Visualizzazione post con etichetta società malata. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta società malata. Mostra tutti i post

venerdì 12 maggio 2017

La notte del giudizio - Election Year (James DeMonaco, USA/Francia, 2016, 109')




Quando si parla di saghe, che si tratti di ambito letterario o cinematografico, si entra sempre e quasi obbligatoriamente in un campo minato.
Mantenere, infatti, un livello qualitativo alto - o quantomeno discreto - per tutti i capitoli delle suddette senza snaturare ad un tempo lo spirito originario è cosa non da poco, ed i titoli che ci sono riusciti, da Star Wars a Il signore degli anelli - senza contare Game of thrones -, sono entrati nel cuore dei fan di tutto il mondo.
Certo, per me la saga cinematografica per eccellenza - alla faccia del più autoriale Il padrino - è e resterà per sempre Rocky, ma devo ammettere che spesso e volentieri il fascino di un mondo, personaggi o vicende in qualche modo legate mi attrae non poco, dando ad un'opera di fiction una dimensione a suo modo più reale: La notte del giudizio, survival urbano legato alla riflessione sull'uso della violenza legalizzata come arma per ridurre la criminalità, uscito qualche anno fa e ben accolto dal pubblico e da parte della critica, aveva dato inizio ad un franchise che, per quanto certamente non scarso o protagonista di momenti destinati al peggio della stagione cinematografica, non aveva mai raggiunto picchi di emozione, coinvolgimento o qualità complessiva davvero in grado di fare la differenza.
In questo senso, non è da meno neppure quest'ultimo Election Year, che annuncia una svolta decisiva per l'evoluzione della storia del "Purge" - ovvero la possibilità di revoca dello stesso, e dunque del motore del prodotto - ma, fatta eccezione per quest'eventualità e la cronaca "politica" che in un periodo di elezioni e post-elezioni americane funziona sempre non cambia di una virgola la ricetta dei precedenti, sprecando alcune buone cartucce - le ragazzine folli in pieno stile Spring Breakers che promettevano faville liquidate come se nulla fosse - e consegnando al pubblico quello che il pubblico si aspetterebbe considerati i precedenti del brand.
Una sicurezza, dunque, per certi versi, ed un peccato per altri.
In fondo, anche questo Election Year in termini di azione, atmosfera e costruzione funziona e si lascia guardare, pur mancando completamente di quella scintilla in grado di trasformare una visione in un'esperienza che non si dimenticherà facilmente.
A rendere il tutto più "movimentato" i numerosi volti noti di caratteristi passati su grande e piccolo schermo nel corso degli ultimi anni, da Lost a Justified, ed una serie di riflessioni politiche in grado di dare un certo spessore al prodotto finito, ed un ritmo comunque tutto sommato buono, probabilmente legato - come i capitoli precedenti - alla lezione data ai tempi dal cultissimo I guerrieri della notte.
A conti fatti, dunque, un titolo in grado di intrattenere ma incapace di segnare la memoria dell'audience, o di sorprendere davvero: in un mondo in cui accadono cose che paiono ben peggiori di quelle mostrate sullo schermo, del resto, è difficile restare davvero stupiti.



MrFord



 

domenica 30 aprile 2017

Lui è tornato (David Wnendt, Germania, 2015, 116')





Penso che, senza ombra di dubbio, una delle rappresentazioni del Male più significative della Storia e della cultura popolare abbia il volto di Adolf Hitler.
Il responsabile dell'ascesa del Reich e di tutto quello che accadde tra gli anni trenta e quaranta in Germania ed in Europa, per quanto terrificante al pari di tanti altri dittatori assolutisti - da Pinochet a Duvalier, passando per i fin troppo numerosi casi in Africa ed in Oriente -, è divenuto un simbolo di quanto agghiacciante possa essere l'opera dell'Uomo a questo mondo, e rappresenta per la Germania una ferita ancora aperta, un personaggio pericolosissimo con il quale confrontarsi anche e forse soprattutto quando lo si fa in chiave grottesca o ironica.
Lui è tornato, giunto sugli schermi del Saloon in ritardo rispetto all'uscita in sala, rientra nel novero degli esperimenti coraggiosi tentati sul grande schermo a proposito della figura del Fuhrer, e senza dubbio finisce per rappresentare una visione "sul filo", a metà tra la genialità e la classica cagata fuori dal vaso, tra le risate e l'inquietudine che alcune riflessioni possano generare.
In tutta onestà, infatti, non solo non saprei dare una collocazione precisa ad un film come questo, che passa dalle suggestioni di critica sociale di uno dei Von Trier a mio parere più interessanti, Il grande capo, alla sfrontatezza nera di cult come Le mele di Adamo fino ad arrivare all'attualità sfrenata - per quanto folle possa suonare, se Hitler o uno come lui dovesse fare ritorno in un contesto storico delicato come quello in cui viviamo, rischierebbe davvero di fare molti proseliti, si veda ad esempio, pur se non comparabile, l'ascesa di Trump negli States come cartina tornasole per gli effetti del terrore sul mondo e la società -, ma anche nella mera valutazione, che si scontra con la bizzarra natura del prodotto, la sua apparente povertà tecnica associata ad idee metacinematografiche e profonde ed una sensazione di quasi disagio che giunge al termine della visione, legata a doppio filo alla presa di coscienza di quel "Hitler è dentro tutti noi" che rappresenta non tanto un'ammissione di colpa da parte della Germania, ma dell'Umanità intera, che quando guarda dentro l'abisso, spesso e volentieri non ricorda che l'abisso ricambia, ed influenza non poco.
E per quanto, dunque, mi sia divertito ad osservare le gesta dell'Hitler trapiantato nel nostro tempo mentre chiama i suoi seguaci "negri" imitando il gergo dei rappers che ribaltano l'appellativo dispregiativo per indicare i loro amici più stretti o manifesta la propria preferenza per il partito dei Verdi, d'altra parte sono rimasto agghiacciato rispetto alle risate che susciterebbe nelle vesti di "comico", o ai proseliti che raccoglierebbe soprattutto in strada, considerata la crescente psicosi da attentati, immigrazione, crimine e via discorrendo.
Una produzione, dunque, quella di Wnendt, che potrebbe essere considerata quasi horror, e che porta alla luce molti nervi scoperti della società anche a quasi un secolo dagli inizi dell'ascesa di Hitler: il terrore, la manipolazione, la strumentalizzazione sono mezzi usati allo stesso modo ancora oggi, pur se attraverso canali differenti.
E se dovesse arrivare, purtroppo per noi, un nuovo Hitler - o chi per lui - e sapesse usarli, allora ci sarebbe davvero ben poco da ridere.




