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venerdì 25 maggio 2018

You never had it - An evening with Charles Bukowski (Matteo Borgardt, USA/Italia/Messico, 2016, 52')




Quando lessi il primo libro di Bukowski - che, per assurdo, fu il suo ultimo, Pulp - ero decisamente più giovane di ora, non bevevo ed ero ancora preda della timidezza che mi permise di soffrire abbastanza, ai tempi dell'adolescenza, da iniziare a scrivere.
Anche se non lo ricordo, senza dubbio compresi le parole di quello che poteva essere praticamente un nonno - del resto, il vecchio Hank nacque nel millenovecentoventi, come il mio fondamentale nonno materno - solo parzialmente, tanto da rivalutarlo in termini di importanza personale e letteraria molto tempo dopo, una volta presa coscienza io stesso dei tanti alti e bassi della vita, ed una familiarità decisamente maggiore con alcool, sesso e lato bestiale ai tempi ben celato.
Non avevo però mai avuto occasione di confrontarmi con il selvaggio Buck "in persona", e dunque all'incontro quasi casuale con questo documentario/intervista legato a materiale girato nella casa di San Pedro, in California, dello scrittore nei primi anni ottanta da una giornalista italiana non ho potuto che rispondere con una presenza convinta e tutta la voglia di scoprire la parte oltre la macchina da scrivere di quello che, oggi, è uno dei riferimenti letterari indiscutibili di questo vecchio cowboy: curioso, in questo senso, che lo stesso Bukowski affermi che ogni scrittore rappresenti il meglio di se stesso soltanto nel momento in cui, solo, scrive, e che nel resto del tempo finisca per portare al mondo un esempio negativo, o pessimo.
Un quadro che ben racconta la poca fiducia del ruvido Hank verso il genere umano e la società così come l'ammissione senza ipocrisie di una serie di difetti che lo resero lo straordinario cantore della vita e dell'esperienza che era, un pirata come vorrei essere io stesso, con la differenza di almeno una trentina d'anni in più di occasioni da vivere su questa terra.
L'intervista, che tocca tematiche profondamente differenti tra loro, dalla politica, alla scrittura, alla società, passando ovviamente per alcool e sesso, non pare neppure per un istante volta a scoprire o tentare di spiegare Bukowski autore o uomo, quanto più a regalare al pubblico un'immagine genuina e magnetica di una personalità non facile e magica, di quelle che ti invitano sul balcone con panorama della camera in cui scrivono per poi rivelare di aver passato del tempo in quello stesso posto una volta l'anno, senza neppure esserne sicuri.
Del resto, probabilmente se leggesse un tentativo come questo di rendere l'idea di quell'atmosfera, o dei momenti raccontati da questo mediometraggio, lo stesso Bukowski mi manderebbe dritto affanculo, conscio del fatto che non esiste prova migliore se non il faccia a faccia - magari supportati da una robusta dose di alcool - per mostrare davvero quello che si è, o quantomeno quello che si pensa di essere, in barba a buone maniere o aspettative.
Avendo lavorato fino ai cinquanta suonati ed essendo salito alla ribalta soltanto nella maturità, Hank doveva ben sapere come stavano le cose, cosa significasse sopravvivere portando avanti le proprie passioni oppure accandonandole per una scopata o una sbronza, senza guardare in faccia nessuno: sicuramente avrebbe apprezzato non si guardasse in faccia neppure lui, nonostante il bene che alcune sue opere potessero stimolare nel lettore.
Personalmente, io sogno di avere la possibilità di una pensione a cinquant'anni, scrittore oppure no.
E di aggredire la vita il più possibile, e per il più a lungo possibile.
O quantomeno, di farlo con la stessa sfrontatezza del mitico Buck.
Che non significa necessariamente allo stesso modo - in fondo, non bevo vino e ho molta più fiducia nelle persone - ma con una dose di passione molto simile.



MrFord



 

lunedì 21 agosto 2017

007 - Missione Goldfinger (Guy Hamilton, UK, 1964, 110')





E' curioso come e quanto, a volte, i vecchi classici vengano in nostro aiuto quando le nuove frontiere non offrono alternative valide: non troppo tempo fa, in vista di un pomeriggio di fuoco da passare con i Fordini sul tappeto a giocare, tra animali, libri, pennarelli e le richieste di attenzione del Fordino da contrapporre alle prime volontà d'indipendenza della Fordina - che sta sviluppando un caratterino davvero niente male -, mi sono ritrovato a combattere con formati di file non compatibili con qualsiasi riproduttore avessimo in casa che non fosse uno dei computer, ripiegando, prima che il caldo potesse suscitare reazioni inconsulte, su un ripescaggio che avevo in serbo da tempo, uno dei dvd della collezione dedicata a James Bond omaggiati ai tempi della pubblicità fatta qui al Saloon alla collana uscita in allegato a non ricordo quale quotidiano.
Goldfinger, da sempre uno dei titoli più amati dell'epoca di Sean Connery nei panni dell'agente segreto più noto della Storia del Cinema, è un solidissimo film d'avventura dal ritmo invidiabile e dalle grandi trovate che ora potranno apparire naif ma che funzionano alla grande in barba ai decenni ed alla malizia che tutti noi abbiamo guadagnato con l'avvento del "futuro": non raggiunge, forse, i livelli di Licenza di uccidere, ma resta un saggio di quanto possa essere godurioso e perfetto per qualsiasi età e tempo il film d'intrattenimento ben costruito, con i suoi buoni ed i suoi cattivi - il Fordino attraversa quella fase in cui necessita di un'identificazione delle figure che vede sullo schermo -, il suo stile inimitabile - tra macchine e località turistiche da "fascia alta", dalla Svizzera a Miami - ed alcune sequenze davvero indimenticabili per i tempi come quelle dell'assalto a Ford Knox nella parte finale, l'agguato ai boss della malavita nella proprietà di Goldfinger e la lotta con il guardaspalle coreano di quest'ultimo, una vera e propria macchina da guerra su gambe.
Perfetto, ovviamente, il già citato Connery, forse meno fisico di altri Bond - come l'ultimo Craig - ma carismatico come nessun'altro, pronto a fare da centro di gravità permanente a battute mitiche che mi sono ritrovato ad approvare in pieno - "Sull'aereo ho fatto caricare da bere per tre", comunica uno dei suoi superiori all'agente, "Chi viaggia con me?" la risposta di Bond, "Nessuno, ma sapevo che avrebbe apprezzato": praticamente un sogno per il sottoscritto - ed al solito giro di belle signore che ai tempi erano una regola per ogni film di questa serie che si rispettasse.
Come se la cornice, l'atmosfera, il ritmo non bastassero, lo stesso Goldfinger finisce per rappresentare uno dei villains più interessanti dell'intera saga di Bond, dalla bellissima partita a golf giocata sui sottintesi al confronto finale a bordo dell'aereo pilotato dall'altrettanto indimenticabile Pussy Galore: e l'omicidio a Miami da "Re Mida" è una chicca che soltanto l'innocenza dei tempi poteva permettere, come l'interrogatorio subito da Bond in Svizzera: momenti magici che non solo non invecchiano un film che pare la definizione di Classico, ma che fanno rimpiangere tutto quello che, anno dopo anno, abbiamo finito per perdere.
Nel mio piccolo, spero di poter continuare fino a quando mi sarà possibile e me lo permetteranno, a condividere visioni come questa - anche se distratte, ovviamente, da parte loro - con i Fordini, e che possano germogliare sbocciando in una futura passione per questo straordinario mezzo che è il Cinema.




