La trama (con parole mie): cinque estranei si ritrovano bloccati all'interno di un ascensore in un palazzo di Philadelphia dove è appena avvenuto un misterioso suicidio. E' molto, molto probabile che, tra loro, si nasconda il diavolo in persona, venuto per punire questi grandi peccatori e giocarsi una partita a scacchi con un poliziotto ex alcolista ed un guardiano chiesotto.
Pensate un pò: Shyamalan riesce benissimo a farmi incazzare e stuzzicare terribilmente la mia voglia di dispensare bottigliate fortissime anche quando non è dietro - o davanti - alla macchina da presa, bensì presente "solamente" nelle vesti di produttore ed autore del soggetto della storia in questione.
Proprio ieri, Julez mi descriveva un'intuizione geniale a proposito dell'approccio che il Cinema horror ha in comune con il porno: in entrambi i casi, pare che tutte le scelte - anche quelle meno sensate - siano giustificate dal fatto che l'atto finale possa permettere qualsiasi stronzata dalle bibliche dimensioni avvenuta in precedenza nel corso della pellicola sbattendosene dell'intelligenza dello spettatore.
Ed è proprio la mancanza di logica ad alimentare, spesso e volentieri, la mia ira funesta rispetto agli horror mal riusciti, perchè se posso giocarmi con la fantasia l'approccio al sovrannaturale, al mostro di turno o agli avvenimenti più incredibili, difficilmente riesco ad immaginare una sequela di stronzate, per di più in pieno stile filo-cattoliche, come quella che inanellano gli autori di questa assolutamente dimenticabile pellicola: peccato, perchè, seppur non originale, il tema del diavolo ha sempre il merito di affascinare lo spettatore, e quei titoli di testa quasi in stile Panic room - anche quello, tra l'altro, si rivelò un film pessimo - mi avevano fatto abbastanza ben sperare in un sano, inquietante intrattenimento da serata del weekend.
Tutto questo, ovviamente, prima che sopraggiungesse il nome di Shyamalan.
A quel punto, sia io che Julez siamo tornati con la mente ad esperienze irripetibili quali Lady in the water, E venne il giorno e L'ultimo dominatore dell'aria, ed il terrore - quello vero - ha cominciato a prendere possesso di noi.
Se, a tutto questo, si aggiunge l'irritante figura/voce narrante del già citato guardiano messicano ipercattolico - giuro che, nel pieno della sequenza in cui si inginocchia e prega in spagnolo per le persone intrappolate nell'ascensore in modo che sentano le preghiere dall'interfono l'avrei preso a bottigliate fino a farlo diventare ateo -, si poteva solo sperare che l'ora e venti segnalata come durata potesse scorrere il più velocemente possibile.
A non aiutare la pellicola, inoltre, giungono i background poco credibili dei cinque protagonisti e le descrizioni dei loro peccati - risibili, se si pensa che addirittura il diavolo si è scomodato per occuparsene di persona - nonchè il telefonatissimo colpo di scena che rivela l'identità del diavolo stesso - azzeccato dal sottoscritto prima ancora che i cinque entrassero nell'ascensore incriminato -, una sorta di versione scialbissima del Capolavoro di Agatha Christie Dieci piccoli indiani.
Viene quasi da pensare che lo sviluppo della vicenda avrebbe avuto più senso se, alla fine, si fosse rivelato solo ed esclusivamente umano, ma evidentemente la fascinazione del sovrannaturale era troppo forte per l'autore, libero così di confezionare un'altra storia in cui il male implicita l'esistenza uguale e contraria di un bene superiore, tradotto nell'inqualificabile collegamento tra il poliziotto a capo delle operazioni di soccorso e i cinque intrappolati, che apre la strada ad un finale che definire terribile appare riduttivo.
Una pellicola che, seppur non sua nella realizzazione pratica, è completamente, totalmente inquadrabile nello stile Shyamalan post-The village, ultimo lavoro davvero convincente di un regista ormai in perenne crisi mistica e così pieno di sè da non capire nemmeno più dove finisce la fiction - all'interno della quale è indiscusso, indiscutibile protagonista - e dove inizia la realtà - ossia: ad ogni suo nuovo prodotto, sperare che venga il diavolo a salvarti dalla pena -.
MrFord
"Please to meet you,
I hope you guessed my name."
Rolling stones - "Sympathy for the devil" -
lunedì 31 gennaio 2011
127 hours
La trama (con parole mie): Aron Ralston, giovane jackassiano appassionato di escursioni ed approcci "estremi", a seguito di una caduta rimane bloccato in un canyon con il braccio destro sotto un masso. Nessuno, famiglia o amici, sa dove sia andato, ed il nostro si ritroverà a fare i conti con se stesso e la possibilità concreta di lasciarci le penne fino a quando, centoventisette ore dopo la caduta, non deciderà di adottare una soluzione drastica.
Scegliere di girare un film stretto attorno ad un unico protagonista imprigionato per i tre quarti dello stesso può essere considerato, ad un tempo, coraggioso ed estremamente paraculo.
Del resto, il vecchio Danny Boyle ha capito, da qualche anno, come funzionano le dinamiche del mercato cinematografico statunitense, finendo per apparire come il più a stelle e strisce tra i registi anglosassoni: ci aveva provato anche ai tempi del successo di Trainspotting, con The beach, ma probabilmente il pubblico non era ancora maturo.
Con The millionaire e questo 127 hours, invece, la missione è riuscita alla perfezione: confezione in stile autoriale e tendente al videoclipparo, colonna sonora accattivante, immagini patinatissime - anche quelle finto sporche - e la tendenza a portare lo spettatore dalla sua parte con ogni mezzo disponibile.
Detto questo, così come fu per lo strapremiato The millionaire - comunque superiore a quest'ultimo lavoro del regista scozzese -, anche 127 hours non sfigura e si lascia guardare più che efficacemente, vincendo la scommessa di giocarsi un'ora e mezza di film drammatico in cui l'azione principale si svolge nel subconscio di Aron, che si amplifica, espande e contrae con il passare delle ore e la progressiva diminuzione di cibo, acqua e speranze.
Il merito della tenuta, nonostante quanto è stato scritto e detto, non va attribuito tanto a James Franco - che, onestamente, non mi pare affatto "da Oscar" -, quanto alle trovate visive e di sceneggiatura che il libro scritto dal reale Aron Ralston a proposito di quell'esperienza incredibile pare aver suggerito agli autori: personalmente ho adorato, nel pieno del delirio tra il quarto e il quinto giorno passati intrappolato nel canyon, il finto talk show imbastito dal protagonista per confrontarsi con le colpe, i ricordi ed il sopraggiungere di una morte che appare quasi inevitabile.
Meno interessanti, al contrario, i numerosi confronti con il se stesso bambino - legati ad un finale che definire ruffiano è più che riduttivo - e l'insistito gioco del "mi dispiace, vi voglio bene" legato ai ricordi dei genitori e all'aver insistito nel proseguire da solo per la propria strada, senza mai preoccuparsi di condividere davvero, anche solo idealmente, le avventure ed i loro rischi con qualcuno.
Più riuscita, invece, la parentesi tutta umana del ritorno del momento vissuto con le due ragazze conosciute poco prima dell'incidente, che poteva essere la vera chicca dell'intera pellicola se non fosse che Boyle - o Ralston, chi può dirlo!? - decide di ritrarre la mano - in tutti i sensi - appena prima di lanciare il sasso.
Peccato, perchè se il protagonista, con nessuna certezza ed una fine incombente, si fosse lanciato in una liberatoria, sofferta eppure estremamente distensiva e umana sega l'intera pellicola avrebbe compiuto il balzo che l'insistita, terribile sequenza dell'amputazione - ai limiti del gore - non riesce, nonostante l'impatto certo maggiore, tuttavia a permettere.
Resta un buon tentativo, quello di Boyle, ed il racconto di un'impresa davvero sovrumana che, ancora oggi, non ha spento lo spirito indomito di Ralston, eppure, rispetto a Grizzly man o La morte sospesa - pellicole simili per approccio ed entrambe legate ad imprese giocate al limite del possibile - il confronto pare clamorosamente, inesorabilmente impari.
MrFord
"Yes I'm stuck in the middle with you,
and I'm wondering what it is I should do,
it's so hard to keep this smile on my face,
losing control, yeah, I'm all over the place."
Stealers Wheel - "Stuck in the middle with you" -
Scegliere di girare un film stretto attorno ad un unico protagonista imprigionato per i tre quarti dello stesso può essere considerato, ad un tempo, coraggioso ed estremamente paraculo.
Del resto, il vecchio Danny Boyle ha capito, da qualche anno, come funzionano le dinamiche del mercato cinematografico statunitense, finendo per apparire come il più a stelle e strisce tra i registi anglosassoni: ci aveva provato anche ai tempi del successo di Trainspotting, con The beach, ma probabilmente il pubblico non era ancora maturo.
Con The millionaire e questo 127 hours, invece, la missione è riuscita alla perfezione: confezione in stile autoriale e tendente al videoclipparo, colonna sonora accattivante, immagini patinatissime - anche quelle finto sporche - e la tendenza a portare lo spettatore dalla sua parte con ogni mezzo disponibile.
Detto questo, così come fu per lo strapremiato The millionaire - comunque superiore a quest'ultimo lavoro del regista scozzese -, anche 127 hours non sfigura e si lascia guardare più che efficacemente, vincendo la scommessa di giocarsi un'ora e mezza di film drammatico in cui l'azione principale si svolge nel subconscio di Aron, che si amplifica, espande e contrae con il passare delle ore e la progressiva diminuzione di cibo, acqua e speranze.
Il merito della tenuta, nonostante quanto è stato scritto e detto, non va attribuito tanto a James Franco - che, onestamente, non mi pare affatto "da Oscar" -, quanto alle trovate visive e di sceneggiatura che il libro scritto dal reale Aron Ralston a proposito di quell'esperienza incredibile pare aver suggerito agli autori: personalmente ho adorato, nel pieno del delirio tra il quarto e il quinto giorno passati intrappolato nel canyon, il finto talk show imbastito dal protagonista per confrontarsi con le colpe, i ricordi ed il sopraggiungere di una morte che appare quasi inevitabile.
Meno interessanti, al contrario, i numerosi confronti con il se stesso bambino - legati ad un finale che definire ruffiano è più che riduttivo - e l'insistito gioco del "mi dispiace, vi voglio bene" legato ai ricordi dei genitori e all'aver insistito nel proseguire da solo per la propria strada, senza mai preoccuparsi di condividere davvero, anche solo idealmente, le avventure ed i loro rischi con qualcuno.
Più riuscita, invece, la parentesi tutta umana del ritorno del momento vissuto con le due ragazze conosciute poco prima dell'incidente, che poteva essere la vera chicca dell'intera pellicola se non fosse che Boyle - o Ralston, chi può dirlo!? - decide di ritrarre la mano - in tutti i sensi - appena prima di lanciare il sasso.
Peccato, perchè se il protagonista, con nessuna certezza ed una fine incombente, si fosse lanciato in una liberatoria, sofferta eppure estremamente distensiva e umana sega l'intera pellicola avrebbe compiuto il balzo che l'insistita, terribile sequenza dell'amputazione - ai limiti del gore - non riesce, nonostante l'impatto certo maggiore, tuttavia a permettere.
Resta un buon tentativo, quello di Boyle, ed il racconto di un'impresa davvero sovrumana che, ancora oggi, non ha spento lo spirito indomito di Ralston, eppure, rispetto a Grizzly man o La morte sospesa - pellicole simili per approccio ed entrambe legate ad imprese giocate al limite del possibile - il confronto pare clamorosamente, inesorabilmente impari.
MrFord
"Yes I'm stuck in the middle with you,
and I'm wondering what it is I should do,
it's so hard to keep this smile on my face,
losing control, yeah, I'm all over the place."