MrFord




 

domenica 27 settembre 2015

Black Mirror - Stagioni 1 e 2

Produzione: Channel 4
Origine:
UK
Anno: 2011, 2013
Episodi:
3+3





La trama (con parole mie): dal futuro del lavoro e delle illusioni da grande - e grandissimo - schermo ai ricordi manipolati, dalla politica distorta alla solitudine ed al superamento del dolore, un'esplorazione del presente in divenire dell'Uomo e dei sentimenti passata attraverso la distopia. Quali confini nasconde il nostro animo? Fino a che punto siamo disposti a spingerci per rispondere ad un ricatto, assaporare il successo, tornare a toccare o sfiorare per la prima volta la persona amata? 
Spogliati del Tempo e dei contesti, uomini e donne assolutamente normali tentano di scoprire la loro risposta di fronte ad un banco di prova enorme: quello della vita.
Troveranno quello che cercano, o il loro ulteriore futuro sarà anche peggiore di quello che si prospetta per noi? Quale immagine si mostrerà a chi deciderà di specchiarsi nell'immagine dei lati più oscuri dell'anima?








Negli ultimi dieci anni l'universo delle serie televisive ha conosciuto, senza dubbio, il suo periodo migliore di sempre, dall'esplosione del fenomeno Lost al fiorire di proposte pronte a garantire una qualità degna del grande schermo e a "rubare" allo stesso molti protagonisti.
Ma non è stato soltanto il colosso statunitense a produrre titoli degni di nota, e da Misfits - almeno per quanto riguarda le prime due stagioni - a Broadchurch, il Regno Unito si è rivelato una garanzia di qualità pronta a stupire un pubblico magari più ristretto ma non per questo poco esigente: da tempo, qui nella blogosfera e non, sentivo parlare di Black Mirror, miniserie progettata per esplorare un futuro più o meno prossimo che aveva riscosso pareri a volte entusiastici con la sua analisi della distopia e dello sci-fi.
Rispetto a Dead set - creatura uscita dalla stessa penna - il passo avanti è sicuramente notevole, e l'esperimento è senza dubbio interessante, anche se, a conti fatti, ho trovato le due stagioni meno strepitose di quanto le aspettative non prevedessero, forse patendo una struttura ad episodi che non garantisce sempre lo stesso livello di soddisfazione ed un approccio clamorosamente freddo, che ha finito in alcuni casi per sconfinare quasi nella noia.
Non che questo significhi una bocciatura per il lavoro di Charlie Brooker, che risulta assolutamente valido ed in grado di analizzare la nostra società attraverso la lente dei singoli racconti, ambientati in un mondo ipotetico e futuro ma clamorosamente vicini alla realtà che viviamo quotidianamente: una sorta di cocktail discretamente alcolico di Her e Se mi lasci ti cancello, senza dimenticare una spruzzata di incubo sociale in pieno stile Minority report.
In questo senso, dei tre episodi della prima stagione ho finito per preferire il secondo, Fifteen million merits, ambientato in una società orwelliana dominata da un reality show che ben fotografa la febbre da notorietà e da sogni venduti a caro prezzo ai "comuni mortali" dai gestori del potere.
Gli altri due, il più che critico rispetto a politica e social networks The National Anthem e The entire history of you, interessanti soprattutto per le osservazioni sulla società, mi sono parsi invece solo discreti, incapaci di raggiungere il livello del già citato Fifteen million merits.
L'annata numero due, invece, ha rappresentato senza dubbio un salto in avanti sia per quanto riguarda l'approccio - meno distaccato e più coinvolgente per il pubblico - che per il valore complessivo delle storie narrate: nella prima assistiamo al confronto tra una giovane donna innamorata e rimasta incinta ed il simulacro artificiale comandato da un computer del suo compagno, morto improvvisamente in un incidente stradale, forse il più lirico ed intenso tra tutti gli episodi; con White bear si cambia registro aumentando in un certo senso la potenza, mentre con il conclusivo The Waldo Moment forse finiamo per trovarci di fronte al punto più alto della serie: una riflessione spietata e decisamente inquietante sui poteri della politica e della comunicazione, ormai dominanti nel nostro mondo e divenuti superiori a quelli più naturali che regolano i bisogni istintivi della vita stessa.
La vicenda di Jamie, comico assunto per impersonare l'irriverente pupazzo Waldo finito per divenire prigioniero prima dello stesso e dunque del Sistema risulta assolutamente esemplare della condizione in cui noi stessi viviamo, spesso e volentieri e non sempre consapevoli pupazzi nelle mani di un mondo - e di un'organizzazione - più grande di noi pronto a vendere prodotti il più possibile applicabili alla società ormai globalizzata.
In un certo senso, finiamo per essere tutti Waldo.
E per votare pupazzi che ricordano da vicino l'immagine distorta di un black mirror da incubo.




MrFord




"Shot by a security camera
you can't watch your own image
and also look yourself in the eye
black mirror, black mirror, black mirror."
The Arcade Fire - "Black mirror" - 




domenica 21 giugno 2015

A touch of sin - Il tocco del peccato

Regia: Jia Zhangke
Origine: Cina, Giappone, Francia
Anno: 2013
Durata: 133'




La trama (con parole mie): un operaio in perenne lotta contro il Potere rappresentato dai padroni e la loro corruzione, solo e provato dai soprusi, decide di porre fine con la violenza all'ingiustizia che ha dominato la sua vita; un giovane padre con una passione quasi incontrollabile per le armi da fuoco viaggia tra la Cina e la Birmania lasciando dietro di sè una scia di sangue all'insaputa della famiglia; una giovane receptionist di un centro massaggi, segnata dalla fine della storia con un uomo sposato e molestata da un cliente, reagisce nel modo più estremo possibile, ed è costretta a fuggire; un giovane si barcamena tra un lavoro e l'altro cercando di mantenere una vita dignitosa ed inviare soldi alla madre, ma le difficoltà quotidiane ed emotive rendono l'impresa di difficile realizzazione.
Quattro storie per quattro spaccati di violenza nella Cina di provincia attuale.








Questo post partecipa alle celebrazioni del China Day: inside the tradition, through the revolution.




