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venerdì 23 giugno 2017

House of cards - Stagione 3 (Netflix, USA, 2015)





Esistono alcuni titoli che, in un modo o nell'altro, a prescindere dal fatto che possano oppure no essere vicini per interessi ed approccio alla vita a chi ne usufruisce, finiscono per catturare quasi avessero la capacità di ipnotizzare: uno di questi è senza dubbio House of cards, o "L'altro Frank" - con riferimento a Frank Gallagher - come lo ribattezza il Fordino.
Personalmente ho sempre detestato la politica, e tutto quello che ne consegue: certo, nel corso della vita ho mentito, tradito e combinato casini come molti dei rappresentanti di governo di tutto il mondo, eppure ho sempre pensato che un certo tipo di attività palesemente e fallibilmente umane fossero e dovessero rimanere personali, più che legate alla carriera di chiunque, sulla carta, dovrebbe dedicarsi al benessere della gente, nel senso più generale e sociale possibile.
Eppure, nonostante il mio disgusto verso un certo tipo di dinamiche in generale, non sono ancora riuscito a volere male a quel gran figlio di puttana di Frank Underwood.
Neppure e soprattutto quando, come in questo caso, passa un'intera stagione a giocare in difesa mostrando quanto sia difficile, una volta arrivati in cima, mantenere la posizione ed evitare che qualcuno predatorio quanto noi possa minacciare il posto, il prestigio il quello che volete guadagnato con il sudore della fronte ed una vagonata di ombre da fare invidia al peggiore dei villains dei fumetti.
Dai conflitti con il leader russo a quelli con l'inseparabile compagna e fautrice di successi Claire, passando per il duello con il Congresso e la candidata Dunbar, fino alla gestione degli uomini di fiducia come Remy e Doug, questo terzo giro di giostra si dimostra il più duro, per Underwood, passato dalla sua condizione ideale - quella dell'attacco - ad una decisamente più scomoda - la difesa forzata -: ma l'evoluzione è legata anche e soprattutto all'apprendimento, e la sopravvivenza ancora di più.
Dunque, assistiamo nel corso di questa terza stagione ad un'ulteriore evoluzione del Frank Underwood avido di potere che avevamo imparato al contempo a detestare ed amare nel corso delle prime due, e ad un trampolino di lancio per una quarta che si preannuncia da fuochi d'artificio, considerati gli eventi del season finale.
Quello che è certo, ad ogni modo, a prescindere da come si percepisca il main charachter, è che House of cards resta una delle proposte attualmente più avvincenti che il piccolo schermo possa offrire, dalle interpretazioni pazzesche di Spacey e della Wright alla tensione costante e continua: potrebbe essere definito un thriller, un political drama, un saggio critico sulle ombre dei corridoi del potere, una black comedy, e via discorrendo.
Ma il fatto è che House of cards è House of cards.
Ovvero una delle cose migliori che vi possano capitare per le mani parlando di piccolo schermo.
E se non volete ritrovarvi a fare i conti con "l'altro Frank", vi converrebbe davvero darmi ascolto.




MrFord




 

venerdì 20 gennaio 2017

Allied - Un'ombra nascosta (Robert Zemeckis, UK/USA, 2016, 124')




Ogni volta che incrocio il cammino con produzioni come Allied rimpiango - e non poco - i tempi del Bullettin, quando mi bastavano quattro o cinque righe per chiudere la recensione.
Devo ammettere, giusto per non apparire prevenuto, che, nel caso dell'ultimo lavoro di Zemeckis, pensavo di restare molto, molto più deluso: in fondo, questo Un'ombra nascosta - consueto ed inutile adattamento italiano - è a conti fatti un film innocuo che non aggiunge nulla alla storia di uno spettatore navigato quanto di uno casuale ed alle prime armi, incapace di fare davvero incazzare, e neppure così terribile da annoiare.
Ma resta il fatto che, perizie tecniche a parte, il pensiero che ha accompagnato la visione dal primo all'ultimo fotogramma è stato uno ed uno soltanto: se qualcuno come Hitchcock avesse avuto la possibilità di lavorare a sceneggiatura e regia, incattivendo il finale e lasciando la sua firma, Allied avrebbe avuto tutte le carte in regola per poter diventare un grande film, complici temi importanti e profondi come l'amore, il matrimonio, il legame con un'altra persona cui affidiamo la vita e dalla quale per molti versi, da esseri umani, dipendiamo pur non conoscendone i segreti più profondi.
A fronte di tutto questo è senza dubbio molto triste il fatto che, per quasi tutta la durata della pellicola, il mio pensiero principale sia stato quello che, per la prima volta - e forse complice un look sempre precisino e poco wild -, mi è parso di notare davvero il fatto che anche Brad Pitt - con Tom Cruise e Johnny Depp una delle icone della mia generazione - stia cominciando davvero ad invecchiare: un'aggravante senza dubbio per quello che dovrebbe essere un titolo profondamente drammatico - seppur non coraggioso fino alla fine, da buon, vecchio film USA - e carico di tensione, che avrebbe il dovere di vivere sul dubbio istillato nello spettatore e non sulle osservazioni legate alla pelle in lento rilascio sul collo del protagonista, sex symbol di almeno un paio di generazioni di spettatrici.
In un certo senso, Allied rappresenta il prototipo del film manifesto di una mancanza di idee e stimoli che induce l'autore di turno a rispolverare l'atmosfera di un grande periodo ormai passato - in questo caso, l'epoca d'oro degli Studios - fallendo nel suo intendo proprio a causa delle basi poco solide del progetto: niente di particolarmente brutto, quanto più che altro qualcosa di ininfluente ed a suo modo molto noioso.
E purtroppo, non parlo di noia in termini di rottura di coglioni di vario livello, quanto di incapacità di sorprendere davvero, portando in scena un prodotto che pare un manichino senza vita, un pò come la protagonista femminile, una Marion Cotillard per la quale appaiono lontanissimi i tempi di Un sapore di ruggine ed ossa ed essersi adagiata su una bellezza che, conviene cominci ad abituarsi, il Tempo - e già si comincia a notare - non lascerà intatta.
In un certo senso, l'unica speranza di godere davvero del risultato di produzioni come questa, è di non aver masticato nulla di Cinema, in modo da rimanere sul filo nell'attesa di scoprire la risoluzione della trama ed immaginare cosa accadrebbe se qualcuno vi dicesse che la vostra amata - o amato - è una spia che dovete, in caso di conferma del sospetto, giustiziare: nel mio caso, ho immaginato un finale ben peggiore di quello che Zemeckis ha portato sullo schermo.
E che, ai miei occhi, non è parso neppure il difetto più grande di un film senza vizi di forma ma privo di qualsiasi idea.




MrFord






mercoledì 24 febbraio 2016

The Danish Girl

Regia: Tom Hooper
Origine: UK, USA, Belgio, Danimarca, Germania
Anno: 2015
Durata: 119'






La trama (con parole mie): Einar e Gerda Wegener sono marito e moglie, due artisti piuttosto conosciuti nella comunità della pittura di Copenaghen negli Anni Venti del Novecento. In particolare, è il primo a riscuotere successo e raccogliere riconoscimenti, fino a quando, a seguito di un gioco legato alle pose per alcuni quadri della moglie, si risveglia in lui il desiderio sopito fin dall'infanzia di vivere la propria vita come una donna.
Entrato in crisi creativa e personale, giudicato pazzo dai medici ed assistito dall'inseparabile Gerda, Einar si muove con la compagna a Parigi, dove la donna trova la sua realizzazione artistica proprio grazie alla serie di dipinti che ritraggono il marito nelle sue vesti femminili: quando anche la capitale francese e l'aver ritrovato un amico d'infanzia di Einar, Hans, cominciano a stare stretti ai Wegener, Einar prende una decisione che sarà destinata a cambiare la Storia.
Seguito dal professor Warnekros, un pioniere della chirurgia, l'uomo ha infatti intenzione di dire addio per sempre alla sua parte maschile e diventare donna a tutti gli effetti.