MrFord




 

venerdì 16 giugno 2017

Houdini (History Channel, USA/Canada, 2014)






Una delle figure senza dubbio più affascinanti e mitiche del primo Novecento, quantomeno secondo il sottoscritto, è quella di Harry Houdini, padre di tutti gli illusionisti ed esperti della fuga nonché fonte d’ispirazione per alcune pellicole che adoro alla follia come The Prestige.
Ebreo ungherese d’origine ed americano d’adozione, Harry Houdini lavorò prima ancora che sui trucchi sulla sua prestanza fisica, allenando duramente i muscoli in tutto il corpo ed in particolare nella fascia addominale, avvalendosi poi del contributo della moglie nonché assistente e di un tecnico in grado di fornire alcuni tra i numeri più incredibili del tempo – e non solo – come quello della tortura cinese dell’acqua o della scomparsa di un elefante.
Qualche anno fa, History Channel – e in Italia DMAX – portarono sul piccolo schermo un prodotto decisamente interessante con protagonista il notissimo Adrien Brody che raccontasse non solo l'esistenza – e la morte – di Houdini, ma anche e soprattutto la tentazione che il rischio della propria vita rappresentava per il popolarissimo artista, che passò dal vaudeville al Cinema, pilotò aerei e si gettò dai ponti dentro fiumi ghiacciati incatenato per apparire, ogni volta, miracolosamente, salvo di fronte al suo pubblico.
Curioso che, tra una grande impresa e l’altra, correndo sul filo per tutti i cinquantadue anni che visse, Houdini trovò la morte proprio a causa dei suoi leggendari addominali, quando un colpo dato di sorpresa – e dunque impossibile da affrontare preparato come spesso faceva, spavaldamente, l’illusionista, che invitava il suo pubblico a colpirlo con un pugno proprio sulla fascia muscolare tanto celebrata per provarne la forza – gli ruppe l’appendice causando un’infezione della quale ci si accorse troppo tardi proprio a causa della resistenza al dolore dell’illusionista, che non si rivolse immediatamente ad un medico finendo per aggravare oltre misura la sua condizione.
Ma prima che si giunga a questo, il lavoro di Uli Edel e di History Channel si concentra sul legame tra il grande artista e sua moglie, quello ancora più forte con la madre e soprattutto la necessità che lo stesso aveva di sfidare la morte, sia sul palcoscenico che nei panni di persecutore di medium e spiritisti – dopo la morte della genitrice, Houdini fu attivissimo nello smascherare quelli che lui considerava avvoltoi pronti a sfamarsi del dolore della gente -, descrivendo nel frattempo un uomo appassionato, un personaggio romanzesco che – e non ero al corrente di questo suo lato, benchè fan dell’Houdini illusionista – si cimentò anche nello spionaggio internazionale grazie proprio alla sua fama ed agli spettacoli che lo portarono a viaggiare in tutto il mondo.
Una produzione televisiva, dunque, perfetta per i fan del mago ma comunque di qualità più che discreta, in grado di ricordare produzioni ben più grandi come La vera storia di Jack lo Squartatore o lo Sherlock Holmes di Guy Ritchie e, nonostante la presenza costante della voce
off del protagonista e narratore, scorrevole ed avvincente, pronta a mostrare uno spicchio di un’epoca a tratti oscura eppure ricca di fermenti e cambiamenti che furono nel bene e nel male mitici.
Interessante anche l’interpretazione di Brody, sorprendentemente simile – naso a parte – all’Houdini originale, così come la rivelazione di alcuni trucchi utilizzati dall’illusionista per compiere le sue straordinarie evasioni: l’utilizzo, in questo senso, della stessa tecnica di “vedo non vedo” sfruttata da Nolan nel già citato The Prestige, rende ancora più interessante un’arte ormai passata inevitabilmente di moda rispetto al Cinema ed alle nuove tecnologie ma straordinariamente affascinante, anche perché “quello che l’occhio crede, crede anche la mente”.
Se, a questo, si aggiunge la ricerca dell'evasione di Houdini, e la consapevolezza del fatto che, tentativi e bravura a parte, nessuno di noi sfuggirà mai alla prigione definitiva, il gioco è fatto.
In un certo senso, l’importante è che chi ci ama finisca per non liberarsi di noi neppure di fronte a quello.
Trucco oppure no.



MrFord



 

venerdì 2 giugno 2017

Amore e inganni - Love&Friendship (Whit Stillman, Irlanda/Francia/Olanda, 2016, 90')




Nel corso delle mie stagioni da cinefilo radical, i film in costume hanno rappresentato una buona fetta di visioni che, in alcuni casi, ha portato qui al Saloon titoli degni di essere chiamati Capolavori - Barry Lyndon e L'età dell'innocenza su tutti -, così come in tempi meno sospetti più recenti produzioni come A royal affair hanno conquistato il favore di questo vecchio cowboy nonostante un'ambientazione non più così favorevole al sottoscritto.
Amore e inganni - adattamento dell'originale Love&Friendship -, tratto da un lavoro della celebre Jane Austen ed incentrato sugli intrighi orditi in società dalla machiavellica Lady Susan Vernon, rimasto ad attendere la visione per diversi mesi a causa di numerosi dubbi sul suo effettivo valore, purtroppo ha rispettato le aspettative non rosee, di fatto rimanendo ben lontano dalla qualità dei titoli sopra citati: nonostante, infatti, alcune critiche molto esaltate - forse qualche radical ha abusato a mia insaputa di white russian - ed un main charachter dalle potenzialità incredibili - e ben reso da Kate Beckinsale, devo ammettere -, il lavoro di Whit Stillman risulta noioso come un the delle cinque con un gruppo di zitellone senza ritegno, troppo tagliato con l'accetta nello script - alcuni passaggi della seconda parte sono quantomeno frettolosi, tanto da avermi fatto pensare ad alcune sforbiciate selvagge in post produzione - e poco incisivo nella regia e nel ritmo - un'ora e mezza che paiono quattro, roba da sognarsi una bella sbronza con tanto di sonno ristoratore che faccia dimenticare il tutto -, cui non riescono a porre rimedio neppure gli incredibili stratagemmi messi in atto dalla protagonista, talmente odiosa ed intrigante da apparire, a conti fatti, irresistibile rispetto agli scialbi nobili dei quali, di fatto, continua in un modo o nell'altro a farsi beffe.
Un vero peccato, da questo punto di vista, perchè Lady Susan Vernon avrebbe meritato un destino cinematografico decisamente migliore di quello riservatole da Stillman - del resto, io non sono un suo grande fan, avendo considerato The last days of disco poco più di un filmetto e Damsels in distress una vera schifezza -, che avrebbe potuto portarla nell'Olimpo dei "villain" di questi ultimi anni di settima arte e darle una visibilità maggiore presso il grande pubblico, sia dalla parte maschile che femminile in termini di possibilità di imparare come si muove davvero un predatore che conosce i sentimenti ed i loro tranelli all'interno non solo della società, ma anche e soprattutto del cuore delle persone.
L'unico merito che mi sento di assegnare a questo film è quello di avermi invogliato a recuperare il lavoro originale della Austen e scoprire quanto più possibile a proposito di Lady Vernon, che in qualche modo, minuto dopo minuto, seduzione dopo seduzione, intrigo dopo intrigo, pare decisamente ed inesorabilmente aver conquistato anche me.




