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venerdì 23 marzo 2018

Annientamento (Alex Garland, UK/USA, 2018, 115')





Probabilmente non esiste un mistero più grande di quello che offriamo noi stessi.
Che si parli di corpo, o mente.
In fondo, gli abissi che nasconde il nostro cervello sono sconosciuti alla scienza almeno quanto i miracoli che è in grado, in positivo o in negativo, di compiere il corpo.
Per non parlare del concetto più ampio di Natura.
Forse, un giorno, saremo addirittura in grado di decidere del destino delle nostre strutture fisiche, o capiremo come l'energia che ci muove si evolve e saremo in grado, in barba alle religioni, di guadagnare davvero un'esistenza eterna.
Ma al momento, tutto è affidato a quello che proprio la Natura sceglie per noi, dai cambiamenti climatici, ai cataclismi, al modo di evolversi ed invecchiare della "carne".
Personalmente, anche se ormai molto vicino ai quaranta, mi sento più consapevole, forte e prestante di quanto fossi quando ne avevo venti: ho una tenuta da sportivo, ho prestazioni fisiche migliori, bevo molto di più, conosco i miei limiti e cerco un passo alla volta di superarli, vedo più chiaramente tante cose che allora potevo solo immaginare.
Eppure, la mia è una condizione transitoria, passeggera, mutevole.
Alla fine dello scorso gennaio, quando mio padre ha iniziato la sua lotta contro il cancro - pur se, fino ad ora, con successo e rispetto ad una situazione gestita per tempo, fortunatamente -, ho ripensato a quanto indistruttibile, in barba a tutti gli incidenti in bicicletta collezionati nel corso della vita, mi fosse sempre sembrato, e a quanto, inevitabilmente, la Natura ci impone, senza appello: Alex Garland, forte di una materia di base decisamente interessante, mette sul piatto una delle grandi piaghe della medicina, della scienza e in un certo senso della filosofia cercando di analizzarla dall'interno, quasi fosse un ostacolo con il quale fare i conti non tanto arrendendosi, o combattendo coltello tra i denti, quanto cercando di comprendere memori dell'insegnamento dell'Eraclito del Panta rei, quasi la malattia, il decadimento, il cambiamento facessero talmente parte del nostro universo e della nostra essenza da potersi considerare parte di noi.
In effetti, a ben guardare, l'invecchiamento stesso potrebbe essere considerato alla stessa stregua: iniziamo la nostra vita con un sovraccarico di energie, le vediamo esplodere, impariamo a fatica a gestirle e proprio nel momento migliore ne perdiamo progressivamente il controllo, fino a spegnerci.
Parrebbe quasi un'ingiustizia, se non fosse parte di un disegno che ancora non siamo riusciti ad osservare nel suo complesso, distaccati.
Lo stesso disegno che cercano di comprendere, ognuna grazie alla propria esperienza e sensibilità, le protagoniste della spedizione di questa storia che non sarà tra le più originali portate sullo schermo ma che, derivativa oppure no, conferma il talento di uno sceneggiatore e regista da tenere indubbiamente d'occhio, in grado di ribaltare uno dei concetti più oscuri e spaventosi che l'epoca moderna ha finito per dover affrontare e cercare di comprendere e proporlo al pubblico come una sfida, un'idea nuova, un cambiamento terribile quanto necessario per affrontare, chissà, un futuro differente da quello che ci siamo o potremmo mai immaginarci.
In fondo, in barba a battaglie, studi, storie d'amore, legami destinati a finire ed altri ad iniziare, violenza e conflitti, progetti ed idee, scenari ipnotici che ricordano Kubrick o Malick e cast di stelle emergenti o affermate, uomini o donne, passato o futuro, la questione primaria è legata al fatto che, per quanto mi riguarda, sarei disposto a cambiare, ad evolvere, a cercare, a scoprire pur di vivere in eterno: che si tratti di fiori, di sangue, di grida d'aiuto o di forme spaventose come sculture deformi.
Ma per quanto possa aggrapparmi a qualcosa, non è detto che la Natura sia d'accordo.
O che una luce negli occhi non possa cambiare tutto quello che avevo creduto, pensato e voluto.
Del resto, per citare Rocky, "la Natura è più furba di quello che l'Uomo crede".
Anche quando l'Uomo è parecchio avanti.



MrFord



 

venerdì 24 novembre 2017

A ghost story (David Lowery, USA, 2017, 92')





Penso che tutti, religiosi, atei o qualsiasi cosa si possa essere, si siano chiesti almeno una volta nella vita cosa ci aspetta una volta che questo grande circo sarà finito, quando il corpo chiuderà i battenti e la mente saluterà baracca a burattini.
Credo sia umano tentare, in questo senso, di trovare una risposta alla paura, all'ignoto, al Tempo che inghiotte e ritorna, alle sfumature che possono o non possono esistere nel nostro mondo e oltre.
Me lo sono chiesto spesso anch'io, che da ateo miscredente adoratore della vita vorrei poter essere un highlander, o un vampiro immortale - anche se mi romperebbe non poco le palle evitare il sole e la luce del giorno, che adoro - pur di rimanere attaccato a questa palla di fango il più a lungo possibile.
Deve esserselo chiesto parecchio anche David Lowery, che con A ghost story tira fuori dal cilindro un miracolo che dal regista dello scialbo e retorico Il drago invisibile davvero non mi aspettavo: perchè più che una storia di fantasmi, il regista regala al pubblico una riflessione da brividi sul Tempo, l'Amore, la Vita e tutte quelle cose che rendono così straordinaria l'esistenza, per quanto dolorosa a volte possa essere, riuscendo nella quasi impossibile impresa di creare un cocktail tra Ghost e Gaspar Noè, due ingredienti che, almeno sulla carta, parrebbero inconciliabili almeno quanto la razionalità e l'istinto, la ragione e la fede, qualsiasi coppia di opposti e di amanti che popolano l'universo.
La vicenda dei due protagonisti di questa storia, del loro legame, dei messaggi nascosti, la musica, una casa che diviene il ricettacolo dei ricordi di una, dieci, cento vite che scorrono come sabbia in una clessidra pronta a ribaltarsi e ricominciare il suo inesorabile corso, per quanto apparentemente ostica in termini di ritmo, è una delle più toccanti e profonde dell'anno, e spinge A ghost story in alto nella classifica non solo di gradimento, ma anche e soprattutto in quella che permette ad alcuni titoli di entrare nel cuore e non uscirne.
Neanche fossero la nona di Beethoven.
Per quanto, comunque, si possa scrivere o filosofeggiare o recensire, un film come questo - con un budget ridotto all'osso, due attori di punta pronti a sacrificarsi come fossero esordienti, Casey Affleck in primis - più che analizzato andrebbe vissuto sulla pelle, in bilico tra la speranza che il Tempo non ci lasci fuori dalla sua danza e ci permetta in qualche modo di continuare a fare parte dell'Esistenza e la tristezza e la malinconia da spettatori di uno spettacolo che una volta era nostro, e che di colpo ci ritroviamo a vivere dall'altra parte della barricata.
Curioso inoltre che, in un anno avaro di grandi soddisfazioni sul grande schermo, una piccola perla come questa non abbia ancora trovato uno spazio in sala, e non si abbia alcuna notizia a proposito di un'eventuale distribuzione italiana: dobbiamo ringraziare la rete e la blogosfera che con il loro passaparola finiscono per fornire occasioni ed esperienze a tutti noi amanti della settima arte non adeguatamente considerate, pronte a sostenere un Malick mistico ed autoreferenziale qualsiasi piuttosto che una sua versione più potente e riuscita come questa.
Ma non voglio che una polemica, così come, per l'appunto, una semplice recensione, possano in qualche modo distogliere l'attenzione da un'esperienza di visione come questa: da adoratore della vita, un film che vada oltre la stessa come questo raccoglie un'intensità che è necessario provare, perchè non sarà mai come ascoltarla raccontata o tradotta in parole o gesti da altri.
A ghost story è la storia di fantasmi più viva che abbia mai avuto il piacere di ascoltare. O ancora meglio, di sentire.
E nella poesia di quel non detto e non letto che porta ad un passo oltre nel finale, c'è tutto quello che non dobbiamo dire e non leggere.
Perchè è vita allo stato puro.
Anche di fronte alla morte, alla fine, al Tempo.