Da parecchio tempo, qui al Saloon, non si tornava a viaggiare per le strade tracciate dal Cinema orientale, e di quello d'autore, che come spesso mi capita di scrivere quando parlo di qualche tamarrata di valore, è stato ed è una parte importante della mia vita di spettatore, in grado di regalare emozioni e riflessioni diverse ma ugualmente potenti - se non di più - rispetto a tutto quello che è puro intrattenimento.
Avevo scoperto Jia Zhangke quasi per caso, anni fa, in occasione della sua vittoria al Festival di Venezia con lo strepitoso Still Life, e per troppo tempo avevo rimandato la visione di questo celebratissimo A touch of sin, uscito un paio d'anni or sono, che ho approfittato per recuperare in occasione del Day dedicato al Cinema cinese organizzato dalla nostra compare Alessandra, promotrice di un'iniziativa che ho amato dal primo istante.
Tornare per le strade della Cina di provincia, lontana dall'immaginario che noi stranieri e potenziali turisti coltiviamo rispetto ad una delle terre e delle culture più affascinanti del mondo è stato decisamente intenso, nonostante debba ammettere mi sia mancato e non poco l'approccio grottesco che aveva letteralmente illuminato, a tratti, il già citato Still life.
Le quattro storie raccontate quasi fosse un esponente del nostrano neoralismo da Jia Zhangke sono espressione di un disagio nascosto sotto il tappeto da quella che è considerata una delle potenze economiche emergenti mondiali, di un'inquietudine e di una violenza che si consumano spesso senza possibilità di scampo o di ritorno, e che sono legate ad un background sociale che mostra ancora numerose zone d'ombra sia in materia di diritti che di condizioni di vita: cornici di imponenti ed agghiaccianti strutture architettoniche, palazzi formicai e condizioni igieniche precarie, treni ad alta velocità di nuova generazione accanto a motorini che paiono usciti dagli anni sessanta europei, una vita che separa i nuovi ricchi - ovviamente pochissimi - ad una moltitudine di sconfitti, derelitti, outsiders, minoranze destinate ad essere schiacciate da un peso enorme che continua ad aumentare.
E dalla vicenda dell'operaio pronto ad imbracciare il fucile per raddrizzare i torti - che rimanda, con una spettacolarizzazione pari a zero, al concetto espresso anche da noti cult hollywoodiani come Un giorno di ordinaria follia - al lavoratore pronto a rimbalzare tra un impiego e l'altro giusto per vedersi negare l'amore ed una vita dignitosa, passando attraverso la violenza cieca del giovane padre appassionato di pistole e della vendetta della receptionist vessata emotivamente e fisicamente dal genere maschile, ci troviamo di fronte ad un affresco dolente e terribile, che neppure nel finale - con il rimando al Teatro cinese tradizionale che in passato amai anche in Addio mia concubina - dal sapore di monito al Paese, più che alla gente che lo abita, pare trovare una qualche consolazione o seppur fioca speranza per il futuro.
Jia Zhangke non si preoccupa di piacere troppo, o di fare concessioni al grande pubblico, nonostante una cura notevole di tutti gli aspetti tecnici della pellicola - bellissima, a mio parere, la fotografia, ed almeno in paio di occasioni i movimenti di macchina lasciano a bocca aperta -, eppure, e nonostante non raggiunga le vette di Still Life, A touch of sin scava dentro mano a mano che trascorre tempo dalla visione, radicandosi e sedimentando, quasi rappresentasse l'abisso che si dovrebbe temere di guardare perchè potrebbe decidere di ricambiare lo sguardo.
E credetemi, quello di Zhangke e della sua Cina "nascosta" fa davvero paura.



MrFord



Mi accompagnano in questo viaggio lungo la Grande Muraglia:


China: inside the tradition.

Storia di fantasmi cinesi (Siu-Tung Ching, 1987) sul Bollalmanacco di Cinema
The Killer (John Woo, 1989) su Director's Cult
Lanterne rosse (Yimou Zhang, 1991) su Scrivenny 2.0

China: through the revolution.

I love Beijing (Ning Ying, 2000) su The Obsidian Mirror
Infernal Affairs (Wai-Keung Lau e Alan Mak, 2002) su Non c’è paragone
Life without principle (Johnnie To, 2011) su Solaris
Closed Doors Village (Xing Bo, 2014) su Mari's Red Room
Mountains may depart (Zhangke Jia, 2015) su Montecristo



"It comes down to this.
Your kiss.
Your fist.
And your strain.
It get's under my skin.
Within.
Take in the extent of my sin."
Nine inch nails - "Sin" - 





martedì 3 marzo 2015

Automata

Regia: Gabe Ibanez
Origine: Bulgaria, USA, Spagna, Canada
Anno: 2014
Durata: 109'





La trama (con parole mie): in un futuro prossimo in cui le tempeste solari hanno ridotto a pochissimi milioni di persone la popolazione umana, i sopravvissuti si affidano agli interventi di contenimento di una nuova generazione di automi programmati per proteggere e servire senza opporre resistenza alcuna, o domande che possano rompere gli equilibri.
Jacq Vaucan, emissario della più grande compagnia produttrice di robots ed addetto alla parte assicurativa, entra in contatto con un poliziotto alcolizzato che afferma di aver terminato uno degli automi intento ad autoripararsi e modificarsi: l'incontro è solo l'inizio di una serie di scoperte che porteranno Vaucan a venire in contatto con un gruppo di ribelli meccanici desiderosi di emanciparsi dal loro compito di schiavi senza volontà, mettendo a rischio non solo il suo lavoro ed incolumità, ma anche il futuro della sua compagna e della figlia che porta in grembo.







In condizioni normali, se qualcuno mi avesse presentato a scatola chiusa una produzione iberico/bulgara/nordamericana di fantascienza con protagonista Antonio Banderas, avrei pensato senza dubbio ad uno scherzo, o ad un prodotto di infima serie godurioso e senza alcun ritegno da serata a neuroni staccati: al contrario Automata, prodotto di nicchia e, seppur non perfetto, assolutamente interessante di Gabe Ibanez, è tutto fuorchè una visione da poco, o da dedicare alle serate con gli amici sotto i pesanti effetti dell'alcool.
Ottimamente confezionato - come si scriveva qualche giorno fa qui al Saloon, una produzione artigianale che in Italia possiamo solo sognarci -, forse troppo derivativo ma ugualmente efficace, non brillantissimo in quanto a ritmo eppure funzionale negli intenti, Automata mescola le atmosfere di complotto di Minority Report, le velleità sociali di Blade Runner, la critica di District 9 e l'azione di Dredd: senza dubbio non siamo dalle parti del cult, e neppure del Capolavoro, eppure, considerate le aspettative e le basi di partenza, il risultato è quantomeno archiviabile come un successo, un prodotto in grado di fare ben sperare ed una delle cose più genuine che la fantascienza abbia portato sul grande schermo - in termini di distribuzione mainstream - di recente.
Lo stesso protagonista, che dagli Expendables alle pubblicità del Mulino Bianco abbiamo ormai imparato a vedere in tutte le vesti possibili ed immaginabili, funziona, e regala all'audience emozioni che parevano sopite dai tempi di El mariachi e C'era una volta in Messico, pur mostrando un carattere più riflessivo e da "lone wolf" che non da tamarro spaccaculi: onestamente, Banderas mi è sempre stato simpatico, dai primi lavori con Almodovar allo spassoso Two Much, e non sarei riuscito a volergli male neppure a fronte di un fallimento clamoroso, eppure con la sua presenza e l'impegno che pare avere profuso per il ruolo di Jacq riesce addirittura a rendere credibile perfino la sua compagna Melanie Griffith, presente in una piccola parte e sempre più inguardabile.
A prescindere, comunque, dalla metà di Banderas e dalla componente umana della pellicola - che, di fatto, rappresenta anche la critica sociale di Ibanez -, veri protagonisti sono i robots, ottimamente realizzati ed in grado non solo di riportare visivamente alla memoria i bei tempi dei gamberoni di Neil Blomkamp, ma anche di stimolare riflessioni forse non nuove ma ugualmente interessanti a proposito della libertà di pensiero e di azione, e del ruolo che, nel corso della Storia, hanno avuto i governi e gli organismi di controllo sul libero arbitrio e la sua espressione.
L'escalation finale ed il legame tra Vaucan e la sua famiglia e quella dei robots con il loro "nuovo nato" è da questo punto di vista molto azzeccata, tanto da portare a galla prima dell'azione, degli effetti e delle sparatorie l'efficacia principalmente concettuale di un film sulla carta nato esclusivamente a servizio della parte ludica e d'intrattenimento.
Ma il vero motivo di vanto per Gabe Ibanez ed Automata è e sarà principalmente quello di avermi regalato la prima visione quantomeno discreta che annoveri nel cast Dylan McDermott, fino ad ora garanzia assoluta di schifezza atomica neanche fosse l'ultimo degli Steven Seagal: una cosa davvero non da poco per un titolo sulla carta di seconda fascia lasciato per mesi a prendere polvere in uno dei tavoli più remoti del Saloon e recuperato quasi per caso, così come casualmente deve averlo proposto la distribuzione nostrana.