MrFord




 

venerdì 30 settembre 2016

Storia della pirateria (Philip Gosse, Odoya)




La figura del pirata, per chi ha un background minimo di cultura letteraria e cinematografica, rappresenta senza dubbio una delle più affascinanti che si possano figurare: ribelli e guasconi, sfrontati e folli, i corsari dei mari hanno trovato terreno fertile nell'immaginario popolare che li ha adottati, idealizzati, resi figure quasi romantiche dalle quali prendere ispirazione.
Io stesso, da L'isola del tesoro a quel Capolavoro che è La vera storia del pirata Long John Silver, passando per tutto il bagaglio che la settima arte ha accumulato da L'ammutinamento del Bounty a I Goonies, per arrivare a Black Sails, sono sempre stato affascinato da questi uomini - e donne - pronti a partire all'avventura seguendo il motto "nessuna preda, nessun bottino".
Così, dopo anni di idealizzazioni e la curiosità scaturita dall'epopea dell'ultimo capitolo della saga di Uncharted sulla Playstation 4 - che cita apertamente uno dei pirati più famosi di tutti i tempi, Avery, ed il progetto di alcuni tra i capitani più noti in tutti i mari, Libertalia -, ho pensato che fosse il momento giusto per buttarsi su un paio di saggi che raccontassero la vera storia di un fenomeno vecchio quanto la civiltà e la navigazione, testimone di episodi che hanno dell'incredibile - negli anni di scuola non ho mai scoperto che Giulio Cesare ancora lontano dall'essere il conquistatore che di norma compare sui testi fu rapito e tenuto in ostaggio da pirati greci che circuì e tornò a catturare ed uccidere - e molti altri tragicamente umani ed ancora attuali - dai conflitti a sfondo religioso tra cattolici e musulmani nelle acque del Mediterraneo fino agli scempi commessi da molti capitani soprattutto nell'area centroamericana -, figlio di una linea di pensiero che mi ha fatto tornare in mente il tamarro e strepitoso pezzo di Andrew W. K. "Party hard", che recita "we do what we like and we like what we do", ma anche di idee e regolamentazioni sui vascelli figlie di un comunismo che ancora doveva nascere, esempi che verranno presi in epoche più moderne anche dalle compagnie assicurative per tutelare i lavoratori a rischio in mare e non solo.
Una traversata affascinante e ricca di spunti per qualunque scrittore o regista, che passa dai resoconti delle tensioni tra i pirati moreschi e le grandi monarchie cattoliche agli antichi romani, da Tortuga e l'epoca d'oro della pirateria - quella che parte da Drake e si chiude con i vari Avery, Barbanera, Anne Bonnie e soci, legata all'idea di una sorta di Repubblica dei predoni del mare, la già citata Libertalia -, dal Madagascar alla lotta sella signora Ching in Cina, dalle coste dell'India al Giappone: certo, come tutti i saggi, per quanto scritto e condotto in maniera assolutamente easy dall'autore, si sente la mancanza della scintilla che fa restare incollati alla pagina e desiderosi di scoprire cosa accadrà nella successiva, e la curiosità finisce per essere spesso e volentieri castrata dalla necessità di Gosse di portare sulla pagina più argomentazioni possibili senza approfondire, di fatto, nessuna delle stesse - gente come i già citati Drake ed Avery finisce per essere liquidata in una manciata di pagine -, ma la lettura, quantomeno per gli appassionati ed i curiosi rispetto alla materia trattata, scorrerà liscia come il mare calmo all'alba, alimentando ispirazioni e sogni di quelli che si fanno da bambini, quando, in mancanza di una scintilla che ci porti ad ammirare sempre i buoni a tutti i costi, solletica le parti oscure dei "bad guys".
Ed in tutto questo oceano di romanticismo, resta ricordare che il fenomeno della pirateria, figlio del coraggio, dell'incoscienza, del desiderio e delle passioni, è stato, è e resterà anche legato a doppio filo alla violenza ed alla bestialità dell'essere umano, e che come tutti i difetti che ci portiamo dietro e dentro, pur archiviato o quasi in epoca moderna, continuerà ad esercitare un fascino clamoroso nonostante, di fatto, sia l'espressione di qualcosa che non potrà mai essere considerato come positivo.
E forse è proprio questo, il "problema".




MrFord




 

domenica 5 giugno 2016

Muhammad Alì (1942 - 2016)




Nonostante la sua passione incrollabile per il ciclismo - ancora oggi praticato quasi quotidianamente, acciacchi permettendo -, mio padre è sempre stato catturato dallo sport in generale, in una misura simile a quella che, oggi, colma per me il Cinema.
Dal calcio all'atletica, passando per i motori fino al pugilato, a parte, credo, curling, golf e ping pong ho visto seguire con partecipazione al mio vecchio quasi tutti gli eventi sportivi trasmessi in tv nel corso della mia infanzia, ed alimentare la mia sete per le grandi storie ed epopee: molti dei suoi eroi, da Merckx a Villeneuve, passando per Alì, ho potuto assaporarli soltanto grazie ai suoi racconti ed ai vecchi filmati, eppure li ho avuti nel cuore come se fossi stato lì con lui ad emozionarmi per una qualche impresa apparentemente incredibile compiuta da questi grandi personaggi usciti dalla mera pratica sportiva e divenuti leggende.
Muhammad Alì, straordinaria carriera sportiva a parte, è universalmente riconosciuto come uno degli atleti più carismatici e straordinari di sempre, dall'oro alle Olimpiadi di Roma nel sessanta alla sorprendente vittoria contro Sonny Liston, passando dal grande rifiuto alla Guerra del Vietnam - che gli costò gli anni migliori, atleticamente parlando, il titolo e, forse, un palmares ancora più impressionante -, la conversione all'Islam, le battaglie con Joe Frazier - forse il suo rivale più importante - ed il mitico incontro che lo vide trionfare, sfavorito, su George Foreman nel settantaquattro, frutto di ispirazione anche cinematografica, oltre che sportiva ed emotiva.
Il suo stile unico, il carattere e il piglio sopra le righe, la battaglia che lo vide - probabilmente a causa dei colpi subiti, o almeno anche per questo - affrontare il Parkinson già in giovanissima età, i matrimoni ed i figli - tra i tanti che ebbe, Laila ripercorse con successo la stessa carriera del padre, ritirandosi, imbattuta, nel duemilasei dal pugilato professionistico - lo resero una superstar anche al termine della sua carriera, simbolo della lotta alla malattia e testimonial di moltissime operazioni umanitarie in tutto il mondo.
In termini di carriera, e di numeri, non potrà mai essere considerato a tutti gli effetti il migliore - i record da imbattuti in carriera di Rocky Marciano e Floyd Mayweather, anche se quest'ultimo appartiene ad un'altra categoria di peso ed ha vissuto una stagione diversa del pugilato -, ma nessuno come lui, nella boxe e forse nello sport, ha avuto le caratteristiche per essere davvero "il migliore di tutti".
Come Rocky, però, afferma spesso nel corso della sua saga cinematografica, il Tempo è il più grande ed imbattibile tra i rivali dell'Uomo: ed il Tempo, anche con il Migliore, alla fine ha chiesto il conto.
Eppure, in qualche modo, Muhammad Alì resterà impresso nella memoria collettiva per sempre, e nel mio retaggio, dagli occhi lucidi di mio padre che mi racconta, bambino, del leggendario incontro di Kinshasa, di come il fu Cassius Clay sfruttò le corde per incassare ed incassare fino a sfinire il più giovane e potente Foreman prima di ribaltare ogni pronostico e metterlo al tappeto, a quel diciassette gennaio in cui nacque, lo stesso giorno del Fordino.
Io non sono un credente o un uomo di Fede, dunque è difficile per me immaginare che ora da qualche parte si stia tenendo un match mitico come quello che sarebbe stato tra il già citato Marciano ed Alì, ma in nome di tutto quello che ha significato, per il mondo, per lo sport e per il sottoscritto, comunque siano andate le cose ed ovunque sia ora, alla faccia del Tempo, mi viene da gridarlo.
Alì, boma ye.