MrFord




lunedì 17 agosto 2015

Il diamante bianco

Regia: Werner Herzog
Origine: Germania, Giappone, UK
Anno:
2004
Durata:
88'





La trama (con parole mie): Werner Herzog segue nella foresta pluviale della Guyana, nei pressi delle cascate mozzafiato di Kaieteur il dottor Graham Dorrington, ingegnere appassionato di volo che sognava di essere un astronauta da tempo legato ad imprese compiute con dirigibili da lui stesso progettati e realizzati.
Legata a doppio filo alla tragica fine dell'amico documentarista dello stesso Dorrington Dieter Plage, scomparso una decina d'anni prima, ed all'idea di dare una maggiore manovrabilità al dirigibile, da sempre considerato un mezzo "statico", l'impresa del "Diamante bianco" è quella di sorvolare la foresta, con le sue leggende, i misteri e la popolazione, pronta ad ispirare ed attrarre con le proprie storie la troupe di Herzog.










Una delle cose che mi ha sempre conquistato del Cinema di Herzog, che si parli di fiction o documentari, è la capacità del regista tedesco di raccontare con un piglio unico la sfida dell'Uomo all'ignoto, alla Natura.
Il superamento del limite come filosofia di vita, più che come concetto.
L'idea che, probabilmente, stava dietro alle imprese dei grandi esploratori dei secoli scorsi, o di viaggi indimenticabili di tempi più recenti come quello del Kon-Tiki, ben raccontato pochi anni fa da un'altra pellicola legata a doppio filo a questo tipo di scelte, sfide, bisogni.
Da Aguirre a Fitzcarraldo, pare che Herzog abbia deciso di trasformare il suo Cinema in una sorta di inno alla follia ed all'istinto tutto umano di muovere un passo oltre, scoprire tutto quello che, all'apparenza, l'occhio non vede, o non riesce a vedere, che si parli di Natura, Tempo, Spazio, fisicità o spirito.
Il diamante bianco, appartenente alla "trilogia" del ritorno al documentario del Maestro tedesco - insieme a L'ignoto spazio profondo e Grizzly Man, che conto di proporre qui al Saloon il più presto possibile -, riprende appieno questi concetti: l'impresa di Graham Dorrington, fin da bambino spinto verso l'oltre dal desiderio di diventare astronauta - che, come testimoniano il suo corpo ed il racconto legato alla costruzione del razzo artigianale, non è sempre stato facile -, è paragonabile a quelle dei grandi (anti)eroi herzoghiani, e la potenza delle immagini che raccontano la sfida del Diamante bianco alla foresta pluviale della Guyana ed alle cascate di Kaieteur rendono al meglio questo stesso concetto.
Come sempre, poi, l'autore si prende il tempo necessario - nonostante il minutaggio assolutamente abbordabile anche da parte dei meno avvezzi al genere - per scoprire il mondo attorno all'impresa stessa, dalla bellezza mozzafiato del paesaggio al crudele e magnifico distacco delle creature figlie dei luoghi "invasi" dall'Uomo, concedendosi ben più di una parentesi anche rispetto alle storie dei lavoratori locali assunti per l'assistenza tecnica - dal ballerino al saggio che conosce erbe mediche e sogna di volare con la mongolfiera fino a ritrovare i suoi parenti perduti a Malaga, in Spagna -.
Lo stesso tempo che permette a Dorrington di ripercorrere, con le lacrime agli occhi, gli istanti più drammatici dell'incidente occorso all'amico Dieter Plage, regista che l'aveva seguito da vicino, proprio nel corso di un volo, e la cronaca della morte dello stesso, o al pubblico di immaginare cosa potrebbe mai celarsi dietro il muro d'acqua dalle correnti impetuose di Kaieteur, ove milioni di rondoni volano per nidificare, prosperare, scoprire, vivere prima di riprendere il loro viaggio, e le migrazioni.
La poesia delle immagini degli uccelli che scendono in picchiata oltre la cascata è da brividi, tra le più potenti cui abbia assistito in un documentario, e non solo, così come assolutamente condivisibile è la scelta di Herzog e della sua troupe di non divulgare il girato del medico ed esperto di arrampicata sceso lungo i margini delle cascate stesse, alla ricerca di uno scorcio del mondo oltre.
Ma nessun post, interpretazione o visione trasmessa attraverso gli occhi di qualcun'altro potrebbe rendere giustizia al senso de Il diamante bianco, dalla semplicità in grado di trasformarsi in epica alla tecnica che diventa di colpo potenza tutta istintiva: in fondo, nel cuore di ognuno di noi alberga la curiosità di spingersi oltre, di scoprire la brace che ci arde dentro, la stessa in grado di renderci folli, appassionati, vivi.
La stessa che ha guidato, nonostante gli insuccessi e la fatica, ogni grande esploratore al culmine della propria ricerca.
La stessa che mosse Dieter Plage fino all'ultimo istante di vita.
E Dorrington ed il suo Diamante bianco.
E Marc Anthony Yhap, con i suoi sogni di ricerca della madre in Spagna.
E Herzog con ogni suo folle protagonista.
E noi. 
Tutti quanti.
Anche chi resta fermo tutta la vita in attesa dello stimolo giusto per poter andare oltre.




MrFord




"And just like a burning radio
I'm on to you (you’re spell I’m under)
in the silver shadows I will radiate
and flow you
what you see and what it seems
are nothing more than dreams within a dream
like a pure white diamond
I’ll shine on and on and on and on and on."
Kylie Minogue - "White diamond" - 





lunedì 3 agosto 2015

Ex machina

Regia: Alex Garland
Origine: UK
Anno: 2015
Durata:
108'





La trama (con parole mie): Caleb, un giovane programmatore al lavoro per la più grande compagnia del mondo rispetto ai servizi offerti dalla rete e dai motori di ricerca, è il fortunato vincitore di un concorso che prevede una trasferta nella più che protetta tenuta di Nathan, altrettanto giovane fondatore dell'azienda, milionario e genio assoluto.
Al suo arrivo nella casa fortezza di Nathan, Caleb viene reso partecipe dell'esperimento al quale si dovrà sottoporre per tutta la durata del suo soggiorno: una valutazione complessiva di Ava, un'intelligenza artificiale sulla quale il suo ospite sta lavorando da tempo, e che promette di essere una vera e propria rivoluzione in termini tecnologici e sociali.
La ragazza artificiale, che dal primo momento colpisce l'immaginario del giovane programmatore, inizia così una sorta di relazione "a distanza" con lo stesso, alimentando i dubbi di Caleb nei confronti dell'eccentrico Nathan, scostante ed a tratti tirannico.
Cosa accadrà, dunque, quando l'esperimento diverrà un'espressione del legame sempre più forte tra Caleb ed Ava?










