla rubrica settimanale che mi tocca condividere con l'antagonista di sempre Cannibal Kid: l'idea che mi feci, guardando il trailer del suddetto titolo, era dell'ennesima proposta autoriale radical a tutti i costi che una decina d'anni or sono mi avrebbe fatto impazzire, e che ora finisce per avere lo stesso effetto di una badilata di sabbia negli occhi.
Fortunatamente, dovetti ricredermi, dato che il buon Majewski seppe far coesistere una tecnica da Autore maiuscolo con la voglia di raccontare davvero a fondo una storia: apprezzai moltissimo il tentativo, promuovendolo anche in occasione dei Ford Awards di fine duemiladodici.
Dunque, all'uscita di Onirica, l'asticella delle aspettative partiva, al contrario del suo precedente, decisamente più in alto, considerati anche i riferimenti alla Divina Commedia - che ho sempre amato fin dai tempi delle superiori - che in mano ad un regista di questo tipo potevano dare voce ad uno dei titoli sulla carta più sorprendenti della stagione: peccato che, purtroppo per il sottoscritto, la visione della nuova fatica di Majewski si sia rivelata una fatica abnorme prima di tutto per il vecchio Ford, che rimbalzando tra i ritmi del lavoro, del pendolarismo e del Fordino comincia ad avere parecchie difficoltà a gestire, la sera, pellicole pronte a fare polpette delle parti basse.
E purtroppo Onirica - Field of dogs fa inesorabilmente parte della categoria: tolti, infatti, un paio di momenti interessanti - legati alla figura della zia visitata dal protagonista Adam e legati alle disquisizioni a proposito della natura della Morte e del Tempo -, il resto pare un'accozzaglia senza criterio di visioni buone giusto per essere proiettate nel soggiorno di casa Majewski ma che finiscono per avere poco senso agli occhi dello spettatore esterno al suo mondo, se non per i riferimenti alle tragedie che hanno colpito la Polonia negli ultimi anni - ricordavo la morte del Presidente in un incidente aereo, non l'alluvione - e le citazioni dell'opera di Dante, che comunque avrebbe meritato senza dubbio uno spazio maggiore, specialmente per mano di un aspirante Sokurov come il buon Lech, più che dotato quando si tratta di sfruttare al meglio la macchina da presa ed i suoi movimenti.
Peccato che, in fase di scrittura, il film latiti e non poco, assumendo le connotazioni di un unico, gigantesco, noiosissimo flusso di coscienza privo del fascino di opere come Enter the void e della capacità di ipnotizzare ed attrarre l'audience, che probabilmente tenderebbe a lasciare la sala entro i primi venti minuti, se non fosse che, di norma, per un titolo di questo genere si è già fortunati a trovare qualche altro coraggioso pronto ad affrontare la "via verso le stelle" attraverso la "selva oscura" ben rappresentata dalla confusione nelle idee e negli intenti del regista.
Senza dubbio si troverà, in rete e non, qualche accanito sostenitore del Cinema d'essai a tutti i costi pronto a difendere a spada tratta la visionarietà di questo lavoro, il suo coraggio, l'importanza data al proprio Paese, ai suoi limiti ed alle sue tragedie neanche fosse cosa viva, eppure, con tutti gli anni passati a nuotare nelle acque più profonde di questa parte della settima arte, sento il cuore in pace affermando che, in realtà, dietro operazioni di questo genere c'è ben poco cuore, o forse troppo, così tanto da non mettere in condizione il pubblico - anche quello, come il sottoscritto, disposto sulla carta ad amare un film - di godere appieno delle sensazioni che lo stesso può regalare.
Senza contare che un protagonista pronto ad ogni piè sospinto a schiacciare un pisolino non è certo d'aiuto nell'affrontare un titolo che rende la sua ora e quaranta scarsa l'equivalente di quattro abbondanti.




