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venerdì 23 marzo 2018

Annientamento (Alex Garland, UK/USA, 2018, 115')





Probabilmente non esiste un mistero più grande di quello che offriamo noi stessi.
Che si parli di corpo, o mente.
In fondo, gli abissi che nasconde il nostro cervello sono sconosciuti alla scienza almeno quanto i miracoli che è in grado, in positivo o in negativo, di compiere il corpo.
Per non parlare del concetto più ampio di Natura.
Forse, un giorno, saremo addirittura in grado di decidere del destino delle nostre strutture fisiche, o capiremo come l'energia che ci muove si evolve e saremo in grado, in barba alle religioni, di guadagnare davvero un'esistenza eterna.
Ma al momento, tutto è affidato a quello che proprio la Natura sceglie per noi, dai cambiamenti climatici, ai cataclismi, al modo di evolversi ed invecchiare della "carne".
Personalmente, anche se ormai molto vicino ai quaranta, mi sento più consapevole, forte e prestante di quanto fossi quando ne avevo venti: ho una tenuta da sportivo, ho prestazioni fisiche migliori, bevo molto di più, conosco i miei limiti e cerco un passo alla volta di superarli, vedo più chiaramente tante cose che allora potevo solo immaginare.
Eppure, la mia è una condizione transitoria, passeggera, mutevole.
Alla fine dello scorso gennaio, quando mio padre ha iniziato la sua lotta contro il cancro - pur se, fino ad ora, con successo e rispetto ad una situazione gestita per tempo, fortunatamente -, ho ripensato a quanto indistruttibile, in barba a tutti gli incidenti in bicicletta collezionati nel corso della vita, mi fosse sempre sembrato, e a quanto, inevitabilmente, la Natura ci impone, senza appello: Alex Garland, forte di una materia di base decisamente interessante, mette sul piatto una delle grandi piaghe della medicina, della scienza e in un certo senso della filosofia cercando di analizzarla dall'interno, quasi fosse un ostacolo con il quale fare i conti non tanto arrendendosi, o combattendo coltello tra i denti, quanto cercando di comprendere memori dell'insegnamento dell'Eraclito del Panta rei, quasi la malattia, il decadimento, il cambiamento facessero talmente parte del nostro universo e della nostra essenza da potersi considerare parte di noi.
In effetti, a ben guardare, l'invecchiamento stesso potrebbe essere considerato alla stessa stregua: iniziamo la nostra vita con un sovraccarico di energie, le vediamo esplodere, impariamo a fatica a gestirle e proprio nel momento migliore ne perdiamo progressivamente il controllo, fino a spegnerci.
Parrebbe quasi un'ingiustizia, se non fosse parte di un disegno che ancora non siamo riusciti ad osservare nel suo complesso, distaccati.
Lo stesso disegno che cercano di comprendere, ognuna grazie alla propria esperienza e sensibilità, le protagoniste della spedizione di questa storia che non sarà tra le più originali portate sullo schermo ma che, derivativa oppure no, conferma il talento di uno sceneggiatore e regista da tenere indubbiamente d'occhio, in grado di ribaltare uno dei concetti più oscuri e spaventosi che l'epoca moderna ha finito per dover affrontare e cercare di comprendere e proporlo al pubblico come una sfida, un'idea nuova, un cambiamento terribile quanto necessario per affrontare, chissà, un futuro differente da quello che ci siamo o potremmo mai immaginarci.
In fondo, in barba a battaglie, studi, storie d'amore, legami destinati a finire ed altri ad iniziare, violenza e conflitti, progetti ed idee, scenari ipnotici che ricordano Kubrick o Malick e cast di stelle emergenti o affermate, uomini o donne, passato o futuro, la questione primaria è legata al fatto che, per quanto mi riguarda, sarei disposto a cambiare, ad evolvere, a cercare, a scoprire pur di vivere in eterno: che si tratti di fiori, di sangue, di grida d'aiuto o di forme spaventose come sculture deformi.
Ma per quanto possa aggrapparmi a qualcosa, non è detto che la Natura sia d'accordo.
O che una luce negli occhi non possa cambiare tutto quello che avevo creduto, pensato e voluto.
Del resto, per citare Rocky, "la Natura è più furba di quello che l'Uomo crede".
Anche quando l'Uomo è parecchio avanti.



MrFord



 

venerdì 17 marzo 2017

Autobahn - Fuori controllo (Eran Creevy, UK/Germania/Cina, 2016, 99')




Di norma, quando in sala approda qualche nuovo filmaccio action da neuroni zero, finisco quasi subito per esaltarmi e considerarlo come priorità per la prima serata di stanca disponibile, o come visione cuscinetto nel corso delle sessioni di gioco con i Fordini: fin da bambino, del resto, le tamarrate hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nel mio rapporto con il Cinema, e fatta eccezione per gli anni - fortunatamente pochi, a conti fatti - di radicalchicchismo estremo non credo ci sia stato un altro periodo in cui non le abbia alternate alle visioni più profonde ed impegnative.
A volte, però, nel grande oceano di questo tipo di produzioni, si finisce per pescare pesci davvero indigesti, e dunque la soglia di attenzione nella scelta deve essere inevitabilmente alta: questo Autobahn - Fuori controllo, adattamento assurdo dell'originale Collide, era entrato nel novero dei titoli potenzialmente rischio merdata estrema, tanto da non farmi prendere, almeno inizialmente, in considerazione il recupero.
Quando, poi, il periodo da casalingo del sottoscritto ha finito per liberare parecchio spazio nei ripescaggi, ho deciso che il rischio poteva essere corso, e che alla peggio non avrei fatto altro che massacrare l'ennesimo tentativo action moderno non all'altezza dei miti degli anni ottanta: in questo senso, il lavoro di Eran Creevy non è risultato così agghiacciante, finendo per ricordare l'atmosfera di cose come Transporter - certo, l'assenza di uno Statham pesa, ma considerata l'aura "romantica", devo ammettere che il buon Nicholas Hoult finisce quasi per starci - e portando sullo schermo almeno due o tre sequenze legate alle rocambolesche fughe del protagonista dal punto di vista di ritmo ed adrenalina davvero niente male, dalle corse a piedi tra le viette di un paesino della provincia tedesca agli spettacolari incidenti d'auto in autostrada.
Certo, scrittura e realizzazione sono elementari, i due villains interpretati da Anthony Hopkins e Ben Kingsley caricaturali oltre misura - ed occasione per i loro interpreti di gigioneggiare in maniera quasi irritante -, l'evoluzione della trama ed in particolare il finale totalmente implausibili, ma mettendo a nanna il cervello e limitandosi a godere dei tentativi degli sgherri del boss - che paiono per la maggior parte hipster in versione killer dal passato militare - di far fuori il giovane ladro d'auto con il quale si trovano ad avere a che fare, direi che ce lo si può godere senza sentirsi troppo in colpa.
In un certo senso, prodotti innocui come questo vanno presi come - e l'ho già sottolineato in più di un'occasione - i fast food del Cinema, cibo porco e normalmente indigesto che in alcuni momenti, però, sta proprio bene, specialmente se accolto senza pretese: dunque armatevi di ignoranza, e soprattutto se amate spingere sull'acceleratore, prima che con la bella stagione giunga Fast 8 a fare la differenza, concedetevi uno snack da distributore automatico con questo Autobahn: non sazierà o non rappresenterà certo una nuova frontiera "culinaria", ma senza dubbio riempirà quel buco che separa la seconda colazione da un lauto pranzo.