A volte è curioso, il destino di alcuni film.
Specie quando le aspettative diventano parte integrante della visione.
Non troppo tempo fa, e non ricordo in merito a quale post, il mio fratellino Dembo e la commentatrice numero uno del Saloon Lazyfish, parlando di una scena in particolare della pellicola d'esordio dietro la macchina da presa dello sceneggiatore Alex Garland - che firmò, tra gli altri, lo script di 28 giorni dopo -, mi lasciarono intendere che mi sarei trovato di fronte ad un piccolo cult, una di quelle chicche destinate a risollevare una settimana - o un mese, o una stagione - di uscite poco convincenti, un titolo "minore" destinato a ritagliarsi uno spazio non indifferente nelle classifiche di fine anno.
Ebbene, nonostante le impressioni positive di Julez, più o meno a tre quarti della visione, con la già citata sequenza alle spalle, ero sul punto di scatenare le bottigliate, prima che su Ex Machina, sul consiglio dei due fidatissimi di questo bancone: perchè il lavoro di Garland, per quanto curatissimo a livello tecnico ed estetico, studiato nei dettagli ed impreziosito da una cornice splendida, mi pareva assumere le sembianze di un ibrido di Her e Foxcatcher decisamente più freddo e noioso di entrambi, dal ritmo troppo dilatato e dalla distanza presa progressivamente da un Nathan decisamente poco sopportabile, dal protagonista Caleb, troppo privo di mordente per ispirarmi empatia, e dall'Intelligenza artificiale Ava, così algida da apparirmi come la regina delle fighe di legno, o quantomeno la loro principessa.
Poi, come lo stesso Caleb, dopo oltre un'ora passata a pensare che io sarei stato una "cavia" molto più divertente per Nathan, tra citazioni di Ghostbusters anticipate rispetto alle battute del film, allenamenti con i pesi ed alcool, sono stato proprio dallo stesso Nathan riportato alla realtà: e di colpo, Ex Machina è diventata una delle pellicole più interessanti dell'estate - e forse non solo -, una favola nerissima che incrocia sci-fi e storie d'amore, disagio emotivo e sociale a voglia di riscatto, una riflessione nota a proposito del rapporto tra Uomo e Scienza, mito di Frankenstein e Blade Runner pronta ad assumere una nuova posizione grazie ad un'evoluzione ed un epilogo che piacerebbero molto a Nolan, per quanto, forse, troppo poco mascherati da illusioni, e decisamente reali nella loro cruda escalation.
Del resto, il confronto tra Passione e Scienza, Razionalità ed Istinto, Realtà ed Ignoto suscita un'attrazione irresistibile ed a più livelli sull'Uomo fin dall'alba dei tempi, ed il modo di vivere lo stesso, interpretarlo e tentare di affrontarlo continuerà a rappresentare una sfida cui chi eccede - Nathan - e chi trattiene - Caleb - continuerà a non mancare di rinnovare: da parte mia, avendo vissuto entrambi gli aspetti, ho trovato in Ex Machina uno specchio - deformante, in frantumi, perfettamente limpido, e chi più ne ha, più ne metta - nel quale gettare uno sguardo sul desiderio a volte irrefrenabile di compiere quel passo oltre, come quando all'apice di una sbronza si butta giù quello shot di troppo che ci farà scontare ogni cocktail retto nel corso della nottata.
E come ben conosce chi ha diverse cicatrici addosso e ricordi annebbiati alle spalle, non è mai una buona cosa: non per questo, però, si finirà per fare un passo indietro.
Questo perchè le risposte non bastano mai, a chi, per un motivo o per un altro, tiene aperta la mente, o il cuore: ricordo quando, ai tempi delle superiori, detestavo la matematica con tutte le mie forze, e quanto vorrei, ora, tornare indietro per avere un'altra chance per riscoprire quello che è, di fatto, semplicemente un linguaggio che, probabilmente, non mi è stato insegnato nel modo giusto, ed io non ho voluto imparare.
Crescendo, tentando e sanguinando, e scoprendo, proprio grazie alle ferite, di essere presenti, vivi, umani, nel Bene e nel Male: anche quando le cose non andranno affatto secondo i piani, e scopriremo di avere scoperto troppo, o finiremo per non avere capito nulla, e dovremo riconoscere una sconfitta che, d'altra parte, significherà la vittoria per chi non avremmo mai pensato.
Come in amore.
Come rispetto alla vita.
Perchè non c'è un "deus" che controlla la macchina.
Ma solo una macchina che non può controllarsi.




MrFord




"There is no political solution
to our troubled evolution
have no faith in constitution
there is no bloody revolution."
The Police - "Spirits in the material world" - 





martedì 27 gennaio 2015

La teoria del tutto

Regia: James Marsh
Origine: UK
Anno:
2014
Durata:
123'





La trama (con parole mie): Stephen Hawking, promessa assoluta della fisica, conosce ai tempi dell'università la sua futura moglie Jane, diversamente da lui votata alle materie umanistiche ed alla Fede. Il loro rapporto sarà l'ancora alla quale l'uomo si appoggerà per fronteggiare la malattia degenerativa che gli viene diagnosticata all'inizio degli anni sessanta e che lo accompagnerà per tutto il resto della vita, sconfiggendo le probabilità che lo davano morto entro due anni divenendo marito, padre, volto simbolo della scienza, autore di best sellers nonchè "nuovo Einstein".
Il rapporto con la stessa Jane, non privo di ombre, ha di fatto contribuito a formare la coppia in quanto tale ed i suoi appartenenti come individui, che si parli di conquiste in termini di studi o umane: in fondo, il miracolo della creazione e le sue conseguenze, finiscono per essere alla portata della più grande mente immaginabile così come per il più semplice degli uomini.







Come ormai più volte mi è capitato di raccontare tra una recensione e l'altra, ormai parecchi anni or sono - quattordici, per l'esattezza - ho prestato i miei dieci mesi di servizio civile lavorando in ambito universitario assistendo per tutto quello che riguardava questioni logistiche - colloqui con i professori, esami, pranzi, seminari e spostamenti nell'area delle vicinanze dell'Università stessa - studenti con disabilità fisiche: per molti versi, e per quanto ora come ora, se mi ritrovassi a scegliere, penso non disdegnerei - con tutti  i limiti del caso - l'esperienza del militare, quei dieci mesi hanno significato non soltanto uno dei periodi più importanti della mia crescita, ma anche l'esperienza lavorativa più gratificante che abbia mai provato.
Non lo dico per compiacenza o pietismo, sia chiaro: in quel periodo ho conosciuto ragazzi con due palle grandi come interi sistemi planetari - Antonio "Panzer" e Gloria, che spero siano più che felici e tosti come allora ancora oggi -, altri che si crogiolavano nella condizione in cui erano ed altri ancora che, in tutto e per tutto, erano dei veri stronzi pronti a farti sentire in colpa come se fossi la causa delle loro sfortune.
Nessuno di loro, probabilmente, era un genio del calibro di Stephen Hawking, così come probabilmente non lo è nessuno di noi che frequentiamo la blogosfera.
Eppure, le reazioni e la gestione delle emozioni, i pregi ed i difetti erano lì, dove sarebbero stati comunque anche in situazioni diverse, e dove probabilmente sempre saranno.
In questo, La teoria del tutto - seppur, forse, con intenti di partenza diversi - riesce abbastanza bene a mostrare quanta normalissima e splendida umanità si trova anche in condizioni apparentemente straordinarie - ed alludo sia alla condizione di disabilità di Hawking, sia a quella di genio assoluto -, e trova la sua massima espressione nella strepitosa sequenza del momento della rottura definitiva tra il già citato Stephen e la sua compagna di una vita, con il cursore che viaggia velocissimo da una risposta preimpostata all'altra sul computer che da voce al fisico senza fermarsi su nessuna di esse, quasi non avesse davvero parole per decretare la fine di un rapporto.
Peccato che, esclusi il suddetto passaggio, l'interpretazione obiettivamente ottima di Eddie Redmayne - lanciatissimo verso l'Oscar - ed un comparto tecnico notevole, il resto non sia altro che l'ennesima, zuccherosa, prolissa ed a tratti noiosa pellicola hollywoodiana in odore di Oscar.
Peccato davvero, perchè James Marsh, l'uomo dietro la macchina da presa, neppure troppo tempo fa aveva finito per lasciarmi a bocca aperta grazie allo splendido documentario Man on wire - ispirato dalla vicenda che nei prossimi mesi diverrà un film diretto da Robert Zemeckis -, lasciava intendere - e sperare - in qualcosa di decisamente più valido ed intenso di questo.
Peccato, perchè più che la trita e ritrita questione della storia d'amore, avrei preferito conoscere più da vicino, ad esempio, il ruolo di Hawking come padre, o le sue rivoluzionarie teorie scientifiche: io posso capire che - come è facilmente intuibile dal finale, peraltro efficace - il miracolo dell'esistenza, l'unico in grado di unire Scienza e Fede, probabilmente risiede nel momento in cui siamo seduti ed osserviamo i nostri figli crescere, individui che noi abbiamo creato, ed in qualche modo plasmato, fino ad accompagnarli nel mondo, ma da un titolo come questo, che vorrebbe essere qualcosa di più del consueto compitino svolto ad arte per l'Academy, mi sarei aspettato senza dubbio un lampo di genio più clamoroso di qualche lacrima facile o dell'amore che vince, sempre e comunque.
Troppo semplice, fare la pace con l'Universo in questo modo.
Troppo comodo.
Probabilmente, se Hawking avesse girato questo film, non avrebbe preso una via come questa.
Del resto, uno come lui deve saperlo bene quale sia quella, al contrario di questa, tutta in salita.
E non occorre essere dei geni, purtroppo, per capire quale delle due abbia scelto di imboccare Marsh.