MrFord




"I did not believe because I could not see
though you came to me in the night
when the dawn seemed forever lost
you showed me your love in the light of the stars."
Loreena McKennitt - "Dante's prayer" -




lunedì 26 maggio 2014

La vita di Adele

Regia: Abdellatif Kechiche
Origine: Francia
Anno: 2013
Durata:
179'





La trama (con parole mie): la giovane Adele, diciassettenne di Lille, è ancora al liceo quando scopre l'attrazione per le donne, nonostante le sue prime esperienze siano con ragazzi. Quando conosce Emma, studentessa dell'Accademia di belle arti più grande di lei di qualche anno, sboccia un amore travolgente e passionale destinato ad accompagnare la crescita delle due giovani fino a quando Adele coronerà il sogno di diventare insegnante dopo l'università ed Emma riuscirà ad intraprendere con successo la carriera di pittrice.
Il tempo ed i diversi impegni, però, porteranno le due alla fine della storia, e mentre Emma riuscirà a costruirsi un nuovo inizio, per Adele continuerà ad incombere il vuoto sentimentale, sessuale ed affettivo lasciato dalla vecchia compagna.






Il blu, a quanto si legge in giro, è il colore dell'equilibrio e della tranquillità, delle passioni e dei sentimenti, così come della predisposizione ad aprirsi rispetto all'esterno accettandone i rischi.
La vita di Adele, ultima fatica di quello che, a mio parere, resta uno dei più straordinari - se non il più straordinario - regista europeo attuale, Abdellatif Kechiche, è intinto in questo splendido colore dalle punte dei capelli di Emma al vestito che indossa Adele proprio in chiusura di pellicola, lungo una strada percorsa da sola, che sia per responsabilità, colpa, destino o un tempismo mai dei migliori.
Dovendo togliermi un sassolino dalla scarpa, però, devo ammettere - ed è meglio che lo faccia subito, per evitare di ridimensionare troppo quello che è un film stupendo, giustamente premiato all'ultimo Festival di Cannes ed impreziosito da un'interpretazione doppia delle protagoniste da brividi - che in qualche modo finisce per essere un titolo parzialmente incompiuto: sarà che, nelle intenzioni del regista, il futuro dovrebbe riservare anche i capitoli tre e quattro della vita di Adele - un pò come fece Truffaut con il suo Doinel  ai tempi della Nouvelle Vague -, ma ad una prima parte ai limiti dell'incredibile e del Capolavoro, perfetta nel raccontare i piaceri ed i dolori dell'adolescenza - e legata a sequenze splendide per passione, roba da lasciare con gli occhi sbarrati e l'acquolina in bocca - segue una seconda incapace di tenerne di fatto il passo, fatta eccezione per il faccia a faccia tra Adele ed Emma nel bar e la stupenda chiusura.
Accordato questo calo di tensione, occorre ammettere che, una volta ancora, Kechiche centra il bersaglio grosso, confezionando una delle pellicole più intense, vere e sentite dello scorso anno, che se soltanto non fosse giunto al Saloon in colpevole - del sottoscritto - ritardo avrebbe raggiunto posizioni di rilievo tra i film migliori premiati negli ultimi Ford Awards: certo, non si raggiungono - almeno a caldo - le vette dello straordinario Cous cous, eppure il tocco del cineasta franco/tunisino si sente tutto, dalle inquadrature sul volto di Adele addormentata alle bollenti scene di sesso che vedono coinvolte le due giovani protagoniste - davvero magnifiche -.
Per il resto, assistiamo ad una partecipe e travolgente cronaca di vita quotidiana, dalla sensazione di inadeguatezza alla solitudine, dalla felicità di una primavera sentimentale e sessuale ad una routine che schiaccia anche i sentimenti più forti: la regia di Kechiche, mai invasiva eppure incredibilmente partecipe, sceglie un approccio silenzioso ma efficace, in grado di trasformare il lavoro portato a termine in una sorta di romanzo di formazione di quelli che, visti in momenti particolari della nostra vita, diventano qualcosa di più di una semplice lettura, quanto vere e proprie pietre miliari in grado di formarci come individui.
Ed è quello che fa Adele, un passo dopo l'altro, dalla timidezza legata alla scoperta della propria identità sessuale - giunta anche grazie a delusioni date, come rispetto al primo fidanzato, o ricevute, si veda la compagna di scuola che non ha intenzione di andare oltre un bacio dato più per vezzo che per desiderio: in questo senso, splendida l'intuizione di mostrare Adele il giorno successivo, finalmente decisa ad esternare il desiderio di poter stare con una ragazza, per la prima volta più curata nel look - a quel gesto di ravvivarsi i capelli, così semplice eppure simbolo di una profondità decisamente più grande: un pò come questo film tinto di blu, aereo e fisico ad un tempo, semplice e complesso, estremamente adolescenziale e crudelmente adulto.
Letta da questo punto di vista, Adele diviene un'eroina splendida, assolutamente genuina nella sua normalità, nei sogni di aspirante insegnante che la tengono lontana da un'elite intellettuale radical ma non le impediscono di sperimentare sulla pelle il sapore riscoperto delle ostriche, o la pelle della sua Emma, dal primo ritratto nel parco ai quadri della maturità, all'interno dei quali "Adele c'è sempre".
Così va la vita, in fondo.
Siamo tutti eroi del quotidiano alla scoperta di noi stessi.
E a volte camminare soli lungo una strada che porta verso il futuro può far sentire leggeri e liberi, ed altre soli e disperati.
Personalmente, ho fiducia nel blu e nel futuro.
In Kechiche e soprattutto in Adele.
Perchè è di blu come quello, di bocche arricciate nel sonno e capelli sfiorati, o dita succhiate in preda alla passione, che ci si può innamorare.