MrFord
 
 
 
 
 
 

martedì 23 febbraio 2016

Deadpool

Regia: Tim Miller
Origine: USA, Canada
Anno:
2016
Durata:
108'








La trama (con parole mie): Wade Wilson, ex membro delle Forze Speciali, mercenario dal cuore tenero, dopo aver trovato l'amore trova anche, sotto l'albero di natale, un cancro terminale. Avvicinato da misteriosi individui che dicono di volerlo guarire per renderlo, di fatto, un supereroe, ed accettata la loro offerta nella speranza di poter tornare accanto alla donna della sua vita, Vanessa, Wade si trova con il volto ed il corpo completamente sfigurati dalla mutazione, poteri incredibili di rigenerazione ed una grande incazzatura celata abilmente dall'ironia che l'ha sempre contraddistinto.
Inventato, grazie all'amico Weasel, l'alter ego Deadpool, Wade inizia a pianificare la tanto agognata vendetta contro i responsabili di tutte le sue disgrazie: peccato che sistemarli a dovere sarà più difficile del previsto e dovrà avvenire forzando un'alleanza certo non desiderata con alcuni degli X-Men di Charles Xavier.










Con ogni probabilità, se il mio io quattordicenne avesse visto Deadpool al Cinema, la mia storia sarebbe stata molto diversa, o se non molto, almeno in parte: ai tempi delle medie e dei primi anni delle superiori, infatti, patii tantissimo una timidezza che superai davvero soltanto con la fine dell'adolescenza lottando con le unghie e con i denti, e da appassionato di Fumetti adoravo il modo in cui un supereroe come l'Uomo Ragno dribblava il problema con battute a raffica ed un umorismo da maschera pronto a scacciare ogni paura.
Ma, già allora, c'era chi era riuscito a fare molto meglio del vecchio Testa di tela: sto parlando del Mercenario Chiacchierone, l'antieroe numero uno tra i miei favoriti dalla metà degli anni novanta ad oggi, Mr. Wade Wilson, alias Deadpool.
Leggere le sue avventure era come assistere ad una versione dopata e pirotecnica di quelle di Spidey, quasi come se si passasse da Wall Street a The Wolf of Wall Street, o da Lock&Stock a Pulp Fiction: da allora, ed anche dopo aver appeso gli albi a fumetti al chiodo - o quasi - come lettore, il charachter aveva mantenuto un posto d'onore nella mia memoria, custodito gelosamente nonostante una piccola parte non esaltante nel per nulla esaltante Wolverine: Origins e nell'interprete scelto in quell'occasione e dunque per questo tanto atteso esordio in solitaria su grande schermo, Ryan Reynolds, uno degli attori più cani dell'universo conosciuto.
Ma torniamo al mio io quattordicenne, che probabilmente sarebbe uscito dalla sala esaltato oltre ogni misura e convinto di poter superare qualsiasi timidezza a suon di battutacce e scorrettezze verbali alla maniera del vecchio Wade, e ringrazierebbe in eterno l'esordiente Tim Miller per aver confezionato non solo il film di supereroi - anche se la definizione non piacerebbe a Pool - più grandioso dell'anno, ma anche delle ultime stagioni, vincendo a mani basse la concorrenza pur agguerrita e portando sullo schermo una versione pulp e soprattutto ironica come non mai dei vari Kick Ass, Scott Pilgrim, Super e via discorrendo: perchè Deadpool è questo, un cocktail esplosivo di quelli pronti a stendere il bevitore esperto senza che se ne accorga o distruggere quello alle prime armi già dalle prime sorsate.
Narrazione scomposta, quarta parete letteralmente sbriciolata da uno strabordante protagonista - da impazzire i riferimenti alla saga cinematografica degli X-Men, tra Patrick Stewart e James McAvoy, quelli a proposito delle scene più violente e della colonna sonora o il riferimento alla scarsa capacità attoriale dello stesso Reynolds, impagabile -, scene d'azione esilaranti e perfette per ogni patito dei film di botte e degli effettoni, un crescendo con tanto di battaglia finale che ad un tempo omaggiano e sbeffeggiano tutti gli stilemi di un genere, scorrettezze come se piovessero e perfino lo spazio per una storia d'amore che, a suon di volgarità e colpi bassi, finisce per diventare più romantica di tante altre raccontate con epica ed enfasi certamente maggiori e seriose: e poi legnate, sangue, teste mozzate, proiettili, risate, vecchie cieche appassionate di Ikea e la costruzione della base per un protagonista che, se continuerà ad essere scritto e diretto con questo piglio, rischierà di soppiantare nel cuore dei fan del genere qualunque altro.
Il mio io quattordicenne, scrivevo poco sopra, sarebbe uscito esaltato e pronto a lottare con sorriso e lingua lunga contro la timidezza ed il mondo: non so se sarebbe andata diversamente da come effettivamente è stato, ma quello che è certo è che mi piacerebbe potergli mostrare cosa il futuro è stato in grado di fare con uno dei nostri favoriti di sempre del Fumetto mainstream.
Ma in fin dei conti, chi se ne frega. Del mio io quattordicenne e di tutte le elucubrazioni.
Io, oggi, nel duemilasedici, sono uscito dalla visione di Deadpool esaltato ed a pieno regime.
Quasi come se mi fossi fatto un acido e schiaffato i titoli di testa di Enter the void per un paio d'ore, poi Spongebob per un altro paio ed infine avessi sognato un coltello piantato in testa per vedere uscire animaletti animati da dietro le spalle di Julez.
E l'effetto, a distanza di un giorno o due, non è ancora finito. Anzi.
Dunque fanculo i quattordici anni, la critica, il questo ed il quello.
Deadpool è una ficata come ne esce - se va bene - una all'anno.
E per me si è già guadagnato il posto che fu di Fury Road la scorsa stagione.
Perchè finalmente, ed è sotto gli occhi di tutti, realizzare una tamarrata d'Autore è più che possibile.
E' fottutamente reale.
Ed ora un paio di esplosioni, gli Wham! che attaccano Careless whisper ed una bella scopata di chiusura.
E non aspettatevi teaser del sequel.
Parola di Pool.
Forse.