MrFord




"You see everything, you see every part
you see all my light and you love my dark
you dig everything of which I'm ashamed
there's not anything to which you can't relate
and you're still here."
Alanis Morissette - "Everything" - 




martedì 18 novembre 2014

Interstellar

Regia: Christopher Nolan
Origine: USA, UK
Anno: 2014
Durata: 169'





La trama (con parole mie): siamo in un futuro prossimo in cui la Terra, in ginocchio a seguito di cambiamenti climatici, vive una profonda crisi legata alle risorse alimentari. Cooper, un ex pilota vedovo diventato agricoltore che vive con i figli Tom e Murph, è convinto dal professor Brand, uno studioso alla ricerca di una soluzione che possa permettere all'umanità di scoprire un'alternativa di vita su un altro pianeta, a prendere parte ad una missione potenzialmente senza un termine che porterà l'equipaggio della nave dallo stesso Cooper condotta attraverso un wormhole vicino a Saturno dall'altra parte dell'universo, sulle tracce di un gruppo di scienziati partiti anni prima alla ricerca di risorse naturali su dodici corpi celesti diversi.
Separatosi a malincuore dalla famiglia, Cooper accetta nella speranza non solo di salvare l'umanità, ma anche di poter tornare a riabbracciare i suoi figli: riuscirà, insieme al suo equipaggio - compresa la figlia dello stesso Brand - ad attraversare Spazio e Tempo riuscendo nell'impresa?






 
Fin da bambino, per quanto negli anni delle superiori non sia certo stato una cima in fisica, l'astronomia ha rappresentato una delle mie più grandi passioni: ricordo ancora - e conservo gelosamente - "Il libro dell'astronomia", tomo di notevoli dimensioni regalatomi per Natale da mia zia quando avevo sette anni all'interno del quale si parlava ancora dell'esplorazione del Sistema Solare grazie alle sonde Voyager, forse le prime ad aver compiuto servizi completi sui pianeti esterni - per intenderci, tutto quello che si può trovare oltre Marte e la fascia degli asteroidi -, quando ancora Plutone non era stato "degradato" a semplice corpo celeste e probabilmente non si aveva idea di cosa fosse un quasar.
Ad alimentare questa passione "spaziale" del sottoscritto fu senza dubbio lo spirito al centro di una discussione tra Cooper ed uno degli scienziati al suo fianco nel corso della missione di salvataggio del mondo, ovvero quello che supera il concetto di studioso e libera l'ispirazione dell'esploratore: fondamentalmente, la scoperta dello spazio profondo e dei suoi silenzi infiniti non è altro che una versione clamorosamente più grande di quello che rappresentò la conquista degli oceani, e l'epoca dei grandi viaggi e dei loro protagonisti, da Magellano a Colombo. 
Seguendo questa linea di pensiero, il lavoro di Christopher Nolan con Interstellar è uno dei più emozionanti, sentiti e visivamente impressionanti che la sci-fi ricordi negli ultimi decenni, un viaggio prima di tutto emozionale e sentimentale che, di fatto, paragona le montagne russe del cuore all'idea di qualcosa di così grande da non poter essere neppure immaginato, l'Universo: un luogo all'interno del quale esistono fenomeni in grado di piegare addirittura il Tempo giungendo ben oltre quella che è la nostra comprensione attuale, e che a volte regalano brividi unici - i già citati quasar, ammassi di stelle pulsanti ai confini del cosmo, riescono a produrre una luce così intensa da essere visibili anche ai nostri telescopi, posti a miliardi di anni luce da loro, permettendo alle singole particelle di viaggiare e giungere a noi dopo un intervallo di tempo che ha avuto inizio quando ancora il Sistema Solare doveva ancora in qualche modo essere immaginato - che neppure la più sfrenata immaginazione visiva e cinematografica potrà mai rendere.
Ma Interstellar non è soltanto questo: è anche un comparto tecnico spaventoso, momenti di impatto enorme - dalle onde gigantesche al Gargantua, passando per Saturno -, mai come prima l'espressione della volontà di quello che, ad oggi, è forse l'erede principale insieme a J. J. Abrams dello Spielberg dei bei tempi, di trovare un punto d'incontro tra autorialità e Cinema popolare, nella speranza di concedere qualcosa ad entrambi e di conseguenza a se stesso.
Ed è un'opera a tratti troppo prolissa e derivativa - inevitabili i riferimenti a Contact, Signs, Inception, Europa Report, Solaris, Stargate e soprattutto l'inarrivabile 2001 -, in grado di regalare momenti di grande impatto emotivo e subito dopo incappare in scivoloni al limite del buonismo hollywoodiano più sfrenato - il confronto finale tra Murph e suo padre -, non sempre limpida a livello di script - ma, con un argomento di questo calibro a livello scientifico, è da mettere in conto - e solo parzialmente convincente a livello di casting - sprecati la Chastain e Affleck, compitino da sei politico per Caine e Lightow, fuori ruolo Damon ed il solo, ormai onnipresente McConaughey a tenere sulle spalle la baracca -.
Come prendere, dunque, Interstellar, attesissimo e celebratissimo ritorno di Christopher Nolan sul grande schermo?
Non come il Capolavoro che, personalmente, ancora attendo dal cineasta inglese, ma neppure come qualcosa di fallimentare o sbagliato.
Ci troviamo di fronte ad un grande prodotto realizzato da un professionista unico e di talento che, da buon illusionista, questa volta non è semplicemente stato in grado di lasciare a bocca aperta con un "prestigio" mozzafiato, quanto, più che altro, con un inganno costruito alla grande.
Eppure, lo spirito che anima questa pellicola ha qualcosa di grande, capace di lasciare non tanto a bocca aperta, quanto a cuore spalancato: è il sapore delle epopee e dei viaggi, lo spirito degli esploratori e dei naviganti, quel "non andarsene docili", "l'amore che muove il sole e le altre stelle", e che soprattutto muove noi, piccoli ed insignificanti esseri al cospetto di un Universo che sarà sempre così enorme anche solo da immaginare da risultare irresistibile e magico.
Perchè il brivido della conquista cresce esponenzialmente tanto più la conquista stessa appare fuori dalla nostra portata.
E l'Universo è ancora fuori dalla portata di Christopher Nolan.
Ma vi assicuro che vederlo tentare è stato come riprendere tra le mani il mio libro dell'astronomia e tornare ai tempi in cui, a sei o sette anni, sognavo un giorno di viaggiare tra quei mondi lontanissimi.
Il Tempo che si piega.
Ci riporta ad essere bambini per tornare al futuro.
E in quasi tre ore di spettacolo sentire il miracolo ed assaggiare la caduta.
La relatività del Tempo - sempre lui - e l'assolutezza della Gravità.
E non c'è Gravità con attrazione più forte dell'amore.
 