Stealers Wheel - "Stuck in the middle with you" -
sabato 29 gennaio 2011
The fighter
La trama (con parole mie): Micky Ward vive a Lowell, una sperduta cittadina della provincia americana, all'ombra del fratello Dicky, eterna promessa del pugilato professionistico, idolo locale perdutosi dietro a droga ed occasioni sprecate. Micky ha paura di vincere, suo fratello pensa di esserne fin troppo abituato. Fino a quando la famiglia si spacca e Micky decide di sfidare a viso aperto la vita e la carriera per la prima volta.
Forse avrei dovuto dormirci sopra.
Di certo, domattina alle sei, con i pesi in mano, rimpiangerò di non aver avuto più pazienza, di non aver riposato un'ora in più, di dover finire i miei allenamenti e poi andare al lavoro cercando di tirare fino a sera, in attesa della domenica.
Eppure, qualcosa mi ha spinto ad andare avanti.
Se volessi menarmela, direi che è lo spirito di chi non è abbastanza fortunato da avere tutto il talento che serve per arrivare in cima senza sforzo, e deve farsi il culo ogni giorno, tutti i giorni, per poter salire anche solo di un gradino.
Se volessi menarmela, giurerei che è Micky il protagonista di questo film, il fratello meno noto, quello che incassa e sorprende soltanto dopo essere arrivato a tanto così dalla resa.
Ma non è di lui, o almeno non solo, che parla The fighter.
Perchè Dicky, interpretato da un incredibile, magistrale Christian Bale, è quello che lotta più di tutti.
So che Cannibale - e forse anche io, sotto sotto - si sarebbe aspettato un post completamente mickycentrico, fordiano nel corpo e nello spirito, eppure sento il bisogno di guardare all'esterno, e tuffarmi in quello che è diverso dal sottoscritto, per cercare di scoprire cosa muove Dicky, cosa lo porta a confrontarsi con una vita enormemente più grande di lui e del suo talento. Un talento che Micky non ha, ne avrà mai.
Micky incassa, e risponde di rabbia. Dicky butta fuori ogni cosa, quasi non volesse tenersi dentro nulla, o non ne avesse bisogno.
Lo squilibrio tra i due fratelli è così incredibile da non sembrare quasi vero.
Eppure è così, può essere così, è così incredibilmente spesso.
E non ci sono parole, non c'è giusto, oppure no, c'è soltanto un legame che entrambi conoscono, e che, spesso e volentieri, non hanno bisogno di esplicitare agli altri, se non nel momento del bisogno.
Chi è il talento, e chi il lottatore?
Forse il mondo funziona al contrario, forse tutto sta da una parte, o dall'altra.
Passano per la mente le immagini de I padroni della notte.
Due fratelli, anche in quel caso.
Ed anche Mark Wahlberg.
Micky vive all'ombra di una famiglia che confonde il voler bene con il soffocamento e l'egoismo, tanto piena di merda da ricordarmi Million dollar baby.
Micky ha paura, continuamente: di vincere, di perdere, di essere se stesso o il fratello di suo fratello, il figlio di Lowell, cittadina sperduta nella più sperduta delle province americane. Roba da L'ultimo spettacolo.
Dicky ha la gloria locale dalla sua, ed il crack.
Acclamato per le strade, e sfruttato come un fenomeno da baraccone.
Dicky ha paura, perchè una vittoria inaspettata, giunta per caso, ha cambiato in peggio tutto quello che la sua vita poteva essere. Perchè quella stessa vittoria, ad uno ad uno, gli ha spaccato tutti i denti, neanche fosse il peggiore degli avversari.
Niente K.O. tecnico, niente knockout, niente spugna.
L'avversario più grande ti schiaffa alle corde, e ti martella di continuo.
Testa, corpo, testa, corpo.
Talento, o no, forse il segreto è continuare sempre a lottare.
Fino al momento giusto.
Anche The fighter è così.
Ha talento, ma non è un Capolavoro.
Ha cuore, ma non è Rocky.
Sta lì, nel mezzo, a prendere botte.
Un pò come me. Un pò come tutti.
E chissà che, a sorpresa, di fronte ai colossi meravigliosi di Nolan e Fincher, non riesca addirittura a vincere l'Oscar.
Senza dover arrivare ai punti.
MrFord
"Sempre lì,
lì nel mezzo,
finchè ce n'hai stai lì."
Ligabue - "Una vita da mediano" -
Forse avrei dovuto dormirci sopra.
Di certo, domattina alle sei, con i pesi in mano, rimpiangerò di non aver avuto più pazienza, di non aver riposato un'ora in più, di dover finire i miei allenamenti e poi andare al lavoro cercando di tirare fino a sera, in attesa della domenica.
Eppure, qualcosa mi ha spinto ad andare avanti.
Se volessi menarmela, direi che è lo spirito di chi non è abbastanza fortunato da avere tutto il talento che serve per arrivare in cima senza sforzo, e deve farsi il culo ogni giorno, tutti i giorni, per poter salire anche solo di un gradino.
Se volessi menarmela, giurerei che è Micky il protagonista di questo film, il fratello meno noto, quello che incassa e sorprende soltanto dopo essere arrivato a tanto così dalla resa.
Ma non è di lui, o almeno non solo, che parla The fighter.
Perchè Dicky, interpretato da un incredibile, magistrale Christian Bale, è quello che lotta più di tutti.
So che Cannibale - e forse anche io, sotto sotto - si sarebbe aspettato un post completamente mickycentrico, fordiano nel corpo e nello spirito, eppure sento il bisogno di guardare all'esterno, e tuffarmi in quello che è diverso dal sottoscritto, per cercare di scoprire cosa muove Dicky, cosa lo porta a confrontarsi con una vita enormemente più grande di lui e del suo talento. Un talento che Micky non ha, ne avrà mai.
Micky incassa, e risponde di rabbia. Dicky butta fuori ogni cosa, quasi non volesse tenersi dentro nulla, o non ne avesse bisogno.
Lo squilibrio tra i due fratelli è così incredibile da non sembrare quasi vero.
Eppure è così, può essere così, è così incredibilmente spesso.
E non ci sono parole, non c'è giusto, oppure no, c'è soltanto un legame che entrambi conoscono, e che, spesso e volentieri, non hanno bisogno di esplicitare agli altri, se non nel momento del bisogno.
Chi è il talento, e chi il lottatore?
Forse il mondo funziona al contrario, forse tutto sta da una parte, o dall'altra.
Passano per la mente le immagini de I padroni della notte.
Due fratelli, anche in quel caso.
Ed anche Mark Wahlberg.
Micky vive all'ombra di una famiglia che confonde il voler bene con il soffocamento e l'egoismo, tanto piena di merda da ricordarmi Million dollar baby.
Micky ha paura, continuamente: di vincere, di perdere, di essere se stesso o il fratello di suo fratello, il figlio di Lowell, cittadina sperduta nella più sperduta delle province americane. Roba da L'ultimo spettacolo.
Dicky ha la gloria locale dalla sua, ed il crack.
Acclamato per le strade, e sfruttato come un fenomeno da baraccone.
Dicky ha paura, perchè una vittoria inaspettata, giunta per caso, ha cambiato in peggio tutto quello che la sua vita poteva essere. Perchè quella stessa vittoria, ad uno ad uno, gli ha spaccato tutti i denti, neanche fosse il peggiore degli avversari.
Niente K.O. tecnico, niente knockout, niente spugna.
L'avversario più grande ti schiaffa alle corde, e ti martella di continuo.
Testa, corpo, testa, corpo.
Talento, o no, forse il segreto è continuare sempre a lottare.
Fino al momento giusto.
Anche The fighter è così.
Ha talento, ma non è un Capolavoro.
Ha cuore, ma non è Rocky.
Sta lì, nel mezzo, a prendere botte.
Un pò come me. Un pò come tutti.
E chissà che, a sorpresa, di fronte ai colossi meravigliosi di Nolan e Fincher, non riesca addirittura a vincere l'Oscar.
Senza dover arrivare ai punti.
MrFord
"Sempre lì,
lì nel mezzo,
finchè ce n'hai stai lì."
Ligabue - "Una vita da mediano" -
venerdì 28 gennaio 2011
Skyline
La trama (con parole mie): Due vecchi amici - uno ha fatto soldi e successo, l'altro ha trovato l'amore - si incontrano dopo tanto tempo per festeggiare un compleanno e pensare ad un futuro di nuovo in società. Peccato che, nell'intrigo da soap, vogliano proprio metterci lo zampino degli alieni cattivissimi e luminosi affamati di cervelli.
Onestamente pensavo, con A-Team, di aver raggiunto il vertice del ciarpame cinematografico, almeno per questo mese.
Invece no.
Perchè io ci tengo davvero, a tutti voi, e voglio sacrificarmi per impedirvi visioni al limite della decenza - e spesso oltre -.
Perchè sono coraggioso e stoico, e nonostante non avessi trovato nessuno, in rete e non, a parlarne bene, ho voluto tastare con mano.
Perchè sono un pò jackass, e dunque qualcosa di schifoso o almeno intimamente doloroso dovevo pur farlo.
Perchè fra i film richiesti al mulo nel pomeriggio, la scelta era tra questo e Checco Zalone.
Non lo so proprio, perchè.
Fatto sta che Skyline si può definire senza troppi patemi d'animo con una semplice, effettistica affermazione di fantozziana memoria: una cagata pazzesca.
Logica sottozero, ironia non pervenuta, effetti convenzionali, protagonisti piatti come lo schermo del televisore, idee poche e confuse, il tutto per un crescendo finale assolutamente indecente.
Quello che io dico è: ma se prima di te ci sono stati Cloverfield, The mist e District 9, e se vogliamo scendere di qualità anche Independence Day e La guerra dei mondi - che preferirei rivedere, piuttosto che incappare ancora in questo poco definibile prodotto -, perchè mai dovresti riciclare le idee di tutti quanti creando una sorta di ibrido senza capo ne coda e condirlo con personaggi pescati dal piccolo schermo - che fine hai fatto, povero Batista! Torna a Dexter, mi sa che ti conviene! - che neppure il peggiore dei cinepanettoni avrebbe il coraggio di avere nel cast!?
La cosa grave, oltretutto, è che l'impressione che passa dallo script e dalla regia, sia quella di un gruppo di autori molto, molto convinti del fatto di essere nuovi, talentuosi volti dell'industria cinematografica mondiale: giuro che il ralenti sull'inseguimento, l'avanti veloce a mostrare le ore passate intrappolati nell'appartamento e il bacio prima di essere risucchiati dall'astronave madre aliena hanno fatto vibrare la mia mano alla ricerca della bottiglia più grossa nei miei mobili bar, per dispensare un pò di sana giustizia nel nome della settima arte. Quella vera.
Come se non bastasse, in questo film gli alieni sono assolutamente lontani dalla simpatia ispirata dai gamberoni di Blomkamp così come dal sano terrore che il mostro di Cloverfield o i terribili animali usciti dalla nebbia in The mist ispiravano a più riprese nella platea.
Ma non sono ancora soddisfatto.
Se esistesse una divinità del Cinema pronta a vegliare dall'alto su tutti noi poveri spettatori, cose come questa non soltanto non troverebbero una distribuzione in sala, rimanendo così confinate nei salotti dei geni che le hanno confezionate, ma neppure un produttore sano di mente che possa pensare di investire denaro in un progetto che appare coraggioso soltanto nel momento in cui viene staccato l'assegno per il suo team di autori.
In tutto questo, però, una nota positiva c'è stata: grazie a Julez, la visione è stata accompagnata da uno splendido, splendido rum diciotto anni.
Quello sì, era un Capolavoro.
MrFord
"Fly away skyline pigeon fly,
towards the dreams,
you've left so very far behind."
Elton John - "Skyline pigeon" -
Onestamente pensavo, con A-Team, di aver raggiunto il vertice del ciarpame cinematografico, almeno per questo mese.
Invece no.
Perchè io ci tengo davvero, a tutti voi, e voglio sacrificarmi per impedirvi visioni al limite della decenza - e spesso oltre -.