MrFord




"Stop trying to live my life for me
I need to breathe
I'm not your robot
stop telling me I'm part of the big machine
I'm breaking free
can't you see,
I can love, I can speak
without somebody else operating me
you gave me eyes so now I see
I'm not your robot, I'm just me."
Miley Cyrus - "Robot" -




sabato 3 gennaio 2015

The killing - Stagione 1

Produzione: AMC
Origine: USA
Anno: 2011
Episodi: 13



La trama (con parole mie): a Seattle la detective Linden, una brutta separazione alle spalle ed un matrimonio che l'attende in California, è all'ultimo giorno di servizio, affiancata dal giovane ed instabile suo sostituto nell'incarico Holder, quando viene chiamata sulla scena di un crimine particolarmente efferato. Il corpo della liceale Rosie Larsen, infatti, è stato ritrovato nel bagagliaio di una macchina sprofondata nel cuore di Echo Park, uno dei rifugi per disperati della città. Al dramma dei genitori e all'inquietudine e agli sconvolgimenti che l'omicidio mette in moto, si aggiunge il desiderio di Linden di non partire senza aver prima risolto il caso: ma quello che poteva apparire come un gioco tra adolescenti finito nel peggiore dei modi rivelerà sfumature sempre più inquietanti, arrivando a coinvolgere perfino uno dei politici più in vista della città, nonchè principale avversario nella corsa per il municipio del sindaco giunto al termine del suo mandato.








Una delle passioni che, nonostante le diversità cinematografiche, ha unito me e Julez fin dai primi tempi della nostra convivenza è stata quella legata al filone "morti ammazzati", che dalle serie tv alla Letteratura, passando per la settima arte, è riuscito quasi sempre a metterci d'accordo: non troppo tempo fa, orfani della consueta visione annuale di Criminal Minds, la signora Ford ha finito per suggerire il recupero di alcuni titoli legati al genere che ci eravamo persi negli ultimi anni.
Se, però, esperimenti come quello di The Forgotten non si sono rivelati particolarmente azzeccati, con il soprendente The Killing - tratto da una serie danese ed adattato, tra gli altri, dal Nic Pizzolato di True Detective - non abbiamo avuto alcun dubbio, giungendo alla fine di questa più che ottima season d'esordio con l'acqua alla gola e l'hype già alle stelle per la seconda.
Con le dovute proporzioni, seguire le indagini dell'interessantissimo duo di detectives protagonisti formato da Linden e Holder - caratterizzati e scritti davvero alla grande - ed osservare le conseguenze devastanti che la morte della giovane Rosie Larsen finisce per esercitare a più livelli dalla sua famiglia ai suoi compagni di scuola, dal suo professore fino alle più alte cariche della politica cittadina costringendo tutte le persone coinvolte a confrontarsi con i propri scheletri nell'armadio ha finito per ricordarmi l'estate del duemiladieci, quando in Croazia accompagnai Julez nel corso della sua prima visione integrale di Twin Peaks: anche in quel caso il brutale omicidio di una ragazza considerata da tutti simbolo di bellezza ed innocenza e di fatto conosciuta davvero da nessuno divenne la scintilla in grado di scatenare un incendio pronto a segnare l'anima della città, senza risparmiare neppure l'agente incaricato di risolvere il mistero.
Linden e Holder, in questo senso, diventano interpreti di una caccia all'uomo pronta a cambiare più volte prospettiva nel corso dei tredici serratissimi episodi di questa prima stagione, finendo per essere tratti in inganno o ispirati nel percorrere la strada verso la soluzione - ? - del caso al pari dello spettatore, conducendolo per mano ad un finale da cardiopalma che lascia per la seconda stagione interrogativi ancora più grandi, di fatto prendendo una via che pare discostarsi, almeno per il momento, dal dolore che ha dilaniato la famiglia Larsen - terribile il confronto tra il padre di Rosie ed il professore sospettato, ed ancor di più l'escalation del rapporto tra i coniugi, separati di fatto dal momento della perdita della figlia -.
Senza dubbio, e considerata l'evoluzione e le energie impiegate dagli investigatori nel corso delle indagini una scelta come quella che chiude l'ultimo episodio potrebbe rivelarsi potenzialmente rischiosa in ottica futura e rispetto allo svolgimento della trama, eppure il prodotto finito funziona alla grande, e la speranza è che possa evolvere nel più convincente dei modi, continuando ad esplorare i dubbi, le luci e le ombre - soprattutto queste ultime - del selvaggio mondo in cui viviamo, e dal quale non potremo mai davvero e fino in fondo proteggere i nostri figli, per quanto ogni giorno ci si sforzi e si speri per il meglio.
E a volte, quando il vaso di Pandora umano viene scoperchiato, non resta che allargare le spalle e cercare di lottare quantomeno per limitare i danni, e non giungere alla fine del giorno quasi soffocati dalla sensazione non tanto di non avercela fatta, quanto di aver in qualche modo contribuito al disastro.
Come la disgraziata combinazione di scelte e coincidenze che hanno portato Rosie in quel bagagliaio, costretta ad una soffocante e lenta agonia.




MrFord




"Baby, I am a survivor
baby, I'm on fire
baby, I'm bout to creep up inside ya
getting high all day, drinking whiskey all night
flipping of the police when them tricks pass by
I'm that fool next door, always late with his rent
I'm that loser on the couch, watching Springer and getting head
dreaming about a better time, better place, better life
looking for that quick fix, and tweeking all night."
(HED) P. E. - "Killing time" -



venerdì 21 novembre 2014

Il pianeta delle scimmie

Regia: Franklin J. Schaffner
Origine:
USA
Anno: 1968
Durata:
112'






La trama (con parole mie): l'astronauta George Taylor ed il suo equipaggio, in viaggio verso lo spazio profondo, si pongono in uno stato di animazione sospesa che possa permettere a tutti loro di superare la prova del Tempo e giungere dove nessun umano era mai stato prima.
Precipitati su un pianeta dalle caratteristiche molto simili alla Terra e perso un membro, i tre superstiti si troveranno a lottare per la loro sopravvivenza e libertà in un mondo governato da scimmie umanoidi che, di fatto, ricoprono un ruolo terribilmente simile a quello che sulla Terra hanno sempre ricoperto gli umani.
Quando le vicissitudini di questa nuova sfida porteranno alla morte anche gli altri due compagni, Taylor si troverà a doversi affidare alla studiosa locale Zira per poter riconquistare la propria individualità: ma sarà soltanto per andare incontro ad una sorpresa terribile.