Se qualcuno mi avesse detto, anche solo scherzando, che il giorno dopo essermi goduto senza ritegno una cosa grandiosa e scoppiettante come Deadpool, sarei riuscito non solo a digerire, ma anche a trovare interessante The Danish Girl, drammone romantico ambientato tra la Danimarca, Parigi e Dresda nel corso della seconda metà degli Anni Venti del Novecento, firmato dal finto radicalchicchissimo Tom Hooper pronto a portarlo sullo schermo con l'eleganza più di un fotografo che di un cineasta, avrei riso della grossa.
A dispetto, invece, della predizione di bottigliate selvagge che pendeva sul capo di questo film come la più pesante delle spade di Damocle, ho finito non solo per non patirne il ritmo ed i toni, ma anche per appassionarmi alla storia di Einar e Gerda Wegener come ad un romanzo da sturm und drang di quelli che mi facevano impazzire a sedici o diciassette anni, quando sognavo una carriera sfolgorante come poeta e scrittore maledetto ed una morte appena dopo i trenta: inoltre, la tematica trattata, per quanto lontana anni luce dalla galassia del Saloon, risulta importante a livello sociale soprattutto in questo periodo e per il futuro, quando si spera che la civiltà prenderà finalmente le redini rispetto alle questioni legate alle differenze culturali, sessuali, razziali, religiose e via discorrendo e finirà - si spera - per farne un punto di forza, e non di debolezza del nostro impianto sociale.
Interpretato benissimo dai due protagonisti - entrambi, comunque, a mio parere enormemente sopravvalutati in termini di bellezza oggettiva -, puntellato su comprimari convincenti ed un'estetica senza dubbio notevole, The Danish Girl pare quasi ipnotizzare sfruttando la sensibilità del singolo spettatore, da chi subirà il fascino della "storia d'amore al contrario" di Gerda ed Einar o di Lili a chi, invece, seguirà con più partecipazione il viaggio verso l'emancipazione della stessa Lili, così come chi, semplicemente, si gusterà il tutto come una vicenda molto passionale per quanto, di fatto, vissuta tutta per sottrazione, dal rapporto tra i due sposi a quello tra Gerda ed Hans: il risultato è un viaggio emotivo e, perchè no, anche estetico che lascia senza dubbio più di un brivido pur concedendo troppo specialmente nella parte finale, con una strizzata d'occhio decisamente marcata all'Academy ed alla retorica.
Ma sono peccati veniali di un film che resta profondamente intenso, e che riesce a fotografare - pur se non bene come in The end of the tour, presto qui al Saloon - con grande sensibilità il disagio profondo di chi non si sente al proprio posto in questo mondo, che sia a causa del proprio corpo o della propria mente: un disagio che non è figlio di follia, ma di una sensibilità che viaggia su binari differenti da quelli che ci si aspetterebbe di percorrere in una quotidianità incasellata, e che spesso, nel corso della Storia, ha significato una vera e propria condanna per chi l'ha vissuta sulla pelle.
Una critica, invece, senza appello, è rivolta all'utilizzo dell'inglese come unica lingua parlata della pellicola: comprendo la facilità in termini di produzione - il danese, in effetti, non dev'essere così semplice da imparare per un attore anglosassone -, ma le sfumature delle inflessioni - specialmente rispetto ai personaggi di Hans e del professor Warnekros, interpretati dal belga Schoenaerts e dal tedesco Sebastian Koch -, sarebbero state indubbiamente più incisive.
Dettagli, comunque - un pò come quella sciarpa nel vento del finale, hollywoodiana oltre misura - , per un film che non solo si lascia guardare e colpisce, ma è riuscito nell'impresa di lasciarsi guardare e colpire anche un tamarro vecchio stile come il sottoscritto.
Un risultato già notevole.





MrFord





"One man, one woman
two friends and two true lovers
somehow we'll help each other through the hard times
one man, one woman
one life to live together
one chance to take that never comes back again
you and me, to the end."

ABBA - "One man, one woman" - 








lunedì 16 novembre 2015

Tutto può accadere a Broadway

Regia: Peter Bogdanovich
Origine: USA, Germania
Anno: 2014
Durata: 93'






La trama (con parole mie): Isabella, una giovane escort nata e cresciuta nei sobborghi di New York, si ritrova a dover trascorrere una delle sue serate di lavoro con un regista di Broadway che cela la sua identità per preservare matrimonio e tranquillità del focolare.
Lo stesso regista, dopo averla portata fuori a cena ed averle regalato una nottata indimenticabile, si offre di donarle trentamila dollari in cambio di una promessa, ovvero mollare il lavoro più antico del mondo per coltivare i suoi sogni.
Tempo dopo la stessa ragazza, trasferitasi in città per tentare di costruirsi una carriera come attrice, si ritrova ad un provino per uno spettacolo che vede l'uomo come regista e la moglie di quest'ultimo come protagonista femminile: il loro secondo incontro sarà l'innesco di una serie di coincidenze e guai sentimentali che coinvolgeranno tutto il cast.










Per quanto mi riguarda, basterebbero L'ultimo spettacolo e Paper moon per voler bene a Peter Bogdanovich, e consegnarlo in tutta onestà alla Storia del Cinema.
Sinceramente, tra le altre cose,  pensavo che ormai non avrei più rivisto in sala un suo nuovo lavoro, e che i recuperi sarebbero stati il solo modo per assaporare la sensazione di avere a che fare con un piccolo ma importantissimo pezzo della settima arte statunitense.
E invece, quasi a sorpresa, con ogni probabilità per le evidenti influenze ed apparenze alleniane, è giunto addirittura in sala nella Terra dei cachi She's so funny that way, adattato come lo avrebbe adattato un gruppo di scimmie urlatrici lasciate senza banane per settimane con Tutto può accadere a Broadway, commedia degli equivoci ambientata nel cuore dell'ambiente teatrale newyorkese in grado di accontentare tanto il pubblico più radical in cerca di uno sfizioso divertissement quanto il pubblico più generico che di Bogdanovich non conosce nulla e che, chissà, forse è finito seduto sulla poltrona pensando che dietro quello strano pseudonimo si celasse, per l'appunto, Woody Allen.
Perchè, in bilico tra jazz ed equivoci, ironia e psicanalisi, fotografie di rapporti alla deriva e di cotte destinate ad un solo, grande caos, questo film è quanto di più simile al Cinema dell'autore di Pallottole su Broadway e Manhattan si possa trovare al momento in tutto il mondo, suddetto autore compreso.
Dunque, l'apparenza di Tutto può accadere a Broadway sarà stata un vantaggio oppure no, qui al Saloon, per Bogdanovich ed i suoi?
La risposta è semplice e diretta: assolutamente sì.
L'ora e mezza di questa commedia estremamente brillante, giocata ed interpretata con leggerezza, dal cast azzeccatissimo e dalla colonna sonora smooth è scorsa come un cocktail di quelli che non si dimenticano, pronto a scivolare fin nello stomaco dando il suo colpo di grazia quando meno ce lo si aspetta, giusto prima di tornare a casa, quando ci si rialza dal tavolo e ci si accorge di non reggersi più troppo bene sulle gambe: le vicende di Isabella e di Arnold, la prima sognatrice legata a doppio filo al concetto più meraviglioso di Cinema ed il secondo inguaribile seduttore pronto a sfoderare le sue armi sempre efficaci e sempre uguali, quasi fosse un serial killer dedito allo stesso rituale - il tormentone di scoiattoli e noci è una vera chicca, per quanto "non originale" sia -, riempiono lo schermo con la giusta dose di sorrisi amari, risate sguaiate, riflessioni e tutto quello che si può chiedere ad un prodotto "alto" che, di fatto, si trasforma nell'intrattenimento puro della parte più intellettuale della settima arte.
Un intrattenimento che potrebbe rischiare di far storcere il naso tanto ai "duri e puri" quanto a chi non è abituato a questo tipo di prodotto -  e che potrebbe arrivare a definirlo verboso prima ancora che noioso - che in realtà è un omaggio al Cinema di ieri e di oggi, dalle commedie romantiche anni cinquanta ai noir, dal teatro allo slapstick, da Audrey Hepburn a Quentin Tarantino: e resto convinto che soltanto un vecchio leone come Bogdanovich, aiutato da un gruppo di attori decisamente affiatato, avrebbe potuto raccontarlo con lo stile ed il tocco giusti, senza esagerare da una o dall'altra parte.
Certo, non risulterà imperdibile o sarà un titolo destinato a spodestare Io e Annie dalle personali classifiche del cuore degli appassionati, eppure resto convinto che, se esistessero più film di questo tipo, anche un certo Cinema d'autore "hipster" osteggiato dal grande pubblico avrebbe tutti i riconoscimenti ed il rispetto che merita: in fondo, il grande schermo vende sogni pronti ad alimentare aspirazioni, ideali ed idee di persone che vengono da ogni latitudine e realtà.
E poco importa, che siano scoiattoli e noci, o noci e scoiattoli.
L'importante sarà aver vissuto quel sogno.