MrFord




venerdì 3 marzo 2017

Benedizione (Kent Haruf, USA, 2013)





Nonostante io sia notoriamente un affamato di vita e dichiari ai quattro venti di voler rimanere da queste parti almeno fino ai centotre anni, di tanto in tanto, soprattutto da quando sono padre, mi capita di pensare al mio funerale: non perchè pensi di essere presente in forma di spirito o stronzate del genere, quanto più che altro all'idea di quello che potrebbe provare chi resta.
Personalmente, per quanto banale possa suonare, ho trovato tutti i funerali cui ho partecipato estremamente tristi, segnati da un'aura di sacralità statica e pesante: se devo pensare ad un'eccezione, penso a quello del mio amico Emiliano, reso più umano dagli interventi di alcune delle sue persone più care e dalla musica, ed ancor più intenso quando, con mio fratello, un paio di amici ed i miei genitori, decidemmo di andare a pranzo subito dopo, raccontando aneddoti che lo riguardavano, e ridendo insieme di quanto ci aveva lasciato.
Quando toccherà a me, mi piacerebbe che i Fordini raccogliessero una playlist di canzoni selezionate dal sottoscritto per l'occasione e dessero una festa grazie alla quale vorrei che tutti si lasciassero andare, mangiando e bevendo e ridendo e piangendo e scopando e tutte quelle cose che fanno sentire vivi, quasi dovessero farlo anche per me, che nel frattempo starò dormendo un sonno senza sogni.
Ma non c'è morte senza vita, ed è questo che mi ha colpito più a fondo, di Benedizione.
Il lavoro di Kent Haruf, incentrato sulla figura di Dad Lewis, pilastro della piccola comunità da provincia americana tra Neil Young e Bruce Springsteen di Holt, è un malinconico, semplice, diretto, travolgente affresco che mostra quanto la magia delle "straight stories" - per dirla in stile Lynch - è potente: l'uomo, che per una vita ha condotto un'esistenza retta e come ci si aspetterebbe da un capofamiglia, rispettato ed ammirato, attende che la malattia se lo porti via prima della fine di una torrida estate che non vivrà mai nel profondo, rimbalzando tra presenze ed affetti - la moglie Mary, la figlia Lorraine - e ricordi e segreti - il rapporto incrinato con il figlio Frank, il licenziamento risalente a decenni prima di un dipendente scoperto a "fare la cresta" -, mentre amici, conoscenti, dipendenti, membri in crisi della comunità - il reverendo Lyle - o semplici uomini e donne - stupendo il picnic di Lorraine, Alice e delle loro vicine, madre e figlia - si specchiano negli occhi pronti a spegnersi un respiro alla volta di un uomo che è stato una roccia, e che l'acqua del fiume sta piano piano incrinando.
Benedizione è al contempo un viaggio attraverso tutti i conti in sospeso che per natura ognuno di noi avrà da saldare al termine della propria esistenza ed un inno alla vita, il racconto di una sconfitta e di una speranza che cresce, la vicenda semplice di generazioni che si susseguono senza che si debba necessariamente parlare o scrivere di grandi imprese, perchè la vita stessa, con la sua quotidianità, i suoi anni ed i suoi tributi, sentimentali e non, è di suo un'impresa degna di un'epopea letteraria o cinematografica.
Kent Haruf non da o suggerisce risposte, semplicemente si pone delle domande, o vive quella che potrebbe essere considerata una speranza, riuscendo anche a ribaltare il concetto di malattia terminale in un'opportunità di chiudere i conti con il passato, se stessi e le persone che ci stanno attorno.
E accanto a pagine di poesia pura - Mary che, negli ultimi giorni del marito, dorme al suo fianco come ha fatto per oltre mezzo secolo svegliandosi di continuo per controllare che stia ancora respirando - ed immagini di Natura sconfinata, meraviglia e solitudine, le ferite restano, senza essere cancellate, quasi orgogliose.
Perchè in fondo sono loro ad averci portato fino a dove siamo giunti.
Sono loro che ci porteranno all'ultimo giorno.
Prima che chi resta possa avere modo di celebrare e festeggiare una vita, e non una morte.




MrFord




mercoledì 30 marzo 2016

The Armstrong Lie

Regia: Alex Gibney
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 124'






La trama (con parole mie): nel duemilanove, alla vigilia del suo rientro nelle competizioni a quattro anni dal ritiro, Lance Armstrong, vincitore di sette Tour de France, sopravvissuto al cancro, uno dei ciclisti più amati e rappresentativi del mondo, è seguito da Alex Gibney, documentarista, che dovrebbe raccontare il suo clamoroso comeback.
Quando, però, scoppia lo scandalo doping destinato a segnare per sempre vita e carriera di Armstrong, Gibney è costretto a cambiare rotta e mettere in standby il film, che da celebrazione diviene un documento sul periodo più buio della carriera di un atleta divenuto un vero e proprio lupo cattivo agli occhi degli specialisti, degli appassionati e della stampa.
Ma Armstrong è davvero così terribile come lo si è dipinto, o è solo il volto più noto di un sistema corrotto da fin troppi anni?










