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domenica 5 marzo 2017

Michael Moore in Trumpland (Michael Moore, USA, 2016, 73')




Penso che in molti, nel mondo, il mattino dopo l'Election Day negli States, siano rimasti sorpresi e sconcertati da quanto accaduto: contrariamente ad ogni previsione, Donald Trump, miliardario, espressione dei repubblicani feroci, sessista, razzista e chi più ne ha, più ne metta, ha sconfitto - ed anche in modo piuttosto netto e pesante, considerato il sistema americano non legato al conto effettivo dei singoli voti - la candidata democratica Hillary Clinton.
Personalmente, sono rimasto sorpreso anch'io - per non parlare di Julez, che ha impiegato qualche giorno a riprendersi dallo shock -, nonostante pensi che la democrazia vada sempre sostenuta, anche e soprattutto quando porta alla vittoria elettorale personaggi che non ci convincono: quando, poi, vista l'esperienza ottima con il precedente Where to invade next, ho avuto la possibilità di recuperare quest'ultima fatica firmata da Michael Moore, incentrata proprio sulla corsa alla Casa Bianca del Donaldone, non ho resistito.
In realtà, Michael Moore in Trumpland non è un documentario da tiro al bersaglio come fu Fahrenheit 9/11, ingiustamente premiato a Cannes e fin troppo fazioso, bensì la ripresa di un one man show che il regista tenne tempo fa in Ohio, in una delle località in cui Trump riscuoteva un successo cinque volte superiore a quello della Clinton: e devo ammettere che, nonostante il formato teatrale dell'operazione, tutto finisce per funzionare, e molto bene.
Moore è un oratore decisamente capace, e partendo dal fatto di non essere un sostenitore della Clinton - le avrebbe preferito Bernie -, dalle battute su Obama e le lodi ad alcuni interventi di Trump - è stato l'unico, afferma, a mettere all'angolo i proprietari delle grandi fabbriche di automobili del Michigan che spingevano per trasferire gli impianti in Messico - giunge ad un accorato appello ai suoi "rivali" repubblicani, una richiesta d'aiuto per il Paese che avrebbe dovuto prendere forma nel voto proprio alla Clinton, inizialmente e cordialmente presa in giro e finita ritratta come una donna coraggiosa e senza dubbio simbolo di tutto quello che le donne nel mondo potrebbero fare se avessero la possibilità di governare al posto degli uomini - molto bello anche il rifermento al fatto che dovrebbe essere data la possibilità solo alle donne di acquistare ed usare armi da fuoco, considerato che le statistiche affermano che non capita praticamente mai che queste ultime si rendano responsabili di omicidi di questo tipo o sparatorie occasionali -.
Un lungo monologo divertente ed appassionato, che finisce quasi per commuovere in più di un passaggio ed assume un significato malinconico ora, mentre siamo destinati ad almeno quattro anni di Trumpence: di nuovo, credo che si debba permettere a Trump di lavorare il meglio possibile - per quelli che potrebbero essere gli standard della sua squadra, e non suoi, voglio sperare -, prima di giudicare, ma senza dubbio per ogni democratico - o persona con un minimo di raziocinio, mi viene da insinuare - osservare il trasporto con il quale Moore è riuscito a spingere una figura da lui neppure particolarmente sostenuta significa anche ammettere una sconfitta tra le più cocenti della Storia recente, e che senza alcun dubbio segnerà una nuova epoca che possiamo solo sperare sia quantomeno migliore di quella "bushista" - e, in caso contrario, che non duri altrettanto -.
A stemperare il tutto resta la divertente chiusura in cui Moore afferma di volersi candidare nel duemilaventi - scusandosi con Kanye West, che aveva già fatto la stessa dichiarazione mesi fa -, peraltro mostrando i primi punti di un programma che, fossi un abitante degli States, appoggerei ad occhi chiusi.
Nel frattempo, non mi resta che usare testa e cuore per pensare che, nonostante tutto e nonostante Trump, è una fortuna che esista la Democrazia.
Perchè permette a persone come Michael Moore di esprimersi, soprattutto nel confronto con chi è di opinioni diverse, e mi fa sperare che un giorno una donna, un uomo, un criceto possano avere la possibilità di arrivare alla Sala Ovale della Casa Bianca ed usare il potere che altri uomini e donne hanno dato loro per fare in modo che, a prescindere dalle idee politiche, possa essere fatto inesorabilmente il bene maggiore possibile per tutti.



MrFord



 

mercoledì 1 marzo 2017

Fences - Barriere (Denzel Washington, USA, 2016, 139')




Mio padre è un uomo tranquillo, quasi timido, lontano dalla logica del conflitto.
Ricordo bene quando io o mio fratello discutevamo con mia madre e lui veniva disturbato non tanto dagli argomenti, ma dalla discussione in sè.
Sono assolutamente orgoglioso di alcune cose che è riuscito a trasmettermi, dalla passione per le proprie passioni - non so quante volte l'ho visto cadere e risalire dalla sella della bicicletta - alle lettere che scriveva a me e mio fratello quando combinavamo qualche stronzata ai tempi, mentre per altre ho dovuto rimboccarmi le maniche e cercare una mia via - penso che molta della timidezza che tanto ho faticato a superare sia legata a lui -.
Non è mai stato, e ne sono felice, un padre padrone.
Mio nonno, cui invidio la scorza e la forza, che ancora oggi vive solo e si arrangia alla grande a quasi novantaquattro anni, con lui lo è stato. E forse, chissà, è la causa di quella sua timidezza, e della mia.
Altre generazioni, del resto.
Quelle dei padri che non c'erano mai, ma dei quali tutti avevano paura.
Curioso, il mio vecchio detesta i pomodori perchè il suo lo costringeva a mangiarli a forza, ed io li adoro, e non passa giorno in cui non li mangi.
Da mio nonno spero di ereditare la tempra - che, purtroppo, non credo mio padre abbia, almeno nello spirito -, da mio padre la passione e la pazienza.
Quando si hanno dei figli, del resto, tutto cambia.
E per quanto si cerchi sempre di essere il meglio possibile, c'è sempre qualcosa che fugge al nostro controllo, ai desideri, a quello che siamo, che sono, all'ombra che proiettiamo ed al carattere che, anno dopo anno, si sviluppa in loro.
La verità, però, è che nulla protegge nessuno di noi dagli errori e da quello che proietterà sui propri figli: con il Fordino - la Fordina è ancora troppo piccola per molti versi - cerco sempre di essere il più diretto possibile, di parlare di tutto, di essere paziente ma ricordargli tutto quello che può andare, oppure no. Voglio che si senta libero, ma anche che sappia che perfino la libertà ha dei confini.
Non voglio che sia un bambino - e ne vedo, anche tra i suoi compagni all'asilo - che alza la voce e le mani per imporsi, ma che possa far capire quello che vuole e che è senza dover superare quei limiti.
Voglio che sia - e che siano, ovviamente - felice, e faccia quello che desidera, se è qualcosa che non gli porta del male.
Ma nessuno potrà mai dire quello che accadrà davvero.
Semplicemente, si dovrà cercare di fare il meglio che si può, se davvero dei figli si sono voluti, sognati, desiderati.
Altrettanto serenamente, si dovranno accettare le barriere che proprio con gli stessi figli si ergeranno per Natura, Tempo ed inclinazioni.
Ed è tutto qui, il succo di un film intenso, denso, sofferto, faticoso, forse a volte troppo sopra le righe eppure a stento contenuto dalla sua durata, come dalla recitazione dei suoi protagonisti.
Denzellone Washington - mattatore assoluto - e Viola Davis - strepitosa e giustamente premiata con l'Oscar - conducono generazioni diverse attraverso un viaggio semplice ed universale, quello legato alla Famiglia ed ai lasciti dei genitori rispetto ai figli, agli ostacoli, ai momenti in cui lo stadio esplode ed a quelli in cui lo si lascia sommersi dai fischi.
Del resto, la vita è così.
Non c'è un modo giusto od uno sbagliato, per affrontarla.
L'importante è viverla, e far sentire a chi amiamo la nostra presenza.
Specialmente se è data dal meglio che possiamo offrire.
Difetti, tutti i difetti, compresi.
Fino a quando afferreremo la mazza per l'ultimo fuoricampo.