Perchè sono coraggioso e stoico, e nonostante non avessi trovato nessuno, in rete e non, a parlarne bene, ho voluto tastare con mano.
Perchè sono un pò jackass, e dunque qualcosa di schifoso o almeno intimamente doloroso dovevo pur farlo.
Perchè fra i film richiesti al mulo nel pomeriggio, la scelta era tra questo e Checco Zalone.
Non lo so proprio, perchè.
Fatto sta che Skyline si può definire senza troppi patemi d'animo con una semplice, effettistica affermazione di fantozziana memoria: una cagata pazzesca.
Logica sottozero, ironia non pervenuta, effetti convenzionali, protagonisti piatti come lo schermo del televisore, idee poche e confuse, il tutto per un crescendo finale assolutamente indecente.
Quello che io dico è: ma se prima di te ci sono stati Cloverfield, The mist e District 9, e se vogliamo scendere di qualità anche Independence Day e La guerra dei mondi - che preferirei rivedere, piuttosto che incappare ancora in questo poco definibile prodotto -, perchè mai dovresti riciclare le idee di tutti quanti creando una sorta di ibrido senza capo ne coda e condirlo con personaggi pescati dal piccolo schermo - che fine hai fatto, povero Batista! Torna a Dexter, mi sa che ti conviene! - che neppure il peggiore dei cinepanettoni avrebbe il coraggio di avere nel cast!?
La cosa grave, oltretutto, è che l'impressione che passa dallo script e dalla regia, sia quella di un gruppo di autori molto, molto convinti del fatto di essere nuovi, talentuosi volti dell'industria cinematografica mondiale: giuro che il ralenti sull'inseguimento, l'avanti veloce a mostrare le ore passate intrappolati nell'appartamento e il bacio prima di essere risucchiati dall'astronave madre aliena hanno fatto vibrare la mia mano alla ricerca della bottiglia più grossa nei miei mobili bar, per dispensare un pò di sana giustizia nel nome della settima arte. Quella vera.
Come se non bastasse, in questo film gli alieni sono assolutamente lontani dalla simpatia ispirata dai gamberoni di Blomkamp così come dal sano terrore che il mostro di Cloverfield o i terribili animali usciti dalla nebbia in The mist ispiravano a più riprese nella platea.
Ma non sono ancora soddisfatto.
Se esistesse una divinità del Cinema pronta a vegliare dall'alto su tutti noi poveri spettatori, cose come questa non soltanto non troverebbero una distribuzione in sala, rimanendo così confinate nei salotti dei geni che le hanno confezionate, ma neppure un produttore sano di mente che possa pensare di investire denaro in un progetto che appare coraggioso soltanto nel momento in cui viene staccato l'assegno per il suo team di autori.
In tutto questo, però, una nota positiva c'è stata: grazie a Julez, la visione è stata accompagnata da uno splendido, splendido rum diciotto anni.
Quello sì, era un Capolavoro.
MrFord
"Fly away skyline pigeon fly,
towards the dreams,
you've left so very far behind."
Elton John - "Skyline pigeon" -
giovedì 27 gennaio 2011
Stylish Award
Muchas gracias, Alice.
Dopo la doppietta di Sunshine Awards, questo vecchio cowboy riesce anche non si sa come ad accaparrarsi un premio per lo stile, che ritira con gusto e festeggia con gioia.
Ora, le regole dello stesso premio dicono che dovrei svelare sette cose che non sapete di me, quindi cercherò di fare mente locale e proporvi qualche sugoso gossip in proposito, prima di passare ai dieci premiati dal sottoscritto:
1) Nonostante non sia proprio più un ragazzino, solo due settimane fa mi sono iscritto a scuola guida, nonostante della patente non mi sia mai fregato praticamente nulla.
2) Non solo non bevo birra e vino - soltanto superalcoolici per Ford -, ma neppure caffè.
3) Ho parlato, a volte, dei tatuaggi che sono ormai parte integrante ed in continua evoluzione del sottoscritto: fino ad ora mi sono sottoposto alla magica macchinetta tredici volte, anche se in realtà i tatuaggi effettivi sono otto - conto come uno l'intero braccio sinistro, in realtà frutto di quattro lavori differenti - e punto, come disse Jessie, il tatuatore inglese che a Barcellona mi impresse il secondo, a rispondere alla fatidica domanda del "quanti" con "just a big one".
4) Nel 2000 - come passa il tempo! - ho pubblicato un libro di racconti, e negli anni seguenti qualche fumetto come sceneggiatore.
5) Mi sento molto meglio quando guardo almeno un film al giorno - per il piacere di Julez -.
6) Suono o ho suonato - e badate bene, sempre male! - chitarra, basso e batteria.
7) Giusto per chiudere in bellezza ed italianità, mi diverto un sacco con il calcio, e sono milanista.
E ora che sapete qualcosa in più del sottoscritto, passo a premiare i miei dieci, stilosi vincitori:
- Julez, non soltanto perchè è la mia signora, ma perchè di stile ne ha da vendere, anche quando è la versione di casa Ford de "La mia ragazza mena".
- Cannibale, perchè se c'è un mio antagonista con quel fare irresistibile da Joker, è proprio lui.
- Vince, perchè anche quando non vince, lo fa con grande charme.
- Bert, perchè anche quando vince, lo fa con grande charme.
- Lorant, perchè il cappellino all'indietro come in Over the top è un must totale.
- Queen B, perchè anche se l'ha già vinto, non credo ne disdegnerà un altro.
- Ginger, perchè ha colto in pieno il mio spirito e mi pare proprio una tipa yeah.
- Evaluna, perchè è giovane, ma percorre un'ottima strada.
- Ottimista, perchè lo stile si traduce anche nel Cinema.
- Suara, perchè il kung fu non passa mai di moda.
Ecco fatto.
So che alcuni di voi saranno almeno lievemente disturbati dall'idea di proseguire la catena, ma io, che sparò YAWP e bottigliate a destra e a manca, me ne sbatto e vi premio lo stesso, perchè ve lo meritate.
MrFord
"I know that you like my style,
you can't get to turn you out,
everybody in the place get wild."
Black eyed peas - "My style" -
Dopo la doppietta di Sunshine Awards, questo vecchio cowboy riesce anche non si sa come ad accaparrarsi un premio per lo stile, che ritira con gusto e festeggia con gioia.
Ora, le regole dello stesso premio dicono che dovrei svelare sette cose che non sapete di me, quindi cercherò di fare mente locale e proporvi qualche sugoso gossip in proposito, prima di passare ai dieci premiati dal sottoscritto:
1) Nonostante non sia proprio più un ragazzino, solo due settimane fa mi sono iscritto a scuola guida, nonostante della patente non mi sia mai fregato praticamente nulla.
2) Non solo non bevo birra e vino - soltanto superalcoolici per Ford -, ma neppure caffè.
3) Ho parlato, a volte, dei tatuaggi che sono ormai parte integrante ed in continua evoluzione del sottoscritto: fino ad ora mi sono sottoposto alla magica macchinetta tredici volte, anche se in realtà i tatuaggi effettivi sono otto - conto come uno l'intero braccio sinistro, in realtà frutto di quattro lavori differenti - e punto, come disse Jessie, il tatuatore inglese che a Barcellona mi impresse il secondo, a rispondere alla fatidica domanda del "quanti" con "just a big one".
4) Nel 2000 - come passa il tempo! - ho pubblicato un libro di racconti, e negli anni seguenti qualche fumetto come sceneggiatore.
5) Mi sento molto meglio quando guardo almeno un film al giorno - per il piacere di Julez -.
6) Suono o ho suonato - e badate bene, sempre male! - chitarra, basso e batteria.
7) Giusto per chiudere in bellezza ed italianità, mi diverto un sacco con il calcio, e sono milanista.
E ora che sapete qualcosa in più del sottoscritto, passo a premiare i miei dieci, stilosi vincitori:
- Julez, non soltanto perchè è la mia signora, ma perchè di stile ne ha da vendere, anche quando è la versione di casa Ford de "La mia ragazza mena".
- Cannibale, perchè se c'è un mio antagonista con quel fare irresistibile da Joker, è proprio lui.
- Vince, perchè anche quando non vince, lo fa con grande charme.
- Bert, perchè anche quando vince, lo fa con grande charme.
- Lorant, perchè il cappellino all'indietro come in Over the top è un must totale.
- Queen B, perchè anche se l'ha già vinto, non credo ne disdegnerà un altro.
- Ginger, perchè ha colto in pieno il mio spirito e mi pare proprio una tipa yeah.
- Evaluna, perchè è giovane, ma percorre un'ottima strada.
- Ottimista, perchè lo stile si traduce anche nel Cinema.
- Suara, perchè il kung fu non passa mai di moda.
Ecco fatto.
So che alcuni di voi saranno almeno lievemente disturbati dall'idea di proseguire la catena, ma io, che sparò YAWP e bottigliate a destra e a manca, me ne sbatto e vi premio lo stesso, perchè ve lo meritate.
MrFord
"I know that you like my style,
you can't get to turn you out,
everybody in the place get wild."
Black eyed peas - "My style" -
Senza esclusione di colpi
La trama (con parole mie): Frank Dux, pilota dell'aviazione piuttosto indisciplinato nonchè esperto di arti marziali, fugge dagli Stati Uniti per recarsi a Hong Kong e partecipare al Kumite, un torneo internazionale illegale e, a volte, mortale per i suoi partecipanti.
Nonostante il perfido cattivo di turno, che ovviamente si scontrerà con lui nella finale della competizione, il caro, vecchio Van Damme saprà fare una sana dose di culo a tutti e a farsi amici anche i due ispettori dell'esercito sulle sue tracce per arrestarlo.
Avevo promesso questo post su un altro dei cult totali della mia infanzia, nonchè una delle vette trash più incredibili raggiunte da JCVD nel corso della sua carriera - insieme a Kickboxer è il mio preferito -, ed eccomi qui.
Senza esclusione di colpi è, per tutti gli appassionati di arti marziali e i ragazzini pre adolescenti, probabilmente, una delle pellicole di riferimento dell'epoca, e sono sicuro che riuscirebbe ad esserlo ancora oggi, se solo avesse l'adeguato spazio e una stramaledetta edizione in dvd - LO VOGLIO ASSOLUTAMENTE! -: ricordo quando lo vidi la prima volta, probabilmente attorno ai dieci/undici anni, con mio fratello, e già giudicavo poco credibili sequenze come il mattone sul fondo della pila fatto esplodere dallo Jean Claude di noi tutti colpendo il primo della pila stessa o il ridicolo impego dei due uomini dell'esercito sulle tracce del protagonista - mi piace ricordare che Forrest Whitaker, oggi uno degli attori più quotati di Hollywood, vincitore di un Academy ed interprete di pellicole indimenticabili come Ghost dog, ha iniziato da qui - come assurde, anche per un bamboccio totalmente in balia dell'immedesimazione con eroi invincibili e cazzutissimi come il sottoscritto era allora.
Eppure, oltre ad una memoria incredibile di quasi ogni scena - sarà che la videocassetta passò centinaia di volte nel nostro vecchio videoregistratore -, ancora oggi mi diverto e non poco a seguire le eliminazioni più o meno cruente del torneo, i combattimenti più veloci e quelli più drammatici, i due antagonisti e i molti lottatori di contorno che, visione dopo visione, hanno conquistato una fetta di cuore senza neppure troppa fatica - un nome su tutti, Paco, l'uomo della boxe thailandese: nessuna battuta, nessuna parola, eppure giunto fino in semifinale, a giocarsi contro il Nostro l'accesso alla finalissima -.