 
 
MrFord
 
 
 
"Parlami dell' esistenza di mondi lontanissimi
di civiltà sepolte di continenti alla deriva.
Parlami dell'amore che si fà in mezzo agli uomini
di viaggiatori anomali in territori mistici...di più.
Seguimmo per istinto le scie delle Comete
come Avanguardie di un altro sistema solare."
Franco Battiato - "No time no space" -
 
 
 
 

venerdì 8 febbraio 2013

Kon-Tiki

Regia: Joachim Ronning, Espen Sandberg
Origine: Norvegia
Anno: 2012
Durata: 118'




La trama (con parole mie): nel 1947, con il mondo ancora sconvolto dalla Seconda Guerra Mondiale, l'esploratore norvegese Thor Eyerdal, seguendo una teoria elaborata in quasi vent'anni di studio, partì con un equipaggio di altri cinque coraggiosi compagni dal Perù per raggiungere su una zattera costruita seguendo i metodi ed utilizzando i materiali precolombiani di millecinquecento anni prima la Polinesia, pronto a dimostrare che furono proprio gli antichi abitanti del Sud America i primi a colonizzare i paradisi tropicali da sempre creduti scoperta dei popoli asiatici.
Un viaggio incredibile basato tutto sulla Fede e sulla forza di volontà, che potrebbe significare per i suoi protagonisti non soltanto l'ingresso nella Storia, ma anche l'inizio di una nuova vita e carriera e, in qualche modo, la fine della vecchia esistenza.
Questo senza tenere conto del fatto che non è detto che si possa giungere alla fine tutti d'un pezzo.




Se dovessi pensare a questo inizio 2013 cinematografico, credo che il modo più calzante per definirlo sarebbe quello di "sorpresa": alle spalle, infatti, la folgorazione del meraviglioso Beasts of the Southern Wild ed il ribaltamento di opinione registrato rispetto alle aspettative di Cloud Atlas e Vita di Pi, direi che non sarebbe possibile trovare un termine più adatto per un'insolitamente stimolante apertura di annata.
Proprio all'ultima fatica di Ang Lee pare legato a doppio filo il candidato come miglior film straniero norvegese che quest'anno contenderà la statuetta più nota della settima arte ad un mostro sacro come Haneke con il suo Amour, Kon-Tiki: l'impresa di Thor Eyerdal e dei suoi compagni - realmente avvenuta e registrata in un documentario che, ai tempi, ebbe il riconoscimento più ambito proprio dall'Academy - è infatti narrata basandosi su un concetto di Fede simile a quello che rappresenta il personaggio di Pi, semplicemente applicato ad una concezione scientifica e non religiosa del mondo e sull'incrollabile volontà di portare a termine un'impresa che soltanto i grandi esploratori e pionieri di qualsiasi disciplina covano nel cuore ed alimentano come un fuoco.
Certo, l'appoccio dei due registi è decisamente meno altisonante di quello di Lee, la retorica ed i colpi ad effetto decisamente più smorzati - al contrario, sequenze come quella del confronto con gli squali ricordano più il thriller che non la favola epica -, i toni più simili a quelli del road movie autoriale - il paragone più immediato è quello con I diari della motocicletta di Walter Salles -, il finale intenso e commovente senza alcuna concessione alla ruffianeria - la lettera di Liv indirizzata al marito Thor che lo stesso apre soltanto ad impresa compiuta è da brividi, e regala uno spessore ancora maggiore alla questione legata alla volontà di realizzare l'impresa stessa - ed i titoli di coda dedicati ai protagonisti di questo viaggio straordinario contribuiscono a tracciare una linea immaginaria tra la leggenda di Tiki e questo moderno gruppo di esploratori impareggiabili quanto improvvisati, mossi giorno dopo giorno in quell'estate del 1947 da una passione folle ed incrollabile.
Dal punto di vista prettamente tecnico, la realizzazione risulta decisamente interessante, una sorta di via di mezzo tra l'estetica di viaggio e scoperta di cineasti come Peter Weir ed una confezione a tratti patinatissima, concentrata principalmente nella prima parte, dedicata alla ricerca di Eyerdal di possibili finanziatori per la sua spedizione: apprezzabili anche gli inserti in bianco e nero a riprendere quello che fu il materiale che si guadagnò l'Oscar come migliore documentario e la caratterizzazione dei personaggi, forse non approfonditi completamente eppure chiaramente distinguibili e dotati, nessuno escluso, di un carattere e di uno spessore non così semplici da fotografare in neppure due ore di pellicola.
Ma la riflessione più profonda ed intensa è senza dubbio quella legata alla fiducia che guidò Eyerdal in un'impresa che tutti gli esperti giudicarono suicida e che rappresenta una sfida vinta solo ed esclusivamente dalla forza d'animo dell'Uomo nel momento in cui è mosso dal desiderio e da un sogno: il passaggio della già citata lettera della moglie del protagonista "anche se non sai nuotare, dovessi cadere in acqua la tua determinazione ti terrà a galla" è determinante per comprendere quanto il coraggio - e in una certa misura la follia - di pionieri come Eyerdal siano stati fondamentali affinchè l'umanità potesse giungere dove si trova ora senza chiudersi in un guscio di sicurezza e dogmi rigidi e preimpostati.
Il prezzo che personaggi come questi hanno dovuto pagare è stato senza dubbio alto, dalla vita stessa a cose ben più preziose in grado di darle un senso, ma se non ne fossero mai esistiti, con ogni probabilità ora saremmo nelle caverne indossando mutande di pelo, spaventati dal fuoco come bestie selvagge.
Questa dovrebbe essere la vera Fede: quella che ci permette di saltare nel buio, consapevoli dei rischi, e pensare che, chissà, potremmo anche andare oltre e stabilire nuove frontiere che, a loro volta, dovranno un giorno essere superate da qualcuno folle almeno quanto noi.


MrFord


"Una catastrofe psicocosmica
mi sbatte contro le mura del tempo.
Sentinella, che vedi?
Una catastrofe psicocosmica
contro le mura del tempo."
Franco Battiato - "Shackleton" -



martedì 8 gennaio 2013

Vita di Pi

Regia: Ang Lee
Origine: Taiwan, USA, Cina
Anno:
2012
Durata: 127'




La trama (con parole mie): uno scrittore in cerca di ispirazione per un romanzo che fatica ad arrivare incontra Pi, un uomo indicatogli dopo un incontro casuale come l'unico in grado di restituirgli la scintilla della creatività e rivelargli, di fatto, l'esistenza di Dio.
Pi, nato in India e naufragato con la famiglia nel corso di un viaggio che li avrebbe condotti in Canada, si ritrova abbandonato su una scialuppa di salvataggio alla deriva nel Pacifico a disputarsi la sopravvivenza con gli elementi ed una tigre del Bengala di nome Richard Parker, pronta ad aggredirlo ad ogni occasione: tra i due si instaura un curioso rapporto di rivalità ed amicizia che li porterà a combattere fino allo stremo delle forze e all'insperata salvezza.
A quali conclusioni porterà la storia di Pi? Lo scrittore troverà quello che cerca e quel giovane naufrago la Fede? E quale ruolo avrà in tutto questo la tigre?