MrFord



lunedì 16 novembre 2015

Tutto può accadere a Broadway

Regia: Peter Bogdanovich
Origine: USA, Germania
Anno: 2014
Durata: 93'






La trama (con parole mie): Isabella, una giovane escort nata e cresciuta nei sobborghi di New York, si ritrova a dover trascorrere una delle sue serate di lavoro con un regista di Broadway che cela la sua identità per preservare matrimonio e tranquillità del focolare.
Lo stesso regista, dopo averla portata fuori a cena ed averle regalato una nottata indimenticabile, si offre di donarle trentamila dollari in cambio di una promessa, ovvero mollare il lavoro più antico del mondo per coltivare i suoi sogni.
Tempo dopo la stessa ragazza, trasferitasi in città per tentare di costruirsi una carriera come attrice, si ritrova ad un provino per uno spettacolo che vede l'uomo come regista e la moglie di quest'ultimo come protagonista femminile: il loro secondo incontro sarà l'innesco di una serie di coincidenze e guai sentimentali che coinvolgeranno tutto il cast.










Per quanto mi riguarda, basterebbero L'ultimo spettacolo e Paper moon per voler bene a Peter Bogdanovich, e consegnarlo in tutta onestà alla Storia del Cinema.
Sinceramente, tra le altre cose,  pensavo che ormai non avrei più rivisto in sala un suo nuovo lavoro, e che i recuperi sarebbero stati il solo modo per assaporare la sensazione di avere a che fare con un piccolo ma importantissimo pezzo della settima arte statunitense.
E invece, quasi a sorpresa, con ogni probabilità per le evidenti influenze ed apparenze alleniane, è giunto addirittura in sala nella Terra dei cachi She's so funny that way, adattato come lo avrebbe adattato un gruppo di scimmie urlatrici lasciate senza banane per settimane con Tutto può accadere a Broadway, commedia degli equivoci ambientata nel cuore dell'ambiente teatrale newyorkese in grado di accontentare tanto il pubblico più radical in cerca di uno sfizioso divertissement quanto il pubblico più generico che di Bogdanovich non conosce nulla e che, chissà, forse è finito seduto sulla poltrona pensando che dietro quello strano pseudonimo si celasse, per l'appunto, Woody Allen.
Perchè, in bilico tra jazz ed equivoci, ironia e psicanalisi, fotografie di rapporti alla deriva e di cotte destinate ad un solo, grande caos, questo film è quanto di più simile al Cinema dell'autore di Pallottole su Broadway e Manhattan si possa trovare al momento in tutto il mondo, suddetto autore compreso.
Dunque, l'apparenza di Tutto può accadere a Broadway sarà stata un vantaggio oppure no, qui al Saloon, per Bogdanovich ed i suoi?
La risposta è semplice e diretta: assolutamente sì.
L'ora e mezza di questa commedia estremamente brillante, giocata ed interpretata con leggerezza, dal cast azzeccatissimo e dalla colonna sonora smooth è scorsa come un cocktail di quelli che non si dimenticano, pronto a scivolare fin nello stomaco dando il suo colpo di grazia quando meno ce lo si aspetta, giusto prima di tornare a casa, quando ci si rialza dal tavolo e ci si accorge di non reggersi più troppo bene sulle gambe: le vicende di Isabella e di Arnold, la prima sognatrice legata a doppio filo al concetto più meraviglioso di Cinema ed il secondo inguaribile seduttore pronto a sfoderare le sue armi sempre efficaci e sempre uguali, quasi fosse un serial killer dedito allo stesso rituale - il tormentone di scoiattoli e noci è una vera chicca, per quanto "non originale" sia -, riempiono lo schermo con la giusta dose di sorrisi amari, risate sguaiate, riflessioni e tutto quello che si può chiedere ad un prodotto "alto" che, di fatto, si trasforma nell'intrattenimento puro della parte più intellettuale della settima arte.
Un intrattenimento che potrebbe rischiare di far storcere il naso tanto ai "duri e puri" quanto a chi non è abituato a questo tipo di prodotto -  e che potrebbe arrivare a definirlo verboso prima ancora che noioso - che in realtà è un omaggio al Cinema di ieri e di oggi, dalle commedie romantiche anni cinquanta ai noir, dal teatro allo slapstick, da Audrey Hepburn a Quentin Tarantino: e resto convinto che soltanto un vecchio leone come Bogdanovich, aiutato da un gruppo di attori decisamente affiatato, avrebbe potuto raccontarlo con lo stile ed il tocco giusti, senza esagerare da una o dall'altra parte.
Certo, non risulterà imperdibile o sarà un titolo destinato a spodestare Io e Annie dalle personali classifiche del cuore degli appassionati, eppure resto convinto che, se esistessero più film di questo tipo, anche un certo Cinema d'autore "hipster" osteggiato dal grande pubblico avrebbe tutti i riconoscimenti ed il rispetto che merita: in fondo, il grande schermo vende sogni pronti ad alimentare aspirazioni, ideali ed idee di persone che vengono da ogni latitudine e realtà.
E poco importa, che siano scoiattoli e noci, o noci e scoiattoli.
L'importante sarà aver vissuto quel sogno.




MrFord




"American girls are weather and noise
playing the changes for all of the boys
holding a candle right up to my hands
making me feel so incredible."
Counting Crows - "American girls" - 





martedì 6 ottobre 2015

The gallows - L'esecuzione

Regia: Travis Cluff, Chris Lofing
Origine: USA
Anno:
2015
Durata:
81'






La trama (con parole mie): a vent'anni da un terrificante incidente di scena che costò la vita ad uno studente nel novantatre, in un liceo di una piccola cittadina si prepara a portare di nuovo sul palco lo stesso dramma, quasi si volesse dimenticare quello che accadde e ricominciare.
Peccato che il protagonista maschile dello spettacolo, un giocatore di football che pare non avere alcuna affinità con la recitazione, venga persuaso dal suo migliore amico a boicottare la messa in scena in modo da evitare la prima introducendosi di notte nella scuola per distruggere gli allestimenti: quando i due, infatti, accompagnati dalla ragazza dell'istigatore, daranno inizio al loro piano, si ritroveranno intrappolati nell'area destinata allo spettacolo insieme alla protagonista, sul posto per gli ultimi aggiustamenti in vista del debutto del giorno successivo.
La notte passata tra quelle mura dimostrerà che, forse, non era il caso di aprire armadi traboccanti scheletri.