Certo, lo script e la stessa pellicola sono assolutamente ridicoli alla luce di un'analisi solo ed esclusivamente cinematografica - del resto Van Damme ha girato praticamente un unico film autorialmente degno di nota, JCVD, consigliatissimo, in tutta la sua carriera -, ma qui si parla principalmente di cuore e ricordi, e ad entrambi non si comanda, specie quando rimandano ad un periodo della vita quasi incantato, dove tutto poteva sembrare vero e gli eroi vincevano sempre le loro battaglie, anche dopo aver faticato ed aver sacrificato il più possibile di se stessi.
Ma ancora non era giunto il tempo di The wrestler, o del suddetto JCVD, e quei protagonisti a metà tra il ridicolo e l'invincibile, il grottesco ed il magico, non potevano - davvero, in nessun caso - patire anche solo la presenza lontana di una sconfitta, per mano della vita o del nemico di turno.
Se dovessi paragonarli alla Storia del Cinema, direi che prodotti come questo sono in tutto e per tutti figli di una golden age in cui tutto era possibile, ma che, con il mondo che è cambiato e il tempo che è passato, non si ripeterà mai più, almeno fino a quando saremo a nostra volta genitori, e seduti sul divano potremo mostrare ai figli in età pre adolescenziale quanto erano incredibili quei supereroi in carne ed ossa dei nostri tempi.
E approfittando dell'occasione, raccontare di quel film che diede origine al famoso calcio rotante di Van Damme, marchio di fabbrica che scandiva, come un orologio, la fine del combattimento decisivo.
MrFord
"It's a do or die situation - we will be invincible.
And with the power of conviction there is no sacrifice.
It's a do or die situation - we will be invincible."
Pat Benatar - "Invincible" -
Nonostante il perfido cattivo di turno, che ovviamente si scontrerà con lui nella finale della competizione, il caro, vecchio Van Damme saprà fare una sana dose di culo a tutti e a farsi amici anche i due ispettori dell'esercito sulle sue tracce per arrestarlo.
Avevo promesso questo post su un altro dei cult totali della mia infanzia, nonchè una delle vette trash più incredibili raggiunte da JCVD nel corso della sua carriera - insieme a Kickboxer è il mio preferito -, ed eccomi qui.
Senza esclusione di colpi è, per tutti gli appassionati di arti marziali e i ragazzini pre adolescenti, probabilmente, una delle pellicole di riferimento dell'epoca, e sono sicuro che riuscirebbe ad esserlo ancora oggi, se solo avesse l'adeguato spazio e una stramaledetta edizione in dvd - LO VOGLIO ASSOLUTAMENTE! -: ricordo quando lo vidi la prima volta, probabilmente attorno ai dieci/undici anni, con mio fratello, e già giudicavo poco credibili sequenze come il mattone sul fondo della pila fatto esplodere dallo Jean Claude di noi tutti colpendo il primo della pila stessa o il ridicolo impego dei due uomini dell'esercito sulle tracce del protagonista - mi piace ricordare che Forrest Whitaker, oggi uno degli attori più quotati di Hollywood, vincitore di un Academy ed interprete di pellicole indimenticabili come Ghost dog, ha iniziato da qui - come assurde, anche per un bamboccio totalmente in balia dell'immedesimazione con eroi invincibili e cazzutissimi come il sottoscritto era allora.
Eppure, oltre ad una memoria incredibile di quasi ogni scena - sarà che la videocassetta passò centinaia di volte nel nostro vecchio videoregistratore -, ancora oggi mi diverto e non poco a seguire le eliminazioni più o meno cruente del torneo, i combattimenti più veloci e quelli più drammatici, i due antagonisti e i molti lottatori di contorno che, visione dopo visione, hanno conquistato una fetta di cuore senza neppure troppa fatica - un nome su tutti, Paco, l'uomo della boxe thailandese: nessuna battuta, nessuna parola, eppure giunto fino in semifinale, a giocarsi contro il Nostro l'accesso alla finalissima -.
Certo, lo script e la stessa pellicola sono assolutamente ridicoli alla luce di un'analisi solo ed esclusivamente cinematografica - del resto Van Damme ha girato praticamente un unico film autorialmente degno di nota, JCVD, consigliatissimo, in tutta la sua carriera -, ma qui si parla principalmente di cuore e ricordi, e ad entrambi non si comanda, specie quando rimandano ad un periodo della vita quasi incantato, dove tutto poteva sembrare vero e gli eroi vincevano sempre le loro battaglie, anche dopo aver faticato ed aver sacrificato il più possibile di se stessi.
Ma ancora non era giunto il tempo di The wrestler, o del suddetto JCVD, e quei protagonisti a metà tra il ridicolo e l'invincibile, il grottesco ed il magico, non potevano - davvero, in nessun caso - patire anche solo la presenza lontana di una sconfitta, per mano della vita o del nemico di turno.
Se dovessi paragonarli alla Storia del Cinema, direi che prodotti come questo sono in tutto e per tutti figli di una golden age in cui tutto era possibile, ma che, con il mondo che è cambiato e il tempo che è passato, non si ripeterà mai più, almeno fino a quando saremo a nostra volta genitori, e seduti sul divano potremo mostrare ai figli in età pre adolescenziale quanto erano incredibili quei supereroi in carne ed ossa dei nostri tempi.
E approfittando dell'occasione, raccontare di quel film che diede origine al famoso calcio rotante di Van Damme, marchio di fabbrica che scandiva, come un orologio, la fine del combattimento decisivo.
MrFord
"It's a do or die situation - we will be invincible.
And with the power of conviction there is no sacrifice.
It's a do or die situation - we will be invincible."
Pat Benatar - "Invincible" -
mercoledì 26 gennaio 2011
A-Team
La trama (con parole mie): Liam Neeson - truccato peggio che in Scontro tra titani -, unito al belloccio di Alias, ad un caratterista misconosciuto e ad un tizio che incrocia il look da gangsta-rapper e quello delle star del football cercano di rivitalizzare il mito di una serie che fece furore in Italia negli anni ottanta. Già allora non mi sembrava qualcosa da ricordare.
Figuriamoci adesso, con protagonisti di questo genere.
E pensare che la serata prevedeva un filmone d'autore che prometteva scintille.
Per la precisione, I saw the devil, pellicola coreana corredata di vendetta che recupererò a breve.
E per quale motivo, dunque, si è finiti ad A-team, probabilmente uno degli action movie più brutti della Storia del Cinema?
Ribellione di chiavetta, purtroppo.
Perchè il probabilmente clamoroso film d'autore - chissà, sarà perchè orientale - ha deciso di avere problemi di comunicazione nel passaggio dal Mac al lettore bluray, costringendo casa Ford ad un repentino cambio di programma, nonchè donando al suggerimento di Julez il permesso di dirottare la mente sul meno impegnativo reboot del celebre telefilm della nostra infanzia, suggerito con ovvie probabilità dalla presenza di Bradley Cooper nel cast.
Risultato: Julez schifata dopo neppure un quarto d'ora con conseguente sonno dei giusti, ed io a consolarmi con robuste dosi di Jack Daniel's della visione tutto fuorchè idilliaca.
Logica da far impallidire anche il peggiore dei film del mio decennio preferito, ironia presente ma baluardo troppo fragile per una così incredibilmente robusta offensiva di cazzate accumulate una sopra l'altra come il più temibile degli arieti d'assedio in pieno stile attacco di Sauron a Minas Tirith - ammesso che, poi, si scriva così -, recitazione da far sembrare The tourist un saggio di tecnica drammatica, effetti speciali mediocri ed una sceneggiatura che neppure il peggiore dei Walker Texas Ranger avrebbe approvato per un episodio.
Certo, non c'è pretenziosità, e più di una risata scappa, anche perchè nessuno tra i protagonisti si prende davvero sul serio - e come potrebbe mai, del resto!? -, ma raramente mi è capitato di vedere un blockbuster così palesemente brutto - forse non così di rado, occorre ammetterlo - da lasciarmi senza parole anche rispetto ad una recensione "da demolizione".
Troppo poco per farmi davvero incazzare, troppo per essere raccontato in più di qualche riga.
Questo post mi ricorda un pò quello di Final destination 3D.
Certo, l'A-Team, a confronto, pare quasi Full metal jacket.
Ma solo in questo caso. E dopo qualche bicchiere. Molti. Sognando un cammeo di Mr. T.
Che, naturalmente, non arriva.
Tutto sommato, di piani ben riusciti non se ne vede proprio traccia.
MrFord
"One time for the plan
straight to the top,
I got the power in my hands,
yeah, live for the moment, be high."
J. Cole - "The plan" -
Figuriamoci adesso, con protagonisti di questo genere.
E pensare che la serata prevedeva un filmone d'autore che prometteva scintille.
Per la precisione, I saw the devil, pellicola coreana corredata di vendetta che recupererò a breve.
E per quale motivo, dunque, si è finiti ad A-team, probabilmente uno degli action movie più brutti della Storia del Cinema?
Ribellione di chiavetta, purtroppo.
Perchè il probabilmente clamoroso film d'autore - chissà, sarà perchè orientale - ha deciso di avere problemi di comunicazione nel passaggio dal Mac al lettore bluray, costringendo casa Ford ad un repentino cambio di programma, nonchè donando al suggerimento di Julez il permesso di dirottare la mente sul meno impegnativo reboot del celebre telefilm della nostra infanzia, suggerito con ovvie probabilità dalla presenza di Bradley Cooper nel cast.
Risultato: Julez schifata dopo neppure un quarto d'ora con conseguente sonno dei giusti, ed io a consolarmi con robuste dosi di Jack Daniel's della visione tutto fuorchè idilliaca.
Logica da far impallidire anche il peggiore dei film del mio decennio preferito, ironia presente ma baluardo troppo fragile per una così incredibilmente robusta offensiva di cazzate accumulate una sopra l'altra come il più temibile degli arieti d'assedio in pieno stile attacco di Sauron a Minas Tirith - ammesso che, poi, si scriva così -, recitazione da far sembrare The tourist un saggio di tecnica drammatica, effetti speciali mediocri ed una sceneggiatura che neppure il peggiore dei Walker Texas Ranger avrebbe approvato per un episodio.
Certo, non c'è pretenziosità, e più di una risata scappa, anche perchè nessuno tra i protagonisti si prende davvero sul serio - e come potrebbe mai, del resto!? -, ma raramente mi è capitato di vedere un blockbuster così palesemente brutto - forse non così di rado, occorre ammetterlo - da lasciarmi senza parole anche rispetto ad una recensione "da demolizione".
Troppo poco per farmi davvero incazzare, troppo per essere raccontato in più di qualche riga.
Questo post mi ricorda un pò quello di Final destination 3D.
Certo, l'A-Team, a confronto, pare quasi Full metal jacket.
Ma solo in questo caso. E dopo qualche bicchiere. Molti. Sognando un cammeo di Mr. T.
Che, naturalmente, non arriva.
Tutto sommato, di piani ben riusciti non se ne vede proprio traccia.
MrFord
"One time for the plan
straight to the top,
I got the power in my hands,
yeah, live for the moment, be high."
J. Cole - "The plan" -
martedì 25 gennaio 2011
Tutti i battiti del mio cuore
La trama (con parole mie): Il giovane Thomas, impegnato in traffici più o meno leciti legati all'industria immobiliare e allo sgombero di stabili sulle orme del padre, trova casualmente la via del ritorno al ricordo della madre concertista e coltiva il sogno di superare un'audizione che gli aprirebbe le porte di una nuova vita. Per riprendere confidenza con il pianoforte, si affida ad una giovane pianista cinese appena arrivata a Parigi: sarà un incontro destinato a cambiare la sua esistenza.
Il lavoro di Audiard, da sempre, pare profondamente legato al tema dell'incomunicabilità, sia essa espressa nelle difficoltà di rapporto con un padre - naturale o acquisito che sia -, della lingua, della fisicità o moralità dei suoi protagonisti: Il profeta, in questo senso - e in molti altri, a dire il vero -, pare segnare il momentaneo vertice creativo ed espressivo del regista, che aveva coraggiosamente gettato i semi poi raccolti con il suo ultimo, monumentale lavoro già nei precedenti Sulle mie labbra - assolutamente ottimo - e, appunto, Tutti i battiti del mio cuore.