MrFord




"American girls are weather and noise
playing the changes for all of the boys
holding a candle right up to my hands
making me feel so incredible."
Counting Crows - "American girls" - 





sabato 28 marzo 2015

Missing New York

Autore: Don Winslow
Origine: USA
Anno: 2014
Editore: Einaudi




La trama (con parole mie): Frank Decker è un detective della polizia di Lincoln, in Nebraska, ha trentacinque anni, una carriera promettente ad attenderlo - si dice sia il candidato più probabile per la successione nel ruolo di Capo della Polizia locale - ed un matrimonio che, se non fosse per i figli che non arrivano, prosegue senza alcun problema apparente.
E' un uomo tutto d'un pezzo, vecchia scuola, reduce dell'Iraq, legato all'istinto ma anche ad una solida etica morale.
Quando la piccola Hayley Hansen scompare, la sua vita cambia: la promessa fatta alla madre della bambina di ritrovarla a tutti i costi, infatti, diviene la miccia pronta a far esplodere la sua intera impalcatura sociale: mollato il lavoro e lasciato naufragare il matrimonio, con i risparmi del padre da sempre messi da parte per una casetta da pesca sul lago Deck comincia un viaggio per le strade degli USA che lo porterà, in oltre un anno di ricerche, sulle tracce di chi, forse, sa dove la piccola può essere finita.
Sempre che sia ancora viva.








A prescindere dal fatto che ora sia padre, ci sono argomenti che mi sono sempre stati a cuore: uno di questi, e forse uno di quelli cui sono maggiormente sensibile, è la violenza o l'abuso rispetto ai minori.
Parallelamente, e considerando materie decisamente più leggere, trovo che il fascino del "lone rider" legato alla strada, agli errori e disequilibri tanto quanto agli slanci irrefrenabili e passionali sia uno dei più irresistibili presenti nella realtà così come nella finzione.
Don Winslow, uno degli autori che ho più amato nel corso degli ultimi dieci anni, con questa sua ultima fatica è riuscito alla perfezione ad unire i due elementi appena citati: una storia crime dal ritmo serrato del thriller d'alta scuola unita ad un main charachter destinato a rimanere nel cuore del lettore per lungo tempo, umano e vivo come piacciono da impazzire da queste parti.
Perchè Frank Decker, o Deck, come perfino sua moglie Laura ama chiamarlo, è un tipo old school, tutto d'un pezzo, abituato a battersi ma non per questo incline a farlo, deciso quanto delicato, generoso quanto profondamente egoista: del resto, salvare qualcuno - specialmente quando il qualcuno in questione è l'emblema dell'innocenza e della meraviglia -, è un pò come salvare se stessi.
Era dai tempi dell'Harry Hole di Nesbo o degli Hap e Leonard di Lansdale - e non sto certo parlando di piccoli calibri - che non mi capitava di imbattermi in un protagonista con il quale empatizzare così tanto: la scommessa di Deck nel mettersi alla ricerca della piccola Hailey Hansen, il suo viaggio attraverso un'America lontana e distaccata quanto partecipe e viva sulle note del più che proletario Springsteen trasformano Missing in un romanzo on the road tra i più appassionanti che il genere possa offrire, lontano senza dubbio dai fasti de Il potere del cane ma non per questo non in grado di tracciare solchi profondi nel cuore di chi lo affronta.
Ma non voglio trasformare il post di questo lavoro che ho sentito profondamente nelle budella in una recensione nuda e cruda: voglio sia chiaro il brivido provato nel seguire pagina dopo pagina le imprese di un uomo comune, che potrebbe essere un amico, il vicino, un fratello, o un genitore - non se la prenda male il vecchio Deck - deciso a rendere il luogo in cui viviamo un posto migliore, fosse anche solo per l'innocenza probabilmente perduta ma ugualmente e profondamente cercata di Hailey.
Tutti noi sappiamo bene che seguire il valzer dei giorni ponendosi domande ed affrontandole non è il più facile dei modi in cui vivere, tanto quanto sia più semplice scoprire come essere indifferenti - o lasciarsi catturare dal fascino di un ruolo "limitato" - che non tentare a tutti i costi di cambiare le regole, sovvertire il Destino, portare chi non l'avrebbe mai sospettato davanti ad un banco dei testimoni, a prescindere dalla posizione sociale, il conto in banca, il numero di favori che in questi casi si finisce per essere pronti a chiedere, pur se a malincuore.
C'è chi va a caccia di nuovi "talenti", senza alcun obbligo fisico o remora morale, e chi, al contrario, lotta per mantenere una parvenza di normalità ed equilibrio al cospetto degli individui di tale risma, quasi potesse sospendere il giudizio nonostante si augurerebbe per loro le più atroci sofferenze.
Probabilmente non sarò mai stupido, coriaceo o anche soltanto pronto quanto il personaggio creato da Winslow, in grado di risvegliarsi dal torpore modaiolo di Le Belve e I re del mondo finendo per confezionare la sua opera più matura dai tempi di Satori: la vicenda di Deck è quella di molti spiriti indomiti, coraggiosi o semplicemente cacciatori di gloria in attesa dell'occasione di una vita, quella fornita dallo sguardo di una madre che sarà eternamente riconoscente al salvatore della sua piccola, il suo amore, il suo sangue.
Ma comprendo il significato di ogni gesto, il senso di una ricerca anche senza speranza.
Quello della possibilità che Hailey ci sia, comunque vada.
Qualunque cosa resti.
E a conti fatti, è sempre sicuro che resti Frank Decker.
Perchè senza Deck, questo romanzo sarebbe solo un buon thriller.
E i sogni on the road non avrebbero la stessa forza.