Non ho mai nascosto la mia simpatia per il mockumentary, soprattutto di matrice horror: negli anni, da Poughkeepsie Tapes ai mitici Lake Mungo e The troll hunter, il genere ha regalato chicche davvero notevoli a noi appassionati, nonchè spaventi come raramente se ne riescono a trovare nel mare di proposte poco incisive che il genere offre - parlo del succitato Lake Mungo, credo l'unico film ad avermi inquietato, insieme a Eden Lake, negli ultimi anni -: peccato che, nonostante queste premesse, il mockumentary abbia anche prodotto alcune delle ciofeche più clamorose del passato recente, spinto dall'onda del successo - purtroppo - di schifezze inutili come i vari Paranormal Activity.
The Gallows - L'esecuzione, massacrato in lungo e in largo nella blogosfera e non, si ascrive felicemente a questa seconda categoria, presentandosi, a conti fatti, come uno dei titoli più inutili e telefonati della stagione, incapace - questo occorre riconoscerlo - di indisporre ma ugualmente in grado di suscitare interrogativi a proposito della volontà di cimentarsi di proposito in visioni inutili, che di fatto non intrattengono e neppure lasciano qualcosa di concreto a chi si è imbarcato nell'impresa.
Di fatto, il lavoro dei registi Cluff e Lofing non racconta nulla di nuovo, si affida alle consuete trovate da presunto salto sulla sedia - peraltro poche - e ricalca una trama già vista e sentita almeno un paio di milioni di volte anche da chi appassionato di horror non è, finendo per svilupparla poco e male, rivelarsi come una versione decisamente meno inquietante del nostrano Lidris cuadrade di tre - che esorto tutti voi a recuperare - e scadere ancor più di quanto non ci si aspetterebbe con un finale al limite del ridicolo, buono ad affossare anche le poche idee interessanti non sfruttate con lo sviluppo della trama.
Poco altro resta da dire nonostante l'utilizzo di un setting - il teatro - affascinante e ben sfruttato di recente da cose interessanti come Stage fright ed il classico canovaccio evergreen del teen horror con i protagonisti eliminati uno per uno: gli ottanta minuti risultano comunque troppi per quello che si è voluto raccontare, i personaggi appaiono fondamentalmente inutili, l'idea dietro il mistero della morte dello studente nel novantatre non viene per nulla sviluppata, e la rivelazione finale che dovrebbe chiudere il cerchio pare un disperato tentativo di creare un nuovo brand del quale l'horror non ha alcun bisogno, così come dell'ennesima maschera in stile Slipknot che non fa altro che stuzzicare la nostalgia di chi ha vissuto sulla pelle Leatherface o Jason Voorhies.
Considerato, dunque, che negli anni ho sempre speso fin troppe parole per prodotti assolutamente dimenticabili come questo, direi che è giunto il momento di cominciare a viaggiare a credito.
Gli horror senza arte ne parte ed i film che non lasciano nulla pagheranno per me, a cominciare proprio da The Gallows, che non avrà dal sottoscritto una parola in più.




MrFord




"Hangman, hangman, hold it a little while,
I think I see my friends coming, Riding many a mile.
Friends, did you get some silver?
Did you get a little gold?
What did you bring me, my dear friends, To keep me from the Gallows Pole?
What did you bring me to keep me from the Gallows Pole?"
Led Zeppelin - "Gallows Pole" - 





lunedì 9 febbraio 2015

Birdman

Regia: Alejandro Gonzales Inarritu
Origine: USA, Canada, Messico
Anno:
2014
Durata: 119'






La trama (con parole mie): Riggan Thomson è una superstar. O quantomeno, lo è stata.
Vent'anni or sono, ai tempi in cui impersonò il supereroe Birdman in tre blockbuster dal successo clamoroso. Archiviata l'epoca del costume e della maschera, più nulla, o quasi, se non crisi d'identità, un matrimonio fallito, una figlia ribelle e tutte le speranze - ed il denaro - investiti in uno spettacolo teatrale messo in scena nel cuore di Broadway tratto da Carver.
Ossessionato dal voler realizzare un'opera in grado di rimanere impressa nella mente di pubblico e critica e soprattutto dall'idea di volersi emancipare dalla maschera di Birdman, Riggan lotterà con ogni fibra del suo essere affinchè il lavoro possa non solo essere portato a termine, ma definirlo come attore, artista, performer e Uomo.
Ma è davvero questo, quello che cerca? E cosa suggerisce davvero la sua voce interiore?
Quale ruolo giocherà, in tutto questo, la figlia Sam? 
O tutti i personaggi della sua personale commedia?