Non troppo tempo fa, ancora freschi di visione del recente e controverso - almeno per quanto riguarda le recensioni che l'hanno avuto come oggetto - Apes revolution, io ed il mio fratellino Dembo ci trovammo nel bel mezzo di una passeggiata al parco con bimbi al seguito da bravi padri di famiglia a chiacchierare a proposito della prima pellicola che originò il successo ormai rispolverato del brand dedicato al futuro dominato dalle scimmie: in quell'occasione fu proprio il mio succitato ed inseparabile compare a giungere in casa Ford con l'omaggio del bluray di quella pellicola datata millenovecentosessantotto, più simile nel suo approccio alla sci-fi alle visioni del Kubrick di 2001 o dei b-movies di Bava che al gusto per l'eccesso e del larger than life attuali, pronto a giurare che la visione valesse non solo più di quelle dei due ultimi capitoli del "brand" - anche se, ormai, varrebbe più parlare di reboot, o ispirazione -, ma anche della maggior parte dei titoli di genere attualmente in circolazione in sala.
Ed effettivamente, ancora una volta, finisco per dare ragione al mio fratellino.
Il pianeta delle scimmie, a quasi cinquant'anni dalla sua realizzazione, trova ancora non solo un significato ben preciso ed una collocazione, ma risulta - con tutti i limiti realizzativi e di espressione del caso - assolutamente attuale se non addirittura visionario nell'affrontare tematiche che, pur rinnovandosi, all'interno della nostra società continuano ad avere un significato profondo e ben preciso e fornendo allo spettatore la giusta dose di tensione legata allo svolgimento della storia di Taylor fino al clamoroso - anche se intuibile -, disperato finale, tra i migliori che la fantascienza di questo tipo abbia mai regalato al suo pubblico.
Certo, vanno messi in conto all'opera di Schaffner una certa retorica molto USA - che, comunque, ha spesso e volentieri il sapore di non troppo celata critica - ed un approccio, in termini di svolgimento e di mezzi, assolutamente naif per lo standard attuale e forse anche quello di allora, eppure l'insieme risulta coeso ed avvincente, non banale - il ribaltamento sociale delle parti tra uomo e scimmia risulta credibile ed in un certo qual modo verosimile -, in grado di tenere ancora inchiodati alla poltrona dal primo all'ultimo minuto: la struttura resta quella del film didattico - in un certo senso, le moderne imprese di Caesar, per quanto evidenti, non sono subordinate ad una sorta di monito da indirizzare alle platee, al contrario di quelle di Taylor, interpretato dal discutibile, umanamente parlando, Charlton Heston - che potrebbe addirittura indispettire i più radical o i meno avvezzi ad un approccio all'apparenza così poco moderno di una pellicola, così come i dialoghi tra il protagonista umano ed i suoi carcerieri pronti a condurre l'audience al drammatico confronto nell'aula di tribunale, teatro di una sorta di sfida quasi filosofica simile a quella che precede la battaglia conclusiva.
La tematica, poi, cara alla fantascienza classica, che conduce Taylor all'agghiacciante scoperta dell'epilogo - che non rivelo per evitare spoiler nel caso in cui qualcuno decidesse di vederlo per la prima volta - è funzionale e resa al meglio: un occhio esperto potrebbe riuscire ad intuirlo in anticipo, eppure l'idea di abbandonarsi completamente e vivere le vicende dell'astronauta esule nella loro parte più d'azione funziona almeno quanto riflettere non tanto sul fatto che siano le scimmie a dominare il pianeta sul quale gli uomini giungono, ma che la loro società apparentemente avanzata nasconda falle di sistema pronte ad esplodere alla prima variabile impazzita.
Un pò quello che accade anche da queste parti, sulla Terra.
La nostra Terra.
E chissà poi fino a quando.



MrFord



"Big gorilla at the L.A. Zoo
snatched the glasses right off my face
took the keys to my BMW
left me here to take his place."
Warren Zevon - "Gorilla you're a desperado" - 





martedì 7 ottobre 2014

Maps to the stars

Regia: David Cronenberg
Origine: Canada, USA, Germania, Francia
Anno: 2014
Durata: 111'




La trama (con parole mie): Havana è una matura attrice figlia d'arte che vorrebbe esorcizzare i fantasmi di sua madre interpretandola in un film che dovrebbe rilanciarne la carriera; Jerome un giovane aspirante attore e sceneggiatore pronto a sbarcare il lunario come autista di limo; i Weiss una famiglia dilaniata dagli effetti della loro posizione e del mondo dorato di Hollywood in bilico tra i fantasmi del passato ed i desideri mai espressi ad alta voce dei genitori così come dei figli.
Quando le loro storie si intrecceranno ed i nodi verranno al pettine, il successo e tutto quello che comporta chiederanno un conto che segnerà per sempre le esistenze di ognuno di loro, alcune in modo inesorabile, altre soltanto come fossero ferite superficiali.
Chi sopravviverà e riuscirà a trovare un posto tra le stelle?








Io davvero non mi capacito, di quello che pare essere accaduto a David Cronenberg.
Il regista canadese, da sempre uno dei miei favoriti rispetto all'area Nordamericana della settima arte, tra i pochi a non aver, di fatto, mai sbagliato un film - almeno fino a qualche stagione or sono -, dopo aver regalato al pubblico due veri e propri Capolavori, A history of violence e La promessa dell'assassino, pare essere entrato in una nuova fase - totalmente involutiva - in grado di farlo mutare - per usare un termine che gli sarebbe caro - da paladino dell'esplorazione delle trasformazioni di corpi e menti in una sorta di imbolsito radical chic senza una direzione, dal farraginoso A dangerous method al pessimo Cosmopolis, per giungere a questo Maps to the stars.
Ibrido poco incisivo e terribilmente noioso dei due altrettanto terribili Stoker e The Canyons, l'ultimo lavoro dell'ex grandissimo David rappresenta una critica feroce allo star system hollywoodiano e alle trappole del successo e della società dell'apparenza che pare dominarlo, e che purtroppo, dopo un interessante primo quarto d'ora, finisce per avvitarsi su se stesso e cadere nelle tentazioni di superbia e vuoto cosmico - altro che mappa stellare - che vorrebbe mettere alla berlina.
Lo stesso cast, dal sempre insipido Robert Pattinson ad una Julianne Moore più nevrotica del solito - e badate bene, trovo che l'ex Maude Lebowski sia un'ottima attrice -, passando per un terribile John Cusack ed una sempre più slavata Mia Wasikowska, si ectoplasmizza portando sullo schermo tutta l'apatia criticata dalla pellicola - e forse, da un certo punto di vista, potrebbe essere anche un pregio - finendo per crederci talmente tanto da affossarsi completamente in una sceneggiatura al limite del ridicolo infarcita di inutili paroloni e discorsi pseudo filosofici del cazzo firmata da Bruce Wagner, uno che, dietro la macchina da scrivere, si è distinto, in carriera, solo per il male invecchiato - seppur valido, nel suo genere - Nightmare 3.
Ma di nuovo, gli interrogativi maggiori riguardano Cronenberg: dov'è finita la forza della sua ricerca, la voglia di sporcarsi le mani, di portare il pubblico al confine e spingerlo a superare lo stesso?
Dove sono finiti Crash, La mosca, La zona morta, Existenz, Spider, Videodrome?
Perchè darsi tanta pena per criticare società e star system quando, vedendo sfilare alcune immagini, l'impressione che si ha è quella che ormai il cineasta ed attore - lo ricorderò per sempre nella sua interpretazione dello psichiatra folle in Cabal - ne sia purtroppo parte integrante?
Onestamente io spero si tratti solo ed esclusivamente di una fase, una sorta di crisi creativa come ne sono capitate anche a Woody Allen o Martin Scorsese, per citare altri due grossi calibri coinvolti in scivoloni recenti cui in seguito è stato poi posto rimedio - per il primo, il terrificante Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni cui fece da contrappeso l'ottimo Midnight in Paris ed il secondo con lo scialbo Hugo Cabret annichilito dal meraviglioso The Wolf of Wall Street -, e che prima o poi Cronenberg torni a stupirmi come era solito fare un tempo: nel mentre non posso che scatenare le bottigliate delle grandi occasioni su un titolo che senza dubbio è superiore al precedente, pessimo e già citato Cosmopolis ma non per questo può pensare anche solo lontanamente di non essere punito per la delusione amplificata da quella parte iniziale promettente letteralmente annegata in un mare di stronzate di quelle di cui piace riempirsi la bocca agli pseudo intenditori di Cinema smaniosi di darsi un tono con i poveri stronzi che non fanno parte di un'elite come la loro.
Più che una mappa che conduca alle stelle - e non sto neppure a sottolineare quanto scult suoni il legame tra Cusack e consorte ed i due figli -, mi pare proprio di essermi trovato di fronte ad una che segnali tutte le sale d'essai più spocchiose ed insopportabili del mondo conosciuto.