Se torno con la memoria a quando ero bambino, di fatto mi pare di essere cresciuto a pane e ciclismo.
Mio padre, appassionato a questo sport fin da bambino, lo ha sempre praticato e seguito assiduamente, e tra racconti di cadute e corse di ciclocross invernali, pomeriggi estivi con lui appostato in poltrona per i tapponi più impegnativi del Tour, cadute vissute sulla pelle - quante volte ricordo la sua bicicletta riportata a casa da estranei, con mia madre ogni volta sull'orlo dell'infarto! -, la clavicola sbriciolata che mi regalò tre mesi a casa in sua compagnia ai tempi delle elementari, quando guardammo tutta la serie di Ken il guerriero insieme in tv, il periodo in cui io stesso provai a cimentarmi con la bicicletta, di fatto sento questo sport come parte di me.
Uno sport duro, fatto di sacrifici e stress fisici pazzeschi, tanto più alto è il livello della competizione.
Ricordo bene anche Lance Armstrong.
Considerato, infatti, che il mio preferito da bambino era Greg Lemond, altro illustre ciclista americano, l'arrivo di questo ragazzo del Texas, divenuto a sorpresa il più giovane campione del mondo nel novantatre a Oslo, spalancò le porte della speranza del sottoscritto di vedere una nuova promessa diventare una delle realtà più interessanti del ciclismo mondiale: in realtà il buon Lance nei primi anni di carriera conquistò giusto qualche vittoria sulle grandi gare singole, senza spiccare particolarmente, invece, nei giri, fino all'estate del novantacinque.
Pochi giorni dopo la tragica morte del compagno di squadra Fabio Casartelli a seguito di una caduta, infatti, Armstrong vinse in solitaria la diciottesima tappa puntando gli indici al cielo come nel più emozionante dei film, rimanendo impresso nella mia memoria.
Peccato che, non molto tempo dopo, gli fu diagnosticato un cancro che lo portò ad affrontare una serie di interventi che lo davano spacciato almeno al cinquanta per cento - e di nuovo pare entrare in gioco il Cinema, in particolare 50/50 - ed una chemioterapia sperimentale che misero in discussione la sua intera carriera: inutile dire che, al suo ritorno alle corse, nel novantanove, con la conseguente vittoria a sorpresa nel Tour, il mondo fu letteralmente conquistato.
Quello fu l'inizio dell'impero e della bugia di Armstrong, che sfruttando la sua indole battagliera e l'aggressività tipica dell'americano vincente, con l'aiuto di alcuni specialisti, medici e team manager, compagni compiacenti ed una fame di vittorie incontrollabile, dominò per sette anni la corsa a tappe più prestigiosa del circuito, seminando nel frattempo una lunga serie di inimicizie sia a livello personale che professionale, che gli costarono, proprio a seguito del ritorno del duemilanove, una delle cadute più rovinose della Storia dello Sport, con conseguente annullamento delle già citate sette vittorie al Tour, un'indagine federale con rischi di risarcimenti milionari e la radiazione a vita da qualsiasi competizione ciclistica.
Alex Gibney, testimone involontario di questi eventi e della prima ammissione pubblica di Armstrong di aver assunto sostanze dopanti nel corso degli anni dei suoi successi - su tutte l'EPO, ma ricordiamo anche l'utilizzo massiccio di trasfusioni di sangue per ossigenare il più possibile annullando di fatto il rischio di essere scoperti -, avvenuta nel corso di una storica intervista con Ophra, porta sullo schermo una vicenda senza dubbio a forti toni di grigio mantenendosi quanto più possibile super partes, mostrando il lato dispotico tanto quanto quello umano di un campione che ha avuto, a mio parere, più la colpa di essere il più riconoscibile di uno sport, e l'eroe di migliaia di persone nel mondo - soprattutto se si pensa alla guarigione dal cancro ed al ritorno alle competizioni professionistiche - che non quella di aver assunto sostanze dopanti.
Certo, è giusto che le regole vengano seguite e che Armstrong - come chiunque altro - sia punito una volta colto in flagrante, ma il dubbio che sia stato usato come sorta di grande capro espiatorio per un sistema corrotto praticamente da sempre - mio padre stesso raccontava di come il doping fosse presente già ai tempi delle sue corse giovanili così come ora tra gli amatori settantenni, e non parliamo in nessuno dei due casi di professionisti -, che vide e vede coinvolti praticamente ogni anno ciclisti di tutto il mondo: non voglio, con questo, giustificare il fatto, ma sentire Armstrong che afferma "io volevo vincere, e considerato che tutti facevano uso di sostanze illecite, era l'unico modo per poter essere all'altezza degli altri" non suona neppure così strano.
Perfino la pulita - a quanto affermano anche i suoi detrattori più convinti - e faticosissima terza posizione guadagnata al Tour del duemilanove - quello del rientro - vinto dal compagno di squadra Contador che venne squalificato per doping l'anno seguente pare l'esempio clamoroso di un sistema che, così com'è, non può funzionare: l'alternativa migliore per un ciclismo finalmente pulito potrebbe essere quella di rendere più a portata "umana" i grandi giri, permettendo ai corridori un recupero che non porti ed induca all'utilizzo di sostanze illecite, o la clamorosa decisione di rendere, di fatto, le stesse lecite, o quantomeno tollerate quanto sono, ad esempio, nel football americano.
Rimanendo, infatti, a questi livelli di difficoltà e di media di velocità per tappa, l'utilizzo di metodi come quelli seguiti da Armstrong e dai suoi risulterà sempre quasi "normale", seguito da medici che continueranno ad elaborare metodi per evitare i controlli e da un muro di omertà che coinvolgerà l'intero carrozzone - esemplare, in questo senso, la "lezione" data da Armstrong al ciclista italiano Filippo Simeoni -.
Di fatto, da questo documentario, esce il ritratto di un uomo ossessionato dalla vittoria e dal potere, divenuto prima il simbolo di uno sport e dunque il suo anticristo: io continuo a pensare che, etica o no, abbia pagato un prezzo perfino troppo alto principalmente perchè protagonista assoluto.
Del resto, la caduta di un re è sempre più eclatante di quella di un contadino.
E se un re fosse furbo, dovrebbe sempre pensare a come evitare che i contadini, per invidia, rancore o voglia di emergere, possano pensare ad una rivoluzione: perchè la testa più importante destinata a saltare sarà sempre e comunque la sua.




MrFord




"When it was the right time, I caught her
and she was dead in the water
I found her in her tracks
she heard me answer back
liar liar,
she's on fire
she's waiting there around the corner
just a little air, and she'll jump on ya'."
Chris Cab - "Liar liar" -





martedì 8 dicembre 2015

Quel fantastico peggior anno della mia vita

Regia: Alfonso Gomez-Rejon
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 105'






La trama (con parole mie): Greg, liceale all'ultimo anno appassionato di Cinema deciso a mantenersi a distanza da qualsiasi gruppo inserito all'interno della complessa geografia scolastica, è fin dall'infanzia amico di Earl, suo coetaneo e quasi vicino, sempre pronto ad imbarcarsi con quest'ultimo nella realizzazione di film parodia dei grandi cult della settima arte.
Quando, spinto dalla madre, è costretto a rapportarsi con la compagna di scuola Rachel, alla quale è stata diagnosticata una forma di leucemia, l'esistenza semisolitaria di Greg cambia: il legame con la ragazza, infatti, scuote il mondo interiore dell'aspirante regista, modificandone aspettative ed atteggiamenti, inducendolo perfino ad entrare a far parte del grande mondo dei tavoli della mensa, ambiente da sempre evitato come la peste.
Quando il peggioramento del suo rendimento comincia a correre di pari passo con quello delle condizioni di salute di Rachel, Greg entra in crisi: come affrontare un dramma sentimentale che non avrebbe mai pensato di poter vivere sulla pelle?










Ho sempre avuto un debole, per il Sundance.
Per quanto, di fatto, si tratti del Festival più hipster del mondo del Cinema, ho sempre voluto bene alla maggior parte dei prodotti promossi dalla rassegna patrocinata da Robert Redford, che nel corso degli anni è riuscita a regalare al Saloon alcune delle sue più grandi soddisfazioni per quanto riguarda la settima arte alternativa statunitense: Quel fantastico peggior anno della mia vita - terribile adattamento dell'originale Me and Earl and the dying girl - appartiene a tutti gli effetti alla categoria, pur non raggiungendo i livelli di alcune ottime proposte di matrice teen passate su questi schermi di recente come The final girls o Dope - che presto farà capolino al Saloon -, e pare unire il gusto estetico da outsider chic di Wes Anderson alla passione che solo la voglia di riscatto di un'età tra le più complesse della vita può stimolare.
La storia di Greg, Earl e Rachel, sentita al punto giusto per quanto raccontata con il piglio supponente tipico dei teenagers mossi da aspirazioni e passioni vissute con tutto il trasporto possibile, è un ottimo esempio di film di formazione - soprattutto sentimentale - legato da un lato ai temi universali di amore ed amicizia e dall'altro alla sfida rappresentata dal confronto con la propria vulnerabilità ed il dolore, proprio e di chi ci sta accanto ed impariamo ad amare.
E se l'efficace rappresentazione di Greg ed Earl di alcuni tra i cult assoluti della Storia della settima arte - influenzata senza dubbio dal lavoro di Gondry Be kind rewind, superato anche agilmente da Alfonso Gomez Rejon - soddisferà i più accaniti tra i radical, pronti ad applaudire ad uno dei tentativi più riusciti legati all'evoluzione sentimentale dai tempi di Moonrise Kingdom, il percorso emotivo della seconda metà della pellicola ed il "twist" finale legato al destino di Rachel riuscirà a toccare anche il cuore del pubblico più abituato alle grandi storie d'amore ad ampio respiro.
Immagino, comunque, che presunti paladini del Cinema di nicchia come il mio rivale Cannibal Kid finiranno per essere stupiti della promozione - pur se non a pieni voti - guadagnata qui al Saloon da questo titolo, eppure credo che si tratti, a conti fatti, di un prodotto decisamente più pane e salame di quanto non si possa pensare, pronto a mostrare la complessa e selvaggia giungla che è il mondo del liceo e tutte le difficoltà che i ragazzini non propriamente convenzionali come Greg ed Earl sono costretti a qualsiasi latitudine ad affrontare per potersi fare le ossa ed affrontare il futuro: essendo sopravvissuto ad un percorso simile, arrivando ad essere un tipaccio come il loro insegnante tatuato dedito all'uso di droghe, ho sentito molto vicino il viaggio di maturazione soprattutto del protagonista, pronto a combattere fino a stare male il fiume in piena di sentimenti e sensazioni che, in determinate condizioni ed in un preciso momento delle nostre vite, neghiamo di sentire ribollire all'interno, ma che prima o poi, spesso per merito di una ragazza pronta a farci perdere la testa e spezzarci il cuore, romperanno gli argini permettendoci di crescere.