 MrFord




"Licence, registration, I ain't got none,
but I got a clear conscience
'Bout the things that I done
Mister state trooper please don't stop me..."
Bruce Springsteen - "State Trooper" -












venerdì 20 marzo 2015

Non sposate le mie figlie!

Regia: Philippe De Chauveron
Origine: Francia
Anno: 2014
Durata:
97'





La trama (con parole mie): i Verneuil sono una coppia di vecchi signori benestanti e cattolici legati ai valori ed alla realtà della Francia passata, con quattro figlie delle quali tre finite in spose rispettivamente ad un ebreo, un arabo ed un cinese. Già messi in crisi da questi legami e continuamente provati dalle difficoltà di riuscire a costruire un rapporto equilibrato senza che qualche commento di troppo - da una parte e dall'altra - porti a degenerare, i due anziani "suoceri" si troveranno ad affrontare la loro prova più dura quando la figlia minore ed ultima a doversi accasare deciderà di convolare a nozze con un attore di origini ivoriane.
L'organizzazione del matrimonio, le tensioni tra le sorelle - ed i rispettivi mariti - e l'arrivo in Francia per l'occasione della famiglia di Charles - questo il nome dell'ultimo arrivato in casa Verneuil - scateneranno una serie di fraintendimenti che potrebbero costare la cerimonia: riusciranno proprio i padri degli sposi, inizialmente su fronti opposti, a mettere una pezza?








Ricordo bene la sera in cui, qui in casa Ford, approcciammo questo Non sposate le mie figlie!.
Ero nel pieno di una delle influenze peggiori degli ultimi anni, probabilmente Julez ragionava pensando a farmi un favore lasciando che mi schiaffassi un film dietro l'altro per bilanciare la pausa forzata dagli allenamenti, ed entrambi non nutrivamo aspettative alte per una pellicola che, dal canto suo, in Francia si era rivelata campione d'incassi della stagione invernale.
Certo, i bei tempi di Quasi amici paiono lontani anni luce, ed i nostri cugini d'Oltralpe non sembrano mostrare lo smalto di qualche anno fa, eppure il lavoro di Philippe De Chauveron funziona, entro certi limiti, diverte quanto deve e risulta essere sicuramente più coraggioso ed ironico - soprattutto a fronte di un tema delicato come l'integrazione - di quanto non potrebbe mai essere un suo epigono italico, attento a non calcare troppo la mano per evitare di offendere questo o quell'altro.
Fortunatamente i dal sottoscritto tanto detestati francesi non sono afflitti dagli stessi problemi, e dunque seppur appoggiandosi ad una sceneggiatura piuttosto esile, il buon De Chauveron confeziona un prodottino garbato e spassoso, che tocca temi universali come i rapporti tra genitori e figli e mariti e mogli così come l'attuale realtà dell'integrazione a tutto tondo senza risparmiarsi colpi bassi all'indirizzo di tutti, dai bianchi, agli ebrei, agli arabi, ai cinesi fino agli africani, neanche ci si trovasse all'interno di una barzelletta vecchia scuola.
Dunque, azzeccando alcune sequenze effettivamente molto divertenti - il primo litigio tra i mariti delle Verneuil, il rapporto tra i due padri scettici divenuti progressivamente amici sotto il segno di Charles De Gaulle sul finale - e mantenendo un ritmo abbastanza sostenuto, la visione scorre senza troppi patemi, proponendo un tema attuale senza affondare nella retorica o richiedere, allo stesso tempo, un impegno eccessivo da parte del pubblico: un esperimento riuscito premiato dagli incassi e, chissà, aperto anche ad un sequel che potrebbe vedere i due vecchi Verneuil visitare le città d'origine delle famiglie dei loro generi, dalla Costa d'Avorio a Israele, dal Marocco alla Cina.
Un titolo da gustare in famiglia, e forse un modo per trovare un dialogo con genitori vecchio stampo ancora piuttosto refrattari non solo alla cucina etnica ma anche ad una cultura che corre - fortunatamente - nella direzione di una multiculturalità totale già a partire dai principali centri urbani - in questo senso, il riferimento alla possibilità di una società messa in piedi dai primi tre mariti per la distribuzione di prodotti bio Halal è fantastico -, e che sta vedendo nascere figli e nipoti di immigrati che cresceranno e studieranno da italiani - nel nostro caso - portando al contempo un bagaglio legato alle origini dei loro padri o nonni.
C'è da sperare, in questo senso, che l'Italia sia davvero pronta ad un passo simile, e che non faccia la figura del rigido borghesuccio bigotto in crisi perchè la figlia ha deciso di sposare "lo straniero": in quel caso l'ideale sarebbe liberare la battuta facile e sparare a zero, pur sapendo che qui nella Terra dei cachi alcuni riferimenti religiosi o più biecamente legati ai luoghi comuni ed usati per provocare non sarebbero mai passati ad una produzione nostrana.
Ma poco importa: si può sempre fare tesoro della lezione di cose esiline ma efficaci - a loro modo - come questa, e cercare di guardare al futuro mantenendo la mente elastica e la battuta pronta.
In fondo, lo scambio culturale può tranquillamente avvenire attraverso un bel duello verbale che non risparmia colpi bassi a nessuno: e dopo essersele cantate di santa ragione, non ci sarebbe niente di meglio che una bella mangiata e bevuta con reciproco scambio di ricette per accorciare le distanze.
In fondo, a prescindere dalla latitudine, ci sono passioni che accomunano tutti gli uomini: quelle legate agli appetiti e alla pancia, che parlano una lingua universale e paiono abbracciare senza alcuna distinzione di razza, credo, sesso o colore della pelle.





MrFord





"But I see your true colors
shining through
I see your true colors
and that's why I love you
so don't be afraid to let them show
your true colors
true colors are beautiful,
like a rainbow."
Cindy Lauper - "True colors" - 




mercoledì 28 gennaio 2015

Big Eyes

Regia: Tim Burton
Origine: USA
Anno:
2014
Durata: 106'





La trama (con parole mie): siamo sul finire degli anni cinquanta quando Margaret, insieme alla figlia Jane, lascia una vita che le stava stretta per un futuro da costruire da zero a San Francisco. Qui conosce Walter, un uomo dalla parlantina svelta e dalle grandi abilità di venditore, come lei pittore, che si offre di sposarla e garantirle un futuro quando il suo ex minaccia di portarle via la bambina: dalla loro unione e dal sodalizio artistico che ne seguirà nascerà una delle truffe più colossali dell'arte contemporanea, giocata attorno allo scambio d'identità avvenuto tra marito e moglie a proposito della paternità dei quadri dedicati ai bambini dai grandi occhi, dipinti da Margaret ma spacciati come opere di Walter.
Superato un inizio difficile, giungeranno fama e denaro, ma quando il rapporto tra i due coniugi si incrinerà, avrà inizio una vera e propria battaglia giudiziaria atta a dimostrare chi davvero fu l'autore di alcuni dei quadri più famosi, riprodotti e venduti del mondo.