MrFord




"Asleep in perfect blue buildings,
beside the green apple sea,
gonna get me a little oblivion, baby,
and try to keep myself away from me."
Counting crows - "Perfect blue buildings" -



domenica 25 maggio 2014

Buongiorno, notte

Regia: Marco Bellocchio
Origine: Italia
Anno: 2003
Durata: 106'





La trama (con parole mie): nel millenovecentosettantotto, alla vigilia del sequestro di Aldo Moro, uno degli eventi politicamente più importanti del novecento italiano, assistiamo all'analisi dell'impresa criminale e del suo lato umano attraverso l'esplorazione dei sentimenti della giovane brigatista Chiara, parte del commando incaricato di sequestrare il Presidente della DC e tenerlo segregato in un appartamento per l'occasione affittato nel cuore di Roma.
Il crescendo di avvenimenti all'esterno, l'influenza dell'etica partigiana e del giovane amico Enzo, l'indifferenza delle forze politiche dei tempi, decise a far diventare Moro una sorta di martire per la lotta al terrorismo, finiranno per influenzare e segnare per sempre non solo Chiara, ma anche l'inizio di una delle stagioni più buie della Storia del Bel Paese.






Questo post partecipa all'iniziativa That's 70's Day.


Ricordo bene i racconti dei miei genitori a proposito della tensione che avvolse l'Italia intera nei giorni del sequestro di Aldo Moro.
Quando ancora ero troppo giovane per interessarmi di politica ed affini, o avere un'idea precisa di quello che sarei stato, mi colpì pensare alla portata che ebbe anche sulla vita di tutti i giorni quel rapimento: in tempi più recenti, forse soltanto le morti di Falcone e Borsellino penso abbiano avuto un impatto mediatico e sociale pari o superiore.
Marco Bellocchio, regista storicamente appartenente ad un'elite autoriale di matrice decisamente di sinistra, poco più di dieci anni or sono decise di rappresentare quell'avvenimento epocale da par suo, scegliendo di percorrere la via non semplice della doppia condanna all'operato delle Brigate Rosse - fossero queste ultime guidate da poteri più alti, oppure no - e alla classe politica di allora, colpevole in egual misura di aver individuato in Moro un elemento perfetto per rappresentare il tipico agnello sacrificale, simbolo di un riscatto che, purtroppo, ancora non si è visto consumare in Italia.
La prima volta che Buongiorno, notte capitò dalle parti del Saloon ricordo lo sconvolgimento che provocò, dalla capacità di narrazione di un regista che allora non conoscevo così a fondo - avrei rimediato in seguito - ad una presa di posizione unica ed umana da parte di un Autore storicamente noto per essere vicino proprio alle posizioni politiche che mossero - almeno sulla carta - i rapitori di Moro, resi ciechi da un ideale travisato e trasformato in crociata - splendidi i confronti Herlitzka/Moro Lo Cascio/Mariano - ed incapaci di cambiare strada se non nei sogni di una giovane lottatrice perduta alla ricerca della parte razionale delle passioni.
Siano esse politiche, oppure no.