MrFord





"Trouble
oh trouble can't you see
you're eating my heart away
and there's nothing much left of me."
Cat Stevens - "Trouble" - 






venerdì 17 aprile 2015

The normal heart

Regia: Ryan Murphy
Origine: USA
Anno: 2014
Durata:
132'





La trama (con parole mie): siamo nei primi anni ottanta quando la comunità gay di New York comincia a rendersi conto dell'avvenuta esplosione di una nuova, pericolosa e terribile epidemia che pare continuare a crescere ed essere legata all'attività sessuale. Ned Weeks, attivista e scrittore, decide di iniziare a sensibilizzare non solo le masse ed il governo, ma anche chi, come lui, è omosessuale, lottando senza quartiere in modo che questo morbo possa essere immediatamente isolato e studiato.
Accanto agli amici di una vita guidati dal deciso Bruce Miles e dalla dottoressa Emma Brookner, Weeks prosegue per anni la sua guerra incurante delle scarse doti di diplomatico che mostra, delle amicizie che si incrinano e dei rischi - politici e non - che si assume.
Sostenuto anche dall'amore del compagno Felix, Ned si troverà a superare ogni confine arrivando perfino ad attirare su di lui le antipatie della comunità di cui fa parte, senza per questo rinunciare affinchè il mondo conosca tutti i rischi legati alla diffusione dell'HIV.








Il mio rapporto con Ryan Murphy è sempre stato piuttosto altalenante: il produttore di Nip/Tuck, Glee ed American Horror Story, infatti, è stato in grado, in questi anni, di regalare al sottoscritto ottime soddisfazioni così come di guadagnarsi le bottigliate delle grandi occasioni, ed ogni volta che approccio una sua creatura parto sempre con la guardia alta, per evitare di trovarmi a gestire delusioni troppo cocenti.
Non è il caso di The normal heart, forse la cosa migliore mai portata sullo schermo dall'autore nativo di Indianapolis, un'opera sentita e toccante legata a doppio filo a quelli che sono stati gli anni della realizzazione, da parte del mondo - e non solo di chi era ed è omosessuale - dell'esistenza dell'AIDS, che imperversò selvaggiamente proprio a partire dai primi scampoli di eighties e finì per spazzare via un'intera generazione, o quantomeno segnarla nel profondo.
Sfruttando un cast in ottima forma e costituito da grossi nomi - da Marc Ruffalo e Taylor Kitsch ad una serie di volti noti del piccolo schermo, Matt Bomer e Jim Parsons in primis -, Murphy porta in scena la vera e propria lotta che alcuni esponenti della comunità gay di New York intrapresero affinchè scattasse l'allerta per una malattia che ancora non si conosceva affatto, e che spesso finì per essere sottovalutata o messa in secondo piano rispetto ad una scopata clandestina o che non si era prevista: in questo senso, i personaggi di Ned Weeks e Bruce Miles risultano tra i più interessanti che il piccolo e grande schermo abbiano mai regalato al pubblico riguardo queste tematiche.
Il primo, donchisciottesco e poco diplomatico, talmente deciso a portare a vanti la sua lotta da rendersi nemiche anche le persone al suo fianco, ed il secondo, apparentemente più deciso e forte eppure sempre pronto a mediare, a cercare una soluzione in grado di accordare le parti in causa senza danneggiare eccessivamente l'una o l'altra; il primo dedito ad una storia lunga e molto intensa, il secondo legato a diversi partners, tutti amati e tutti ugualmente destinati a scomparire sotto il suo peso - e quello della malattia -; il primo senza mezze misure, tutto per i sogni in grande e la lotta senza quartiere, il secondo pronto a trovare sempre l'accordo migliore, pur essendo un soldato di professione.
Difficile, nel corso della visione, non trovare momenti in cui prendere le parti di uno o dell'altro, così come non rimanere toccati dalla realtà di voluta disinformazione che probabilmente costò la vita a migliaia di uomini in quel periodo, ed allo stesso tempo non notare le critiche neppure troppo velate mosse alla stessa comunità gay dall'opera, come pronta a riconoscere, almeno in alcuni frangenti, la scarsa combattività dei suoi membri nel perorare una causa che toccava da vicino tutti loro - e non solo, ovviamente -.
L'unica pecca che rende The normal heart "solo" un buon prodotto e non un cult totale è data dal fatto di essere giunto a seguito di pellicole come Philadelphia o Behind the candelabra, decisamente su un altro livello sia dal punto di vista tecnico che emotivo: resta comunque un lavoro più che pregevole, socialmente molto impegnato e coinvolgente, che ricorda più Milk o Dallas Buyers Club che non i classici citati poco sopra.
Restano, comunque, le importanti riflessioni legate alla necessità di lottare per i propri diritti, il proprio riconoscimento, la propria identità - che sia sessuale, razziale o qualunque altro fattore vogliate considerare in merito -, ed una passione grande come quella di Ned, protagonista non sempre piacevole e senza dubbio scomodo, charachter in grado di irritare profondamente eppure assolutamente perfetto come compagno di lotta.
Credo, infatti, che sia sempre grazie a personalità di questo calibro che la Storia prenda direzioni nuove, e che cambiamenti importanti - soprattutto in termini sociali - vengano applicati alle nostre società: senza i Ned Weeks pronti a stringere i denti ed andare avanti anche in barba ai compagni pronti ad abbandonarli, probabilmente ora saremmo ancora qui a chiederci per quale ragione un misterioso morbo finisca per essere così presente e distruggere dall'interno le nostre comunità.
Un morbo che non ha avuto e non ha distinzioni legate a gusti sessuali, razza o credo.
E che, paradossalmente e tristemente, risulta essere molto più democratico di molti dei politici che cercarono di tenerlo sotto silenzio.




MrFord




"Give me time
to realize my crime
let me love and steal
I have danced
inside your eyes
how can I be real
do you really want to hurt me
do you really want to make me cry."
Culture Club - "Do you really want to hurt me?" -




mercoledì 4 febbraio 2015

Still Alice

Regia: Richard Glatzer, Wash Westmoreland
Origine: USA, Francia
Anno:
2014
Durata: 101'





La trama (con parole mie): Alice Howland, madre di tre figli ormai avviati lungo la loro strada, moglie felice e linguista e professoressa di grande successo, comincia a manifestare alcuni disturbi della memoria, inizialmente di poco conto e dunque sempre più allarmanti. 
Effettuate visite ed analisi e scoperta una realtà forse più terribile di quanto si aspettasse - una forma del morbo di Alzheimer che colpisce molto precocemente ed è geneticamente trasmissibile - si prepara, circondata dall'affetto dei suoi cari, all'inevitabile che la attende: i mesi che seguiranno l'inesorabile progredire della malattia saranno i più tristi ma, in un certo senso, anche i più intensi della sua vita, e la porteranno a contatto con le persone che più lei stessa ha amato, dal marito John alla figlia minore Lydia, che dall'essere la più distante finirà per diventare il pilastro di Alice durante la malattia.