Una delle magie più spettacolari che l'Arte - ed il Cinema con essa - è in grado di regalare è quella dell'illusione, dell'evasione dalla realtà, della reinterpretazione di una vita che, spesso, a chi sta dall'altra parte sta stretta, o troppo larga, ed in quello che guarda cerca un'esistenza che non sia la sua, o quantomeno che sia quella che vorrebbe fosse.
Personalmente, amo molto questa parte dell'esperienza di spettatore, e mi piace, quando non cerco una realtà più vera nella quale specchiarmi, farmi ingannare dal "prestigio" - per dirla come Nolan - legato a quello che non c'è: in un certo senso, i film di Tim Burton sono un cocktail di entrambe le cose. Al buon, vecchio Tim è sempre piaciuto parlare di vicende estremamente quotidiane sfruttando spesso e volentieri cornici inusuali: proprio per questo, forse, uno dei motivi di discussione che maggiormente hanno riguardato questa sua ultima fatica - un biopic con licenze poetiche ispirato dalla vita di Margaret Keane e dal suo rapporto con il marito e complice Walter - è stato quello legato alla sua poca associabilità stilistica a quello che, di norma, si finisce per aspettarsi da un prodotto per l'appunto burtoniano.
Onestamente, trovo che la questione di quanto possa essere associato al suo padre artistico Big Eyes sia assolutamente superflua: il regista di Burbank, di fatto, racconta con perizia - soprattutto rispetto alla ricostruzione d'epoca ed alla fotografia - una vicenda che tocca temi a lui cari - il rapporto tra genitori e figli, le storie d'amore, l'evasione attraverso un'arte a suo modo dark - ispirandosi alla battaglia che vide opporsi Margaret e Walter Keane rispetto alla firma delle "loro" opere.
Il problema di Big Eyes, piuttosto, pare essere la sua assoluta mancanza di carattere: in un certo senso, per essere una pellicola completamente schierata dalla parte di Margaret, il lavoro di Burton appare più simile a Walter, con tutte le sue chiacchiere - insopportabilmente gigione Christoph Waltz, nel ruolo forse peggiore che io ricordi - e fumo negli occhi pronti a distogliere il pubblico dalla questione ben più grave legata alla carenza di ispirazione ed idee dell'uomo dietro la macchina da presa, che si affida ad una sceneggiatura tutto fuorchè impeccabile allontanandosi ancora una volta dai fasti del suo ultimo - e vero - Capolavoro, Big Fish: negli ultimi anni, infatti, il buon Tim si è barcamenato tra blockbuster sopravvalutati - La fabbrica di cioccolato -, sbiadite copie di se stesso - Sweeney Todd, Dark Shadows - ed abomini veri e propri - Alice in Wonderland - illudendo i suoi vecchi fan soltanto con Frankenweenie, del resto rielaborazione di un lavoro giovanile, senza più mostrare freschezza e soprattutto voglia di raccontare.
Di fatto, da narratore, pare essere passato ad essere un mero esecutore, e neppure così strabiliante come ad una certa parte della critica piace dipingerlo, soprattutto in virtù del suo appeal sul grande pubblico.
Più che, dunque, un nuovo capitolo della carriera di Tim Burton o un titolo che si discosta dal suo universalmente noto stile, Big Eyes mi pare rappresentare la già nutritissima - almeno quest'anno - categoria dei biopic da Oscar targati Hollywood senza nulla che possa davvero rimanere impresso nell'audience, che si parli di cuore o di testa.
In un certo senso, la visione di questo film potrebbe essere paragonabile all'acqua della pasta senza sale, o ad una di quelle visite ai musei organizzate ai tempi della scuola, quando di scoprire cosa ci sta attorno è importante solo in relazione al fatto che si potrebbe finire per saltare un giorno intero in classe: e questo sia che sulle pareti si trovino i quadri di Margaret Keane o di qualsiasi altro.
Se gli occhi sono lo specchio dell'anima, quelli di quest'opera e del suo regista appaiono ormai vuoti e privi di qualsiasi scintilla di luce.
E poco importa, a quel punto, quanto saranno grandi.




MrFord




"I saw you creeping around the garden
what are you hiding?
I beg your pardon don't tell me "nothing"
I used to think that I could trust you
I was your woman
you were my knight and shining companion
to my surprise my loves demise was his own greed and lullaby."
Lana Del Rey - "Big eyes" - 




martedì 27 gennaio 2015

La teoria del tutto

Regia: James Marsh
Origine: UK
Anno:
2014
Durata:
123'





La trama (con parole mie): Stephen Hawking, promessa assoluta della fisica, conosce ai tempi dell'università la sua futura moglie Jane, diversamente da lui votata alle materie umanistiche ed alla Fede. Il loro rapporto sarà l'ancora alla quale l'uomo si appoggerà per fronteggiare la malattia degenerativa che gli viene diagnosticata all'inizio degli anni sessanta e che lo accompagnerà per tutto il resto della vita, sconfiggendo le probabilità che lo davano morto entro due anni divenendo marito, padre, volto simbolo della scienza, autore di best sellers nonchè "nuovo Einstein".
Il rapporto con la stessa Jane, non privo di ombre, ha di fatto contribuito a formare la coppia in quanto tale ed i suoi appartenenti come individui, che si parli di conquiste in termini di studi o umane: in fondo, il miracolo della creazione e le sue conseguenze, finiscono per essere alla portata della più grande mente immaginabile così come per il più semplice degli uomini.







Come ormai più volte mi è capitato di raccontare tra una recensione e l'altra, ormai parecchi anni or sono - quattordici, per l'esattezza - ho prestato i miei dieci mesi di servizio civile lavorando in ambito universitario assistendo per tutto quello che riguardava questioni logistiche - colloqui con i professori, esami, pranzi, seminari e spostamenti nell'area delle vicinanze dell'Università stessa - studenti con disabilità fisiche: per molti versi, e per quanto ora come ora, se mi ritrovassi a scegliere, penso non disdegnerei - con tutti  i limiti del caso - l'esperienza del militare, quei dieci mesi hanno significato non soltanto uno dei periodi più importanti della mia crescita, ma anche l'esperienza lavorativa più gratificante che abbia mai provato.
Non lo dico per compiacenza o pietismo, sia chiaro: in quel periodo ho conosciuto ragazzi con due palle grandi come interi sistemi planetari - Antonio "Panzer" e Gloria, che spero siano più che felici e tosti come allora ancora oggi -, altri che si crogiolavano nella condizione in cui erano ed altri ancora che, in tutto e per tutto, erano dei veri stronzi pronti a farti sentire in colpa come se fossi la causa delle loro sfortune.
Nessuno di loro, probabilmente, era un genio del calibro di Stephen Hawking, così come probabilmente non lo è nessuno di noi che frequentiamo la blogosfera.
Eppure, le reazioni e la gestione delle emozioni, i pregi ed i difetti erano lì, dove sarebbero stati comunque anche in situazioni diverse, e dove probabilmente sempre saranno.
In questo, La teoria del tutto - seppur, forse, con intenti di partenza diversi - riesce abbastanza bene a mostrare quanta normalissima e splendida umanità si trova anche in condizioni apparentemente straordinarie - ed alludo sia alla condizione di disabilità di Hawking, sia a quella di genio assoluto -, e trova la sua massima espressione nella strepitosa sequenza del momento della rottura definitiva tra il già citato Stephen e la sua compagna di una vita, con il cursore che viaggia velocissimo da una risposta preimpostata all'altra sul computer che da voce al fisico senza fermarsi su nessuna di esse, quasi non avesse davvero parole per decretare la fine di un rapporto.
Peccato che, esclusi il suddetto passaggio, l'interpretazione obiettivamente ottima di Eddie Redmayne - lanciatissimo verso l'Oscar - ed un comparto tecnico notevole, il resto non sia altro che l'ennesima, zuccherosa, prolissa ed a tratti noiosa pellicola hollywoodiana in odore di Oscar.
Peccato davvero, perchè James Marsh, l'uomo dietro la macchina da presa, neppure troppo tempo fa aveva finito per lasciarmi a bocca aperta grazie allo splendido documentario Man on wire - ispirato dalla vicenda che nei prossimi mesi diverrà un film diretto da Robert Zemeckis -, lasciava intendere - e sperare - in qualcosa di decisamente più valido ed intenso di questo.
Peccato, perchè più che la trita e ritrita questione della storia d'amore, avrei preferito conoscere più da vicino, ad esempio, il ruolo di Hawking come padre, o le sue rivoluzionarie teorie scientifiche: io posso capire che - come è facilmente intuibile dal finale, peraltro efficace - il miracolo dell'esistenza, l'unico in grado di unire Scienza e Fede, probabilmente risiede nel momento in cui siamo seduti ed osserviamo i nostri figli crescere, individui che noi abbiamo creato, ed in qualche modo plasmato, fino ad accompagnarli nel mondo, ma da un titolo come questo, che vorrebbe essere qualcosa di più del consueto compitino svolto ad arte per l'Academy, mi sarei aspettato senza dubbio un lampo di genio più clamoroso di qualche lacrima facile o dell'amore che vince, sempre e comunque.
Troppo semplice, fare la pace con l'Universo in questo modo.
Troppo comodo.
Probabilmente, se Hawking avesse girato questo film, non avrebbe preso una via come questa.
Del resto, uno come lui deve saperlo bene quale sia quella, al contrario di questa, tutta in salita.
E non occorre essere dei geni, purtroppo, per capire quale delle due abbia scelto di imboccare Marsh.