MrFord





"I'm never gonna dance again
guilty feet have got no rhythm
though it's easy to pretend
I know you're not a fool
I should have known better than to cheat a friend
and waste a chance that I've been given
so I'm never gonna dance again
the way I danced with you."
Wham! - "Careless whisper" - 





venerdì 15 gennaio 2016

Life on Bowie

La trama (con parole mie): come immagino tutti voi saprete, il mondo della musica e della cultura di massa è stato scosso qualche giorno fa dalla morte di David Bowie, icona della Musica, del Cinema, del Pop, e di un sacco di altre cose che, probabilmente, non possiamo neppure immaginare.
In queste occasioni, di norma, qui al Saloon cerco di non dilungarmi troppo in post che potrebbero essere presi per mielosi o ruffiani, ed ho "liquidato" il Duca Bianco con il "so long" che riservo per le occasioni di questo genere: eppure, il commento della prode Lazyfish ed il post del mio rivale Cannibal Kid mi hanno convinto a spendere ancora un pò di tempo per ricordare un artista che ha significato tantissimo per il sottoscritto, e che è parte integrante di una bella scorta di ricordi.
Ho deciso di farlo, proprio come il mio antagonista, attraverso una top ten dei miei brani preferiti dell'alieno del rock, lasciando che a parlare sia solo la sua musica, come tante volte è stato in giorni luminosi o bui - dagli sfoghi sulla chitarra strimpellando Ziggy Stardust al concerto meraviglioso visto a Lucca per il tour di Heathen - per il sottoscritto.
Dacci dentro, David. Un ultimo show per il Saloon.


N°10: SCARY MONSTERS (AND SUPER CREEPS)


 N°9: ROCK'N ROLL SUICIDE


N°8: MAGIC DANCE


N°7: SUFFRAGETTE CITY


N°6: I'M AFRAID OF AMERICANS


N°5: QUEEN BITCH


N°4: HEROES


N°3: CHANGES


N°2: ZIGGY STARDUST


N°1: LIFE ON MARS?



MrFord

domenica 26 luglio 2015

Dragon - La storia di Bruce Lee

Regia: Rob Cohen
Origine: USA
Anno: 1993
Durata:
120'





La trama (con parole mie): il giovane Bruce Lee, nato in Cina ma destinato ad una carriera e successi nel mondo delle arti marziali e del Cinema che uniranno idealmente Oriente ed Occidente, perseguitato da un demone e spedito in giovane età dal padre negli States seguito nella sua ascesa dai primi lavori come lavapiatti ad attore conosciuto in tutto il mondo.
Nel mezzo, la storia d'amore con la moglie Linda, la nascita del figlio Brandon, le sfide affrontate una dopo l'altra per dimostrare che i pregiudizi razziali, quelli rispetto alle sue velleità artistiche e le teorie profondamente all'avanguardia nella pratica della disciplina di combattimento, libri, partecipazioni a show televisivi ancora oggi noti ed una fama che ha finito per alimentare la Leggenda costruita sulle spalle di un uomo.
Realtà o fantasia, diceria o cronaca, Bruce Lee visto attraverso gli occhi di chi lo ha amato di più.









I primi ricordi che ho di Bruce Lee sono legati a mio nonno almeno quanto quelli del West.
Era il pieno degli anni ottanta, e per l'Italia ancora più lontana di oggi dall'idea cosmopolita che già si viveva, pur se con difficoltà, negli States, era curioso osservare un attore divenuto superstar internazionale figlio della cultura orientale, data ai tempi molto per scontata e legata a realtà decisamente comiche e quasi dispregiative - come se chiunque fosse nato ad Est dell'Europa fosse destinato a vita a lavorare come cameriere -, tanto quanto era agli inizi la divulgazione, soprattutto nella generazione di cui faccio parte, delle arti marziali, delle quali il mitico Bruce è stato icona e grandissimo interprete.
Quando, nei primi anni novanta, Hollywood si affidò al mestierante Rob Cohen - che da queste parti è noto per Daylight, tanto per rimanere in tema amarcord - ed al libro scritto dalla vedova del Maestro Linda Lee per raccontare - romanzandola non poco - la sua storia, dalle umili origini al successo, fino alla morte - discussa per anni, ed avvenuta in giovanissima età come quella del figlio Brandon, divenuto celebre con Il corvo -, ricordo che fui più che felice di potermi godere sul grande - e piccolo - schermo quello che era stato uno dei miei miti d'infanzia, e che prima o poi si guadagnerà una giusta retrospettiva qui al Saloon.
Oggi, a oltre vent'anni dalle prime visioni di questo lavoro e da quella registrazione su Italia Uno che io e mio fratello consumammo con decine e decine di passaggi sui nostri schermi, continuo a guardare con grande affetto a Dragon - La storia di Bruce Lee, che unisce elementi di cronaca del percorso che fece uno dei volti simbolo delle Arti Marziali sul grande e piccolo schermo e non solo - i successi al Cinema, la serie di Green Hornet, le circostanze misteriose della morte - ad altri sfruttati per alimentare la Leggenda di un vero e proprio personaggio di culto per milioni di appassionati in tutto il mondo - la lotta con il demone, le circostanze legate all'infortunio alla schiena, il rapporto con il Destino stesso - un pò come un altro grande classico del periodo che in casa Ford finisce per avere lo stesso credito, La bamba.
Senza dubbio il film è un prodotto decisamente standard, che obbedisce ai voleri delle grandi produzioni e punta più sull'emozione e la sensazione del momento che non a raccontare le gesta di uno dei più grandi innovatori non solo del Cinema di botte, ma dell'approccio allo spettacolo degli anni settanta, eppure, grazie anche ad un cast decisamente in parte - soprattutto per quanto riguarda Jason Scott Lee, che a dispetto del cognome non ha alcuna parentela con Bruce, ma che lo rispecchiò alla grande nelle movenze e nella fisicità - riesce ancora, ad ogni passaggio in televisione, a catturare la mia attenzione come se avessi ancora quattordici o quindici anni e fossi in dubbio se concentrarmi sul destino "romantico" di Bruce che affronta i suoi demoni, con la determinazione dell'uomo che lotta sempre e comunque perchè conscio di meritare il successo o più ormonalmente guidato verso le conquiste che lo sfacciato Lee indubbiamente fece - non ultima sua moglie - nel corso della vita.
Probabilmente, se lo vedeste ora per la prima volta - e la cosa più nota di Bruce Lee che potreste sfoderare è il suo primogenito, sfortunato protagonista del già citato The Crow - mi prendereste per pazzo, che si parli del voto o di questo post decisamente affettuoso, eppure il potere che di norma hanno i guilty pleasures della gioventù in questo caso cede anche il passo all'omaggio che Cohen ed i suoi riuscirono a costruire alla memoria di un vero e proprio mito, seppure fin troppo oltre la realtà dei fatti rispettoso dello spirito audace ed innovatore di quella che, indiscutibilmente, è stata una vera Leggenda.
Da una parte e dall'altra dello schermo.