Ho mollato la religione da parecchio tempo, ormai: ho sempre creduto fosse qualcosa che poteva funzionare all’epoca  in cui ero un bambino, quando per stimolare i sensi di colpa e la paura dei lati oscuri c’era bisogno dello spauracchio di una punizione, e con la quale chiusi da adolescente, quando iniziai a scrivere e, il giorno del funerale di mio nonno, capii che dentro quella chiesa non sentivo nulla che non fosse un dolore molto umano decisamente lontano dal divino.
Certo, nel corso degli anni ho sviluppato una mia spiritualità in grado di passare dalla meraviglia degli sconfinati paesaggi australiani all’avvicinarsi del momento in cui sarò padre, dal Cristo cantato da De Andrè alla filosofia di Lebowski, dalle sbronze alla goduria di un filetto al sangue, da una scopata selvaggia alla sensazione che, in un modo o nell’altro, si lotterà ed amerà sempre accanto a quella persona, senza alcun bisogno di sapere perché.
Ma non venitemi a parlare, per l’appunto, di religioni o indottrinamenti: certo, le mitologie sono splendide da leggere ed immaginare, afferrarne il meglio come nel corso di una sorta di happy hour culturale, ma niente di più.
Nel corso della visione di Vita di Pi, sono stato percorso in più di un’occasione dall’irritazione che mi aveva allo stesso modo – pur se mossa da sensazioni diverse – accompagnato con Moonrise kingdom, senza contare che, in questo caso, il termine di paragone più vicino e solleticato era quello del bottigliatissimo War horse spielberghiano, realizzato alla grande ma talmente retorico da far sembrare Salvate il soldato Ryan praticamente una versione più asciutta de La sottile linea rossa.
Anche il lavoro di Ang Lee è portato sullo schermo sfruttando mezzi tecnici prodigiosi, fotografando la magia e la meraviglia del Cinema neanche fossimo tornati alle sue origini, sull’onda degli stessi intenti che mossero James Cameron con Avatar e Martin Scorsese con Hugo Cabret – anche se, rispetto al secondo, ho nutrito e nutro ancora moltissime riserve -: e senza dubbio la vicenda di Pi si carica sulle spalle un bagaglio decisamente ingombrante in termini di sensazionalismo di grana grossa e retorica da Oscar, tanto che, se non fosse che le nominations non sono ancora state rese note, mi verrebbe quasi da pensare che, per quest’anno, i giochi possano essere già fatti – considerato anche che Ang Lee è un regista molto amato nell’ambito dei grandi Festival e delle premiazioni -.
Combattuto su quale strada fare prendere a questo post e al voto, ho seguito il film animato da uno scetticismo in grado di farmi sentire affine allo scrittore che, in cerca di una storia, si ritrova a dividere la tavola ed una giornata sicuramente unica con un uomo assolutamente semplice che si è reso protagonista di avvenimenti straordinari: il naufragio della nave che lo separò dalla sua famiglia gettandolo in pieno Pacifico in compagnia di uno sparuto gruppo di animali – i genitori di Pi, allora poco più che adolescente, erano proprietari di uno zoo ed in procinto di trasferirsi dall’India al Canada, dove è ambientata la parte nel presente della narrazione, in cerca di fortuna – è stata giudicata da un vecchio insegnante del sopravvissuto non soltanto una grande storia, ma l’unica che conoscesse in grado di far “trovare Dio”.
E di nuovo fa capolino quella religione così distante dal sottoscritto, dai cowboys e dai saloon, facendo sfoggio del potere dell’illusione che pare trasformare l’epopea marittima del ragazzo e della tigre nella più classica delle costruzioni drammatiche di un’amicizia improbabile, da Oscar, per l’appunto. Ed il rollìo delle bottigliate si fa pericolosamente vicino, nonostante le magnifiche sequenze girate con uno stile che mescola il patinato National Geographic sfoggiato anche da Malick nel suo The tree of life a quello lisergico di Jodorowski e del 2001 kubrickiano.
Combattuto, scettico e dubbioso, ecco come mi sono sentito.
Eppure, come per lo stesso Pi, qualcosa pareva celato dietro gli occhi della tigre.
Gli occhi della tigre, neanche fossimo nel pieno delle tamarrate anni ottanta, pronti a cavalcare la furia del rientro in grande stile dello Stallone italiano.
Gli occhi della tigre, come cantava William Blake, uno che il suo Dio l’aveva trovato senza bisogno che gli venissero imposti dei comandamenti: “Tigre! Tigre! Divampante fulgore nelle foreste della notte, quale fu l’immortale mano o l’occhio che ebbe la forza di formare la tua agghiacciante simmetria? In quali abissi o in quali cieli accese il fuoco dei tuoi occhi? Sopra quali ali osa slanciarsi? E quale mano afferra il fuoco?”
La tigre è stata il profeta di Blake. E non solo.
Perché anche Ang Lee pare aver ricevuto da Lei una simile, clamorosa, magnifica illuminazione.
E dunque, quando la storia giunge alla conclusione, e di fronte al suo protagonista e narratore lo scrittore – ed io con lui – mostra il dubbio nella sua monumentale staticità, ecco che la prospettiva cambia, grazie ad un gioco di prestigio neanche ci trovassimo al cospetto di Nolan e degli incastri di ragione e sentimento, scienza e fede di Inception.
Fede, non religione. Trovare Dio, o chi per Lui.
E negli occhi della tigre, nel cambio di prospettiva, in questo Vita di Pi mi è parso di trovarLo un po’ anche io, che sono solo uno stronzo miscredente abituato a vivere alla giornata lungo la Frontiera.
Quale storia avremo preferito, alla fine?
Quella della tigre, o l’altra?
Il divino o l’umano?
Io, che costruisco il mio sapere sull’esperienza, sono fautore dell’Umanità anche quando regala il peggio di sé: eppure, per un momento, quando Pi, serenamente, accenna al giornalista a seguito della sua risposta “anche Dio sceglierebbe quella”, mi è parso di sentire gli occhi della tigre dritti su di me. La Fede, non la religione.
E ho pensato che mi sarebbe piaciuto, il giorno del funerale di mio nonno, avere una tigre agli occhi della quale affidare tutto il dolore che mi spezzava dentro.
Se il Cinema è meraviglia, il gioco di prestigio la volontà del pubblico di essere ingannato, la vita un grande viaggio che sappiamo tutti come andrà a finire, allora Ang Lee è riuscito in un miracolo:
perché io, che non voglio, e non riesco a crederci, per un momento mi sono sentito toccato da qualcosa in grado di portarmi dove fino ad ora potevo solo sognare di arrivare.
E lo ha fatto nello stile di quelli come me, che vivono tutto sulla pelle: con gli occhi della tigre.


MrFord


"It's the eye of the tiger
it's the thrill of the fight
risin'up to the challenge of our rival
and the last known survivor
stalks his prey in the night
and he's watching us all
with the eye of the tiger."
Survivor - "Eye of the tiger" -



domenica 9 dicembre 2012

Lourdes

Regia: Jessica Hausner
Origine: Austria, Francia, Germania
Anno: 2009
Durata: 96'




La trama (con parole mie): Christine è malata di una particolare forma di sclerosi che la costringe su una sedia a rotelle, completamente paralizzata. Per ovviare alla solitudine di una vita praticamente da reclusa, di tanto in tanto si concede viaggi organizzati o pellegrinaggi che possano rompere la sua routine.
Giunta a Lourdes, visita con i volontari e gli altri pellegrini - in condizioni più o meno gravi della sua - tutti i luoghi resi celebri dalle presunte apparizioni della Vergine e luogo di miracoli che Chiesa e dalla Scienza si riservano di volta in volta di accertare ed approvare.
Alla vigilia della ritorno a casa, la ragazza si trova proprio protagonista di uno di essi: durante la notte, infatti, riesce ad alzarsi dal letto, camminare, pettinarsi, mangiare e vestirsi da sola.
Un cambio di prospettiva che suscita ammirazione, stupore, invidia, manifestazioni di fede rinnovata, ma soprattutto, che porta Christine a pensare che da quel momento in avanti potrà finalmente vivere una vita come l'avrebbe voluta, magari costruendosi una realtà affettiva, o una famiglia.
Ma sarà davvero quella, la Felicità?