MrFord




"You see everything, you see every part
you see all my light and you love my dark
you dig everything of which I'm ashamed
there's not anything to which you can't relate
and you're still here."
Alanis Morissette - "Everything" - 




venerdì 18 gennaio 2013

REC 3 - Genesis

Regia: Paco Plaza
Origine: Spagna
Anno: 2012
Durata: 80'




La trama (con parole mie): Clara e Koldo sono i protagonisti di uno dei giorni più importanti della loro vita, quello che li vedrà uniti in matrimonio. A seguire la cerimonia parenti, amici, persone più o meno vicine alle vite dei due giovani in attesa di iniziare il viaggio da marito e moglie.
Quello che nessuno sa - neppure i due appassionati di riprese presenti, il professionista Atun ed il giovane cugino dello sposo - è che lo zio di Koldo è stato morso poco prima della cerimonia da un cane infetto, ed è destinato a tramutarsi in uno zombie assetato di sangue pronto a trasformare il ricevimento in un vero e proprio massacro che vedrà i pochi superstiti alla prima ondata di mutati scatenati battersi con tutte le loro forze per poter sopravvivere ed arrivare all'alba di un nuovo giorno con la speranza di potersela in qualche modo cavare.




Qualche anno fa, quando ancora casa Ford si trovava in un appartamento molto molto bohemienne nel centro di Milano e questo blog non era neppure un'idea nella testa sbronza di una nottata lodigiana del sottoscritto, Rec divenne una piccola rivelazione nell'ambito ormai stagnante dell'horror, sempre più spesso deludente soprattutto per gli appassionati come me e Julez, sempre pronti ad accogliere ogni nuova proposta legata a mostri e squartamenti con entusiasmo e speranza di una visione interessante da affrontare: certo, non si trattò di una folgorazione come per La casa del diavolo, Eden Lake o Lake Mungo, ma il risultato fu certamente più che discreto, sintomo di un allora molto effervescente Cinema iberico.
Gli anni sono passati, la Spagna ha frenato la sua ascesa rispetto alla qualità delle sue proposte cinematografiche venendo superata nelle ultime stagioni dalla Francia ed io ho perso di vista il brand generato dal successo di quella pellicola senza curarmene troppo: quando, quasi per caso, mi sono imbattuto in questo REC 3, ho deciso che per una sana serata da divano e spavento ci si sarebbe potuti concedere un ritorno di fiamma con la creazione di Paco Plaza, incuriositi anche dal setting matrimoniale che avrebbe rappresentato in qualche modo un inedito, nel panorama degli zombie movies.
Peccato che il risultato sia poco più di una schifezzina senza infamia e senza lode salvata principalmente da una certa componente ironica - i due "registi" della vicenda - ma schiacciata, di fatto, da un citazionismo fin troppo evidente - la sposa con il vestito tagliato dalla motosega che fa tanto, ma proprio tanto Rodriguez, su tutto -, una nota di già sentito presente dalla prima all'ultima scena - ma io mi chiedo, possibile che i protagonisti di un film horror non abbiano mai visto un film horror in vita loro? E' davvero statisticamente provato che possano prendere tutte le decisioni sbagliate possibili? -, una componente "spaventosa" pressochè assente ed una di matrice religiosa al contrario fin troppo presente, considerata la quasi allergia che questo vecchio cowboy prova rispetto all'influenza della Chiesa come istituzione - ed a qualsiasi latitudine - rispetto alle vite di chi continua a seguirne i dettami - e non faccio differenze di culto di sorta, quando parlo in questi termini -.
Insomma, una robetta che scorre senza colpo ferire che in casa Ford abbiamo anticipato praticamente in tutto - tecnicamente il buon Paco Plaza dovrebbe ricordare che i movimenti di macchina telefonati possono nuocere alla tensione degli spettatori in un horror, e che se il protagonista della scena è tenuto in secondo piano o ai limiti dell'inquadratura è ovvio pensare che la minaccia spunterà proprio dal punto in cui hai così tanto insistito a tenere puntato l'obiettivo - ma che, almeno, ha il pregio di non fare incazzare troppo e non pretendere di insultare l'intelligenza dell'audience fingendosi una di quelle produzioni pseudo autoriali dai risvolti filosofici anche rispetto a quelle che, di fatto, nascono e vengono sviluppate come vere e proprie carneficine.
Interessanti l'uso - purtroppo poco sfruttato - delle armature e dell'apparecchio acustico del vecchio nonno, uniche note positive anche rispetto ad un nutritissimo gruppo di zombies dal comportamento anche fisico curioso - andiamo da elementi decisamente atletici, in grado di correre, sfondare porte, saltare come grilli ad altri dalla mobilità di un bradipo in coma -: considerato che si trattava di una vicenda ambientata nel corso di un matrimonio, sarebbe stato sicuramente più interessante sviluppare maggiormente la questione legata ai trascorsi dei suoi partecipanti, relegata ad un paio di sequenze neppure particolarmente riuscite - su tutte quella legata alla madre della sposa, finita con un semplice colpo di fucile anche quando i più agguerriti degli infetti continuavano a battersi fino al canonico "colpo in testa" risolutore -.
Poco altro resta da dire rispetto ad un film decisamente mediocre, che ha dalla sua una sorta di simpatia dell'autore ma che, certo, non sarà in grado di risollevare le sorti del suo genere di appartenenza come di segnare un nuovo colpo di coda delle produzioni spagnole.