MrFord




"I wanna hide the truth
I wanna shelter you
but with the beast inside
there’s nowhere we can hide."
Imagine Dragons - "Demons" - 




sabato 28 marzo 2015

Missing New York

Autore: Don Winslow
Origine: USA
Anno: 2014
Editore: Einaudi




La trama (con parole mie): Frank Decker è un detective della polizia di Lincoln, in Nebraska, ha trentacinque anni, una carriera promettente ad attenderlo - si dice sia il candidato più probabile per la successione nel ruolo di Capo della Polizia locale - ed un matrimonio che, se non fosse per i figli che non arrivano, prosegue senza alcun problema apparente.
E' un uomo tutto d'un pezzo, vecchia scuola, reduce dell'Iraq, legato all'istinto ma anche ad una solida etica morale.
Quando la piccola Hayley Hansen scompare, la sua vita cambia: la promessa fatta alla madre della bambina di ritrovarla a tutti i costi, infatti, diviene la miccia pronta a far esplodere la sua intera impalcatura sociale: mollato il lavoro e lasciato naufragare il matrimonio, con i risparmi del padre da sempre messi da parte per una casetta da pesca sul lago Deck comincia un viaggio per le strade degli USA che lo porterà, in oltre un anno di ricerche, sulle tracce di chi, forse, sa dove la piccola può essere finita.
Sempre che sia ancora viva.








A prescindere dal fatto che ora sia padre, ci sono argomenti che mi sono sempre stati a cuore: uno di questi, e forse uno di quelli cui sono maggiormente sensibile, è la violenza o l'abuso rispetto ai minori.
Parallelamente, e considerando materie decisamente più leggere, trovo che il fascino del "lone rider" legato alla strada, agli errori e disequilibri tanto quanto agli slanci irrefrenabili e passionali sia uno dei più irresistibili presenti nella realtà così come nella finzione.
Don Winslow, uno degli autori che ho più amato nel corso degli ultimi dieci anni, con questa sua ultima fatica è riuscito alla perfezione ad unire i due elementi appena citati: una storia crime dal ritmo serrato del thriller d'alta scuola unita ad un main charachter destinato a rimanere nel cuore del lettore per lungo tempo, umano e vivo come piacciono da impazzire da queste parti.
Perchè Frank Decker, o Deck, come perfino sua moglie Laura ama chiamarlo, è un tipo old school, tutto d'un pezzo, abituato a battersi ma non per questo incline a farlo, deciso quanto delicato, generoso quanto profondamente egoista: del resto, salvare qualcuno - specialmente quando il qualcuno in questione è l'emblema dell'innocenza e della meraviglia -, è un pò come salvare se stessi.
Era dai tempi dell'Harry Hole di Nesbo o degli Hap e Leonard di Lansdale - e non sto certo parlando di piccoli calibri - che non mi capitava di imbattermi in un protagonista con il quale empatizzare così tanto: la scommessa di Deck nel mettersi alla ricerca della piccola Hailey Hansen, il suo viaggio attraverso un'America lontana e distaccata quanto partecipe e viva sulle note del più che proletario Springsteen trasformano Missing in un romanzo on the road tra i più appassionanti che il genere possa offrire, lontano senza dubbio dai fasti de Il potere del cane ma non per questo non in grado di tracciare solchi profondi nel cuore di chi lo affronta.
Ma non voglio trasformare il post di questo lavoro che ho sentito profondamente nelle budella in una recensione nuda e cruda: voglio sia chiaro il brivido provato nel seguire pagina dopo pagina le imprese di un uomo comune, che potrebbe essere un amico, il vicino, un fratello, o un genitore - non se la prenda male il vecchio Deck - deciso a rendere il luogo in cui viviamo un posto migliore, fosse anche solo per l'innocenza probabilmente perduta ma ugualmente e profondamente cercata di Hailey.
Tutti noi sappiamo bene che seguire il valzer dei giorni ponendosi domande ed affrontandole non è il più facile dei modi in cui vivere, tanto quanto sia più semplice scoprire come essere indifferenti - o lasciarsi catturare dal fascino di un ruolo "limitato" - che non tentare a tutti i costi di cambiare le regole, sovvertire il Destino, portare chi non l'avrebbe mai sospettato davanti ad un banco dei testimoni, a prescindere dalla posizione sociale, il conto in banca, il numero di favori che in questi casi si finisce per essere pronti a chiedere, pur se a malincuore.
C'è chi va a caccia di nuovi "talenti", senza alcun obbligo fisico o remora morale, e chi, al contrario, lotta per mantenere una parvenza di normalità ed equilibrio al cospetto degli individui di tale risma, quasi potesse sospendere il giudizio nonostante si augurerebbe per loro le più atroci sofferenze.
Probabilmente non sarò mai stupido, coriaceo o anche soltanto pronto quanto il personaggio creato da Winslow, in grado di risvegliarsi dal torpore modaiolo di Le Belve e I re del mondo finendo per confezionare la sua opera più matura dai tempi di Satori: la vicenda di Deck è quella di molti spiriti indomiti, coraggiosi o semplicemente cacciatori di gloria in attesa dell'occasione di una vita, quella fornita dallo sguardo di una madre che sarà eternamente riconoscente al salvatore della sua piccola, il suo amore, il suo sangue.
Ma comprendo il significato di ogni gesto, il senso di una ricerca anche senza speranza.
Quello della possibilità che Hailey ci sia, comunque vada.
Qualunque cosa resti.
E a conti fatti, è sempre sicuro che resti Frank Decker.
Perchè senza Deck, questo romanzo sarebbe solo un buon thriller.
E i sogni on the road non avrebbero la stessa forza.




 MrFord




"Licence, registration, I ain't got none,
but I got a clear conscience
'Bout the things that I done
Mister state trooper please don't stop me..."
Bruce Springsteen - "State Trooper" -












domenica 31 agosto 2014

007 Collection

 
La trama (con parole mie): nel mondo della settima arte, pochi personaggi sono noti a livello planetario e perfino tra i non appassionati come James Bond.
Nato dalla penna di Ian Fleming, l'affascinante agente segreto ha conosciuto, nel corso degli anni, incarnazioni ed interpretazioni completamente diverse tra loro, eppure unite dallo stile inconfondibile dell'uomo di punta dei servizi segreti di Sua Maestà.
Dal 27 agosto, in edicola con Il Corriere della sera e La Gazzetta dello sport, sarà possibile collezionare le pellicole che hanno visto 007 conquistarsi un pezzo importante della Storia del Cinema.