Non immagino neppure quanto terribile possa essere una condizione che vede sbriciolarsi la memoria della vita, degli affetti, delle esperienze che abbiamo vissuto, per le quali abbiamo lottato, delle sensazioni che le stesse hanno stimolato.
E non voglio sinceramente immaginarlo.
Così come non voglio parlare di Still Alice in maniera critica, come se fosse il classico film indie in pieno stile Sundance giunto a furor di popolo alla corte degli Oscar.
O dell'interpretazione di Julianne Moore, che seppur interessante, non è a mio avviso tra le migliori della carriera della pur bravissima attrice.
Voglio essere pane e salame, come mi è parso questo film, e volergli bene senza riserve, con trasporto, come ho sentito di volergliene minuto dopo minuto, sofferenza dopo sofferenza, squarci di realtà ben precisi uno dopo l'altro portati sullo schermo da Glatzer e Westmoreland.
Anzi, volendo essere onesti, devo ammettere che questo film è riuscito nella non facile impresa di riportare alla memoria emotiva del sottoscritto uno dei titoli che più amai nel corso del duemilatredici, Questione di tempo, quasi ne fosse una versione dedicata a madri e figlie, piuttosto che a padri e figli: senza calcare troppo sui tasti del pietismo da malattia degenerativa - e l'Alzheimer è, forse, l'espressione più terribile del concetto - questo racconto intimo riesce ad accogliere il suo pubblico senza illusioni o retorica, appoggiandosi ad uno script molto sentito e ad un'onestà di fondo decisamente invidiabile - clamorosamente credibili i litigi a tavola, splendidi gli accenni alla vita dei figli di Alice all'esterno del rapporto con la stessa madre e la sua malattia, dalla ricerca di un figlio della maggiore Anna al tentativo di uscire dagli schemi di Lydia, fino al legame molto stretto di Tom con il padre - come se fossimo stati invitati ad una cena a casa Howland, pronti a gustare il cibo preparato da Alice prima che lei stessa possa dimenticarsi le ricette dei piatti cucinati per tutta una vita.
Una tavolata amara, quella che ci toccherebbe, ma non per questo meno vitale e ribollente di quanto ci si potrebbe aspettare: in fondo, Alzheimer o no, il Tempo resta il nostro avversario più terribile, e per quanto, penso, ognuno di noi si auguri di rimanere lucido e cosciente fino alla fine, il fatto è che giungerà il momento in cui occorrerà deporre le armi, e lasciare che la vita faccia il suo corso.
In questo senso, e grazie ad un finale splendido, Still Alice, più che una pellicola incentrata sulla malattia, mi è parsa un'opera ottima per raccontare il legame tra genitori e figli, dai conflitti alle complicità, fino al testimone che i primi, inevitabilmente, finiscono per passare ai secondi.
Il crescendo d'intensità che viene a crearsi tra i personaggi di Julianne Moore e Kristen Stewart - forse alla sua migliore interpretazione - ricorda - paradossalmente - quanto dei propri gesti, delle esperienze, dei tratti del corpo e dei difetti venga trasmesso ai nostri figli, e quanto importante, anche nei momenti più difficili, quello stesso rapporto si riveli.
Senza dubbio, comunque, il valore della Memoria e quello dell'Esperienza risultano ugualmente fondalmentali, nel corso della visione, ed è impossibile negare quanto ognuno sia definito dal bagaglio accumulato nel corso del proprio viaggio attraverso questa vita: ma c'è qualcosa che va oltre, in Still Alice, e che trova il suo significato più importante e profondo proprio in quello Still.
Ancora.
E ancora.
Come un bicchiere mezzo pieno, o il non volersi fermare.
Neanche quando ci si sente persi.
Perchè c'è qualcosa, in noi, che vive, e regala brividi che nessuna malattia potrà mai fermare.
E che, quando si ha la fortuna di avere dei figli, troverà una nuova strada ben oltre la fine della nostra.
Una Memoria esterna, per usare un termine tecnologico e moderno.
In grado di superare i confini di una vita, e diventare il punto di partenza di un'altra.




MrFord




"And if I had a boat
I'd go out on the ocean
and if I had a pony
I'd ride him on my boat
and we could all together
go out on the ocean
me upon my pony on my boat."
Lyle Lovett - "If I had a boat" - 




martedì 27 gennaio 2015

La teoria del tutto

Regia: James Marsh
Origine: UK
Anno:
2014
Durata:
123'





La trama (con parole mie): Stephen Hawking, promessa assoluta della fisica, conosce ai tempi dell'università la sua futura moglie Jane, diversamente da lui votata alle materie umanistiche ed alla Fede. Il loro rapporto sarà l'ancora alla quale l'uomo si appoggerà per fronteggiare la malattia degenerativa che gli viene diagnosticata all'inizio degli anni sessanta e che lo accompagnerà per tutto il resto della vita, sconfiggendo le probabilità che lo davano morto entro due anni divenendo marito, padre, volto simbolo della scienza, autore di best sellers nonchè "nuovo Einstein".
Il rapporto con la stessa Jane, non privo di ombre, ha di fatto contribuito a formare la coppia in quanto tale ed i suoi appartenenti come individui, che si parli di conquiste in termini di studi o umane: in fondo, il miracolo della creazione e le sue conseguenze, finiscono per essere alla portata della più grande mente immaginabile così come per il più semplice degli uomini.







Come ormai più volte mi è capitato di raccontare tra una recensione e l'altra, ormai parecchi anni or sono - quattordici, per l'esattezza - ho prestato i miei dieci mesi di servizio civile lavorando in ambito universitario assistendo per tutto quello che riguardava questioni logistiche - colloqui con i professori, esami, pranzi, seminari e spostamenti nell'area delle vicinanze dell'Università stessa - studenti con disabilità fisiche: per molti versi, e per quanto ora come ora, se mi ritrovassi a scegliere, penso non disdegnerei - con tutti  i limiti del caso - l'esperienza del militare, quei dieci mesi hanno significato non soltanto uno dei periodi più importanti della mia crescita, ma anche l'esperienza lavorativa più gratificante che abbia mai provato.
Non lo dico per compiacenza o pietismo, sia chiaro: in quel periodo ho conosciuto ragazzi con due palle grandi come interi sistemi planetari - Antonio "Panzer" e Gloria, che spero siano più che felici e tosti come allora ancora oggi -, altri che si crogiolavano nella condizione in cui erano ed altri ancora che, in tutto e per tutto, erano dei veri stronzi pronti a farti sentire in colpa come se fossi la causa delle loro sfortune.
Nessuno di loro, probabilmente, era un genio del calibro di Stephen Hawking, così come probabilmente non lo è nessuno di noi che frequentiamo la blogosfera.
Eppure, le reazioni e la gestione delle emozioni, i pregi ed i difetti erano lì, dove sarebbero stati comunque anche in situazioni diverse, e dove probabilmente sempre saranno.
In questo, La teoria del tutto - seppur, forse, con intenti di partenza diversi - riesce abbastanza bene a mostrare quanta normalissima e splendida umanità si trova anche in condizioni apparentemente straordinarie - ed alludo sia alla condizione di disabilità di Hawking, sia a quella di genio assoluto -, e trova la sua massima espressione nella strepitosa sequenza del momento della rottura definitiva tra il già citato Stephen e la sua compagna di una vita, con il cursore che viaggia velocissimo da una risposta preimpostata all'altra sul computer che da voce al fisico senza fermarsi su nessuna di esse, quasi non avesse davvero parole per decretare la fine di un rapporto.
Peccato che, esclusi il suddetto passaggio, l'interpretazione obiettivamente ottima di Eddie Redmayne - lanciatissimo verso l'Oscar - ed un comparto tecnico notevole, il resto non sia altro che l'ennesima, zuccherosa, prolissa ed a tratti noiosa pellicola hollywoodiana in odore di Oscar.
Peccato davvero, perchè James Marsh, l'uomo dietro la macchina da presa, neppure troppo tempo fa aveva finito per lasciarmi a bocca aperta grazie allo splendido documentario Man on wire - ispirato dalla vicenda che nei prossimi mesi diverrà un film diretto da Robert Zemeckis -, lasciava intendere - e sperare - in qualcosa di decisamente più valido ed intenso di questo.
Peccato, perchè più che la trita e ritrita questione della storia d'amore, avrei preferito conoscere più da vicino, ad esempio, il ruolo di Hawking come padre, o le sue rivoluzionarie teorie scientifiche: io posso capire che - come è facilmente intuibile dal finale, peraltro efficace - il miracolo dell'esistenza, l'unico in grado di unire Scienza e Fede, probabilmente risiede nel momento in cui siamo seduti ed osserviamo i nostri figli crescere, individui che noi abbiamo creato, ed in qualche modo plasmato, fino ad accompagnarli nel mondo, ma da un titolo come questo, che vorrebbe essere qualcosa di più del consueto compitino svolto ad arte per l'Academy, mi sarei aspettato senza dubbio un lampo di genio più clamoroso di qualche lacrima facile o dell'amore che vince, sempre e comunque.
Troppo semplice, fare la pace con l'Universo in questo modo.
Troppo comodo.
Probabilmente, se Hawking avesse girato questo film, non avrebbe preso una via come questa.
Del resto, uno come lui deve saperlo bene quale sia quella, al contrario di questa, tutta in salita.
E non occorre essere dei geni, purtroppo, per capire quale delle due abbia scelto di imboccare Marsh.