Ai tempi dell'uscita di Amores Perros, dovevamo essere in quattro, in sala.
Ricordo benissimo i brividi, le emozioni, la sensazione di essere di fronte ad un futuro cult, all'esperimento più riuscito del post-Tarantino in termini di destrutturazione della storia portata sullo schermo.
Inarritu, allora un nuovo volto per la settima arte, finì per fare il botto e venne di colpo catapultato nel dorato mondo di Hollywood: ricordo quando uscì 9/11/01, insieme di cortometraggi firmati da registi provenienti da qualsiasi latitudine realizzato per ricordare i fatti del World Trade Center, e quanto attesi il momento di godermi quello firmato dal cineasta messicano, che si rivelò, al contrario, uno dei più autocompiaciuti e deludenti della selezione.
Sperai in un incidente di percorso, ed invece il peggio accadde: Inarritu collezionò, da quel momento, solo ed esclusivamente bottigliate con i fin troppo sopravvalutati 21 grammi e Babel, tanto da indurmi a non visionare neppure Biutiful, nonostante ottime recensioni lette anche qui nella blogosfera.
Ma il discorso con Birdman era diverso.
Recensioni entusiastiche, grandi aspettative, un Michael Keaton assoluto protagonista rendevano questo titolo uno dei must see della prima parte di questo duemilaquindici: ed effettivamente, per due terzi del film il mio unico pensiero è stato "WOW", che liberamente tradotto nella lingua fordiana significa "porca puttana e santo cazzo, che film enorme ha tirato fuori Inarritu".
Tecnica pazzesca, un cast in forma smagliante - perfino Zack Galifianakis sembra un bravo attore -, un turbinio di parole e sentimenti che non solo travolge, ma mette all'angolo ed induce ad abbassare la guardia in modo da avere una sorta di autostrada per una scarica di cazzotti emotivi ed intellettuali da lasciare più che KO, e come se tutto questo non bastasse, metacinema ed una graffiante ironia indirizzata a tutto il mondo della recitazione e della regia, dai teatri di Broadway al Cinema, senza risparmiare la critica.
E dunque, fino a poco più di un'ora e mezza di visione, mi sono sentito frastornato dai colpi di Inarritu - aiutato e non poco da Carver e dal suo strepitoso protagonista -, pensando già a come scrivere questo post, ad un nuovo header, all'esaltazione che si prova quando capita di vedere un film che già pare proiettato nella top ten dell'anno: poi, proprio nel momento migliore - la prima apparizione dell'alter ego mascherato di Riggan e la sequenza che lo vede finalmente e fisicamente protagonista -, il film, che per novanta minuti abbondanti aveva volato alto, finisce per cavalcare la corrente ascensionale sbagliata ed avvitarsi su se stesso, incappando in una serie noiosissima di finali in pieno stile Il ritorno del re diventando forzato e poco naturale, quasi il regista e gli autori avessero superato la linea che separa il suggerito dall'imposto.
Un vero peccato, perchè senza dubbio questo Birdman è il miglior Inarritu proprio dai tempi di Amores Perros: un film denso, divertente e drammatico, ricco di citazioni e girato davvero da dio - a tratti è riuscito quasi a scomodare paragoni con cose enormi come Enter the void o Arca russa, grazie all'utilizzo massiccio del piano sequenza -, eppure rispetto a titoli che toccano temi simili come Synecdoche, New York o Holy Motors il confronto è nettamente perso, e proprio a causa di quel troppo che stroppia.
Personalmente, con una mezzora in meno il finale con il tassista che rincorre Riggan in teatro avrebbe consegnato a Birdman le chiavi del Paradiso dei bicchierini, ma quel crescendo "al contrario" sul finale è stato davvero un colpo basso, invece che un diretto vincente.
E così come con il Wolf di Scorsese - anche citato - ero partito dal divano per finire seduto per terra davanti allo schermo, con Birdman ho iniziato pronto a volare nella stessa posizione ed ho finito proprio sul divano stesso, sdraiato in posizione da letto in attesa trepidante della fine.
E forse, ora, Birdman se la prenderà anche con me, che da critico che non crea come un artista mi rifugio in parole e giudizi per tarpare le ali di un'opera complessa e stratificata: ma sapete che vi dico?
Non me ne importa un cazzo.
Dovrebbe già ringraziare proprio il mio lato critico che non gli siano arrivate per indiscutibili meriti tecnici delle prepotenti e sonore bottigliate da una parte e dall'altra della maschera.



MrFord




"Like a bird on a wire
like a drunk in a midnight choir
I have tried in my way to be free
like a fish on a hook
like a knight in some old fashioned book
I have saved all my ribbons for thee."
Johnny Cash - "Bird on a wire" - 





mercoledì 28 maggio 2014

Venere in pelliccia

Regia: Roman Polanski
Origine: Polonia, Francia
Anno: 2013
Durata: 96'





La trama (con parole mie): Thomas è un autore teatrale all'esordio con la regia in cerca dell'attrice protagonista per l'opera ottocentesca che ha adattato, Venere in pelliccia.
Quando, ad audizioni finite, si presenta nel teatro ormai vuoto l'aspirante Vanda, l'uomo si trova prima a respingerla professionalmente, dunque coinvolto nel tentativo di quest'ultima di convincerlo ad assegnarle la parte.
La lettura delle prime tre pagine della piece si trasforma dunque in una sorta di duello di corpi, cuori e menti dei due, in un passaggio di consegne tra dominante e dominato che parte dalla pagina scritta per sconfinare nella realtà, e divenire una riflessione ironica e profonda sul rapporto tra Uomini e Donne. Chi la spunterà?








Non era facile, per Polanski, dopo la delusione che fu per il sottoscritto Carnage, tornare a convincere. Personalmente, ho sempre trovato il lavoro del regista polacco ormai francese d'adozione stupefacente, dagli esordi fino ad oggi, fatta eccezione per l'appena citato massacro borghese newyorkese ed il deludente La nona porta: eppure, come spesso accade quando le bottigliate vengono stuzzicate, pur non raggiungendo i livelli del passato o millantati dalle recensioni lusinghiere lette fin dai tempi della sua uscita, Venere in pelliccia è uscito a testa alta dal Saloon.
Da questo punto di vista, dunque, il risultato ottenuto dal vecchio Roman è stato senza dubbio un successo: perchè questo lavoro è indiscutibilmente un concentrato di ironia, intelligenza, capacità di muovere la macchina da presa così come di dirigere al meglio gli attori - specie in coppia, come fu per La morte e la fanciulla -, nonchè una riflessione colta e profonda sul confronto eterno tra Uomo e Donna, che passa dal cervello per giungere inevitabilmente alla zona sotto la cintura.
Perchè, signori e signore, non esiste pezzo d'arte, discussione, appuntamento o qualsiasi altra cosa vogliate metterci, che non coinvolga, in un modo o nell'altro, proprio le energie scaturite dal fulcro di molto più di quanto si continui a non ammettere di ogni tipo di rapporto: ed Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric portano in scena alla grande proprio questa tensione, erotica quanto cerebrale, figlia di un legame che, prima ancora delle leggende legate alla religione, da Adamo ed Eva in avanti, finisce per essere un impulso naturale.
Eppure, il lavoro di Polanski, una volta superati gli entusiasmi per il sempre stimolante "faccia a faccia" tra i sessi, non può definirsi allo stesso tempo completo, quasi parlassimo di un coito interrotto, o di un bacio rubato quando vorremmo con ogni fibra del nostro corpo finire a letto: dalla strepitosa e divertentissima parte iniziale, infatti, al finale, ad un tempo grottesco e drammatico, e clamorosamente vero - almeno per quanto riguarda l'assoluta dipendenza di noi maschietti rispetto al potere esercitato dalle signorine, pronte a rispondere, anche se si trattasse soltanto di alimentare ulteriormente la sfida, con un sonoro ed ancora più attraente "attaccati al cazzo" -, attraversiamo una lunga - troppo lunga, oserei dire, nonostante il minutaggio limitato - fase di studio e stimolo a distanza che a tratti appare fastidiosamente compiaciuta, neanche fosse una figa di legno in vena di tirarsela per bene, come diremmo noi beceri pane e salame.
La cornice da film da salotto - molto radical e molto chic -, dunque, rimane, con tutti i suoi limiti, di fatto riportando Venere in pelliccia ad un livello assolutamente discreto ma non in grado di far gridare al miracolo - da questo punto di vista, Repulsion fu un ritratto decisamente più inquietante e quasi seducente della lotta tra i sessi -, lasciando che la mia soddisfazione di vedere Polanski tornare a fare il Polanski fosse soddisfatta solo in parte, neanche mi ritrovassi ad essere il Thomas della situazione, lasciato alla mercè di un cactus reduce dalla versione musical di Ombre rosse - e rabbrividisco al solo pensiero -.
Non posso comunque lamentarmi, e non lo vorrei, anche perchè non è detto che doversi sudare qualcosa non porti ad un risultato finale ancora più sorprendente di quello che ci saremmo aspettati in principio: dunque torno a dare fiducia ad uno dei più importanti registi degli ultimi trent'anni nel convogliare velleità autoriali e capacità di narrazione ad un pubblico senza limiti di sorta o di gusto, che seppur non al meglio lascia ancora una volta intravedere tutta la sua scintillante bravura di giocoliere della tensione.
Erotica, orrorifica o semplicemente cinematografica che dir si voglia.