Pochi charachters, nel corso della lunga Storia della settima arte, hanno segnato l'immaginario pop quanto James Bond, agente segreto con la licenza di uccidere creato dalla penna di Ian Fleming e celebrato una volta ancora ed una volta di più a cinquant'anni di distanza dalla scomparsa del suo creatore: La Gazzetta dello Sport e Il Corriere della sera segnano dunque questa importante ricorrenza presentando in edicola a soli 9,99€ per uscita ventiquattro dvd dedicati alle gesta di Bond, alle sue indimenticabili auto, ai nemici ed alle ancor più indimenticabili Bond girls, che da Ursula Andress a Eva Green hanno fatto sognare gli spettatori forse anche più di quanto gli Sean Connery, i Roger Moore o i Daniel Craig hanno fatto con le spettatrici.
A partire dall'appena trascorso 27 agosto con il recente e di grande successo Skyfall firmato da Sam Mendes avrete dunque la possibilità di completare una delle collezioni più importanti che il Cinema moderno possa offrire, e di conoscere a fondo le gesta di un personaggio che non ha mai fatto mistero delle sue ombre, usandole come ulteriore strumento di seduzione dell'audience.
La guida all'intera operazione è consultabile a questo indirizzo, in modo da trovarvi pronti a decretare quello che, a vostro insindacabile giudizio, sarà stato l'interprete più adatto, la donna più ammaliante, il gadget più curioso, o semplicemente, il film meglio realizzato.
Materiale ce n'è in abbondanza, e soprattutto, c'è sempre lui.
Bond.
James Bond.
Che con un nome così, non potrà certo deludere.
Parola di Ford.
James Ford.


MrFord



   

giovedì 14 agosto 2014

Il pipistrello

Autore: Jo Nesbo
Origine: Norvegia
Anno: 1997
 Editore: Einaudi






La trama (con parole mie): Harry Hole, giovane agente della Squadra Anticrimine di Oslo dal passato recente burrascoso a causa di un incidente in servizio, giunge a Sidney per indagare sull'omicidio di una giovane ex promessa televisiva del suo Paese da qualche anno in Australia per rifarsi una vita. Accolto dall'esuberante collega aborigeno Andrew Kensington, Hole scoprirà che dietro quello che pare un episodio isolato di violenza si nasconde in realtà un feroce e prolifico serial killer e stupratore seriale che rappresenterà la prima, vera, grande sfida della sua carriera come investigatore.
E l'estate australiana rovente e lontana per clima ed approccio ai ricordi lasciati in Norvegia farà da cornice ad un dramma d'amore e morte, una caccia all'ultimo respiro, una sfida che segnerà per sempre Harry ed i suoi demoni interiori.








Pochi personaggi, nella mia carriera di lettore - e non solo - sono riusciti a tracciare un solco profondo nel sottoscritto come e quanto Harry Hole: il detective creato dalla mente geniale e dalla penna tagliente di Jo Nesbo, ormai idolo fordiano assoluto, ha costruito negli ultimi anni un vero e proprio mito attorno alla sua figura di antieroe sconfitto e clamorosamente vincente, totalmente inaffidabile e dannato quanto inesorabilmente nato per essere presente, e proteggere chi ama anche quando il Destino conduce ad un finale amaro.
Il mio cammino incrociò quello di Hole grazie allo straordinario Il leopardo, che diede inizio ad una caccia che mi portò a recuperare le sue avventure precedenti - Il pettirosso, Nemesi, La stella del diavolo, La ragazza senza volto, L'uomo di neve - prima di tuffarmi nelle due successive: grazie, ora, ad una tardiva edizione italiana, ho finalmente avuto modo di iniziare dal principio, con quel Il pipistrello che, sul finire degli anni novanta, accese la scintilla di uno dei charachters più importanti del crime e della Letteratura recente.
Ambientato, tra l'altro, nella mia amata Australia - principalmente a Sidney, a dire il vero - questo romanzo rappresenta alla grande la palestra di quello che diverrà Nesbo meno di una decina di anni dopo, ovvero uno scrittore dal talento enorme e cristallino, mostrando al contempo un Hole giovane, impetuoso, romantico, lontano eppure clamorosamente vicino al lupo solitario con il peso del mondo sulle spalle che si imparerà a conoscere con i romanzi successivi, preda degli stessi demoni - battezzati tutti dal Jim Beam - e della voglia di vivere che, ad ogni prova cui viene sottoposto, finisce per avere la meglio sulle ragioni della morte.
Curioso quanto lo stile ancora acerbo - privo o quasi delle geometrie che renderanno i romanzi della maturità una degna rappresentazione dei giochi di prestigio nolaniani cinematografici - ed un'idea probabilmente ancora non completa delle potenzialità del protagonista contribuiscano, al contrario, alla realizzazione di un romanzo godibile e teso, che neppure il fatto di conoscere l'identità del serial killer è riuscito a sminuire - non ricordo, onestamente, in quale dei successivi titoli della serie venga citato -, concluso con un climax da urlo dalla potenza simile a quella riservata dal miglior Winslow, intriso dei gusti, dei panorami e dei sapori di un'Australia decisamente lontana dalla Norvegia dei ricordi dello stesso Hole, talmente giovane da fare quasi tenerezza - ai tempi di questa vicenda doveva avere da poco superato i trenta, nell'ultimo Polizia dovremmo essere ormai alla soglia dei cinquanta - eppure rivelato in alcuni dettagli mai più citati nel corso delle sue vicende.
Senza dubbio, conoscendo il valore delle opere successive, questo romanzo apparirà in una certa misura ingenuo ai fan dell'investigatore, eppure, avendo la possibilità di ricominciare da capo, penso sarebbe una partenza perfetta per chi si avvicina per la prima volta al vecchio Harry: per il sottoscritto, tra un "mate" ed il cognome del protagonista ribattezzato Holy - santo, proprio come il bevitore - fino al veleno scelto da ogni alcolizzato come si deve per mettersi alla prova e scatenare tutti i demoni del proprio inferno, è stato un ritorno al passato goduto dalla prima all'ultima pagina, specchio di quella che diventerà la forza di uno dei più grandi scrittori - di genere e non solo - viventi, e di uno dei charachters più straordinari che un ex calciatore, giornalista ed analista di borsa potesse inventare.
E non solo lui.
E nella morte - in tutte le sue incarnazioni, a partire dal malefico Bubbur - che insegue Harry Hole quanto e più dei suoi demoni, pronta a prendersi spesso e volentieri chi lo stesso Hole cerca di proteggere - e troppo spesso di amare - c'è tutta la struggente passione di chi vive la vita sempre e comunque, anche quando pare troppo impegnato a distruggere se stesso e quello che costruisce: è per quella stessa passione che Harry Hole è il Batman del crime.
Per quella stessa passione che non c'è pipistrello, o serpente che possa fermarlo.
Perchè anche nella sconfitta, la sua voglia di vivere è qualcosa di troppo grande per essere fermata, distrutta, resa cieca da una bottiglia, o un sorso di troppo.
Harry Hole è l'opposto dei serial killer che caccia, pronti a giocarsi tutte le carte per rischiare sempre di più, fino ad essere presi.
Harry Hole rischia per andare oltre. Per essere così leggero da volare in alto.
Più in alto di tutti.
Partendo dalle profondità degli abissi.