MrFord



"The stars are bright tonight
a distance is between us
and I will be OK
the worst I've ever seen us."
The Cranberries - "Stars" -




martedì 17 dicembre 2013

The East

Regia: Zal Batmanglij
Origine:
USA, UK
Anno: 2013
Durata: 116'





La trama (con parole mie): Sarah, agente impiegata presso un'agenzia di sicurezza privata, è incaricata di guadagnare la fiducia dei membri di una cellula terroristica chiamata The East, responsabile di una serie di attacchi a multinazionali responsabili di danni all'ambiente e alla popolazione.
Infiltratasi con successo ed accolta nella piccola comune dove vive il gruppo, Sarah si ritrova a dover fare fronte ai sentimenti che costituiscono la battaglia più difficile per ogni talpa: da un lato il crescente coinvolgimento - anche sentimentale - con le persone che dovrebbe assicurare alla Giustizia, dall'altro il senso del dovere ed il desiderio di ritornare ad una vita normale e ad una consolidata quotidianità.
L'incontro con il leader del gruppo Benji e con la battagliera Izzy cambierà però per sempre il modo di percepire il mondo - e la battaglia per esso - di Sarah.




Lo ammetto: ho approcciato la visione di The East - film indipendente dal sapore "rivoltoso" in stile V per vendetta - con poca voglia e diverse riserve, temendo di trovarmi di fronte l'ennesimo inutile tentativo di presentare al grande pubblico una pellicola a suo modo indie dalle ambizioni da blockbuster.
Fortunatamente per me e le bottiglie ultimamente messe a dura prova da delusioni come The bling ring - nota a margine: questo post è stato scritto non proprio ieri -, il lavoro di Zal Batmanglij - un cognome che è tutto un programma - e Brit Marling - perchè la giovane ed interessante attrice firma la sceneggiatura accanto al regista - convince quasi del tutto, proponendo un thriller "sociale" con numerosi spunti interessanti soprattutto dal punto di vista dei risvolti umani della lotta tra la cellula rivoluzionaria e le grandi multinazionali responsabili di scempi naturali e non solo in tutto il pianeta.
Lasciando dunque - e giustamente, a mio parere - le parti action e di critica come cornice, i due autori si concentrano principalmente sui rapporti tra i protagonisti sfruttando il vecchio tema sempre interessante della "Sindrome di Stoccolma" dell'infiltrato, analizzato sul grande schermo alla perfezione ormai più di dieci anni fa da Mike Newell nello splendido Donnie Brasco: la protagonista Sarah - cui presta volto e talento, e ne ha da vendere, la già citata Brit Marling -, in equilibrio - anche se sarebbe più giusto scrivere in bilico - tra due mondi finisce per confrontarsi con il peggio ed il meglio di entrambi, elaborando nelle quasi due ore della visione, scorrevoli e ritmate da un'ottima gestione della tensione, una sua personale posizione che porterà ad un finale che, seppur non completamente convincente, riesce comunque a mantenere una certa coerenza rispetto alla crescita e all'evoluzione del main charachter.
Interessante, dunque, notare come da un lato Sarah si ritrovi a vivere una distanza ed una partecipazione sempre minore in un mondo dominato dal profitto e da una quotidianità che è quasi ipocrisia - incarnato perfettamente dal rapporto con il fidanzato - ma dal quale è impossibile, nel bene e nel male, affrancarsi - che sia per comodità, o per inseguire una sorta di sogno di un mondo perfetto, ben rappresentato dalla visione dei cavalli nei campi che accompagnano la protagonista ad ogni viaggio di andata e ritorno a casa -, così come il disagio dell'inserimento nel gruppo di ribelli dominato da regole che paiono vicine a quelle - inquietanti - delle sette religiose ma che, di fatto, nascondono nobili intenti, passione e tanta rabbia - pur se mal indirizzata - per una vita decisamente più libera e piena.
Un conflitto interiore vissuto anche dagli altri due protagonisti, il "bel tenebroso" Benji di Alexander Skarsgard e la ribollente Izzy di Ellen Page, che sorprende nell'evoluzione drammatica del rapporto con il padre, che se forse non viene risolto nel modo più potente e "cattivo" possibile - in una certa misura, il finale è quasi consolatorio - riesce comunque nella non facile impresa di rendere bene al pubblico - di nicchia e non - il senso del messaggio della pellicola, e della lotta condotta da gruppi come quello protagonista di questa storia.
Considerato quanto difficile sia riuscire ad analizzare il senso della rivolta e le ragioni del compromesso, direi che Batmanglij e la Marling, pur non osando, sono riusciti nell'impresa di dare un equilibrio ad entrambe le cose: e dato che di recente il solo Homeland ha fatto meglio in quest'ambito, si può affermare senza alcun dubbio che la loro impresa sia stata un successo.


MrFord


"Conversion, software version 7.0,
looking at life through the eyes of a tire hub,
eating seeds is a pastime activity,
the toxicity of our city, of our city,
no, what do you own the world?"
System of a down - "Toxicity" - 


giovedì 13 giugno 2013

Il cacciatore di teste

Autore: Jo Nesbo
Origine: Norvegia
Anno:
2008 (2013 in Italia)
Editore: Einaudi




La trama (con parole mie): Roger Brown è il miglior headhunter di Oslo, forse addirittura della Norvegia. E' un uomo intelligente, acuto, in grado di manipolare e compensare con l'abilità della parola il suo metro e sessantotto di altezza. Ha una moglie bellissima cui ha fatto dono di una galleria d'arte, un tenore di vita che va ben oltre le sue possibilità e coltiva in segreto il desiderio di sistemarsi per sempre godendosi la fortuna sentimentale che ha avuto ripagando la sua sposa con il figlio che le ha sempre negato. Tutto questo attraverso una seconda esistenza legata ai furti e al traffico di opere d'arte, pronta a finanziare il suo futuro.
Quando Clas Greve, uomo dal fascino magnetico e dalle mille qualità giunto dall'Olanda, entra nel mirino di Roger per un ruolo manageriale di altissimo livello e lo stesso scopre che il candidato è venuto in possesso di un rarissimo quadro di Rubens dato per disperso nel corso della Seconda Guerra Mondiale, tutto pare destinato a cambiare in meglio.
Quello che Roger Brown non sa, però, è che un incubo su misura per lui sta per cominiciare.