Credo che un film come questo avrebbe fatto impazzire quella vecchia volpe di Bunuel.
E non solo.
Ripensando alla visione - sicuramente non semplice, almeno per chi è abituato ad un Cinema di fatti ed azioni -, alla lentezza che ricorda quasi il Kaurismaki solo apparentemente fiabesco e agli elementi portati sul piatto rispetto ai concetti di Fede e, perchè no, Scienza, mi è tornato alla mente il ricordo di uno dei passaggi del Capolavoro orwelliano 1984: parlando dell'utilizzo delle lotterie nazionali - l'equivalente di quello che da noi potrebbe essere il Superenalotto -, l'autore inglese rivelava candidamente che le stesse non sussistessero effettivamente, ma fossero spacciate per vere dal famigerato Grande Fratello in modo da illudere i cittadini che, chissà, una volta o l'altra avrebbero potuto anche vincere.
La stessa, disarmante impressione che ho avuto osservando i pellegrini alla ricerca del miracolo in Lourdes.
Che la Chiesa - e la Religione, con lei - sia una lotteria in cui non ci sono vincitori, o vinti, ma solo un sacco di mendicanti di speranze pronti a credere a qualsiasi cosa?
Opinioni personali a parte, quello che Jessica Hausner mostra è uno spaccato agghiacciante di uno dei parchi giochi di maggior successo nel mondo, che pare popolato da individui pronti a chiedere conto a Dio della loro condizione o di eventuali miracoli caduti sulle teste - e sulle vite - altrui: un luogo che pare così finto e posticcio da trovare la sua dimensione migliore nella barzelletta raccontata da uno degli accompagnatori della comitiva al tavolo, la sera, con lo Spirito Santo, Gesù e Maria intenti a scegliere la meta delle loro vacanze.
Quando viene nominata Lourdes, Maria salta in piedi felicissima gridando: "Che bello! Non ci sono mai stata!"
Nonostante il tono di pacata e beffarda ironia, comunque, non viene mai negato lo spazio al disagio interiore della protagonista - bravissima Sylvie Testud -, che continua a preferire Roma a Lourdes perchè più "culturale", e sogna una vita insieme a quell'accompagnatore che, chissà, forse è gentile soltanto perchè lei è su una sedia a rotelle: una cosa non da poco, che sottolinea il valore di un film difficile ed assolutamente delicato da trattare, perennemente in bilico tra il rischio di trash e l'insorgere di polemiche sterili quanto le credenze a proposito di benedizioni in più lingue miracolose.
Proprio pensando a questo, perfetto il parallelo tra la vicenda della suora Cecile e la protagonista, e di riflesso il rapporto di distanza - si potrebbe definire invidia? - che Christine instaura con la sua personale volontaria Maria, ragazza giovane e piacente che ha deciso di andare alla ricerca di un proprio scopo e posto nel mondo anche grazie alle opere di bene invece che passare le vacanze, come al solito, andando a sciare.
La calma che Lourdes si prende per entrare dentro l'audience è tutta negli occhi della sua "eroina", dapprima applaudita come miracolata, dunque guardata con sospetto perchè "non abbastanza credente" da meritarsi l'intercessione divina, rimandata dai medici preposti al controllo dei suddetti miracoli in attesa di scoprire se la sua malattia tornerà a schiacciarla sulla sedia dove ha trascorso la sua vita.
Senza fretta, il lavoro della regista prende spazio sottovoce, ed esplode dirompente in una delle sequenze finali più incredibili dell'anno per il sottoscritto, tanto da scomodare paragoni con quella meraviglia che fu Take shelter: lo sguardo di Christine, lasciata sola dal suo accompagnatore dopo il passo falso in pista, che dapprima nega e dunque accoglie una volta ancora la sua compagna di viaggio su ruote mentre Maria canta sul palco Felicità - ebbene sì, proprio quella, anche nella versione originale della pellicola - è un colpo da maestri della settima arte, uno schiaffo che lascia inebetiti e strabiliati rispetto alla forza di un lavoro che pare uno scricciolo debole ed indifeso, proprio come Christine.
Ma non è così, per fortuna di noi spettatori.
Noi possiamo ancora credere in qualcosa che è davanti ai nostri occhi, e in casi come questo ci illumina.
Il Cinema.


MrFord


"Felicità
è un bicchiere di vino con un panino
la felicità
è lasciarti un biglietto dentro al cassetto
la felicità
è cantare a due voci quanto mi piaci
la felicità, felicità."
Albano Carrisi - "Felicità" -



lunedì 12 novembre 2012

Red lights

Regia: Rodrigo Cortes
Origine: Spagna, USA
Anno: 2012
Durata: 113'




La trama (con parole mie): la studiosa Margareth Matheson ed il suo assistente Tom Buckley si occupano di smascherare i fenomeni cosiddetti paranormali nonchè le persone che sfruttano gli stessi per avere successo ed approfittarsi di chi continua a credere in loro.
Quando, dopo trent'anni di silenzio, torna alla ribalta delle cronache Simon Silver, sensitivo non vedente dai poteri apparentemente inspiegabili e strabilianti, Tom vorrebbe spingere la sua maestra a confrontarsi proprio con la superstar numero uno del mondo che lottano ogni giorno per smontare credenza dopo credenza: la donna, però, memore di uno dei suoi rari momenti di cedimento, rifiuta la sfida propostale dalla giovane spalla con decisione, rivelandosi irremovibile.
Ma la morte incombe sui due scettici del paranormale, e presto Buckley si ritroverà da solo ad affrontare l'apparentemente inattaccabile Silver.





Che si tratti di Cinema o vita vissuta, essere sorpreso è da sempre uno dei piaceri che spero di poter conservare - per goderne -  il più a lungo possibile: trovarsi di fronte a qualcosa in grado di lasciarci a bocca aperta non ha prezzo rispetto alle aspettative deluse, o ancor più al fatto di rimanere indifferente dal primo minuto ai titoli di coda di un film.
Rodrigo Cortes, regista di Red lights, aveva fatto capolino da queste parti qualche anno fa per essere impietosamente bottigliato insieme al suo Buried, una di quelle cose in grado di solleticare i miei colpi più devastanti, e l'idea che tornasse con un thriller superpatinato con tanto dell'ormai in caduta libera Robert De Niro non lasciava presagire niente, ma proprio niente di buono.
Quand'ecco giungere la sorpresa di cui parlavo: non solo l'ultimo lavoro di Cortes è un gran film, diretto con piglio, scandito da un ritmo ottimo, in grado di confermare Cillian Murphy come uno dei volti più interessanti della sua generazione ed al contempo riciclare salvando anche solo parzialmente l'appena citato Bob De Niro, fotografato splendidamente nonchè scritto e montato dallo stesso regista, ma si pone prepotentemente come una delle cose più riuscite degli ultimi mesi, giungendo a scomodare paragoni importanti come quello con il primo Shyamalan - lo stesso che ancora sapeva girare film decenti - e soprattutto con il Christopher Nolan di The prestige.
Il conflitto tra fede e scienza che incarnano la Matheson ed il suo assistente Buckley è rappresentato con intelligenza e sensibilità, inserito in un contesto profondamente legato al thriller sovrannaturale della miglior fattura - e si torna con la memoria a pietre miliari come Gli invasati o Rebecca - che non si risparmia excursus quasi d'azione nonchè una robusta razione di colpi di scena destinati in almeno un paio di occasioni a lasciare lo spettatore impietrito sulla poltrona.
La cosa più interessante, comunque, è la riflessione etica che il lavoro del "redento" - almeno ai miei occhi - Rodrigo lascia sedimentare nel profondo dei cuori dell'audience nel corso della visione ed una volta terminata la stessa: fino a che punto si spinge la fede nel manipolare chi affida le sue speranze alle parole di un sedicente "messia"? E dove è disposta ad arrivare la scienza per affermare la ragione della ragione?
In questo senso una sequenza in particolare è rimasta impressa a fuoco nella memoria del sottoscritto: la dottoressa Matheson, di fronte al letto di suo figlio in coma da decenni ed attaccato alle macchine, rivela al fido Tom il motivo per il quale non si sia mai decisa a far staccare la spina.
"Se fossi sicura che esistesse qualcosa dopo, allora l'avrei lasciato andare il primo giorno".
E' un egoismo profondamente emotivo, quello di Margareth, lo sconvolgimento profondo di una donna che lotta per confutare superstizioni e, in qualche modo, sogni, e ad un tempo si trova a dover seppellire le proprie aspettative, la speranza che il figlio possa un giorno incontrare quel qualcosa che lei stessa, in qualche modo, distrugge caso dopo caso.
Al suo fianco Tom, con la sua volontà irruenta e passionale di fermare l'ascesa del redivivo - ed apparentemente inattaccabile - Silver, di scovare le "red lights" che potrebbero creare una falla nel suo sistema - scoperta interessante, quella dell'utilizzo di intere squadre di persone addette al recupero di informazioni che saranno utili per gli show del sensitivo di turno -, di dimostrare anche per Margareth che la sua battaglia, la loro guerra ha un senso, e tutti i parassiti pronti a dissanguare gente ormai sull'orlo dell'abisso potranno essere visti per quello che sono.
"Io sono un sensitivo", dichiara Tom alla giovane studentessa Sally - Elizabeth Olsen, già convincente in La fuga di Martha - per spiegare la sua particolare predisposizione a comprendere le mosse della donna che è stata sua maestra.
Mi verrebbe da dire, invece, che Tom è sensibile.
E nonostante il dibattersi che lo vedrà trovare una strada pronta a condurlo alla sua vera Natura, prenderà forze ed energie proprio da quella sensibilità che gli permette di andare alla ricerca di qualcosa - o qualcuno - che possa farlo sentire meno solo, e dare una nuova dimensione a tutto il lavoro della dottoressa Matheson.
Anche i più duri di noi, in fondo, sono vulnerabili alla speranza.
Specie quando a solleticarne le carezze sono le vite di chi amiamo, o la nostra.
Ma non bisogna essere ancora più duri, per sopravvivere alla stessa e alla sua indubbia forza distruttrice.
Perchè non c'è armatura - e Margareth ne è testimone - che possa resistere ai suoi colpi.
Occorre essere sensibili. E capire che, a volte, accettare chi siamo può aiutarci a comprendere quello che non siamo.
Fede e Scienza.
In una certa isola sarebbero valse anni di avventure.
Qui sulla terraferma ne richiedono altrettanti di ferite.
Almeno fino a quando non troveremo la nostra Costante.
Quella che Silver crede di possedere.
Quella che Margareth ha osservato spegnersi, anno dopo anno.
Quella che, non senza dolore, Tom scopre di fronte a se stesso prima che agli altri.