MrFord


"Ti sposerò perché
mi sai comprendere
e nessuno lo sa fare come te
ti sposerò perché
hai del carattere
quando parli della vita insieme a me
e poi mi attiri sai da far paura
fra il bianco e il nero dell'abbronzatura."
Eros Ramazzotti - "Ti sposerò perchè" -



giovedì 4 ottobre 2012

Breaking bad - Stagione 3

Produzione: AMC
Origine: USA
Anno: 2010
Episodi: 13




La trama (con parole mie):  l'incidente aereo avvenuto nei cieli sopra Albuquerque e causato indirettamente dalle azioni di Walter White porta l'uomo ad una nuova posizione rispetto alla sua carriera criminale, e ad un rifiuto di riprendere a cucinare meth. 
Nel frattempo, Jessie si trova in clinica per la riabilitazione dalla dipendenza, ancora sconvolto per la morte dell'amata Jane.
Quando Gus Frings torna alla carica con un'offerta milionaria per riprendere la produzione e la proposta di lavorare in un laboratorio all'avanguardia creato appositamente per lui, Walt vacilla almeno quanto il suo matrimonio con Skyler, sempre più sconvolta dal cambio radicale del marito che ha portato le loro vite lungo binari che non avrebbe mai potuto prevedere avrebbero percorso.
Intanto, dal Messico, giunge a passo lento la minaccia di due fratelli assetati di vendetta: sono i cugini di Tuco, lo spacciatore che proprio a causa di Walt è stato ucciso dal cognato Hank, a servizio nella DEA.




E così, è arrivata.
Me ne avevano parlato tutti, ne avevo letto in termini entusiastici ovunque, e con fiducia avevo atteso nel corso delle prime due - comunque grandi - stagioni.
Parlo della svolta: quella che rende una grande serie un dannatissimo quasi Capolavoro.
Nel corso degli ultimi anni tutti i titoli da piccolo schermo che più ho amato sono passati attraverso episodi che hanno segnato emotivamente il mio coinvolgimento nella visione, quasi fossero una marcia di colpo ingranata per entrare in corsia di sorpasso e lasciarsi indietro tutto il resto: la prima puntata Sawyer-centrica in Lost, Dexter che regala la "dolce morte" alla sua vecchia amica in Easy as pie, il viaggio di Tony Soprano in Italia, la prima apparizione di Bob in Twin Peaks.
Per Breaking bad è stato il sesto episodio di questa terza stagione, Sunset, che come se non bastasse ha dato il via ad una sequenza pazzesca che ci ha condotti dritti dritti ad un season finale sul filo, al quale si giunge tra sudori freddi e cuore lanciato a mille infilando nel calderone morti, vendette, rivelazioni, sconvolgimenti, sequenze da capogiro e perfino una piccola, grande lezione sui tempi dilatati tradotta in un episodio incentrato quasi interamente su una mosca.
Inutile girarci intorno: con questi tredici episodi dalla qualità superlativa Breaking bad è entrata di fatto e di prepotenza nell'Olimpo del piccolo schermo, portando ancora più in alto i suoi due incredibili protagonisti: Jessie, fragile ed avventato, ritaglia per l'audience i momenti emotivamente più profondi - il racconto della scatola intagliata ed il flashback della mostra di Georgia O'Keeffe visitata con Jane, da pelle d'oca -, mentre Walter, emblema dell'outsider divenuto protagonista, rivela nella sua natura al limite della schizofrenia la freddezza glaciale di una mente assolutamente criminale - l'ingresso in scena con l'eliminazione dei due spacciatori responsabili della morte di Combo, vecchio amico di Jessie, è da antologia -, quasi possa essere associato più ad un serial killer nello stile del Dexter dei tempi migliori, piuttosto che ad un ex professore di chimica divenuto per "necessità" un produttore di meth.
Jessie e Walt, così diversi e così legati, a volte nemici giurati, altre come padre e figlio, sono l'espressione di un legame chimico perfetto, in grado di andare oltre le probabilità, i signori della droga - sempre più incredibile il Gus Frings di Giancarlo Esposito -, le autorità, i matrimoni falliti e la morte stessa: sono l'espressione della rabbia dell'uomo comune e delle sue potenzialità distruttive, del desiderio di vendetta rispetto al mondo e del senso di protezione della Famiglia.
Jessie e Walt sono il motore di eventi che dal microscopico - la già citata mosca - passano al macroscopico - l'incidente aereo - lasciando nel mezzo una scia di distruzione - fisica e non - da Guinness, una tecnica sopraffina esibita dagli autori - dalla sceneggiatura alla fotografia, ogni episodio è un pezzo di bravura da manuale - e sequenze da occhi sbarrati in grado di far impallidire anche il Cinema di stampo gangsteristico - il confronto tra i due killer messicani ed il cognato di Walt è una lezione non solo al piccolo, ma anche al grande schermo -.
Jessie e Walt sono indubbiamente dei criminali, eppure paiono decisamente più umani di molti prodotti della legalità con i quali ci ritroviamo ad avere a che fare ogni giorno. Questo perchè sono imperfetti quanto noi.
Jessie è quello che progetta di spacciare meth nei gruppi di sostegno, lo stesso che rifiuta di farsi con la sua nuova fiamma nel momento in cui scopre che lei è madre di un bambino.
Walt è quello che tiene in braccio sua figlia appena nata, l'unico a trasmetterle una certa sicurezza riuscendo a farla addormentare prima di ogni altro, lo stesso che riesce a premere il grilletto di una pistola facendo saltare la testa ad un uomo praticamente a sangue freddo.
Jessie e Walt sono molte cose sulle quali si potrebbe continuare a scrivere, discutere, ricamare, specchiarsi, perdersi e ritrovarsi.
Ma più di tutto, Jessie e Walt sono gli elementi alla base della formula vincente di una delle serie tv più grandi di tutti i tempi.
E questo basta a malapena per trattenere il fiato in attesa della stagione numero quattro.



MrFord



"Take me back way back home,
not by myself, not alone.
I ain't askin' for much.
I said, Lord, take me downtown,
I'm just lookin' for some tush."
ZZ Top - "Tush" -




lunedì 6 agosto 2012

La memoria del cuore

Regia: Michael Sucsy
Origine: Usa
Anno: 2012
Durata: 104'




La trama (con parole mie): Paige è una ragazza altolocata fuggita da genitori troppo opprimenti ed una storia che rischiava di diventare altrettanto triste, reinventatasi artista una volta rinunciato alla facoltà di legge e convolata a nozze con Leo, primo ed unico grande amore della sua vita.
A seguito di un incidente d'auto, Paige perde parzialmente la memoria, rimuovendo i cinque anni che la portarono alla rottura con i suoi e all'incontro con il marito.
Leo si ritrova così costretto a dover combattere per non perdere quella che era sua moglie e cercare di riconquistarla da zero, sperando che il ritorno al passato di Paige non sia troppo per un giovane proprietario di uno studio di registrazione che vive di sogni ed ironia tutti pane e salame.