Quando lessi di una nuova uscita targata Jo Nesbo priva della figura ormai mitica qui al Saloon di Harry Hole ammetto che storsi e non poco il naso, quasi il fatto che il talentuoso scrittore norvegese avesse - anche solo momentaneamente - preso una pausa dal suo personaggio più importante - nonchè responsabile del suo successo internazionale - rappresentasse in qualche modo un peccato dal quale neppure il vincitore degli ultimi due Ford Awards dedicati ai libri avrebbe potuto mai affrancarsi.
Evidentemente, nonostante l'ammirazione che provo per lo scaltro Jo, ho finito per sottovalutare - e decisamente troppo - l'abilità di un uomo fuori dal comune, che iniziò come calciatore - costruendosi una carriera che non andò mai oltre la serie A norvegese - per poi finire a fare il broker, l'analista finanziario e, per l'appunto, lo scrittore noir di successo.
Le risorse di questo intelligentissimo romanziere e musicista - perchè il suo gruppo, i Di Erre, continua ad esibirsi in tutto il suo Paese ancora oggi -, infatti, paiono essere infinite, e perfino quando all'interno di una sua opera manca all'appello il personaggio più importante e profondo che potesse creare il risultato risulta convincente e terribilmente appassionante, giocato dalla prima all'ultima pagina su una tensione continua ed un ritmo da grandissimo thriller che non viene intaccato neppure dalla scelta della narrazione in prima persona, notoriamente avversa ad ogni soluzione che riguardi in qualche modo la suspance e l'incertezza.
La vicenda di Roger Brown, cacciatore di teste perennemente in cerca di una rivincita sul mondo e la società, la Natura ed il ruolo da outsider che fisicamente gli è stato cucito addosso - la sua statura ed un'apparenza decisamente molto poco "norvegese" e giusta per ricoprire qualche incarico di spicco in Società il cui solo nome riesce ad incutere soggezione in qualsiasi candidato -, è un thriller classico della migliore tradizione possibile, Hitchcock che incontra Stieg Larsson, gli anni sessanta degli intrighi a sfondo passionale che riscoprono il macabro e la violenza dei moderni David Fincher.
Dal rapporto con la bellissima moglie Diana - stupendo il flashback dei loro anni a Londra, e l'aneddoto a proposito dei Queens Park Rangers, squadra minore della capitale inglese nonchè preferita della signora Brown - a quello con l'amante Lotte, dal confronto con l'apparentemente perfetto Clas Greve, statuario e forte, deciso e seducente, a quello con il padre, autista per personale diplomatico duro e dipendente dall'alcool - toccante il racconto della partita a scacchi e del confronto tra i due a proposito del barare -Roger vive in un mondo agli occhi del quale è ad un tempo temuto e sottovalutato, un lupo in un recinto di agnelli di colpo gettatosi nella gabbia delle tigri.
Perchè questo è quello che si scopre attorno l'apparentemente inappuntabile Brown, quello che nasconde l'altezza dietro una maschera di intelligenza ed acume, lucidità e sicurezza di portare a casa il successo: un campo da gioco all'interno del quale lui è l'anello debole, la vittima braccata, il candidato che dovrà essere esaminato e al quale "verrà fatto sapere", ben sapendo quanto quella frase di norma sta a significare.
Il problema è dato dal fatto che, questa volta, in gioco non ci saranno un posto di lavoro, o una carriera promettente, ma la vita stessa: e Roger dovrà guardare dentro di sè e capire cosa sarà disposto a sacrificare, di se stesso e del mondo perfetto - o quasi - che aveva voluto come un biglietto da visita, pronto a dimostrare quanto l'apparenza possa contare in un qualsiasi colloquio, e l'impressione di essere vincenti, se ben utilizzata, rappresenti di fatto la chiave per ogni porta.
Il cambiamento di Roger sarà decisamente più drastico di quanto non si sarebbe mai aspettato, e chissà, forse meno lontano dalla sua vera natura di quello che crede: di fatto era dai tempi di Breaking bad che non osservavo un personaggio messo alle strette allo stesso modo rivelare un carattere decisamente più determinato e pericoloso di chi avrebbe voluto sgranocchiare le sue ossa come stuzzichini ad un vernissage da galleria in.
Resta da vedere se Roger saprà trovare il candidato giusto per ogni ruolo - il suo compreso - e rimettere le cose a posto portando avanti la propria vita conscio del fatto di aver guardato l'abisso negli occhi, e di portare dentro almeno un pò di quel buio che lascia in eredità il brivido di un duello all'ultimo sangue.
Per un cacciatore di teste, chissà, potrebbe anche risultare più facile del previsto.


MrFord


"Well, I met a girl in West Hollywood
I ain't naming names
she really worked me over good
she was just like Jesse James
she really worked me over good
she was a credit to her gender
she put me through some changes, Lord
sort of like a waring blender."
Warren Zevon - "Poor poor pitiful me" -


giovedì 21 marzo 2013

Jack all'inferno

Autore: John Leake
Origine: USA
Editore: Mondadori
Anno: 2008
 



La trama (con parole mie): la storia di Jack Unterweger è davvero singolare. Nel 1974, a ventiquattro anni, il giovane delinquente austriaco viene arrestato e condannato all'ergastolo per aver tolto la vita ad una ragazza con la complicità della sua fidanzata. In carcere, frequentato un corso di scrittura creativa, termina il lavoro parzialmente autobiografico intitolato "Purgatorio", che diviene un caso letterario in tutto il Paese, scuotendo nel profondo l'elite culturale e politica viennese che, convinta della redenzione di quello che ormai è considerato un artista, preme i tasti giusti affinchè lo stesso Jack venga scarcerato dopo quindici anni di detenzione, nel 1990.
Tornato in libertà e divenuto una star, Unterweger resiste qualche mese, dunque ricomincia ad uccidere: undici prostitute tra l'Austria, Praga e Los Angeles vengono strangolate secondo una tecnica che l'uomo pareva aver affinato negli anni trascorsi dal suo primo omicidio. 
Le prove non si trovano, i sospetti crescono, fino a quando le autorità decidono di incriminarlo: inizia così la battaglia legale più incredibile della storia austriaca, alla ricerca di una condanna per quello che era considerato un riabilitato pupillo della società.