E dall'emozionante momento del pranzo con i partigiani alle schermaglie con Enzo - forse la voce del regista, che per bocca del suo personaggio afferma "Pensa a cosa accadrebbe se fosse gente di questo genere a governare" -, senza contare la terrificante litania di quel "La classe operaia deve dirigere tutto" ed i volti - presi da filmati di repertorio - dei politici italiani intenti a fingere cordoglio - da Craxi ad Andreotti, giusto per citare i due più noti -, o il toccante confronto tra la lettera che Moro scrisse alla moglie durante la prigionia confrontata a quella di un partigiano giustiziato dalle forze fasciste durante il secondo conflitto mondiale, tutto converge a testimonianza dell'avvenimento principe di un periodo oscuro - forse ancora più di quanto non siano gli incerti e precari giorni nostri - per l'Italia, un medioevo moderno segnato dal sangue e dal terrore, orchestrato dagli architetti degli estremismi - emblematica l'ammissione di Mariano a proposito della sua maniacalità religiosa dell'infanzia, quasi a testimoniare che chiunque navighi oltre certi confini finisca soltanto per avere bisogno di una scusa, e poco importa da cosa la stessa sia fornita -.
Il crescendo finale, drammatico alternarsi del sogno di Chiara - e di Bellocchio, viene da pensare - e la dura realtà, diviene così simbolo di una delle ammissioni di colpa più potenti del Nostro Cinema - almeno recente -, testimonianza di lucidità e partecipazione, elementi imprescindibili nell'impegno politico e determinanti per discernere nel momento in cui ci si trova a dover scegliere tra la politica stessa - forse l'espressione più alta dell'Uomo come animale sociale - e la più ancestrale e primitiva lotta all'ultimo sangue, portata in campo con uno spirito ben peggiore di quello selvaggio che la origina.
Da animale fatto e finito, mi rendo conto quanto possa essere preziosa la lezione dell'istinto, così come la più razionale di Bellocchio attraverso quello che è, senza dubbio, uno dei suoi lavori più riusciti: viviamo di pancia e passioni, che si parli di vita o di qualsiasi sua espressione - posizioni politiche incluse -, ma siamo e restiamo esseri pensanti.
E proprio per questo, giunge sempre il momento in cui una pausa può fare la differenza.
Una visione. 
Un'illuminazione.
Un sogno, ancora una volta.
Quella virgola che separa il buongiorno dalla notte.
Che fu Moro. E che speriamo possa non esserlo mai più.







"Remember when you were young, you shone like the sun.
Shine on you crazy diamond.
Now there's a look in your eyes, like black holes in the sky.
Shine on you crazy diamond."
Pink Floyd - Shine on you crazy diamond" - 




sabato 24 maggio 2014

The rainmaker - L'uomo della pioggia

Regia: Francis Ford Coppola
Origine: USA
Anno: 1997
Durata: 135'




La trama (con parole mie): Rudy Baylor, un giovane ed idealista avvocato di Memphis, accetta di patrocinare una famiglia a basso reddito rimasta vittima di una complessa truffa assicurativa per mano di una compagnia che è un vero e proprio colosso del settore.
Spalleggiato dal veterano e non ancora avvocato Deck Shifflet, Rudy dovrà ingaggiare una vera e propria battaglia all'ultimo cavillo che lo vedrà opposto ad uno degli studi più importanti della città, schierato al gran completo alle spalle dello squalo del foro Leo Drummond: l'occasione finirà per essere un banco di prova per il ragazzo per una crescita non soltanto professionale, ma umana.
Accanto alla fragile Kelly, maltrattata dal marito e conosciuta proprio grazie all'esercizio del mestiere, Rudy muoverà i suoi primi passi ben oltre i confini delle aule di tribunali: un percorso che potrebbe rivelarsi ben più importante rispetto a quello da avvocato.