So che cosa state pensando: quanto diavolo deve aver bevuto il vecchio Ford per propinare un voto tutto sommato discreto ad un film romantico che pare fatto apposta per qualche casalinga disperata o per il Cucciolo Eroico?
La prima risposta è: sempre troppo poco, purtroppo.
L'hangover è una brutta bestia, ed il lavoro e gli allenamenti mattutini del giorno dopo sempre incombenti.
La seconda è: The vow - bel titolo come di consueto snaturato dall'adattamento made in Terra dei cachi - non è così male come potrebbe sembrare.
Ispirato a fatti realmente accaduti e nonostante la presenza di uno dei più inespressivi tra i protetti fordiani - quel Channing Tatum dell'ancora indimenticato Guida per riconoscere i tuoi santi -, La memoria del cuore è la tipica - ma solida - commedia romantica perfetta per una serata di coppia dal giusto equilibrio tra le normalmente più sentimentali richieste femminili a quelle di spessore decisamente più ridotto maschili, un sapiente - e furbo - mix tra dramma e amore in grado di accontentare tutti pur non rischiando - ed osando - quasi nulla.
In questo senso, scomodando paragoni qui al Saloon importantissimi ed altri meno significativi - ma ugualmente piacevoli -, il lavoro di Michael Sucsy è riuscito almeno in parte a riportarmi alla mente due pellicole già cult per il genere come Zack&Miri e Amici di letto, scorrendo via piacevolmente senza mai apparire eccessivo e smielato come temevo sarebbe stato.
Certo, non siamo di fronte ad un film tanto convincente da considerarsi una pietra miliare - neppure nell'ambito delle commedie romantiche -, ma l'idea di fondo ed ispirazione della pellicola funziona ed è sfruttata senza particolari sbavature, riuscendo anche a stimolare riflessioni profonde nel caso in cui ci si trovi a guardarlo con la propria metà - e parlo di storie serie, non valgono quelle o quelli cui mostrerete questo film solo per portaveli a letto una volta! -: in fondo, dover ricominciare da zero con la persona amata - che poi potrebbe essere anche quella che conoscete più a fondo - senza che lei vi riconosca o abbia la memoria di uno qualsiasi dei ricordi che hanno costruito il vostro legame è senza dubbio una delle sfide emotivamente più difficili da affrontare sul terreno già abbastanza minato delle relazioni di coppia, e pellicole che hanno fatto la storia recente della settima arte - Se mi lasci ti cancello su tutte - hanno ricavato da scenari di questo tipo alcuni momenti assolutamente magici che dallo schermo finiscono dritti al cuore dello spettatore.
Le ambizioni di Sucsy non sono certamente le stesse di Gondry, eppure l'intera vicenda è narrata con semplicità ed appare priva di quella ruffianeria da film di San Valentino tipica di prodotti di questo tipo in grado, normalmente, di stuzzicare le mie bottigliate quasi quanto i presunti filmoni da bravi fighetti radical chic: anzi, l'intero lavoro pare molto simile nel suo approccio a quello di Leo, un tipo pane e salame di quelli che tanto funzionano qui al saloon e che saranno sempre benvoluti per ogni cazzotto ben assestato a qualche ex fidanzato uscito dritto dritto dalla versione yuppie di Wall Street.



MrFord



"I've been looking so long at these pictures of you
and I almost believe that they're real
I've been living so long with my pictures of you
that I almost believe that the pictures are
all I can feel."
The Cure - "Pictures of you" -


 

sabato 9 giugno 2012

Libera uscita

Regia: Bobby&Peter Farrelly
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 105'



La trama (con parole mie):  Rick e Fred sono due quarantenni felicemente sposati e non più single dai tempi del college in preda alla crisi ormonale che vede ogni uomo convincersi, con il passare degli anni, di poter facilmente tornare alla vita e alle conquiste del periodo in cui era solo e libero come l'aria senza il minimo sforzo.
Quando le loro mogli decidono, su suggerimento di un'amica, di dare loro una settimana di libertà assoluta dal matrimonio, i due cominceranno a cercare nuove conquiste per affermare la propria virilità.
Peccato che la caccia sarà risulterà ben più difficile del previsto, e che la mancanza delle loro metà lascerà un vuoto che non si aspettavano nella vita di tutti i giorni.




Negli ultimi anni il fenomeno generato da Una notte da leoni ha fondamentalmente imposto un nuovo standard per quanto riguarda le commedie "al maschile" fuori dai confini più "alti" già da tempo tracciati da Apatow e soci, influenzando praticamente ogni nuova proposta passata in sala: il lavoro di Todd Phillps non ha risparmiato neppure due pionieri del genere come i fratelli Farrelly, saliti alla ribalta con il divertentissimo Tutti pazzi per Mary ormai nel lontano 1998 e ora trovatisi ad inseguire le nuove generazioni di registi specializzati in hangovers ed affini.
Libera uscita, che incrocia le epopee degli addii al celibato più famosi delle ultime stagioni cinematografiche a proposte dal sapore vagamente più autoriale come Benvenuti a Cedar Rapids sfrutta i volti noti di Owen Wilson e Jason Sudeikis per cercare di fotografare le incomprensioni che si creano in coppie giovani eppure già da tempo messe alla prova dalle tempistiche di lavoro, famiglia, figli e routine quotidiana: il ritratto, che vorrebbe essere irriverente, riesce tuttavia soltanto in minima parte, frenato da un occhio strizzato anche alla componente "per famiglie" della pellicola e da una moralità di fondo che rende anche le scene più divertenti e meglio riuscite soltanto una sorta di pallida imitazione dell'ottimo Crazy stupid love, rivelazione dello scorso anno.
Proprio rispetto a quest'ultimo, il lavoro dei Farrelly perde indiscutibilmente sotto tutti i punti di vista, mostrando il fianco sia alla sensazione di già visto che a quella di un coraggio che pare ormai mancare ai fratellini, troppo impegnati a voler dimostrare qualcosa che non a portarlo effettivamente a termine.
Come i due protagonisti, legati ancora ai ricordi dei tempi da single al college, i registi si concentrano sulla volontà di stupire il pubblico quasi come se fosse loro dovuto, o se gli anni dei loro maggiori successi non fossero parte di un passato ormai neppure troppo recente: e proprio come Rick e Fred, più che concentrarsi su quello che sarebbe se con la loro testa nel presente si ritrovassero ai tempi della giovinezza, dovrebbero pensare a tutti i vantaggi che l'esperienza e la vita possono aver loro dato, con tutto il bagaglio di quotidianità apparentemente noiosa che si portano dietro.
A favore della pellicola va comunque ammesso il ruolo decisamente importante - per quanto solo di contorno - dell'altra metà del cielo dei due seduttori decisamente fuori allenamento alla ricerca di un'affermazione che faccia bene all'ego e al vicinato - da antologia del genere la sequenza della sega in macchina di Fred, uno dei due picchi di trash della pellicola insieme allo starnuto nella stanza del motel, in pericolossissimo bilico tra la vergogna cinematografica e la genialità demenziale pura -: le mogli, così come le potenziali "nuove fiamme" assumono una forza ed uno spessore decisamente superiore a quello dei loro compagni, dimostrando quanto, effettivamente, la donna sia sempre ben più di un passo avanti all'uomo anche quando quest'ultimo crede di averla fatta franca.
Peccato che, a conti fatti, il minutaggio risulti clamorosamente eccessivo rispetto alle scene effettivamente divertenti, che le spalle dei protagonisti non funzionino quasi per nulla e l'impressione sia quella di uno script costruito sulle singole scene, più che sull'insieme di una storia che possa avere un senso ed una dimensione, pur in un ambito all'interno del quale lo spessore conta come il primo cocktail in una serata. O l'ultimo.
Resta un film che passa senza colpo ferire, buono giusto per riempire lo spazio di una serata di "libera uscita" dalla quale tornare con la sensazione che i tempi della totale libertà non fossero poi così divertenti come si vuole lasciare intendere.
Lo dimostra il personaggio interpretato da Richard Jenkins - sempre amato in casa Ford -, seduttore e single indefesso, che tra le foto dei suoi viaggi intorno al mondo e delle sue conquiste sfoggia quella del matrimonio di Rick e Maggie insieme agli sposi: anche i peggiori tra i lupi solitari, in fondo, amano l'idea di un posto a cui fare ritorno.
Libera uscita o no.
Perchè quel punto in cui lei sbavazza mentre dorme è qualcosa che nessuna avventura potrà mai raggiungere.


MrFord


"Wouldn't it be nice if we could wake up
in the morning when the day is new
and after having spent the day together
hold each other close the whole night through."
Beach Boys - "Wouldn't it be nice" -


 

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