MrFord




"Shiny, shiny, shiny boots of leather
whiplash girlchild in the dark
comes in bells, your servant, don't forsake him
strike, dear mistress, and cure his heart."
The Velvet Underground - "Venus in furs" - 




giovedì 27 giugno 2013

Sei gradi di separazione

Regia: Fred Schepisi
Origine: USA
Anno: 1993
Durata: 112'




La trama (con parole mie): Ouisa e Flan, due ricchi beniamini della società bene e radical chic newyorkese, nel corso di una serata passata con l'amico di lunga data Geoffrey alla ricerca di un finanziamento per un affare legato ad un Cezanne, si ritrovano in casa il giovane Paul, che afferma di essere stato compagno di scuola dei loro figli nonchè il figlio del divo afroamericano Sidney Poitier. La serata che segue è così piacevole che i coniugi sviluppano una sorta di curiosa attrazione per Paul, nonostante siano costretti a cacciarlo la mattina successiva dopo averlo trovato a letto con uno sconosciuto rimorchiato durante la notte.
Lo stesso tipo di esperienza, come i due scopriranno raccontando la vicenda nel corso dei numerosi appuntamenti da salotto, è stata vissuta anche da altre coppie: la curiosità, dunque, avrà la meglio, e un gruppo di famiglie si ritroverà ad investigare sulla vera identità di quel curioso ed improvvisato ospite di una notte.





Era da parecchio tempo che in casa Ford si attendeva il passaggio di Sei gradi di separazione, pellicola di chiara origine teatrale che ancora mancava alla lista delle visioni di Julez, che, di contro, parlando dello stesso regista, lo scorso anno mi aveva anticipato proponendo Roxanne, che ero invece io a non avere mai visto.
Fred Schepisi, uno dei tanti artigiani della settima arte rimasto sempre in bilico tra le produzioni di nicchia ed i grandi successi commerciali, trova con questo lavoro l'apice creativo della sua carriera, e trasforma una sorta di concerto da camera in una vera e propria sinfonia di attori, situazioni e battute di uno script davvero di ottimo livello, trasformando l'allora divo del piccolo schermo Will Smith in un attore completo - insieme ad Alì di Michael Mann, siamo di fronte senza dubbio alla sua migliore performance - e regalando una riflessione per nulla scontata sulla lotta di classe e la casualità della vita che ha il pregio di non apparire mai troppo leggera o pesante, in equilibrio sul sottilissimo filo del Caso e rappresentata alla grande - e con un radicalchicchismo mai irritante, quanto più ironico e divertito - da un quadro di Kandinsky che resta cucito addosso al giovane protagonista Paul, ragazzo di strada alla scoperta di un mondo a lui completamente sconosciuto come quello dell'elite culturale ed economica newyorkese fatta di party, matrimoni, chiacchiere tra un affare milionario e l'altro, cene organizzate per uomini che non hanno contanti nel portafogli ma cifre astronomiche da girare senza battere ciglio da un conto corrente all'altro.
L'epopea di Paul, passato dall'essere considerato una minaccia allo status di figlio acquisito - in tutti i sensi - dei sofisticati e a tratti ridicoli Ouisa e Flan, è come una tempesta che si abbatte su un universo che non conosce drammi che non siano dati da una camicia rosa regalata impunemente o al rendersi protagonisti con aneddoti "borderline" al pranzo successivo: raramente, nella Storia della settima arte, si era visto portare sullo schermo con la stessa levità un tema normalmente trattato come conflittuale e teso, quasi come se il cuore urbano di Paul si fondesse con l'eleganza delle riprese, in equilibrio tra piani sequenza e dialoghi fittissimi, del mondo dorato che lo stesso protagonista invade più o meno pacificamente.
Non è un caso, in questo senso, che la parte più drammatica del lavoro di Schepisi sia quella dedicata al rapporto tra Paul e la coppia di aspiranti artisti formata da Elizabeth e Rick, destinata a crollare sotto il peso del carisma del charachter interpretato da Will Smith proprio perchè, come lui, costretti a lottare ed arrancare senza riuscire a giungere neppure ad un briciolo del successo dell'altra metà di New York, quella del denaro e delle posizioni che contano.
Come se non bastasse, a queste riflessioni decisamente importanti, si aggiungono quella legata al rapporto tra padri e figli - curioso quanto Paul sia sinceramente interessato a compiacere ogni suo ospite, proprio mentre le famiglie da lui visitate paiono un concentrato di scontri e conflitti tra generazioni - ed una seconda che, di fatto, mostra il lato self-made che sta alla base della filosofia USA, trovando in Paul un alfiere perfetto ispirato da un'altra figura venuta dalla strada ed affermatasi come una delle più importanti dello stardom hollywoodiano di qualche decennio fa, Sidney Poitier, forse il primo, grande divo afroamericano a tutto tondo.
Proprio nella presentazione ad opera del giovane truffatore del presunto padre e della loro storia troviamo la sequenza più importante e meglio realizzata di una pellicola che ancora oggi, a distanza di vent'anni, conserva fascino ed interesse sociale, in barba, per una volta, anche alla mia ostilità allo stile radical chic che in questo caso è stato reso dal regista come una riuscitissima parodia senza per questo apparire come un quadro senz'anima.
E si torna a Kandinsky, e a Paul.
A volte, per comprendere l'ordine, occorre che il caos getti il mondo nello scompiglio più assoluto.
E non è detto che sia un male venuto per nuocere.


MrFord


"I want to be naked, running through the streets
I want to invite this so called chaos, that you’d think I dare not be
I want to be weightless, flying through the air
I want to drop all these limitations and return to who I was meant to be."
Alanis Morissette - "So-called chaos" - 


sabato 9 febbraio 2013

Pina

Regia: Wim Wenders
Origine: Germania
Anno: 2011
Durata:
103'




La trama (con parole mie): Pina Bausch, storica coreografa nonchè nome di riferimento del teatro danza mondiale scomparsa nel 2009, omaggiata grazie alla sua opera ed alla sua compagnia dal talento dietro la macchina da presa di Wim Wenders, che sceglie di raccontarla al pubblico attraverso sequenze dei suoi lavori riproposte in teatro così come in spazi che possano esaltare una visione unica di questa commistione tra arte e disciplina.
Un incontro tra il Cinema ed il Teatro, tra la macchina da presa e la danza, come non se ne erano mai visti prima: ed insieme agli interpreti dei passaggi più noti creati a volte da un solo movimento suggerito dagli interpreti a Pina Bausch danzano senza dubbio l'occhio del regista ed il suo braccio, quello in grado di catturare questa magia e trasmetterla ad un pubblico fisicamente non presente.




