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martedì 23 febbraio 2016

Deadpool

Regia: Tim Miller
Origine: USA, Canada
Anno:
2016
Durata:
108'








La trama (con parole mie): Wade Wilson, ex membro delle Forze Speciali, mercenario dal cuore tenero, dopo aver trovato l'amore trova anche, sotto l'albero di natale, un cancro terminale. Avvicinato da misteriosi individui che dicono di volerlo guarire per renderlo, di fatto, un supereroe, ed accettata la loro offerta nella speranza di poter tornare accanto alla donna della sua vita, Vanessa, Wade si trova con il volto ed il corpo completamente sfigurati dalla mutazione, poteri incredibili di rigenerazione ed una grande incazzatura celata abilmente dall'ironia che l'ha sempre contraddistinto.
Inventato, grazie all'amico Weasel, l'alter ego Deadpool, Wade inizia a pianificare la tanto agognata vendetta contro i responsabili di tutte le sue disgrazie: peccato che sistemarli a dovere sarà più difficile del previsto e dovrà avvenire forzando un'alleanza certo non desiderata con alcuni degli X-Men di Charles Xavier.










Con ogni probabilità, se il mio io quattordicenne avesse visto Deadpool al Cinema, la mia storia sarebbe stata molto diversa, o se non molto, almeno in parte: ai tempi delle medie e dei primi anni delle superiori, infatti, patii tantissimo una timidezza che superai davvero soltanto con la fine dell'adolescenza lottando con le unghie e con i denti, e da appassionato di Fumetti adoravo il modo in cui un supereroe come l'Uomo Ragno dribblava il problema con battute a raffica ed un umorismo da maschera pronto a scacciare ogni paura.
Ma, già allora, c'era chi era riuscito a fare molto meglio del vecchio Testa di tela: sto parlando del Mercenario Chiacchierone, l'antieroe numero uno tra i miei favoriti dalla metà degli anni novanta ad oggi, Mr. Wade Wilson, alias Deadpool.
Leggere le sue avventure era come assistere ad una versione dopata e pirotecnica di quelle di Spidey, quasi come se si passasse da Wall Street a The Wolf of Wall Street, o da Lock&Stock a Pulp Fiction: da allora, ed anche dopo aver appeso gli albi a fumetti al chiodo - o quasi - come lettore, il charachter aveva mantenuto un posto d'onore nella mia memoria, custodito gelosamente nonostante una piccola parte non esaltante nel per nulla esaltante Wolverine: Origins e nell'interprete scelto in quell'occasione e dunque per questo tanto atteso esordio in solitaria su grande schermo, Ryan Reynolds, uno degli attori più cani dell'universo conosciuto.
Ma torniamo al mio io quattordicenne, che probabilmente sarebbe uscito dalla sala esaltato oltre ogni misura e convinto di poter superare qualsiasi timidezza a suon di battutacce e scorrettezze verbali alla maniera del vecchio Wade, e ringrazierebbe in eterno l'esordiente Tim Miller per aver confezionato non solo il film di supereroi - anche se la definizione non piacerebbe a Pool - più grandioso dell'anno, ma anche delle ultime stagioni, vincendo a mani basse la concorrenza pur agguerrita e portando sullo schermo una versione pulp e soprattutto ironica come non mai dei vari Kick Ass, Scott Pilgrim, Super e via discorrendo: perchè Deadpool è questo, un cocktail esplosivo di quelli pronti a stendere il bevitore esperto senza che se ne accorga o distruggere quello alle prime armi già dalle prime sorsate.
Narrazione scomposta, quarta parete letteralmente sbriciolata da uno strabordante protagonista - da impazzire i riferimenti alla saga cinematografica degli X-Men, tra Patrick Stewart e James McAvoy, quelli a proposito delle scene più violente e della colonna sonora o il riferimento alla scarsa capacità attoriale dello stesso Reynolds, impagabile -, scene d'azione esilaranti e perfette per ogni patito dei film di botte e degli effettoni, un crescendo con tanto di battaglia finale che ad un tempo omaggiano e sbeffeggiano tutti gli stilemi di un genere, scorrettezze come se piovessero e perfino lo spazio per una storia d'amore che, a suon di volgarità e colpi bassi, finisce per diventare più romantica di tante altre raccontate con epica ed enfasi certamente maggiori e seriose: e poi legnate, sangue, teste mozzate, proiettili, risate, vecchie cieche appassionate di Ikea e la costruzione della base per un protagonista che, se continuerà ad essere scritto e diretto con questo piglio, rischierà di soppiantare nel cuore dei fan del genere qualunque altro.
Il mio io quattordicenne, scrivevo poco sopra, sarebbe uscito esaltato e pronto a lottare con sorriso e lingua lunga contro la timidezza ed il mondo: non so se sarebbe andata diversamente da come effettivamente è stato, ma quello che è certo è che mi piacerebbe potergli mostrare cosa il futuro è stato in grado di fare con uno dei nostri favoriti di sempre del Fumetto mainstream.
Ma in fin dei conti, chi se ne frega. Del mio io quattordicenne e di tutte le elucubrazioni.
Io, oggi, nel duemilasedici, sono uscito dalla visione di Deadpool esaltato ed a pieno regime.
Quasi come se mi fossi fatto un acido e schiaffato i titoli di testa di Enter the void per un paio d'ore, poi Spongebob per un altro paio ed infine avessi sognato un coltello piantato in testa per vedere uscire animaletti animati da dietro le spalle di Julez.
E l'effetto, a distanza di un giorno o due, non è ancora finito. Anzi.
Dunque fanculo i quattordici anni, la critica, il questo ed il quello.
Deadpool è una ficata come ne esce - se va bene - una all'anno.
E per me si è già guadagnato il posto che fu di Fury Road la scorsa stagione.
Perchè finalmente, ed è sotto gli occhi di tutti, realizzare una tamarrata d'Autore è più che possibile.
E' fottutamente reale.
Ed ora un paio di esplosioni, gli Wham! che attaccano Careless whisper ed una bella scopata di chiusura.
E non aspettatevi teaser del sequel.
Parola di Pool.
Forse.