Affidando l'importante parte del protagonista ad un incredibile Romain Duris - che continua a migliorare, dai tempi de L'appartamento spagnolo, nonostante non riesca proprio a riuscire a farmelo stare simpatico, per quanto poco conti questo, rispetto ad un attore, soprattutto se bravo - il regista sperimenta ed improvvisa quasi fosse uno strumentista della macchina da presa, giocando tutta la magia dell'opera sulle sensazioni, tramutandola in una sorta di diario emotivo in bilico tra musica ed immagini.
In questo senso il rapporto con il padre - un gigantesco Niels Arestrup, che il regista porterà saggiamente con sé nel già citato Il profeta - e con l'insegnante di pianoforte si sviluppano attraverso una passione che ribolle attraverso i gesti spesso nervosi e scostanti di Thomas, violento eppure timido, incerto eppure sicuro, fragile eppure pronto a portare sulle spalle pesi e segreti non suoi - la compagna del padre, i silenzi dell'insegnante, il ricordo della madre, i tradimenti dell'amico -.
Peccato solo che, nel gettarsi a capofitto e con così tanto fervore nell'affrontare l'incomunicabilità, Audiard - non ancora completamente esploso nella sua abilità di narratore - perda di vista la sceneggiatura ed i suoi raccordi più ancorati alla realtà, rendendola poco equilibrata dal punto di vista soprattutto temporale, rischiando di creare confusione nello spettatore che si concentri più sullo script che non su immagini o sensazioni.
Viene quasi da pensare che il sanguigno Jacques abbia voluto confezionare un prodotto indirizzato al solo cuore, escludendo ogni processo razionale o tecnico, pur facendo sfoggio di una padronanza invidiabile della tecnica stessa ed avvalendosi di collaboratori in grado di mantenere montaggio e fotografia a livelli troppo alti per essere improvvisati: un peccato, perchè questa controparte "sentimentale" di Sulle mie labbra - un prodotto decisamente più "ad orologeria" - poteva rivelarsi decisamente più esplosiva nella comunicazione di quanto non sia risultata.
Del resto, e quasi si sorride a pensarci, si tratta di una pellicola incentrata sull'incomunicabilità.
Un film a tratti durissimo, dolce e spietato come il suo protagonista.
Forse è assolutamente giusto che un'opera come questa sia profondamente imperfetta.
O forse lo dico soltanto perchè già so che Tutti i battiti del mio cuore è stato l'anticamera de Il profeta.
E scusate se è poco.
MrFord
"You know I feel it in my heartbeat,
it may feel old to you but to me it feels new."
Madonna - "Heartbeat" -
Il lavoro di Audiard, da sempre, pare profondamente legato al tema dell'incomunicabilità, sia essa espressa nelle difficoltà di rapporto con un padre - naturale o acquisito che sia -, della lingua, della fisicità o moralità dei suoi protagonisti: Il profeta, in questo senso - e in molti altri, a dire il vero -, pare segnare il momentaneo vertice creativo ed espressivo del regista, che aveva coraggiosamente gettato i semi poi raccolti con il suo ultimo, monumentale lavoro già nei precedenti Sulle mie labbra - assolutamente ottimo - e, appunto, Tutti i battiti del mio cuore.
Affidando l'importante parte del protagonista ad un incredibile Romain Duris - che continua a migliorare, dai tempi de L'appartamento spagnolo, nonostante non riesca proprio a riuscire a farmelo stare simpatico, per quanto poco conti questo, rispetto ad un attore, soprattutto se bravo - il regista sperimenta ed improvvisa quasi fosse uno strumentista della macchina da presa, giocando tutta la magia dell'opera sulle sensazioni, tramutandola in una sorta di diario emotivo in bilico tra musica ed immagini.
In questo senso il rapporto con il padre - un gigantesco Niels Arestrup, che il regista porterà saggiamente con sé nel già citato Il profeta - e con l'insegnante di pianoforte si sviluppano attraverso una passione che ribolle attraverso i gesti spesso nervosi e scostanti di Thomas, violento eppure timido, incerto eppure sicuro, fragile eppure pronto a portare sulle spalle pesi e segreti non suoi - la compagna del padre, i silenzi dell'insegnante, il ricordo della madre, i tradimenti dell'amico -.
Peccato solo che, nel gettarsi a capofitto e con così tanto fervore nell'affrontare l'incomunicabilità, Audiard - non ancora completamente esploso nella sua abilità di narratore - perda di vista la sceneggiatura ed i suoi raccordi più ancorati alla realtà, rendendola poco equilibrata dal punto di vista soprattutto temporale, rischiando di creare confusione nello spettatore che si concentri più sullo script che non su immagini o sensazioni.
Viene quasi da pensare che il sanguigno Jacques abbia voluto confezionare un prodotto indirizzato al solo cuore, escludendo ogni processo razionale o tecnico, pur facendo sfoggio di una padronanza invidiabile della tecnica stessa ed avvalendosi di collaboratori in grado di mantenere montaggio e fotografia a livelli troppo alti per essere improvvisati: un peccato, perchè questa controparte "sentimentale" di Sulle mie labbra - un prodotto decisamente più "ad orologeria" - poteva rivelarsi decisamente più esplosiva nella comunicazione di quanto non sia risultata.
Del resto, e quasi si sorride a pensarci, si tratta di una pellicola incentrata sull'incomunicabilità.
Un film a tratti durissimo, dolce e spietato come il suo protagonista.
Forse è assolutamente giusto che un'opera come questa sia profondamente imperfetta.
O forse lo dico soltanto perchè già so che Tutti i battiti del mio cuore è stato l'anticamera de Il profeta.
E scusate se è poco.
MrFord
"You know I feel it in my heartbeat,
it may feel old to you but to me it feels new."
Madonna - "Heartbeat" -
lunedì 24 gennaio 2011
The tourist
La trama (con parole mie): Angelina Jolie, che è sempre perfetta, inarrivabile e bellissima, tanto che non ce n'è uno che non si volti a guardarla, sceglie a caso su un treno un imbolsito Johnny Depp per far credere ai servizi segreti inglesi di essere ad un passo dalla cattura di un ladro più che ricercato. I due si rifugiano in un hotel di lusso a Venezia, dove un gangster cercherà di ammazzare la coppia per riavere i soldi che anche Scotland Yard vorrebbe per risanare il debito pubblico. Dimenticavo: gli italiani ci fanno proprio la figura dei mandolinai.
C'era una volta un regista giovane e di talento, che dopo anni di lavorazione portò sul grande schermo Le vite degli altri, uscito in sordina e divenuto, a furor di popolo e critica, la rivelazione cinematografica di un paio di stagioni fa: nonostante il non semplice connubio di autorialità ed emozione popolare la suddetta pellicola riesce a gestire i differenti gusti del pubblico, raccoglie premi e riconoscimenti a destra e a manca ed arriva perfino a conquistare l'Academy come miglior film straniero.
Indubbiamente - ma prima o poi ne parlerò - Le vite degli altri è un Capolavoro, di quelli che segnano un'epoca e sono destinati a divenire dei Classici, rafforzato nella sua potenza espressiva dal fatto di essere l'opera prima di questo poco più che trentenne cineasta dal nome parecchio complicato.
Così come il resto del mondo, i produttori a stelle e strisce sgranano gli occhi e pensano subito di affidare al talentuoso regista una pellicola dalla sorte controversa, che già era passata in più di una mano e che andava completata assolutamente, non fosse altro che le due star erano nientepopodimeno che Johnny Depp e Angelina Jolie.
Probabilmente nessuno dei produttori aveva però informato il simpatico autore ormai divenuto una stella che tutto si sarebbe ridotto ad essere un clamoroso, leccato, vuoto spot con la Jolie che sculetta senza requie pensando solo a farsi guardare e ad essere difficilmente sopportabile e Johnny Depp - probabilmente per intercessione di un Brad Pitt ingelosito - ad interpretare la versione settantenne sovrappeso di se stesso.
Raramente, lo posso dire con leggerezza e senza neppure essermi incazzato troppo, si incontrano pellicole brutte e nocive per il Cinema come questa, in cui un autore di talento, accecato dai soldi o soffocato dalla produzione, capace di portare in sala un miracolo quale indiscutibilmente è stato Le vite degli altri, finisca per partorire spazzatura di questo calibro: se non fosse per la confezione laccata e le cartoline da Venezia, The tourist potrebbe essere messo tranquillamente alla stregua dei nostri cinepanettoni, considerato che dietro la macchina da presa c'è qualcuno che, con una pellicola di questo genere, dovrebbe tranquillamente pulircisi dopo la più titanica e liberatoria delle cagate.
Ovviamente, questo per dirla come il Bardo.
Detto ciò, e dichiarato ufficialmente che, se solo l'avessi visto prima, questo film si sarebbe giocato il podio del peggio del 2010, passo ad analizzare brevemente quello che The tourist è, tecnicamente, passando oltre le mie personali impressioni in merito: regia vuota da spot televisivo, recitazione scadente, fotografia così finta da farci credere di essere finiti in uno spot di un gestore telefonico, logica non pervenuta - il ruolo di Depp e la rivelazione finale sono a dire poco ridicoli - e, per finire, e giusto per ringraziare di averci indorato la pillola e reso le acque della laguna di Venezia più pulite grazie ad incredibili effetti speciali, un sottile - neanche troppo - senso di superiorità rispetto a noi italiani pizzaspaghettimandolinomamma pervade clamorosamente la trama ed esplode a più riprese.
Così, gli attori nostrani coinvolti nel progetto si ritrovano a ricoprire gli incredibili ruoli di: un commissario dell'Interpol dallo spessore di un foglio di carta velina - Alessio Boni -, un carabiniere di quartiere che capisce al volo che quello che si sta gettando dal tetto è chiaramente un americano, e dopo essere dallo stesso erroneamente gettato nelle finte acque pulite di cui sopra lo apostrofa con un sonoro "Cornuto!" - Nino Frassica -, un nobile spadaccino che tenta un approccio ridicolo con la Jolie prima di essere clamorosamente rimbalzato e servito di un epico due di picche - Raoul Bova -, un portiere d'albergo non certo noto per la sua arguzia - Neri Marcorè -, per chiudere la carrellata con Christian DeSica - qualcuno aveva detto cinepanettoni? - che, giusto perchè è quello tra i cinque che recita meglio in questo caso, si guadagna i gradi di commissario corrotto pronto a vendere anche la madre alla prima bustarella.
Chapeau, come si dice in questi casi.
Meno male che siamo italiani, ci ridiamo su e forse, sotto sotto, sappiamo che di meritarci la Canalis in Leverage e carrellate di dubbio gusto come questa.
In fondo, è tutto perfettamente in linea con l'immagine politica che diamo all'estero.
Ma questa è un'altra storia.
Che contende a The tourist il podio per quale delle due sia più squallida.
MrFord
"Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare,
la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi
Venezia la vende ai turisti."
Francesco Guccini - "Venezia" -
C'era una volta un regista giovane e di talento, che dopo anni di lavorazione portò sul grande schermo Le vite degli altri, uscito in sordina e divenuto, a furor di popolo e critica, la rivelazione cinematografica di un paio di stagioni fa: nonostante il non semplice connubio di autorialità ed emozione popolare la suddetta pellicola riesce a gestire i differenti gusti del pubblico, raccoglie premi e riconoscimenti a destra e a manca ed arriva perfino a conquistare l'Academy come miglior film straniero.
Indubbiamente - ma prima o poi ne parlerò - Le vite degli altri è un Capolavoro, di quelli che segnano un'epoca e sono destinati a divenire dei Classici, rafforzato nella sua potenza espressiva dal fatto di essere l'opera prima di questo poco più che trentenne cineasta dal nome parecchio complicato.