Non è la prima volta che, nel corso della storia del Saloon, si presenta agli occhi del sottoscritto una pellicola considerata praticamente un Capolavoro che, inevitabilmente, finisce per deludere in qualche modo - e non di poco - le aspettative che si erano create attorno al suo nome: Pina, omaggio splendido e spettacolare - questo, almeno dal punto di vista tecnico, è indubbio - che Wenders elaborò per commemorare, per l'appunto, Pina Bausch, una delle più grandi coreografe mai vissute per quanto riguarda il teatro danza, disciplina che prevede una commistione tra l'espressività del primo e la perfezione stilistica della seconda, rientra appieno nella suddetta categoria.
Incensato dalla critica illustre ed al centro fin dai tempi della sua uscita in sala di un tam tam tra spettatori - spesso radical chic, occorre ammetterlo - neanche si trattasse del nuovo miracolo della settima arte, il lavoro di Wenders è riuscito ad incuriosirmi a tal punto da non riuscire più ad attendere l'approccio con lo stesso, saltando a piè pari titoli che erano in lista d'attesa decisamente da più tempo: il risultato è stato una visione dai due volti, in tutto e per tutto.
Da una parte, la curiosità rispetto ad una parte di teatro che non conosco affatto, l'ammirazione per un lavoro incredibile svolto dal regista tedesco dal punto di vista delle inquadrature, del dinamismo delle riprese e della profondità di campo - pur avendolo visto in dvd sul mio divano, e non nella versione originale pensata per il 3D cinematografico, sono rimasto strabiliato da alcune sequenze in cui pareva quasi che il quarantasei pollici si fosse animato e stesse per fagocitare ogni occupante di casa Ford -, dall'altra una staticità nello stile di narrazione - giocato tutto sullo schema dato dagli spezzoni delle opere seguiti dalle interviste dei membri della compagnia della Bausch ad inquadratura fissa, girate tutte "nel silenzio" con la voce off dello stesso intervistato ad accompagnarne la visione - ed un'ostilità non dichiarata all'indirizzo del pubblico non avvezzo al teatro danza - che poi fosse non voluta, è un altro discorso - in grado di rendere la visione, nonostante la qualità visiva, noiosa e ripetitiva, più simile ad una ripresa in grande stile di uno spettacolo che non ad un documentario incentrato su una personalità artistica e sfaccettata che non è possibile cogliere se non attraverso i passaggi dei suoi spettacoli - non sempre chiari, come se non bastasse -.
Tipico esempio, dunque, di uno sfoggio di tecnica pazzesco cui manca, di fatto, il cuore che permette a film decisamente meno incisivi qualitativamente di questo di raggiungere non soltanto il pubblico, ma ogni sfumatura di esso: a tratti, infatti, osservando le complesse coreografie della Bausch, mi sono sentito come un bambino delle elementari portato a teatro dalle maestre senza alcuna spiegazione che rischia di addormentarsi durante lo spettacolo ed è trattenuto, in questo, soltanto dall'eventuale discussione o interrogazione legata ai contenuti dello stesso.
Certo, io sono un cowboy vecchio e tamarro, e forse le meraviglie della coreografia non sono proprio il mio pane quotidiano, ma ho sempre pensato che un grande regista è in grado di parlare al suo pubblico indipendentemente dalla materia trattata, e considerata la stima che ho sempre avuto di Wenders in questo caso ho avuto l'impressione che l'autore di piccoli gioielli come Il cielo sopra Berlino si sia voluto accontentare dell'appoggio di un'elite di pseudo intenditori che l'avrebbero portato in palmo di mano pur non considerando il fatto che la grandezza di Pina non sta nell'aver mostrato all'audience la grandiosa potenza del lavoro della Bausch, quanto la perizia tecnica del buon Wim, che da vero furbastro si è giocato - benissimo - la carta dell'illusione neanche fosse Christopher Nolan.
Peccato, perchè se invece di sfruttare il gioco delle tre carte della potenza della macchina da presa l'uomo che la conduce mi avesse preso per mano ed aperto le porte del mondo di Pina Bausch, sarei uscito dalla visione con gli occhi decisamente più luminosi.
In fondo, questo dovrebbe essere il bello del Cinema.


MrFord


"If you say run, I'll run with you
and if you say hide, we'll hide
because my love for you
would break my heart in two
if you should fall
into my arms
and tremble like a flower."
David Bowie - "Let's dance" -



venerdì 24 agosto 2012

Chiedimi se sono felice

Regia: Aldo, Giovanni, Giacomo e Massimo Venier
Origine: Italia
Anno: 2000
Durata: 100'




La trama (con parole mie): Aldo, Giovanni e Giacomo sono tre amici inseparabili che sognano, a fronte di una carriera non proprio brillantissima, di allestire uno spettacolo teatrale interamente gestito da loro. Nel frattempo, si spalleggiano l'un l'altro nelle vicende di tutti i giorni: Aldo tende a combinare spesso e volentieri casini con le sue numerose conquiste, Giacomo passa più tempo a "scarricare" le pseudo fidanzate del compare senza riuscire a trovarne una per lui e Giovanni bacchetta con la sua tendenza alla pignoleria entrambi. Quando Aldo chiede proprio a Giovanni di liberarsi della sua ragazza "ufficiale" e quest'ultimo finisce nell'appartamento sbagliato conoscendo l'hostess Marina, i sentimenti entrano in gioco e comincia un'inesorabile discesa verso un fatto che distruggerà l'amicizia dei tre e metterà fine al progetto per lo spettacolo.
Tre anni dopo Giacomo torna a bussare alla porta di Giovanni: Aldo è tornato in Sicilia, e sta male. Può essere che non ce la faccia. I due ripartono, ed il trio tornerà a formarsi un'ultima volta.