MrFord





"I'm never gonna dance again
guilty feet have got no rhythm
though it's easy to pretend
I know you're not a fool
I should have known better than to cheat a friend
and waste a chance that I've been given
so I'm never gonna dance again
the way I danced with you."
Wham! - "Careless whisper" - 





venerdì 4 maggio 2012

Pontypool

Regia: Bruce McDonald
Origine: Canada
Anno: 2008
Durata: 93'



La trama (con parole mie): siamo in una piccola cittadina dell'Ontario, persi in inverni lunghi e bui, spesso e volentieri da sopportare sotto il peso di continue tormente di neve.
In una piccola stazione radio locale lavora Grant Mazzy, un vecchio dj affezionato al Glennfiddich che spesso e volentieri finisce per dire la sua anche quando la stessa non è decisamente richiesta.
Nel corso di quello che pare un normalissimo giorno di programmazione, dall'esterno cominciano ad arrivare notizie di una sorta di epidemia che si sta espandendo a macchia d'olio in tutta la città, causando addirittura la mobilitazione dell'esercito e stimolando l'interesse delle grosse emittenti come la BBC: Mazzy, con la produttrice Sydney e la giovane assistente Laurel-Ann, si troverà ad affrontare un virus come non se ne erano mai visti. E soprattutto sentiti.