MrFord




"You see everything, you see every part
you see all my light and you love my dark
you dig everything of which I'm ashamed
there's not anything to which you can't relate
and you're still here."
Alanis Morissette - "Everything" - 




venerdì 14 novembre 2014

Dottor House - Stagione 2

Produzione: Fox
Origine: USA
Anno: 2005
Episodi:
24





La trama (con parole mie): proseguono le indagini mediche dai metodi anticonvenzionali per Greg House ed il suo team, alle prese con situazioni sempre ai limiti della casistica tradizionale e nuove minacce sanitarie e non che arriveranno a colpire perfino i membri della squadra, da Foreman ad House stesso, complice una vecchia conoscenza giunta dal passato per vendicarsi di lui.
Come se tutto questo non bastasse, la vita privata di Wilson ed i trascorsi sentimentali con la psicologa dell'ospedale porteranno il poco incline alla disciplina dottore a dover lottare quanto e più del solito non solo con gli schemi ed il dolore con il quale è costretto a convivere, ma anche con i rapporti interpersonali, sempre più difficili da gestire per un "cattivo per scelta" come lui.









Neppure il tempo di abituarsi al recupero tardivo della prima stagione, ed ecco che lo spigoloso House torna a fare capolino al Saloon, di fatto entrando a far parte delle proposte da intrattenimento godereccio e pane e salame tipiche del momento pasti per gli occupanti di casa Ford, ormai monopolizzati - giustamente - dal Fordino e dunque legati alle visioni più leggere possibili per quanto riguarda il piccolo schermo.
La seconda stagione dedicata alle gesta del medico pronto a rivaleggiare con il Cox di Scrubs per il titolo di "stronzo positivo" del genere ospedaliero mantiene le promesse fatte dalla prima, continuando il lavoro di approfondimento sui main charachters - da House stesso ai membri della sua squadra, passando per l'amico oncologo Wilson e la direttrice Caddy - e la struttura in perfetto equilibrio tra episodi autoconclusivi e sottotrame pronte ad evolversi ed esplorare principalmente tutto quello che i personaggi portano con loro oltre il ruolo di medici: in questo senso, l'apice della seconda stagione giunge in parallelo al doppio episodio legato all'infezione che colpisce, durante le indagini per un caso più complicato ed insolito di quanto siano soliti - come in un gioco di parole - affrontare i nostri -, Foreman, il mio personale favorito, e che porterà House ed i membri della sua equipe a spingersi oltre i confini ben più di quanto non accada già di norma - Foreman stesso compreso -.
A fare da eco all'appena citata doppietta, il season finale costruito sull'incertezza del futuro di House, la prima dozzina di episodi incentrati sul rapporto tra lo scorbutico dottore e la sua storica ex, nonchè psicologa dell'ospedale, e l'episodio incentrato sulla Fede ed il rapporto con i "piani alti", una sorta di scontro all'ultimo sangue tra Scienza e Religione.
Senza dubbio la struttura della proposta è ancora piuttosto simile a quella dei fumetti "all'italiana" in cui i personaggi finiscono per essere sempre uguali a loro stessi nonostante i cambiamenti - si veda, ad esempio, la sbandata di Cameron nel momento di alterazione capace di far crollare le sue usuali barriere -, eppure gli episodi scorrono in grandissima scioltezza, tanto che in più di un'occasione ho finito per chiedermi come mai, ai tempi della sua programmazione, non abbia concesso una possibilità, neppure per svago, a questo insolito medico dallo stile molto simile a quello di uno Sherlock Holmes della medicina meno inglese e pacato.
Il vecchio House, infatti, con i suoi demoni interiori e l'insistita e reiterata voglia di apparire come lo stronzo principe - o principe degli stronzi - cui imputare tutti gli eventuali mali e le conseguenti colpe, possiede molte delle caratteristiche che, di norma, per un certo grado di affinità, finiscono per attrarmi inesorabilmene in charachters di questo genere: l'approccio del sottoscritto è forse meno sopra le righe - parlando di medicina, penso di sentirmi molto più vicino al Karev di Grey's anatomy, altro finto bad guy illustre del piccolo schermo -, e dovessi lavorare con un individuo della pasta del claudicante Greg mi ritroverei un giorno sì e l'altro pure ad essere roso dal dubbio se sostenerlo o rifilargli un paio di cazzotti come si deve - un pò quello che fa il già citato Foreman, non a caso il mio preferito -.
La visione delle sue peripezie ospedaliere e non, comunque, accompagna piacevolmente, permettendo anche a Julez di regalarsi un paio di momenti di gloria - due diagnosi legate a malattie assolutamente assurde e semisconosciute azzeccate grazie ai recenti studi della signora Ford - e preparando il terreno per la terza annata, che se continuerà a mantenersi sui livelli delle prime due viaggerà in acque tranquille, e se dovesse fare un passo ulteriore nell'approfondimento e nella qualità, potrebbe addirittura farmi ricredere rispetto a tutti i sostenitori che, ai tempi, si dichiaravano pronti a tutto nel considerare House una delle migliori proposte televisive dei primi Anni Zero.




MrFord



"Look at them go
look at them kick
makes you wonder
how the other half live." 
INXS - "Devil inside" - 



lunedì 8 settembre 2014

Colpa delle stelle

Regia: Josh Boone
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 126'




La trama (con parole mie): Hazel e Gus sono due adolescenti colpiti da forme diverse di tumore, la prima rimasta segnata nel fisico e nell'approccio alla vita, più "difensivista", ed il secondo arrembante e pronto a cogliere l'attimo dopo un osteosarcoma che gli ha portato via la gamba destra.
Conosciutisi ad un gruppo di sostegno per malati e da subito legati, i due costruiscono giorno dopo giorno una storia d'amore fondata sugli interessi comuni e non: uno di questi è un romanzo che li porta a viaggiare fino ad Amsterdam per incontrare l'autore dell'opera, per quello che potrebbero ricordare come il momento migliore delle loro brevi vite.
Una volta tornati negli States, però, il Destino sarà pronto a chiedere il tributo alle loro malattie, finendo per portarli a fronteggiare quello che avevano temuto dal primo giorno: il fatto che uno di loro possa morire lasciando inevitabilmente l'altro.