Per chi li ha conosciuti soltanto di recente, tra uno spot Wind ed una lenta discesa nella ripetitività e nella povertà di idee, l'idea che Aldo, Giovanni e Giacomo potessero aver centrato i primi tre film di loro realizzazione riuscendo ad avere i consensi di pubblico e critica suonerà strana, quasi non ci si potesse aspettare da loro niente di più del classico cinepanettone di livello leggermente più alto di quelli sfornati da Vanzina e soci: invece c'è stato un periodo - quello appena precedente al ritorno in teatro - in cui i tre comici rischiarono addirittura di diventare i nuovi volti della grande tradizione della commedia all'italiana.
Quel momento coincise con l'uscita in sala della pellicola che segnò il loro vertice artistico e creativo, una storia apparentemente semplice eppure per nulla scontata in cui si mescolavano la loro ironia mai eccessiva con temi decisamente più alti quali l'amicizia, l'amore e la morte: Chiedimi se sono felice, per l'appunto.
Ambientato ormai da loro tradizione per la maggior parte a Milano, questo lavoro realizzato come sempre affidandosi al mestiere di Massimo Venier - accanto al trio alla regia - parte a metà tra la malinconia e la tristezza, trasportando il pubblico in una dimensione nuova anche e soprattutto per chi aveva sempre visto i protagonisti alle prese con situazioni tendenzialmente leggere e spensierate: un'amicizia finita, una vita che si sta spegnendo, un viaggio che pare iniziare con le prospettive peggiori in una piovosa notte di settembre.
Eppure - come la voce narrante affidata ad Aldo rivela - ci furono tempi decisamente migliori per il legame fortissimo presente tra i tre aspiranti attori ridotti a fare comparse alla Scala, turni assurdi di doppiaggio o i mimi nei grandi magazzini: tempi in cui tutto pareva possibile, il sogno di portare in scena il Cirano era a portata di mano ed una nuova vita scalpitava ai nastri di partenza.
In questa fase della pellicola Aldo, Giovanni e Giacomo danno il meglio infilando una gag azzeccata dietro l'altra, dalla testata del primo alle lezioni impartite a Giacomo basandosi sul Teorema di Marco Ferradini, dai provini per la parte di Rossana alla problematica della cena "a tripla coppia", scaldando i motori per la sequenza forse migliore a livello recitativo che i tre abbiano mai confezionato nella loro carriera: il momento in cui l'amicizia si spezza ed il Cirano tanto inseguito finisce in pezzi come le sue scenografie.
Un momento che coglie impreparati i fan del trio per la sua forza e, soprattutto, drammaticità.
Ma le sorprese di questa pellicola non finiscono qui, e seguendo il viaggio di Giovanni e Giacomo per dare al loro vecchio amico un ultimo saluto assistiamo ad una sorta di piccolo ed artigianale gioco di prestigio che ribalta il significato dell'apertura e regala un finale dal sapore dolceamaro come solo gli ultimi giorni delle vacanze possono essere.
Senza contare, però, l'analisi della pellicola, le scene più divertenti e quelle meglio riuscite, ammetto anche di volere un gran bene a Chiedimi se sono felice: questo principalmente perchè qualche anno fa - esattamente nell'estate 2007 - finì per diventare il simbolo di una serenità ritrovata dopo una stagione di perdizione autodistruttiva - o quasi - che se fosse proseguita non avrebbe condotto a niente di buono per il sottoscritto.
Fortunatamente ci fu quella mattina nell'allora casa Ford, seguita da un certo viaggio a Padova e dall'inizio di qualcosa di unico e di grande, per dirla come Dalla.
In quel momento, dopo un periodo in cui mi pareva di vedere solo buio attorno, mi sentii per la prima volta leggero, ed effettivamente quella frase fece capolino anche nella mia realtà: chiedimi se sono felice?
E per la prima volta dopo tanto tempo, lo ero davvero.
Ma questa è un'altra storia.



MrFord



"Felicità
improvvisa vertigine
illusione ottica
occasione da prendere
parcheggiala
senza frecce o triangolo
tutti dormono già
e si é spento il semaforo
Ieri a te
oggi io sono il prossimo
quanto durerà
io lo chiedo agli altri ma
si vede che
c'era un filo invisibile
se n'è andata via
resta la scenografia."
Samuele Bersani - "Chiedimi se sono felice" -


 

giovedì 16 agosto 2012

Cesare deve morire

Regia: Paolo e Vittorio Taviani
Origine: Italia
Anno: 2012
Durata: 76'





La trama (con parole mie): all'interno dell'area di massima sicurezza del carcere di Rebibbia il progetto che vede i detenuti portare in scena spettacoli teatrali prevede che si lavori alla realizzazione del Giulio Cesare di Shakespeare, una delle tragedie più note del Bardo.
Partendo dal giorno della prima e andando a ritroso, i fratelli Taviani scoprono le vite dei protagonisti della piéce, i reati che li hanno portati dietro le sbarre e le riflessioni che i ruoli inducono in ognuno di loro: dal traffico di droga all'omicidio, gli occhi profondi ed i dialetti di questi insoliti interpreti divengono lo specchio di una vicenda senza tempo in grado di comporre un affresco drammatico e potente sull'essere Uomini, e le prove di quello che sarà un successo il giorno del debutto diverranno un percorso più importante dell'applauso del pubblico.





Da tempo - e, lo ammetto, non ricordo neppure esattamente da quanto - non mi capitava di giungere al termine della visione di una produzione nostrana così convinto della sua potenza: in qualche modo, devo essermi sentito come i fratelli Taviani, premiati con l'Orso d'oro a distanza siderale dall'ultimo trofeo della Berlinale finito in Italia - era il 1991, La casa del sorriso di Marco Ferreri -, orgoglioso di aver assistito, di fatto, ad un piccolo miracolo.
Perchè i due fratelli, ormai non più di primo pelo - Vittorio classe 1929, Paolo 1931 -, noti da una parte e dall'altra dei confini nazionali per titoli quali Padre padrone - vincitore della Palma d'oro a Cannes -, ormai dati sul viale del tramonto da molti, riescono a mettersi in gioco trovando un ponte ideale tra la fiction e il documentario, appoggiandosi a quello che è e resta il più grande sceneggiatore sul quale il Cinema possa contare - il buon, vecchio Bill Shakespeare - e sfruttando al meglio il realismo ed il fascino della mitologia carceraria, da sempre fonte di ispirazione per scrittori e registi dietro le sbarre e non.
Decostruendo, di fatto, lo spettacolo messo in scena dai detenuti del carcere romano di Rebibbia in modo da mostrarlo nella sua interezza al pubblico attraverso i provini ed il percorso che ha condotto alla prima, i registi pongono l'accento sugli interpreti dei suoi protagonisti e sul legame progressivamente costruito dagli stessi nel corso dello studio delle battute e delle prove con Giulio Cesare, Cassio, Bruto, Antonio ed il resto del cast of charachters.
L'occhio della macchina, presente ed elegante - le inquadrature, anche quelle apparentemente più realistiche, danno l'impressione di essere studiatissime - riesce nonostante queste caratteristiche a non risultare mai davvero sopra le righe, regalando all'audience momenti che paiono istantanee di vite figlie di una cattiva strada che ha il sapore dei pezzi di De Andrè ed altri che esplodono dallo schermo come pagine di grandissimo Cinema - le voci dei detenuti, come fantasmi, che aleggiano sul carcere nella notte, in attesa del confronto finale tra i congiurati responsabili della morte di Cesare ed il suo braccio destro Antonio nella piana di Filippi, in Grecia.
Un lirismo realista che ricorda il tocco di Pasolini e la tecnica di Bresson, emoziona e scuote senza colpi bassi o ruffianerie e mostra quanto soprattutto l'opera di Shakespeare possa essere geniale ed interpretata a molteplici livelli di lettura - i congiurati in attesa di portare a termine la loro missione intenti a parlare della posizione del sole, i dilemmi di Bruto ed il paragone tra Cesare ed un amico infame liquidato in quanto tale anni prima, le osservazioni sul De bello gallico, lo straordinario monologo di Antonio nel cortile del penitenziario -, a prescindere dalle epoche e dai contesti storici e sociali.
Il tutto senza mai dimenticare l'occhio da Maestri, che sfodera alcuni passaggi coreografici perfetti nel corso delle riprese della prima dello spettacolo - che mi hanno riportato alla mente il Mahabharata di Peter Brook - e della già citata battaglia di Filippi così come sequenze in bilico tra l'ironia, la tristezza e l'indagine sociale come quella dei provini per assegnare le parti nello spettacolo.
Ma non ci sono scelte di regia, fotografia o montaggio che possano compensare il vuoto profondo che attanaglia le vite consumate in una prigione, non-luogo per eccellenza al centro delle città reali eppure profondamente lontano da tutto e da tutti, vissuto nella nostalgia di una donna - Antonio che accarezza le poltroncine del teatro ancora in allestimento pensando a chi le occuperà - o nella presa di coscienza dell'arte e del suo valore a dare significati nuovi all'esistenza.
E la sua vicinanza, che stimola, riscatta e in alcuni casi addirittura redime - Edward Bunker docet -, è anche la sofferenza più grande di chi tra quelle mura spenderà il resto dei suoi giorni.
Non si fa questione di giustizia, o si lamenta la propria condizione: al contrario, come il condannato del Folsom prison blues di Johnny Cash, si sogna di andarsene lontani, in un posto in cui una cella non divenga la misura tale da far sembrare Shakespeare così ingombrante da non avere più spazio per respirare.