MrFord




"Buying bread from a man in Brussels
he was six foot four and full of muscle
I said, "Do you speak-a my language?"
he just smiled and gave me a Vegemite sandwich."
Men at work - "Down under" - 




giovedì 1 maggio 2014

Senna

Regia: Asif Kapadia
Origine: UK, Francia
Anno: 2010
Durata:
106'





La trama (con parole mie): il primo maggio millenovecentonovantaquattro moriva tragicamente in pista, a Imola, uno dei più grandi campioni della Storia della Formula 1, Ayrton Senna.
Talentuoso, amatissimo, controverso, noto per la storica rivalità con Alain Prost, che portò il grande circo dei motori dagli anni ottanta ai novanta, e traghettò il pubblico dall'epoca delle drammatiche morti sui circuiti a quella del controllo che sancì l'inizio dell'era di Schumacher.
Le gesta del fuoriclasse brasiliano, dai tempi dei kart ai tre titoli mondiali, raccontate attraverso le immagini delle vittorie e delle sconfitte più importanti della vita di un uomo combattuto tra Fede e Ragione, passione e dedizione, modestia e spirito di competizione. E del segno che lasciò in uno Sport, in un Paese e nel mondo.







Ricordo bene, il primo maggio millenovecentonovantaquattro.
Stavo finendo il primo anno di superiori, e mi portavo ancora dietro e dentro l'eredità di una fanciullezza che avrei pagato cara almeno fino al terzo: i miei compagni di classe piangevano ancora la morte di Kurt Cobain, mentre io mi perdevo dietro una delle più grandi passioni che coltivai per tutta l'infanzia, la Formula Uno.
Da amante degli outsiders, fin dalle elementari e dalle improbabili sveglie in notturna per seguire il Gran Premio del Giappone tifavo con tutto il cuore le Benetton, che con il loro verde ed i piloti di fascia medio bassa mi conquistarono fin da subito: e detestavo i campionissimi come Prost e Senna, sempre in pole position, con le vetture migliori ed il talento pronto a sprizzare da ogni poro.
Mi pareva che tutto fosse troppo facile, per quelli come loro.
Semplice, pensavo da Goonie, essere sempre il primo della classe.
Ma la vita riserva sempre sorprese.
E il Destino è beffardo.
Così quel primo maggio Senna, conquistando la pole position in un weekend di prove maledetto - l'incidente terrificante di Barrichello, quello fatale di Ratzenberger - si impose come il favorito davanti al giovane di belle speranze Michael Schumacher, astro nascente dei motori, proprio al volante di una delle "mie" Benetton, divenute paradossalmente le vetture da battere: alla partenza un altro incidente da paura portò la safety car in pista e la gara su binari che nessuno si sarebbe aspettato - e che sarebbero stati, purtroppo, il preludio di uno dei GP più drammatici di sempre -, come quelli che condussero - in circostanze, purtroppo, mai chiarite completamente - Senna ad uscire alla massima velocità alla curva del Tamburello, giudicata come una delle più semplici da affrontare del circuito per un pilota del suo calibro.
Dritto per dritto, un impatto pazzesco contro il muro prima di carambolare di nuovo al lato della pista.
Ero in camera mia, di fronte alla televisione, ai tempi, e da subito intuii che qualcosa di grave era in atto guardando la testa reclinata sul lato sinistro dell'abitacolo dell'asso brasiliano che così fortemente, e per anni, avevo detestato.
Ricordo anche bene i titoli dei giornali il giorno successivo, i processi, le domande, il lavoro sulla sicurezza che da quel giorno venne svolto in modo da evitare che si ripetessero weekend come quello del maledetto Gran Premio di San Marino.
Clint Eastwood, nel suo Capolavoro Million dollar baby, ricorda fin dal principio quanto nell'Uomo sia presente il desiderio di accostarsi alla violenza, al brivido che corre lungo la schiena nel momento in cui l'adrenalina pompa, e le emozioni si moltiplicano: per i piloti che rischiano la vita alla guida di vetture lanciate a trecento all'ora ed il pubblico che, nonostante le apparenze, spera sempre nell'incidente spettacolare e possibilmente mortale pronto a scuotere le coscienze anche dei non appassionati e far sgranare gli occhi.
Il vecchio medico della Federazione amico del campione, Syd Watkins, proprio in occasione della vigilia della gara che sarebbe finita in tragedia, testimonierà di aver chiesto a Senna il perchè della sua voglia di continuare a correre, essendo già stato incoronato campione per tre volte ed avere, di fatto, una vita davanti, magari per dedicarsi alla pesca, e alla tranquillità: alla vigilia della morte, il fuoriclasse risponderà, semplicemente, che non può farlo.
La forza della passione.
Sono passati vent'anni, e mi rendo conto di aver parlato davvero poco del bellissimo documentario firmato da Asif Kapadia, quanto più dei ricordi che io stesso ho accumulato di quell'evento fondamentale per la Formula Uno, che ora come ora seguo molto meno e che spero di tornare a vivere con la stessa intensità di allora, magari accanto al Fordino, che mostra una certa passione per le macchinine: la morte di Senna, infatti, innescò un giro di vite che, se da un lato e per il dispiacere di molti - o tutti? - annullò o quasi i rischi di questa disciplina diminuendone, di fatto, la percentuale di spettacolarità, portò a quella che, ad oggi, è l'ultima morte documentata di un pilota del più importante circo di motori del mondo, con la sua politica, i suoi soldi, e le sue leggi scritte o non scritte.
Se fossi un uomo di Fede, come Senna, potrei quasi affermare che il suo Destino era proprio questo.
Un sacrificio in nome di qualcosa che avrebbe preservato le vite di decine di altri come lui negli anni a venire.
Ma non lo sono.
Sono un uomo di profonde passioni.
E di fronte alle dichiarazioni che chiudono il documentario, e al ricordo di Senna del suo esordio europeo nel mondo dei kart, lontano dai riflettori e dai giochi di potere, dalle rivalità e dalle sponsorizzazioni, o di un intera nazione commossa dalla morte di un simbolo per tutti i suoi figli, ricchi o poveri che fossero, e alla velocità, non posso che porgere omaggio.
Neanche fossi Prost, e non mi sognerei di esserlo neanche per sbaglio.
Io sono solo un Goonie.
Ma non credo che Ayrton, con tutto il suo talento, il denaro ed il successo, potesse affrontare la vita e le sue conseguenze con tanti più mezzi di quanti ne possa avere io, che da qualche mese sono diventato più vecchio di quanto lui sia mai stato, o potrà mai essere.
Spero solo che la sua gara - considerato che avrebbe voluto una vita più lunga della sua carriera da pilota - sia valsa la pena quanto lo è valsa per i milioni di tifosi che ancora oggi invocano quel nome come un'ancora di salvezza.




MrFord




"E ho deciso una notte di maggio
in una terra di sognatori
ho deciso che toccava forse a me
e ho capito che Dio mi aveva dato
il potere di far tornare indietro il mondo
rimbalzando nella curva insieme a me
mi ha detto "chiudi gli occhi e riposa"
e io ho chiuso gli occhi."
Lucio Dalla - "Ayrton" - 





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