Sono davvero felice. Da tempo, infatti, non mi capitava di avere così tanta voglia di massacrare di bottigliate un film da prima a durante a dopo la visione come è capitato con questo Colpa delle stelle.
Fin dai primi passaggi del trailer, infatti, avevo subodorato la classica americanata alla melassa degna delle stroncature delle grandi occasioni, che neppure alcune recensioni sorprendentemente positive erano riuscite ad intaccare: e fin dai primi minuti, in bilico tra sigarette non fumate e voce off più irritante che nel più irritante dei Malick, sono stato felice di trovare conferma delle mie aspettative, neanche Moccia avesse deciso di dedicarsi all'avventura a stelle e strisce in pieno stile Muccino.
Curioso come, qualche mese fa, con l'uscita in sala di Alabama Monroe, ben più di un blogger era rimasto indignato rispetto al presunto sfruttamento del dolore provocato dalla perdita di un figlio, mentre ora (quasi) tutti corrono ad applaudire questa caramella pietista gigante che vomita banalità sul cancro mascherandosi da cosa figa e simpatica pronta a giocare con battute e gag neanche fossimo tornati a Gran Torino: ma vaffanculo, dico io.
Due adolescenti innamorati volano ad Amsterdam ben consci del fatto che potrebbero schiattare da un momento all'altro e che fanno, invece che ammazzarsi di canne e scopare fino allo sfinimento? Vanno dritti alla casa di Anna Frank - davvero un colpo basso da Oscar - per un primo bacio strappalacrime che fa sembrare Tre metri sopra il cielo una specie di filmone da Festival di Cannes dopo essere stati giustamente bastonati dall'autore del romanzo che tanto li ha fatti sentire speciali e vicini - interpretato da un Willem Defoe che parte a mille e si riduce, nel finale, alla peggiore delle macchiette, vergogna anche per lui -.
Se non altro, nel corso di quello che dovrebbe essere il passaggio simbolo della pellicola, ho potuto tornare con la mente al Randall di Clerks e Clerks 2, pronto a confondere la già citata Frank con la Keller, pensando fosse "sorda, cieca e muta".
Sia ringraziato Kevin Smith.
Neppure Lars Von Trier, quest'anno, era riuscito nell'impresa di farmi incazzare così tanto, e rimanere a bocca aperta di fronte ad una vera e propria immondizia buonista che non solo con il Cinema c'entra poco - agghiaccianti i protagonisti, terribile la struttura, che risparmia sulla sceneggiatura inserendo spezzoni da video musicale per spingere la colonna sonora di fatto occupando con la stessa metà del tempo destinato ai dialoghi -, ma che mercifica la malattia trasformandola in una sorta di simpatica amica con la quale prima o poi si finisce a dover dare appuntamento per un the delle cinque un pò più prolungato degli altri.
L'unica a salvarsi da un tracollo clamoroso e completo è Laura Dern, il cui ruolo risulta più profondo ed interessante rispetto al resto del cast, pronta ad incarnare la volontà di una madre che sfrutta l'esperienza traumatica della malattia della figlia per poter aiutare altre famiglie trovatesi nella stessa situazione: ma è una consolazione misera rispetto a quella che è una versione da fighette di Noi siamo infinito che potrebbe piacere giusto a pusillanimi come Cannibal Kid o Kekkoz, che nonostante siano decisamente radical finiscono per abboccare alla più classica trappola hollywoodiana strappalacrime e zuccherosa neanche fossero i più ingenui tra gli spettatori.
E come se tutto questo non bastasse, l'agonia si prolunga per due ore suonate, sfruttando un crescendo che dovrebbe lasciare senza fiato per il dolore ma che di fatto ha finito per sbigottire gli occupanti di casa Ford, incerti se concedersi una liberatoria risata di fronte a tutta questa immondizia o sgranare gli occhi rispetto all'evidenza degli intenti biechi del regista e degli sceneggiatori, pronti a sfruttare una materia perfetta per un prodotto da stupro sentimentale e culturale come il romanzo da cui è tratto il film - romanzo che non ho letto e che non mi sogno, a questo punto, neppure di aprire -.
Non si confonda, dunque, questa merda al caramello per coraggio di affrontare la malattia, o la morte.
E non mi si venga a raccontare la stronzata di alcuni infiniti che sono più grandi di altri.
Se a diciotto anni mi fossi ammalato di cancro, sarei stato incazzato con dio, le stelle e tutte le puttanate di film come questo.
E avrei cercato di scopare il più possibile e divertirmi il più possibile prima che le luci si potessero spegnere, altro che cerchi romantici da Banca Mediolanum costruita intorno a te.
E sono incazzato anche con film come questo, che ricattano tutti gli spettatori, dai più tecnici a quelli occasionali, quasi come se si avesse paura di parlare male di qualcosa che riguarda la malattia.
Come se, criticandoli, ci si tirasse addosso la sfortuna.
Vaffanculo, dico io, di nuovo.
E non alle stelle, che probabilmente se ne fregano, come è giusto che sia di piccoli esseri insignificanti come noi.
Ma a quelli come Josh Boone, che se avessi un figlio adolescente malato e finissi per guardare questa roba, andrei a cercare per gonfiarlo come una zampogna.
E per chiudere, e per chi non avrà mai il coraggio di scriverlo, dirlo, o anche solo pensarlo, lo dico io: Colpa delle stelle è una cagata pazzesca.
E se anche fossi malato, mi farei novantadue minuti di applausi.



MrFord



"So open your eyes and see
the way our horizons meet
and all of the lights will lead
into the night with me
and I know these scars will bleed
but both of our hearts believe
all of these stars will guide us home."
Ed Sheeran - "All of the stars" - 




 

lunedì 7 aprile 2014

Alabama Monroe - Una storia d'amore

Regia: Felix Van Groeningen
Origine: Belgio, Olanda
Anno: 2012
Durata: 111'




La trama (con parole mie): Elise è una tatuatrice, una che non ha paura di scrivere un nome sulla pelle, o di cancellarlo, e di mostrare con orgoglio i tratti che hanno contraddistinto la sua vita. Didier è un musicista bluegrass che teme l'idea del "per sempre", e pare alla ricerca di una semplicità che solo la sua musica può portargli in dono. Quando si conoscono, scocca la scintilla del grande amore, e più per caso che per volontà arriva Maybelle, una bambina che cambia la vita di entrambi e pare descrivere la grandezza dei sentimenti che li legano.
Quando la piccola, poco dopo i sei anni, si ammala di cancro, la vita per Elise e Didier cambia radicalmente, e i due si trovano ad affrontare il dolore e la realtà prendendo strade completamente diverse: lei cercherà rifugio guardando il cielo per dare nomi alle stelle, lui covando la lucida rabbia di chi si attacca con tutte le forze alla ragione.