Sono contento di aver visto Pontypool. Davvero contento.
Perchè, una volta tanto, ho la possibilità di chiarire il reale significato delle bottigliate, che spesso e volentieri arrivano neanche fossero le Tre Bufere roboando sulla testa dei registi autori di opere che, fondamentalmente, avrebbero potuto essere e non sono state, ma che, di fatto, sono decisamente migliori rispetto a quelle che si vedono appioppare un solo bicchiere di valutazione.
Pontypool, segnalatomi poco tempo fa dal mio fratellino Dembo, è un'opera assolutamente interessante, ricca di spunti e di idee come raramente se ne vedono - almeno di recente - nell'ambito horror, eppure, dall'inizio alla fine, non riesce a convincere appieno, stimolando più che altro nello spettatore la curiosità rispetto a quanto potenziale sarebbero stati in grado di tirare fuori da una materia così Maestri del genere come Romero o Carpenter.
Atmosfera anni settanta, ansia da assedio, un mistero che si svela - seppur in modo parecchio macchinoso - rivelando un morbo davvero unico nel suo genere, metafora non solo dell'ambientazione del film ma della nostra società, che vede alla sua base la comunicazione: le carte in regola per un cult vero e proprio - chissà, forse anche non solo di genere - c'erano tutte, così come un ribaltamento dei topoi del genere zombie movie, che dall'azione - seppur rallentata - e dalle allegorie politiche dei suoi claudicanti protagonisti permette un passaggio ai dialoghi - o più propriamente monologhi - fitti ed ubriacanti di Grant Mazzy - uno Steven McHattie in grande spolvero - e ad un film profondamente parlato, eccessivo e sopra le righe come il dj che lo conduce letteralmente dal principio alla conclusione (?), un tipo spigoloso e ruvido che fin dalla trasmissione del mattino è pronto a schiaffarsi un Glennfiddich giusto per darsi la carica - consiglio alcolico: se non l'avete fatto, provatelo: è una bomba -.
Eppure Pontypool è tutto tranne una pellicola riuscita: sarà la mancanza di un elemento effettivamente spaventoso - inquietudine ce n'è, e molta, ma nulla che si possa paragonare a Classici come La notte dei morti viventi o anche a titoli "minori" come The fog, giusto per citare di nuovo i due giganti cui si ispira palesemente McDonald -, sarà il gigioneggiare a tratti quasi fastidioso del protagonista, saranno gli elementi grotteschi inseriti - non divertenti quanto il regista vorrebbe fossero -, sarà che il talento dell'uomo dietro la macchina da presa non è certamente quello di una potenziale Palma d'oro, ma il sapore che resta una volta conclusa la visione è quello di una grande - per non dire grandissima - occasione più che sprecata affidata alle mani sbagliate.
Idee sulla carta geniali come il resoconto telefonico dell'attacco degli infetti alla clinica da parte dell'inviato dell'emittente esplodono così soltanto una minima parte del loro effettivo potenziale, ridimensionando una pellicola che appare come un cult da videoteca nerd da film anni ottanta quando avrebbe potuto rompere gli argini e diventare qualcosa di decisamente più incisivo come di recente è stato per lavori come The descent di Neil Marshall, Eden Lake di James Watkins e The Woman di Lucky McKee.
Certo, le atmosfere di Pontypool sono molto diverse, il gore è praticamente inesistente e i presupposti decisamente più mentali che viscerali: eppure chi ha mai detto che un horror debba inquietare, spaventare o esplodere soltanto grazie a squartamenti e sangue?
Non è la parola uno dei nostri strumenti di comunicazione, se non il principale?
E non è la mente il vero fulcro su cui fare leva per scatenare le peggiori paure?
In questo senso, il lavoro di McDonald scopre un nervo decisamente delicato per ogni spettatore, e lancia una sorta di sfida all'horror in toto ribaltando la necessità di stupire attraverso gli occhi e l'adrenalina per concentrarsi su quello che può fare il nostro cervellino, se stimolato a dovere.
Di recente, soltanto Ti West con il suo Innkeepers ha cercato di sperimentare una via alternativa in questo senso, e come per Pontypool, il risultato non è stato incisivo quanto avevo sperato.
Ma non occorre fasciarsi troppo la testa.
In fondo, ogni nuova strada si apre attraverso sacrifici ed esperimenti che possono anche non essere riusciti al meglio.
Si può dire che McDonald si sia dato da fare per essere una sorta di esploratore di quello che potrebbe tornare ad essere un punto di riferimento dell'horror: un'autorialità giocata su testa, società e comunicazione. Una litania invece di un grido. Un assedio invece di una fuga in campo aperto.
Sconvolgimento mentale prima di azione fisica.
Linguaggio prima di sangue.
Un survival politico che antispettacolarizza uno dei generi più spettacolari che esistano.
Resta da vedere se la strada imboccata da questi improvvisati nuovi pionieri si rivelerà un tripudio di genialità come fu per i loro più grandi predecessori o un'intricata matassa di noiosi tentativi pseudo intellettuali.


MrFord


"Fiumi di parole
fiumi di parole tra noi
prima o poi ci portano via
ti darò il mio cuore
ti darò il mio cuore se vuoi."
Jalisse - "Fiumi di parole" - 


 
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