MrFord


"Tutto il giorno con quattro infamoni
briganti, papponi, cornuti e lacchè
tutte l'ore cò 'sta fetenzia
che sputa minaccia e s'à piglia cò me
ma alla fine m'assetto papale
mi sbottono e mi leggo 'o giornale
mi consiglio con don Raffaè 
mi spiega che penso e bevimm'ò cafè."
Fabrizio De Andrè - "Don Raffaè" -


mercoledì 11 aprile 2012

Synecdoche, New York

Regia: Charlie Kaufman
Origine: Usa
Anno: 2008
Durata: 124'



La trama (con parole mie): Caden Cotard, regista e produttore teatrale, vede la sua vita andare in pezzi, in bilico tra l'ipocondria che si porta appresso e l'abbandono della moglie Adele, quasi fuggita in Europa portandosi dietro la figlia Olive in modo da fare esplodere lontana dal marito il suo enorme talento artistico.
Per guarirsi da questa ferita l'uomo fa entrare ed uscire dalla sua vita Hazel, bigliettaia che pende dalle sue labbra e dai suoi sogni, per poi finire sposato all'attrice Claire ed avere una seconda figlia di cui non ricorda neppure il nome.
Nel frattempo, la sovvenzione di un riconoscimento importante gli permette di allestire uno spettacolo in totale libertà, in cui replicare la sua stessa esistenza e la città di New York neanche fosse una sorta di dio alla ricerca di risposte troppo grandi perfino per lui.
Il gioco delle parti arriverà ad una conclusione soltanto quando la morte metterà la parola fine ad uno spettacolo in perenne divenire. O forse no?




Era dai tempi di Kynodontas che non mi capitava di detestare così tanto un film impossibile da non riconoscere come gigantesco.
Charlie Kaufman, sceneggiatore geniale cui si devono cose come Il ladro di orchidee ed Eternal sunshine of a spotless mind si è presentato in casa Ford sfruttando l'esca appassionata gettata da Dae nella sua recensione di questo titolo con un film enorme, ambizioso e poetico quanto irritante e radical chic. Sfruttando un cast in stato di grazia - da Seymour Hoffman a Tom Noonan, da Michelle Williams a Samantha Morton - ed uno script così stratificato da riportarmi quasi immediatamente al ricordo del viaggio che fu Inland empire, Kaufman fa tutto il possibile fin dai primi minuti per mettermi in condizione di afferrare le mie ormai ben note bottiglie e schiantarle una dopo l'altra e più volte sulla sua testa, spingendo l'acceleratore su un'infinità di quelle apparenti stronzate forzatamente d'autore che tendenzialmente mi portano ad incazzature fuori dal comune.
Ma l'impressione che tutto fosse una trappola, o una sorta di banco di prova per capire se sarei stato in grado di arrivare ad una delle escalation conclusive più incredibili cui abbia assistito negli ultimi mesi - e in questo è riuscito a farmi tornare alla mente Take shelter - è rimasta, così mi sono ritrovato ad ingoiare i rospi così sistematicamente propinati dal regista in modo da capire, una volta giunti i titoli di coda, se davvero fosse valsa la pena di attendere, e resistere, o se i colpi proibiti del saloon avrebbero a ragione preso il sopravvento con un piglio ancora più deciso.
Ed eccomi, dunque, percorso da brividi, seguire l'impresa titanica di un piccolo uomo alle prese con le architetture complesse della vita - sua, e in generale -, riflettendo i fallimenti e le meschinità nelle conquiste e in un corpo poco generoso - quasi un'interpretazione sotto acido di La versione di Barney - che arriva a toccare il cuore di una donna dopo l'altra proprio a partire dalle sue insicurezze, da una fragilità che non permette di godere di un'esistenza così piena se non rifugiandosi in un'interpretazione di se stesso che assume dimensioni diverse - e di nuovo torna il personaggio incredibile interpretato da Noonan, splendido dall'inizio alla clamorosa uscita di scena - o nel lamento di chi ha troppa paura per poter effettivamente osare, o forse osa troppo dentro perchè tutto possa essere portato fuori.
E lo spettacolo in divenire, il tempo che si dilata e contrae, una città nella città, donne e figlie che scompaiono, crescono, muoiono, prendono il posto da protagoniste e sovvertono tutte le regole fa pensare a questo antieroe come ad una sorta di Don Giovanni in lotta per la sua anima, un uomo troppo piccolo per comprendere un disegno che riesce difficile solo immaginare, e che Kaufman rappresenta straordinariamente a livello visivo con l'ultimo viaggio attraverso un set che neppure Kane in Quarto potere avrebbe potuto pensare essere così mastodontico.
La Rosebud di Caden Cotard è una creatura sfuggita al suo controllo, è sua figlia, sua madre, sua moglie, sua amante.
La Rosebud di Caden Cotard è una città che si evolve, cresce e decade come il nostro corpo sotto il peso delle stagioni che passano. Successi o fallimenti non fermeranno il suo incedere.
La Rosebud di Caden Cotard è una voce dalla regia, che detta i tempi per un'esistenza di fronte alla quale lui stesso si è fatto ormai minuscolo, tornando ad essere un embrione di qualcosa che, chissà, forse sarà.
La Rosebud di Caden Cotard è una Godot che è arrivata. Ed è così enorme da portare sulle spalle da non poter permettere altro al suo uomo se non di lasciare che sia quella voce all'auricolare ad illustrare come potrà finire.
O andare avanti, ancora.
Una parte per il tutto: questa è la sineddoche.
Questo è Caden Cotard.
Questi siamo noi, rispetto alla vita.
Una parte per il tutto.
Quale saremo pronti a recitare?


MrFord


"That time when things got better
we'd take trips across the wire
like the night we took the mad acid
swore we saw the city hall on fire
we come from across the border
we drink the six mile water
this mongrel needs a new home
this mongrel needs a new home
(la-la-la-la) I'm sorry
(la-la-la-la) I'm sorry
(la-la-la-la) I'm sorry
but I'm not ready for home."
Therapy? - "Six mile water" -


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