"Dove va un uccellino quando muore?", chiede spaurita Maybelle a Didier, rendendo evidente il paragone che la stessa bambina sotto chemio fa tra se stessa e la sfortunata creatura alata che tiene in quel momento tra le mani.
Purtroppo per lei, nessuno può saperlo.
Non può Elise, che tempo dopo farà lo stesso paragone, osservando un uccellino posarsi sul davanzale senza sbattere contro il vetro.
Non può Didier, che risponderebbe semplicemente come la Natura - "L'uccellino muore, e non c'è più" -, salvo poi scriverci sopra una canzone da brividi.
E non possiamo neppure noi.
E' decisamente più semplice, invece, affermare che Alabama Monroe - Una storia d'amore, così tradotto dalle nostre parti pur non essendo - purtroppo - ancora uscito in sala, sia un film di quelli in grado di entrarti dentro e non uscire più, di andare dritto al cuore e scuoterlo come soltanto le pellicole dalla grande anima sono in grado di fare: non è un film come ce lo si aspetterebbe, ma un ibrido, una contaminazione, un cocktail da Frontiera che mescola la passione di Un sapore di ruggine e ossa e l'epica sommessa di Una storia vera o Un mondo perfetto, le parti migliori de La guerra è dichiarata con la carica di pancia di Mud.
E' una storia d'amore, in tutti i sensi: per la musica - splendida la colonna sonora, tutta dedicata al Bluegrass -, la vita - anche nei suoi momenti peggiori e più strazianti -, gli amici - straordinario il modo di stringersi gli uni agli altri dei componenti del gruppo di Didier - e la famiglia - almeno un paio le sequenze memorabili in questo senso -.
Ed è la storia di Elise, Didier e Maybelle.
Che è una storia normale, con i suoi momenti di straordinaria ed incontenibile felicità e quelli di profondo sconforto, con il sesso selvaggio e l'avventura di un amore appena sbocciato e la vita non più così immediata della coppia collaudata: ed è difficile scriverne - o anche solo dedicare al lavoro di Van Groeningen la visione - senza esserne profondamente toccati, e sentire il sorriso sbocciare o le lacrime pronte come bastarde traditrici in fondo agli occhi.
Ed è difficile cercare di non essere un fiume in piena rivelando troppo di questo gioiellino candidato all'Oscar per il miglior film straniero all'ultima edizione della celebre notte, mollare gli ormeggi e lasciare che tutto scorra, come una canzone intonata proprio nel momento in cui la voce si strozza in gola, e pare non esistere nient'altro se non la paura di noi povere scimmie abbandonate su questa grande palla di fango da un dio o presunto tale annoiato e senza tv.
O Cinema.
E' difficile guardare Maybelle e non pensare a quanto terribile sia il mestiere del genitore: la cosa più bella del mondo che può diventare inesorabilmente la più terribile.
E lo è ancora di più quando lo si è, e ci si rende conto di quanto inesplicabili possono apparire alcuni scherzi del Destino, e di quanto tutta la protezione che diamo - o cerchiamo di dare, o vorremmo dare - ai nostri figli non potrà mai davvero garantire la felicità che desideriamo per loro.
E' difficile amare, amare tanto e a fondo, o ferire chi amiamo, o peggio, vedere chi amiamo morire.
E' difficile vivere, perchè non sapremo mai se siamo capitati per caso da queste parti, o se avremo un'altra possibilità.
E' difficile credere, ed avere la forza di farlo, e dubitare, ed avere la forza di farlo.
Pare quasi di sbagliare sempre, sempre e comunque.
E invece il bello è proprio questo.
Vivere. Vivere a fondo. In ogni stagione, e di fronte a qualsiasi gioia o dolore.
Suonare il proprio strumento anche quando si vorrebbe solo piangere, o spaccare il mondo a pugni.
Segnare sulla pelle la nostra storia, la Nostra Storia, senza avere paura che possa cambiare, o non essere quella giusta, o rimanere incisa su di noi per sempre.
Come la luce delle stelle.
Quella che viaggia per secoli, e ci passa attraverso continuando ad andare avanti anche quando la stella che l'ha originata non c'è più.
E in quel momento, noi piccoli uomini su un piccolo pianeta, le diamo un nome.
Un nuovo battesimo. La fede incontra la ragione. Il cuore incontra la pancia.
Alabama Monroe.



MrFord



"A star fell from heaven right into my arms
a brighter star I know I've never seen
then I found out that it was only you with all your charms
who came into my life to fill a dream."
Bill Monroe - "A fallen star" - 



venerdì 7 febbraio 2014

Michel Petrucciani - Body and soul

Regia: Michael Radford
Origine:
USA
Anno: 2011
Durata: 102'




La trama (con parole mie): un viaggio nell'esistenza di Michel Petrucciani, uno dei più grandi pianisti jazz di tutti i tempi, nato in un piccolo villaggio francese con una malattia genetica che lo rese fragile e quasi fanciullesco nell'aspetto e che non fece che accentuare la grande voglia di vivere e bruciare la candela dai due lati dell'artista.
Dalle prime note suonate in famiglia ai concerti in tutto il mondo, dagli eccessi legati ad alcool e droghe alle avventure sentimentali, Petrucciani è raccontato dalle persone che più l'hanno amato, che gli sono state vicine e che hanno sofferto per lui, che l'hanno visto brillare ogni volta che sedeva ad un pianoforte ed iniziava a suonare ed hanno perso un riferimento quando, a soli trentasei anni, l'artista di è spento a New York, nel 1999.
Una cronaca intensa e non priva di ombre di uno dei grandi volti del jazz, primo non americano a conquistare incondizionatamente musicisti e platee oltreoceano.





Nonostante abbia passato gran parte della post adolescenza lavorando in negozi di dischi sfruttando gli stessi per ampliare il più possibile la mia cultura musicale spaziando praticamente in tutti i generi, conoscevo Michel Petrucciani solo di nome, colpevole di averlo clamorosamente snobbato ai tempi di Virgin e dell'apice del mio radicalchicchismo musicale - fortunatamente superato, come quello cinematografico - a causa dell'enorme successo che ebbero i suoi album nel periodo appena successivo alla morte, avvenuta all'inizio del novantanove, che lo resero un fenomeno di massa nonostante si trattasse di un artista assolutamente lontano dalle logiche di mercato - come tutto il jazz, del resto - al quale continuavo a preferire i Classici come Monk, Miles Davis o il mio personale favorito, Charles Mingus.
Grazie, invece, a mio fratello, ho potuto riscoprire la figura certamente leggendaria di questo incredibile musicista, dotato di una tecnica quasi oltre l'umano ed afflitto da una patologia genetica che lo costrinse ad una vita certamente non semplice, seppur lui continuasse a sottolineare il contrario - "Vorrei potervi dire che sto male, che soffro o che la mia esistenza è un inferno, ma non è così: giro il mondo, ho donne e denaro, vivo ogni giorno fino in fondo" -, l'osteogenesi imperfetta, che oltre ad ossa terribilmente fragili porta in dono una statura ben oltre il nanismo e malformazioni dovute alle reiterate fratture.
Il documentario di Michael Radford - noto più per Il postino e Il mercante di Venezia, pellicole di fama internazionale - si concentra sulla figura di Petrucciani filtrata attraverso filmati di repertorio e racconti di amici, compagni di palcoscenico, conoscenti e mogli, regalando al pubblico un ritratto sentito e mai troppo retorico di uno dei più grandi musicisti di fine novecento, nato in un piccolo villaggio della campagna francese e giunto a conquistare il mondo con il suo talento, fiero di aver vissuto più dell'idolo Charlie Parker ed esibitosi accanto ai più grandi che il jazz di quel periodo conoscesse: un uomo avido di vita ed esperienza, che fin dall'adolescenza - a diciotto anni si stabilì in California, a Big Sur, e proprio in quei luoghi leggendari per il surf ebbe le sue prime esperienze lontano da casa e nel mondo della musica "che conta" - mostrò interesse per tutto quello che avrebbe potuto regalargli un'emozione, conscio di un Destino che non avrebbe previsto una vecchiaia.
Dunque, dall'alcool alle droghe, passando per una quantità infinita di concerti ed incisioni, Michel si ciba avidamente della musica e del mondo, spesso e volentieri senza troppo preoccuparsi di chi si lascia alle spalle - il suo rapporto con le mogli, lasciate tutte dall'oggi al domani per la donna successiva, fu sicuramente complesso, ma ugualmente tanto intenso da far trasparire tutto l'amore che le stesse compagne continuano ancora oggi a provare per lui - e preoccupandosi di prendere in misura uguale - se non maggiore - a quanto la sua arte sia riuscita a regalare al pubblico in ogni angolo del pianeta, appassionati e non.
La stessa vicenda del figlio - nato, con grande dispiacere di Petrucciani, anch'egli soffrendo di osteogenesi imperfetta - porta ad una riflessione più profonda: la scelta del pianista e della sua compagna di non interrompere la gravidanza è senz'altro più complessa di quanto non si possa considerare o inevitabilmente giudicare dall'esterno, e ad un tempo potrebbe avere il sapore di grande forza o grande egoismo.
In un certo senso, due caratteristiche fondamentali per chi cerca, con il suo talento, di lasciare nel mondo un segno indelebile del suo passaggio.



MrFord



"You gotta squeeze a little, squeeze a little
tease a little more
easy operator come-a-knockin' on my door
sometime, anytime, sugar me sweet
little miss innocent sugar me, yeah
give a little more."
Def Leppard - "Pour some sugar on me" - 



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