Così come il resto del mondo, i produttori a stelle e strisce sgranano gli occhi e pensano subito di affidare al talentuoso regista una pellicola dalla sorte controversa, che già era passata in più di una mano e che andava completata assolutamente, non fosse altro che le due star erano nientepopodimeno che Johnny Depp e Angelina Jolie.
Probabilmente nessuno dei produttori aveva però informato il simpatico autore ormai divenuto una stella che tutto si sarebbe ridotto ad essere un clamoroso, leccato, vuoto spot con la Jolie che sculetta senza requie pensando solo a farsi guardare e ad essere difficilmente sopportabile e Johnny Depp - probabilmente per intercessione di un Brad Pitt ingelosito - ad interpretare la versione settantenne sovrappeso di se stesso.
Raramente, lo posso dire con leggerezza e senza neppure essermi incazzato troppo, si incontrano pellicole brutte e nocive per il Cinema come questa, in cui un autore di talento, accecato dai soldi o soffocato dalla produzione, capace di portare in sala un miracolo quale indiscutibilmente è stato Le vite degli altri, finisca per partorire spazzatura di questo calibro: se non fosse per la confezione laccata e le cartoline da Venezia, The tourist potrebbe essere messo tranquillamente alla stregua dei nostri cinepanettoni, considerato che dietro la macchina da presa c'è qualcuno che, con una pellicola di questo genere, dovrebbe tranquillamente pulircisi dopo la più titanica e liberatoria delle cagate.
Ovviamente, questo per dirla come il Bardo.
Detto ciò, e dichiarato ufficialmente che, se solo l'avessi visto prima, questo film si sarebbe giocato il podio del peggio del 2010, passo ad analizzare brevemente quello che The tourist è, tecnicamente, passando oltre le mie personali impressioni in merito: regia vuota da spot televisivo, recitazione scadente, fotografia così finta da farci credere di essere finiti in uno spot di un gestore telefonico, logica non pervenuta - il ruolo di Depp e la rivelazione finale sono a dire poco ridicoli - e, per finire, e giusto per ringraziare di averci indorato la pillola e reso le acque della laguna di Venezia più pulite grazie ad incredibili effetti speciali, un sottile - neanche troppo - senso di superiorità rispetto a noi italiani pizzaspaghettimandolinomamma pervade clamorosamente la trama ed esplode a più riprese.
Così, gli attori nostrani coinvolti nel progetto si ritrovano a ricoprire gli incredibili ruoli di: un commissario dell'Interpol dallo spessore di un foglio di carta velina - Alessio Boni -, un carabiniere di quartiere che capisce al volo che quello che si sta gettando dal tetto è chiaramente un americano, e dopo essere dallo stesso erroneamente gettato nelle finte acque pulite di cui sopra lo apostrofa con un sonoro "Cornuto!" - Nino Frassica -, un nobile spadaccino che tenta un approccio ridicolo con la Jolie prima di essere clamorosamente rimbalzato e servito di un epico due di picche - Raoul Bova -, un portiere d'albergo non certo noto per la sua arguzia - Neri Marcorè -, per chiudere la carrellata con Christian DeSica - qualcuno aveva detto cinepanettoni? - che, giusto perchè è quello tra i cinque che recita meglio in questo caso, si guadagna i gradi di commissario corrotto pronto a vendere anche la madre alla prima bustarella.
Chapeau, come si dice in questi casi.
Meno male che siamo italiani, ci ridiamo su e forse, sotto sotto, sappiamo che di meritarci la Canalis in Leverage e carrellate di dubbio gusto come questa.
In fondo, è tutto perfettamente in linea con l'immagine politica che diamo all'estero.
Ma questa è un'altra storia.
Che contende a The tourist il podio per quale delle due sia più squallida.
MrFord
"Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare,
la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi
Venezia la vende ai turisti."
Francesco Guccini - "Venezia" -
Misfits Stagione 2
La trama (con parole mie): dopo l'incredibile finale della prima stagione e la rivelazione del potere di Nathan, i nostri cinque ragazzacci del community service dovranno fronteggiare nuovi, non sempre piacevoli dilemmi nel corso di questa nuova stagione. Chi è il misterioso uomo mascherato che pare proteggerli? Cosa accadrà ora che è morta anche la seconda sorvegliante? La tempesta che ha donato loro i poteri porterà nuovi personaggi ad incrociare il cammino dei nostri?
Quando, non troppo tempo fa, parlai della prima stagione di questo incredibile serial, non esitai a dichiarare quanto possa essere difficile, nell'ambito del piccolo schermo, riuscire a confezionare un prodotto fresco, intelligente, ben realizzato e in grado di colpire lo spettatore inchiodandolo alla poltrona episodio dopo episodio.
Ancora più ardua è l'impresa di ripetersi, dopo una prima stagione convincente, riuscendo anche a migliorare la già elevatissima qualità del prodotto.
Ebbene, con Misfits i risultati e le aspettative sono stati ampiamente soddisfatti.
Senza dubbio, e lo dico con una leggerezza che rende questa serie la vera sorpresa dell'anno appena iniziato, posso dire di essere di fronte al miglior prodotto pensato per la tv dagli esordi illustri di Lost e Dexter, in grado di battersi alla pari - se non superare - il mio tanto adorato True blood.
Dunque, come è stato reso possibile questo miracolo?
Innanzitutto, un taglio incredibilmente originale ed estrema intelligenza e tecnica che sprizzano da ogni aspetto della serie, a partire dalla sigla per passare a regia, sceneggiatura - si migliora la già ottima qualità di quella della prima stagione, e si pongono le basi per una terza da attendere con il fiato sospeso -, montaggio e ritmo, nonchè un umorismo scorrettissimo ma mai davvero volgare - più o meno - ed una caratterizzazione dei personaggi - dai protagonisti ai "cattivi di turno", geniale l'uomo del latte - che nel linguaggio tecnico di noi cinefili si può tradurre nello specifico con due parole: DA PAURA.
Simon, già mio idolo personale nel corso della prima stagione, cresce a dismisura nel corso di queste nuove sette puntate, divenendo a tutti gli effetti il mio favorito, senza contare il fatto che, in canotta nera e con i pesi in mano, provoca nel sottoscritto un'automatica sensazione di immedesimazione.
Curtis e Kelly, più in ombra rispetto alla prima annata, riescono a ritagliarsi comunque uno spazio importante, il primo come una sorta di evoluzione di quello che Hiro Nakamura e Desmond erano stati per Heroes quando ancora era una serie vera e Lost, che serie vera è sempre stata; la seconda in quanto vero e proprio cuore - ma anche pancia, parlando pane e salame - dell'intero gruppo.
Alisha, che al contrario dei due appena citati aveva avuto - forse anche per colpa del suo potere - uno spazio minore, letteralmente esplode divenendo il cardine dell'evoluzione di Simon, nonchè un personaggio a tutto tondo dalle profondità inaspettate, e non la superficiale di poco conto inquadrata solo ed esclusivamente per le tette che ci si sarebbe potuti aspettare.
E poi, c'è Nathan.
Non è possibile descrivere con termini da comune mortale un personaggio come Nathan.
Si potrebbe definire geniale, imprevedibile, brillante, o più propriamente un vero coglione.
Fatto sta che siamo di fronte, in questo caso, al charachter più innovativo e stupefacente attualmente presente nel panorama del piccolo schermo.
Nathan rappresenta l'emblema perfetto di ciò che, in definitiva, è questa incredibile serie: giovane, irriverente, acuta, scorretta - lo speciale legato al Nachele è quanto di più splendidamente anticattolico mi sia capitato di vedere nel passato recente, roba che sarebbe piaciuta a Bunuel, cazzo! -, emotivamente coinvolgente e dannatamente sorprendente nel ribaltare ed incastrare i pezzi episodio dopo episodio, sorprendendo, divertendo e rimanendo sempre nell'ambito della logica, pur restando a tutti gli effetti una serie incentrata su gente con superpoteri ereditati da una tempesta capace di generare grandine grossa quanto un cocomero.
Inutile dire che, a questo punto, in casa Ford attendiamo trepidanti la terza stagione, il prossimo inverno, per quella che potrebbe rivelarsi come la serie numero uno di questo 2011, e chissà, forse anche di più.
Di certo, Simon e soprattutto Nathan hanno fra le mani il potere più grande di tutti: rimpiazzare, nel cuore del sottoscritto, la perdita del mio lostiano omonimo Sawyer.
Considerate le sorprese che è stato in grado di riservare il primo e l'incredibile propensione alla battuta cattiva e fuori luogo del secondo - sfido chiunque e qualunque sceneggiatore a trovare una cosa più geniale della "tripletta" -, i numeri per raggiungere il Maestro ci sono tutti.
Quindi, cari Misfits, tirate fuori il peggio.
Noi siamo pronti, e non vediamo l'ora di conoscere quali saranno, la prossima volta, i vostri poteri.
Gli altri.
Perchè quello di conquistarci l'avevate già di natura.
MrFord
"The city breathing
the people churning
the conversating
the price is what!?"
The rapture - "Echoes" -
Quando, non troppo tempo fa, parlai della prima stagione di questo incredibile serial, non esitai a dichiarare quanto possa essere difficile, nell'ambito del piccolo schermo, riuscire a confezionare un prodotto fresco, intelligente, ben realizzato e in grado di colpire lo spettatore inchiodandolo alla poltrona episodio dopo episodio.
Ancora più ardua è l'impresa di ripetersi, dopo una prima stagione convincente, riuscendo anche a migliorare la già elevatissima qualità del prodotto.
Ebbene, con Misfits i risultati e le aspettative sono stati ampiamente soddisfatti.
Senza dubbio, e lo dico con una leggerezza che rende questa serie la vera sorpresa dell'anno appena iniziato, posso dire di essere di fronte al miglior prodotto pensato per la tv dagli esordi illustri di Lost e Dexter, in grado di battersi alla pari - se non superare - il mio tanto adorato True blood.
Dunque, come è stato reso possibile questo miracolo?
Innanzitutto, un taglio incredibilmente originale ed estrema intelligenza e tecnica che sprizzano da ogni aspetto della serie, a partire dalla sigla per passare a regia, sceneggiatura - si migliora la già ottima qualità di quella della prima stagione, e si pongono le basi per una terza da attendere con il fiato sospeso -, montaggio e ritmo, nonchè un umorismo scorrettissimo ma mai davvero volgare - più o meno - ed una caratterizzazione dei personaggi - dai protagonisti ai "cattivi di turno", geniale l'uomo del latte - che nel linguaggio tecnico di noi cinefili si può tradurre nello specifico con due parole: DA PAURA.
Simon, già mio idolo personale nel corso della prima stagione, cresce a dismisura nel corso di queste nuove sette puntate, divenendo a tutti gli effetti il mio favorito, senza contare il fatto che, in canotta nera e con i pesi in mano, provoca nel sottoscritto un'automatica sensazione di immedesimazione.
Curtis e Kelly, più in ombra rispetto alla prima annata, riescono a ritagliarsi comunque uno spazio importante, il primo come una sorta di evoluzione di quello che Hiro Nakamura e Desmond erano stati per Heroes quando ancora era una serie vera e Lost, che serie vera è sempre stata; la seconda in quanto vero e proprio cuore - ma anche pancia, parlando pane e salame - dell'intero gruppo.
Alisha, che al contrario dei due appena citati aveva avuto - forse anche per colpa del suo potere - uno spazio minore, letteralmente esplode divenendo il cardine dell'evoluzione di Simon, nonchè un personaggio a tutto tondo dalle profondità inaspettate, e non la superficiale di poco conto inquadrata solo ed esclusivamente per le tette che ci si sarebbe potuti aspettare.
E poi, c'è Nathan.
Non è possibile descrivere con termini da comune mortale un personaggio come Nathan.
Si potrebbe definire geniale, imprevedibile, brillante, o più propriamente un vero coglione.
Fatto sta che siamo di fronte, in questo caso, al charachter più innovativo e stupefacente attualmente presente nel panorama del piccolo schermo.