MrFord


"And give me something to believe in
if there's a Lord above
and give me something to believe in
oh, Lord arise."
Poison - "Something to believe in" -


lunedì 1 ottobre 2012

Eva

Regia: Kike Maillo
Origine: Spagna
Anno: 2011
Durata: 94'




La trama (con parole mie): in un futuro prossimo in cui la tecnologia ha portato ad uno sviluppo sempre maggiore della robotica, l'introverso scienziato Alex Garel torna al suo paese natale dopo un'assenza di dieci anni.
Lo scopo del rientro è quello di elaborare la parte emozionale di un prototipo che sia, di fatto, il primo a replicare le sensazioni e la vita dei bambini: il suo arrivo provoca stupore e turbamento nel fratello del giovane, David, anch'egli studioso, e soprattutto nella compagna di quest'ultimo, Lena, che pare avere un legame decisamente più profondo con Alex di quanto i due diano a vedere.
La figlia di David e Lena, Eva, conquista con la sua intelligenza lo zio, che decide di modellare il carattere del robot sul quale sta lavorando proprio sulla bambina: ma i segreti legati all'improvvisa partenza risalente a dieci anni prima dello stesso Alex, i sentimenti che prova per Lana e la natura di Eva porteranno a risvolti decisamente drammatici l'esperimento.




L'indagine sulla coscienza dei robot - o surrogati del genere - è ormai da decenni uno dei grandi classici della fantascienza, alla base di romanzi e film assolutamente mitici, su tutti l'indimenticabile Blade runner.
Eppure sono state molte le pellicole che, nel passato anche recente, sono state in grado di stupire pubblico e critica grazie alla loro profondità, come fu per uno dei titoli più interessanti dello scorso anno, lo splendido e profondo Non lasciarmi di Mark Romanek.
Eva giungeva praticamente con le stesse premesse poche settimane fa in sala, spinto dalle recensioni spesso entusiastiche della critica un pò più cool e fighetta - un nome su tutti, quello del mio antagonista Cannibale - e salutato come il suo erede effettivo: onestamente, non ho trovato male, o mediocre, il lavoro di Maillo, capace di costruire un prodotto in deciso crescendo, fotografato benissimo sui toni del marrone e del verde dell'autunno nonostante un'ambientazione prevalentemente invernale, in grado di far riflettere come di emozionare.
Eppure, guardandomi indietro non soltanto al termine della visione, ma anche nel corso della stessa, ho avuto l'impressione di essere di fronte ad un robot fatto e finito: un'opera studiata minuziosamente a tavolino e senza dubbio priva di quella scintilla in grado di inchiodare allo schermo come se fossimo proiettati direttamente al centro della vicenda.
Tutto, dal cast al comparto tecnico - montaggio non sempre perfetto escluso - porta infatti a pensare che si sia costruito Eva per il semplice scopo di avere una vetrina che permettesse a chi vi aveva lavorato di lanciarsi in un firmamento dalle prospettive di distribuzione ed economiche decisamente maggiori - qualcuno ha detto Hollywood!? - di quelle del mercato spagnolo: e senza dubbio Maillo ed i suoi hanno tutte le carte in regola per poter pensare di muoversi in un ambito internazionale, eppure qualcosa nell'opera che hanno orchestrato è suonato stonato, pur se accademicamente eseguito.
O forse è proprio questo, il problema di Eva: in fondo è difficile approfondire un argomento già trattato in tutte le salse - e alla grande - senza correre il rischio di risultare superflui, e se a questo si aggiungono una sceneggiatura a tratti troppo sbrigativa - e che avrebbe meritato un minutaggio decisamente più abbondante - ed un ritmo che - per quanto questo possa stridere con quello che ho appena scritto a proposito della durata - assume le dimensioni quasi soporifere di certi filmoni d'autore che ci si aspetta già in partenza come vere e proprie martellate nei genitali, il danno è fatto.
In fondo, questo film è il ritratto della sua protagonista - bravissima, tra l'altro, la piccola Claudia Vega -: cattura l'attenzione, si presenta nel migliore dei modi, affascina e porta lo spettatore a muovere un passo dopo l'altro verso di lei, eppure nasconde dei malfunzionamenti che porteranno, nonostante il finale indubbiamente emozionante, e chiedersi se davvero, una volta chiusi gli occhi - e terminata la proiezione - rimanga davvero qualcosa da guardare.
E se Roy Batty, all'apice del già citato Blade Runner, "ha visto cose che noi umani non possiamo neppure immaginare", riesce davvero difficile poter avere la stessa sensazione rispetto alla piccola Eva, che fungerà da ispirazione per i fallimenti del prodigio mancato Alex, che finisce per incarnare clamorosamente il regista: in fondo, questo è un film che racconta la storia di un sognatore mai davvero convinto di poter arrivare fino in fondo.
Lo stesso che dieci anni prima delle vicende narrate era fuggito di fronte ad una realtà che stava diventando troppo grande per qualcuno abituato a vivere ogni giorno costruendo sogni e coscienze, come una sorta di architetto divino: Alex sa bene perchè fugge, così come sa che il suo ritorno non porterà a nulla che non avesse già sperimentato.
Quella spiaggia rimarrà l'idillio infranto di un piccolo robot perduto, "che ha visto cose che noi umani non possiamo immaginare", ma non se ne sarà neppure reso conto.
Perchè la luce si sarà spenta, e l'impressione per noi dall'altra parte dello schermo è che la stessa sia stata troppo fioca, come quella di un autunno che fa rimpiangere l'estate.



MrFord


"Sogna una carne sintetica 
nuovi attributi e un microchip emozionale
sogna di un bisturi amico 
che faccia di lei qualcosa fuori dal normale
sogna una carne sintetica
nuovi attributi e un microchip emozionale
occhi bionici più adrenalina
sensori e ciberbenetica neurale."
Subsonica - "Aurora sogna" -



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