L'interesse risvegliatosi nel corso dell'ultimo anno di letture nel sottoscritto e legato alla figura del serial killer è stato prodigo di sorprese e scoperte: una di esse, avvenuta tra le pagine di Serial killer - Storie di ossessione omicida di Lucarelli e Picozzi ed approfondita grazie ad un regalo assolutamente perfetto di Julez per il mio ultimo compleanno è stata senza ombra di dubbio Jack Unterweger, omicida seriale che fino a pochi mesi fa non conoscevo per nulla e che al contrario, a suo modo, ha cambiato la storia di una nazione che ha ben poco a che spartire con la criminalità come l'Austria.
Quest'uomo dall'aspetto di eterno Peter Pan, eccentrico e stravagante nel vestire, in grado di ricordare un ragazzino per impulsività e statura fisica riuscì, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, a tenere in scacco l'opinione pubblica ed i rappresentanti della Legge per tutti i due anni in cui fu un uomo libero e per i due che impegnarono poliziotti e magistrati a costruire un impianto d'accusa abbastanza solido per incriminarlo e riportarlo in prigione.
Ma cominciamo dall'inizio: Jack Unterweger, fin da ragazzo, manifesta una certa quale passione per il sadismo da esercizio di potere, che diviene un prolungamento del suo naturale magnetismo ed il fascino che irradia rispetto alle rappresentanti del gentil sesso e non solo.
E' anche un piccolo delinquente, Jack, che vorrebbe le luci della ribalta e la bella vita ed invece finisce soltanto per commettere piccoli furti e cercare di sfruttare le sue donne come un pappone qualsiasi: questo fino a quando una notte, con la complicità della fidanzata, non uccide una ragazza scoprendo, di fatto, quello che sarà non solo il suo piacere più oscuro ed irresistibile, ma anche - tristemente - il suo talento maggiore, anche rispetto alla scrittura.
Perchè Jack viene messo dentro e giudicato colpevole, pena l'ergastolo. Ma non si arrende.
Studia, si ingegna, da voce ad un'autobiografia - o preseunta tale - che diviene un vero e proprio caso letterario e gli apre la strada del successo e dei salotti che contano, dei teatri e delle grandi occasioni mondane alle quali partecipa sotto scorta recitando sempre e comunque la parte del redento perseguitato dagli errori di gioventù.
Intanto il tempo passa, Jack muove i suoi fili, seduce donne ed attira l'attenzione dei politici che contano, e nel 1990, giunto ai quaranta, viene scarcerato con il beneplacito dell'elite intellettuale viennese ed accolto come la nuova voce artistica austriaca, il criminale redento, il Bunker della MittelEuropa pronto a raccontare i drammi della sua infanzia e giovinezza, talento teatrale e forse anche cinematografico - le sue piece sono rappresentate in tutte le città del Paese, si moltiplicano reading ed apparizioni televisive, il film tratto da Purgatorio partecipa addirittura alla Berlinale -: nessuno si avvede, almeno al principio, che pochi mesi dopo il ritorno sulle scene di Unterweger alcune prostitute cominciano a scomparire per essere ritrovate morte a seguito di particolari strangolamenti avvenuti grazie ad ingegnosi nodi costruiti a partire dall'intimo delle stesse ragazze. Addirittura Jack è chiamato in causa per scrivere degli omicidi per conto di alcune importanti testate giornalistiche e spedito negli States, per studiare il metodo di una delle più grandi forze di polizia del mondo.
Jack è raggiante, perchè suo padre - che non ha mai conosciuto - era un marine degli Stati Uniti impegnato in  Europa durante la Seconda Guerra Mondiale e perchè gli States sono la terra delle grandi opportunità che hanno fatto la fortuna di un altro noto austriaco, Arnold Schwarzenegger.
Peccato che, oltre a fare il turista ed il giornalista, Unterweger decida di aggiungere altre tre vittime alla sua lista. Tre prostitute di Los Angeles i cui omicidi vengono immediatamente messi in relazione dagli esperti a stelle e strisce ma che cadono nel dimenticatoio non appena lo scrittore assassino fa ritorno in Austria.
Ma è soltanto un appuntamento rimandato: perchè con la tensione a crescere insieme al numero delle vittime i sospetti degli investigatori aumentano, e Jack, messo alle strette, è costretto a fuggire una volta ancora negli USA fino alla sua cattura, avvenuta a Miami nel 1992 e divenuta l'inizio di quello che è stato senza ombra di dubbio il processo più clamoroso della storia austriaca.
Ma tutto questo è cronaca, nonchè indagine accurata sviluppata con piglio giornalistico da John Leake nel corso delle oltre trecento pagine di questo interessantissimo volume.
Quello che sconvolge davvero è il ritratto di quello che esiste dietro il personaggio Unterweger e la sua singolare vicenda legale, ferita in una società apparentemente senza macchia che è riuscita a riportare alla mente del sottoscritto la storia di un altro omicida seriale, Fritz Haarmann, che funestò con i suoi delitti la Germania tra le due guerre mondiali.
Per quanto diversi nell'approccio e nei territori "di caccia", nel gusto e nel modo di porsi, questi due assassini hanno rappresentato un fallimento delle rispettive società, una cicatrice ben visibile ed un monito probabilmente eterno: ma se Haarmann - lasciato libero di agire perchè informatore della polizia - era chiaramente figlio di un disagio anche sociale che segnò la profonda crisi tedesca prima dell'avvento dell'era nazista, Unterweger fu in grado di sfruttare il suo indubbio fascino per piegare un'intera nazione alle sue regole, manifestando stupore ed irritazione di fronte ad accuse che lui per primo ben sapeva essere reali e fondate.
La cosa che colpisce maggiormente, pensando a predatori come Unterweger, è la loro quasi infantile volontà di cercare la sfida ed il confronto tanto quanto la fuga e la bugia per coprire il "peccato": non a caso il clamoroso successo del suo "Purgatorio" non prevedeva per l'autore un passaggio all'inferno.
Jack Unterweger sarebbe stato più forte di ogni incriminazione, di ogni poliziotto, di ogni persona che non avrebbe ceduto al suo fascino, di ogni donna finita nel suo letto. Almeno nella sua mente.
Il suo caso è senza dubbio uno dei più interessanti che il mondo degli assassini seriali abbia mai portato alla luce, e nel corso della lettura di questa indagine in più di un'occasione si finisce per essere in bilico tra il profondo astio per una figura spietata, bieca, sfruttatrice, vigliacca ed una sorta di compassione per quest'ometto apparentemente innocuo completamente dominato da pulsioni che si illudeva di poter controllare dominando a sua volta le vittime che ne incrociavano il cammino.
E la sua storia lascia indietro più interrogativi che certezze, legati alla società - austriaca, ma direi occidentale - e a come possa essere stato in grado questo predatore di esercitare un'attrazione così irresistibile negli uomini che gli hanno dato la caccia sacrificando fintanto le loro vite private e nelle donne che avrebbero e hanno consacrato sentimenti ed esistenze per lui anche di fronte all'evidenza dei fatti.
Lati oscuri chiamano lati oscuri.
Jack difficilmente arriverà "a riveder le stelle". Ma non sarà il solo.
Ed è più immediato pensare che i suoi prossimi scritti giungano, come quelli di un suo antesignano, da un altro posto.
From Hell.


MrFord


"And it's humbling
this pain you feel inside
and it's stuttering
these words that I must try."
A perfect circle - "Choke" - 


Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...