Nathan rappresenta l'emblema perfetto di ciò che, in definitiva, è questa incredibile serie: giovane, irriverente, acuta, scorretta - lo speciale legato al Nachele è quanto di più splendidamente anticattolico mi sia capitato di vedere nel passato recente, roba che sarebbe piaciuta a Bunuel, cazzo! -, emotivamente coinvolgente e dannatamente sorprendente nel ribaltare ed incastrare i pezzi episodio dopo episodio, sorprendendo, divertendo e rimanendo sempre nell'ambito della logica, pur restando a tutti gli effetti una serie incentrata su gente con superpoteri ereditati da una tempesta capace di generare grandine grossa quanto un cocomero.
Inutile dire che, a questo punto, in casa Ford attendiamo trepidanti la terza stagione, il prossimo inverno, per quella che potrebbe rivelarsi come la serie numero uno di questo 2011, e chissà, forse anche di più.
Di certo, Simon e soprattutto Nathan hanno fra le mani il potere più grande di tutti: rimpiazzare, nel cuore del sottoscritto, la perdita del mio lostiano omonimo Sawyer.
Considerate le sorprese che è stato in grado di riservare il primo e l'incredibile propensione alla battuta cattiva e fuori luogo del secondo - sfido chiunque e qualunque sceneggiatore a trovare una cosa più geniale della "tripletta" -, i numeri per raggiungere il Maestro ci sono tutti.
Quindi, cari Misfits, tirate fuori il peggio.
Noi siamo pronti, e non vediamo l'ora di conoscere quali saranno, la prossima volta, i vostri poteri.
Gli altri.
Perchè quello di conquistarci l'avevate già di natura.
MrFord
"The city breathing
the people churning
the conversating
the price is what!?"
The rapture - "Echoes" -
sabato 22 gennaio 2011
Ghostbusters
La trama (con parole mie): tre curiosi ricercatori, espulsi dall'università dalla quale si fanno bellamente mantenere, decidono di vendere la casa del più bonaccione e mettersi in affari come acchiappafantasmi. Non immaginano neppure che un'antica divinità sumerica sta progettando un rientro in grande stile a New York e che toccherà a loro salvare il mondo.
Questo è uno di quei casi in cui bisogna mettere subito in chiaro le cose: se non avete visto Ghostbusters - passi per il secondo, comunque godibile, ma non per il primo - partono immantinente sonore bottigliate che proseguiranno inesorabilmente fino all'avvenuta visione.
Uno dei miei personali cult dell'infanzia - un altro!? Vi starete chiedendo -, frutto di innumerevoli ore passate d'inverno, in montagna, quando ancora si andava a scuola ed esistevano le vacanze di Natale - no, non i cinepanettoni, le vacanze vere: quelle a latte e biscotti, neve fuori e il fuoco della stufa ad illuminare l'unica notte in cui non riuscivo a dormire dell'anno -, ad inventarsi marchingegni montando pezzi di giocattoli o attrezzi di vario genere per sostituire gli zaini protonici per poi costringere mio fratello ad improvvisarsi con me acchiappafantasmi e girare per casa alla ricerca dei residui lasciati dagli ectoplasmi - in genere bagno schiuma - utilizzando il visore per individuare gli ectoplasmi stessi- una vecchia maschera per immersioni -.
A quei tempi - dovevo avere nove o dieci anni -, ricordavo Sigourney Weaver perchè, non so come, mi era già capitato, con immenso terrore, di vedere Alien, e non avevo assolutamente idea di chi fosse quel signore stempiato dallo sguardo da zio scapolo che poi si rivelò essere Bill Murray.
Eppure, in qualche modo, avevo già scelto che il mio riferimento all'interno del team sarebbe stato, inesorabilmente, Peter Venkman.
L'amarcord suscitato dall'incredibile carica emozionale che questa pellicola ha ancora rispetto al sottoscritto non nasconde, come per altri cult appartenenti alla mia infanzia - in termini di età e come spettatore - limitazioni tecniche terribili o trucchi da discount del Cinema, anche perchè, visto e rivisto ancora oggi, Ghostbusters non solo conserva le sue potenzialità, ma si rivela come un ottimo prodotto fantasy, in grado di intrattenere e, perchè no, spaventare - la prima volta che mi trovai faccia a faccia con la scena di Zool me la feci metaforicamente addosso -, nonchè stimolare una più che naturale simpatia per questi particolarissimi investigatori e disinfestatori dell'occulto nella loro lotta contro burocrati e divinità con mire espansionistiche globali.
Peter, Ray, Egon e Winston, seppur attraverso caratterizzazioni elementari, spaccano al volo lo schermo e diventano immediatamente parte del pubblico, così come il pubblico diviene tutt'uno con loro, dall'irresistibile sequenza della caccia a Slimer nell'hotel di lusso al confronto con la divinità reincarnatasi nell'omino della pubblicità dei marshmallow - che, ancora oggi, adoro alla follia, tanto da desiderare segretamente che, prima o poi, il pupazzone bianco vestito da marinaio improvvisi un attacco nel centro di Milano durante una mia comune giornata lavorativa -.
Una pellicola, dunque, da recuperare in assoluto come modello di quello che dovrebbe essere, a tutti gli effetti, il Cinema d'intrattenimento per tutta la famiglia, come i vecchi giochi da tavolo evergreen, dai quattro anni in su, quando con su si intende fino al secolo suonato.
Del resto, "se piove merda, e qualcuno deve metterci un ombrello... E chi chiamerai!?"
Ok, questa era del secondo, ma credo sia perfetta per descrivere questi strampalati paladini.
E ricordate: mai incrociare i flussi.
Tranne quando serve.
MrFord
"If there's something strange
in your neighborhood,
who you gonna call?
Ghostbusters!"
Ray Parker - "Ghostbusters" -
Questo è uno di quei casi in cui bisogna mettere subito in chiaro le cose: se non avete visto Ghostbusters - passi per il secondo, comunque godibile, ma non per il primo - partono immantinente sonore bottigliate che proseguiranno inesorabilmente fino all'avvenuta visione.
Uno dei miei personali cult dell'infanzia - un altro!? Vi starete chiedendo -, frutto di innumerevoli ore passate d'inverno, in montagna, quando ancora si andava a scuola ed esistevano le vacanze di Natale - no, non i cinepanettoni, le vacanze vere: quelle a latte e biscotti, neve fuori e il fuoco della stufa ad illuminare l'unica notte in cui non riuscivo a dormire dell'anno -, ad inventarsi marchingegni montando pezzi di giocattoli o attrezzi di vario genere per sostituire gli zaini protonici per poi costringere mio fratello ad improvvisarsi con me acchiappafantasmi e girare per casa alla ricerca dei residui lasciati dagli ectoplasmi - in genere bagno schiuma - utilizzando il visore per individuare gli ectoplasmi stessi- una vecchia maschera per immersioni -.
A quei tempi - dovevo avere nove o dieci anni -, ricordavo Sigourney Weaver perchè, non so come, mi era già capitato, con immenso terrore, di vedere Alien, e non avevo assolutamente idea di chi fosse quel signore stempiato dallo sguardo da zio scapolo che poi si rivelò essere Bill Murray.
Eppure, in qualche modo, avevo già scelto che il mio riferimento all'interno del team sarebbe stato, inesorabilmente, Peter Venkman.
L'amarcord suscitato dall'incredibile carica emozionale che questa pellicola ha ancora rispetto al sottoscritto non nasconde, come per altri cult appartenenti alla mia infanzia - in termini di età e come spettatore - limitazioni tecniche terribili o trucchi da discount del Cinema, anche perchè, visto e rivisto ancora oggi, Ghostbusters non solo conserva le sue potenzialità, ma si rivela come un ottimo prodotto fantasy, in grado di intrattenere e, perchè no, spaventare - la prima volta che mi trovai faccia a faccia con la scena di Zool me la feci metaforicamente addosso -, nonchè stimolare una più che naturale simpatia per questi particolarissimi investigatori e disinfestatori dell'occulto nella loro lotta contro burocrati e divinità con mire espansionistiche globali.
Peter, Ray, Egon e Winston, seppur attraverso caratterizzazioni elementari, spaccano al volo lo schermo e diventano immediatamente parte del pubblico, così come il pubblico diviene tutt'uno con loro, dall'irresistibile sequenza della caccia a Slimer nell'hotel di lusso al confronto con la divinità reincarnatasi nell'omino della pubblicità dei marshmallow - che, ancora oggi, adoro alla follia, tanto da desiderare segretamente che, prima o poi, il pupazzone bianco vestito da marinaio improvvisi un attacco nel centro di Milano durante una mia comune giornata lavorativa -.
Una pellicola, dunque, da recuperare in assoluto come modello di quello che dovrebbe essere, a tutti gli effetti, il Cinema d'intrattenimento per tutta la famiglia, come i vecchi giochi da tavolo evergreen, dai quattro anni in su, quando con su si intende fino al secolo suonato.
Del resto, "se piove merda, e qualcuno deve metterci un ombrello... E chi chiamerai!?"
Ok, questa era del secondo, ma credo sia perfetta per descrivere questi strampalati paladini.
E ricordate: mai incrociare i flussi.
Tranne quando serve.
MrFord
"If there's something strange
in your neighborhood,
who you gonna call?
Ghostbusters!"
Ray Parker - "Ghostbusters" -
venerdì 21 gennaio 2011
Boogie nights
La trama (con parole mie): Siamo alla fine degli anni settanta. Eddie Adams, giovane cameriere di belle speranze, viene notato da Jack Horner, regista di film a luci rosse, e lanciato come nuova stella nel firmamento del porno. Per Eddie, ormai Dirk Diggler, sarà come realizzare un sogno e ritrovare una famiglia. Ma la strada per capire a cosa davvero appartenga sarà molto più ardua di quanto non sembri.
Altman non è un modello facile da seguire.
Il rischio di apparire poco più di una pallida imitazione è sempre grande, di fronte ai Maestri.
Ma - e ormai, con il senno di poi, a noi è evidente - Paul Thomas Anderson non è fra quelli che si spaventano facilmente, e anzi, l'idea di una sfida così grande, probabilmente, lo stimola a rendere il meglio.
Nonostante l'ulteriore evoluzione sullo stesso tema del successivo Magnolia, o la perfezione stilistica de Il petroliere, continuo a considerare, infatti, visione dopo visione, Boogie nights come il miglior lavoro del regista: appassionato ed energico quanto scaltro e ricco di citazioni - la mia preferita resta quella di Omicidio a luci rosse, con una scena praticamente replicata -, originale quanto rispettoso delle sue fonti d'ispirazione, studiato a tavolino eppure estremamente spontaneo.
La storia di Eddie Adams/Dirk Diggler non è solo un omaggio ad un genere praticamente mai considerato da critica e pubblico cinematografico, nonchè uno dei più difficili da gestire, proprio nel suo rapporto con l'audience, in assoluto - in fondo, su un porno di un'ora e mezza, quanti sfiorano anche solo il pensiero di arrivare alla fine? -, ma anche e soprattutto una parabola legata al successo e al sogno americano, alla famiglia e alle disfunzioni che essa comporta e ripara, inevitabilmente.
Il tutto con riferimenti evidenti al succitato Altman, a Scorsese, DePalma e Tarantino, una colonna sonora da urlo, tecnica sopraffina - almeno un paio di piani sequenza memorabili - e la capacità di creare un rapporto con il pubblico giocato sull'approfondimento e l'affetto per i personaggi così come sulla tensione - sia essa drammatica, quasi surreale o giocata su temi che si potrebbero definire da commedia - che pare accumularsi giusto in tempo per esplodere nelle due grandi scene madri della pellicola.
E proprio alle suddette devo il grande amore che provo per questo film: il crescendo e l'incrocio della sparatoria nel negozio di donuts - omaggio più che dichiarato a Le iene -, il pestaggio di Dirk da parte della banda di omofobi e lo scontro tra Jack e Rollergirl e l'universitario spocchioso è degno del miglior Inarritu, ed anche di più, e rappresenta il punto più basso raggiunto dalla grande famiglia Horner, insieme allo sconforto da cocaina della stessa Rollergirl e della magnifica Maggie interpretata da una strepitosa Julienne Moore.