Francis Ford Coppola è senza ombra di dubbio uno dei nomi di riferimento del panorama cinematografico statunitense, non fosse altro per Apocalypse now, uno dei grandi Capolavori irrinunciabili della Storia del Cinema.
Accanto a quest'ultimo, ovviamente, figurano almeno i primi due capitoli della saga de Il padrino e La conversazione, pronti a rendere il cineasta di origini italiane uno dei volti più importanti della New Hollywood che nel corso degli anni settanta ribaltò il mondo del Classico e dei grandi studios che avevano dominato la scena nel ventennio precedente.
Eppure quando penso al buon Francis, uno dei primi titoli che mi tornano in mente è senza dubbio The rainmaker, legal drama onesto e pulito tratto da un romanzo dell'esperto del settore John Grisham, titolo al quale ho voluto un gran bene fin dalla prima visione.
Tenendo, infatti, un profilo squisitamente basso, Coppola è riuscito, grazie anche ad una confezione assolutamente pregevole, a trovare il punto d'incontro perfetto tra il blockbuster hollywoodiano "impegnato" e l'opera d'autore, potendo contare su un gruppo di attori tutti straordinariamente in parte - dall'aggressivo principe del foro Jon Voight alla futura star del piccolo schermo grazie a Homeland ed ex Giulietta Claire Danes passando attraverso la piccola comparsata di Mickey Rourke, al quale potrebbe essere stato cucito addosso il personaggio di Bruiser come uno dei completi su misura che lo stesso indossa - ed una sceneggiatura che conduce dritti al punto toccando le corde giuste, come un'arringa finale in grado di mettere una giuria al servizio della Legge, sia essa scritta o morale.
Difficile, in questo senso, non immedesimarsi almeno in parte con l'idealista Rudy Baylor - cui presta volto ed ingenua passione un Matt Damon che pare la versione placida di Will Hunting - seguendolo passo dopo passo nella battaglia condotta contro un colosso del ramo delle assicurazioni affrontato con coraggio da una famiglia dalle possibilità economiche decisamente limitate determinata, però, nell'inseguire la Giustizia.
In particolare, le figure dei genitori di Donny Ray - combattiva e fiera lei, scombinato e commovente lui - divengono il cardine di una struttura che Coppola gestisce come solo un Maestro del suo calibro riesce a fare, un meccanismo ad orologeria che dispone i pezzi sulla scacchiera prendendosi tempo e spazio prima di liberare la strategia vincente, tradotta in un finale capace di toccare nel profondo senza scadere nel melenso e non chiudere la vicenda come se fosse la classica e prevedibile storia americana di affermazione dei giusti.
Principalmente, infatti, la lezione importante de L'uomo della pioggia resta l'elogio di una determinazione che dimora nella fierezza e nel coraggio tutti "proletari" di chi lotta per non farsi mettere i piedi in testa o intimorire da chi pensa di poter disporre della vita - soprattutto altrui - a proprio piacimento: in questo senso Rudy diviene l'alfiere di una battaglia ingaggiata da outsiders sulla carta destinati ad essere vittime eppure fermamente disposti a dare tutto il possibile - e anche di più - affinchè quella stessa realtà dei fatti possa essere smentita - dai coniugi Black a Kelly, fino allo stesso protagonista -.
E per quelli di noi abituati a rimboccarsi le maniche e farsi il culo - Ford al completo compresi - battaglie come questa - a prescindere dai risultati - sono ossigeno che permette alla lotta di continuare a rinnovarsi insieme alle energie che permettano agli abitueè dei cavalli tenuti ben saldi fuori dal Saloon, ai Goonies della quotidianità, di alzare la testa ed essere fieri di guardare avanti, senza preoccuparsi troppo di quanto gli squali possano approfittarsi del sistema e dei soldi che chiamano soldi.
In fondo, un giorno o l'altro un "rainmaker" giungerà a cambiare le carte in tavola, battendosi con il proprio nemico con la stessa fierezza dei poveracci che rappresenta ed ispira.
E chissà che, un giorno o l'altro, l'uomo della pioggia non possa essere proprio qualcuno di noi.



MrFord



"You tell me we can start the rain.
You tell me that we all can change.
You tell me we can find something to wash the tears away.
You tell me we can start the rain.
You tell me that we all can change.
You tell me we can find something to wash the tears."
Iron Maiden - "Rainmaker" - 




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