E dopo essersi immersi nelle loro storie che si incrociano, pare inevitabile provare un moto di partecipazione alle loro vicende così incredibilmente vicine a quella che è la nostra realtà quotidiana, nonostante il successo e i sogni di gloria: in fondo, pare suggerire Anderson, sono come tutti noi.
E quando il sogno si spezza, o rischia di riportarci ad una sveglia troppo brusca, capiamo bene il sapore acido che lascia in bocca: quello del fallimento e della caduta, che prima o poi, nella vita, toccano chiunque, anche chi pareva destinato solo al successo.
E sul predestinato Dirk si gioca la straordinaria sequenza di Rahad e Cosmo - che solo questa sera, all'ennesima visione, ho scoperto indossare una t-shirt di Rick Springfield -, un momento esemplare di Cinema in grado di tenere sul filo anche chi, come il sottoscritto, sa già dove si andrà a finire, e riesce ad unire passione, una scrittura pressochè perfetta e l'integrazione tra colonna sonora ed evoluzione della trama fino a rasentare il metacinema.
Il tutto senza neppure contare che, se non avessi scoperto Boogie nights, ormai parecchi anni fa, ora non conoscerei il buon, vecchio, appena citato Rick Springfield, ormai uno dei cantautori rock made in Usa targati anni ottanta di assoluto culto in casa Ford.
La vicenda di Dirk, ed il suo legame con Jack Horner e Maggie, così come l'amicizia con Buck, Reed e Rollergirl, hanno il respiro delle grandi epopee di famiglia del Cinema, intelligentemente adattate a tutte le disfunzioni del nuovo millennio, che altro non sono se non una versione esplicitata di tutto ciò che era già presente, ma custodito gelosamente sotto il tappeto più elegante che si poteva trovare in casa.
Eppure, con tutti i loro problemi, i nostri trovano sempre la forza di tornare ad essere presenti l'uno per l'altro, dando senso all'intero mosaico e descrivendo il percorso ideale verso il vero successo: nelle battute di prova di Dirk di fronte alla sua immagine riflessa, prima del grande rientro sulle scene, c'è tutta la malinconia di Toro scatenato, ma vibra altrettanto prepotentemente la sensazione di una possibilità che solo chi ci ama è in grado di darci.
Che scuote le corde del cuore e mostra, finalmente, quello per cui Dirk è nato.
Il talento e la passione che permettono di realizzare i sogni.
E le persone che ci stanno accanto.
MrFord
"Jessie's got himself a girl
and I wanna make her mine."
Rick Springfield - "Jessie's girl" -
Altman non è un modello facile da seguire.
Il rischio di apparire poco più di una pallida imitazione è sempre grande, di fronte ai Maestri.
Ma - e ormai, con il senno di poi, a noi è evidente - Paul Thomas Anderson non è fra quelli che si spaventano facilmente, e anzi, l'idea di una sfida così grande, probabilmente, lo stimola a rendere il meglio.
Nonostante l'ulteriore evoluzione sullo stesso tema del successivo Magnolia, o la perfezione stilistica de Il petroliere, continuo a considerare, infatti, visione dopo visione, Boogie nights come il miglior lavoro del regista: appassionato ed energico quanto scaltro e ricco di citazioni - la mia preferita resta quella di Omicidio a luci rosse, con una scena praticamente replicata -, originale quanto rispettoso delle sue fonti d'ispirazione, studiato a tavolino eppure estremamente spontaneo.
La storia di Eddie Adams/Dirk Diggler non è solo un omaggio ad un genere praticamente mai considerato da critica e pubblico cinematografico, nonchè uno dei più difficili da gestire, proprio nel suo rapporto con l'audience, in assoluto - in fondo, su un porno di un'ora e mezza, quanti sfiorano anche solo il pensiero di arrivare alla fine? -, ma anche e soprattutto una parabola legata al successo e al sogno americano, alla famiglia e alle disfunzioni che essa comporta e ripara, inevitabilmente.
Il tutto con riferimenti evidenti al succitato Altman, a Scorsese, DePalma e Tarantino, una colonna sonora da urlo, tecnica sopraffina - almeno un paio di piani sequenza memorabili - e la capacità di creare un rapporto con il pubblico giocato sull'approfondimento e l'affetto per i personaggi così come sulla tensione - sia essa drammatica, quasi surreale o giocata su temi che si potrebbero definire da commedia - che pare accumularsi giusto in tempo per esplodere nelle due grandi scene madri della pellicola.
E proprio alle suddette devo il grande amore che provo per questo film: il crescendo e l'incrocio della sparatoria nel negozio di donuts - omaggio più che dichiarato a Le iene -, il pestaggio di Dirk da parte della banda di omofobi e lo scontro tra Jack e Rollergirl e l'universitario spocchioso è degno del miglior Inarritu, ed anche di più, e rappresenta il punto più basso raggiunto dalla grande famiglia Horner, insieme allo sconforto da cocaina della stessa Rollergirl e della magnifica Maggie interpretata da una strepitosa Julienne Moore.
E dopo essersi immersi nelle loro storie che si incrociano, pare inevitabile provare un moto di partecipazione alle loro vicende così incredibilmente vicine a quella che è la nostra realtà quotidiana, nonostante il successo e i sogni di gloria: in fondo, pare suggerire Anderson, sono come tutti noi.
E quando il sogno si spezza, o rischia di riportarci ad una sveglia troppo brusca, capiamo bene il sapore acido che lascia in bocca: quello del fallimento e della caduta, che prima o poi, nella vita, toccano chiunque, anche chi pareva destinato solo al successo.
E sul predestinato Dirk si gioca la straordinaria sequenza di Rahad e Cosmo - che solo questa sera, all'ennesima visione, ho scoperto indossare una t-shirt di Rick Springfield -, un momento esemplare di Cinema in grado di tenere sul filo anche chi, come il sottoscritto, sa già dove si andrà a finire, e riesce ad unire passione, una scrittura pressochè perfetta e l'integrazione tra colonna sonora ed evoluzione della trama fino a rasentare il metacinema.
Il tutto senza neppure contare che, se non avessi scoperto Boogie nights, ormai parecchi anni fa, ora non conoscerei il buon, vecchio, appena citato Rick Springfield, ormai uno dei cantautori rock made in Usa targati anni ottanta di assoluto culto in casa Ford.
La vicenda di Dirk, ed il suo legame con Jack Horner e Maggie, così come l'amicizia con Buck, Reed e Rollergirl, hanno il respiro delle grandi epopee di famiglia del Cinema, intelligentemente adattate a tutte le disfunzioni del nuovo millennio, che altro non sono se non una versione esplicitata di tutto ciò che era già presente, ma custodito gelosamente sotto il tappeto più elegante che si poteva trovare in casa.
Eppure, con tutti i loro problemi, i nostri trovano sempre la forza di tornare ad essere presenti l'uno per l'altro, dando senso all'intero mosaico e descrivendo il percorso ideale verso il vero successo: nelle battute di prova di Dirk di fronte alla sua immagine riflessa, prima del grande rientro sulle scene, c'è tutta la malinconia di Toro scatenato, ma vibra altrettanto prepotentemente la sensazione di una possibilità che solo chi ci ama è in grado di darci.
Che scuote le corde del cuore e mostra, finalmente, quello per cui Dirk è nato.
Il talento e la passione che permettono di realizzare i sogni.
E le persone che ci stanno accanto.
MrFord
"Jessie's got himself a girl
and I wanna make her mine."
Rick Springfield - "Jessie's girl" -
giovedì 20 gennaio 2011
Il segreto dei suoi occhi
La trama (con parole mie): Benjamin Esposito, ex dipendente della procura in pensione, ricorda il grande amore della sua vita - l'ex collega Irene - ed intreccia la loro storia a quella di un caso quasi irrisolto di omicidio risalente a venticinque anni prima. Le risposte che giungeranno dalla chiusura dell'indagine lo porranno di fronte ad una scelta di vita.
Lo ammetto, sono rimasto con la schiena in tensione ed i brividi pronti a scattare fino all'ultima scena. Peccato davvero, per Campanella.
Quello che poteva essere una sorta di Le vite degli altri - miracolo cinematografico dell'ormai bollito Von Donnersmarck - è rimasto come sospeso, intrappolato nella rete dei tanti buoni, buonissimi prodotti che il Cinema autoriale, fortunatamente per noi, sforna quasi ogni stagione.
Ma non è niente più di quel buono, perchè è il Buono a rovinare l'effetto di una pellicola fino a quella chiusura assolutamente incredibile: stile da vendere, una sceneggiatura congegnata alla perfezione, ottime interpretazioni, fotografia mirabile, e almeno tre sequenze tre da lezioni di Cinema.
Il vertiginoso piano sequenza all'interno dello stadio - era dai tempi di Breaking news di Johnnie To che non mi capitava di trovarne uno così travolgente -, il silenzioso scambio in ascensore tra Irene, Benjiamin ed Isidoro e la terribile rivelazione che avrebbe dovuto chiudere il film sono immagini che non si dimenticano, ma che, ad un tempo, penalizzano ancor più la scelta - dettata dal desiderio di Academy? - di concludere la vicenda portando indietro il braccio rimasto ben teso a scagliare pietre fin dal principio.
Ma non voglio dilungarmi troppo sulla retorica dell'ultima scena, o perdermi nell'esaltazione della tecnica e del coinvolgimento delle sequenze succitate, o emozionarmi da solo, di fronte allo schermo, pensando al personaggio tragico e disperatamente romantico di Pablo Sandoval, in assoluto il vero protagonista/non protagonista dell'opera.
Vorrei lasciarmi alle spalle tutte le sensazioni, la meraviglia per un film da ricordare ed il rammarico per quello che non è stato, e tormentarmi un pò con una domanda, una soltanto.
Chi è peggiore?
Isidoro Gomez, violentatore ed omicida, quello il cui sguardo tradisce il segreto della crudeltà almeno quanto un interrogatorio come non ne vedevo da tempo sullo schermo?
Mariano, squallido esecutore del Potere, pronto a vendere l'anima e a far soffocare le voci distinte a suon di pallottole?
Ordonez, pallido, insulso burocrate, testimone della nullità di un organismo in realtà non presente?
E' facile pensare al Male, quando si hanno di fronte i "cattivi".
Chi è peggiore?
Irene, che permette all'amore della sua vita di fuggire e si permette di vivere una vita di silenziosa, mascherata infelicità?
Benjamin, che scappa quasi senza voltarsi, per rifugiarsi in un ricordo che sa tanto di una riparazione giunta troppo tardi?
Ricardo Morales, contrario alla pena di morte, straziato da un dolore che è quasi impossibile descrivere, privato dalla violenza animale di un selvaggio della compagna, della bellezza, di tutto quello che da sapore ai ricordi e alla vita, eppure aguzzino anche più spietato degli aguzzini stessi?
Dove finisce la vendetta, e dove comincia il Male?
Quello stesso che porta lo squallido Isidoro a commettere il suo delitto.
Non deve avere necessariamente lo stesso volto, per essere guardato negli occhi, questo mostro terribile e violento, soffocato ed inquietantemente paziente.
E viene il dubbio di cosa sia davvero in grado di fare, il mite, pacifico impiegato di banca Morales, mosso, a ragione, da vendetta, ma così subdolo da far impallidire il più deciso dei Dexter: ricordo che, nella mia personale puntata favorita del serial dedicato al killer ematologo di Miami, Easy as pie, lo stesso Dex pronunciò, di fronte all'amica morente cui stava praticando l'eutanasia, "questa è la pietà, ed è solo per gli amici".
Ancora oggi, ripensando a quel momento, sento la colonna vertebrale vibrare come una corda di violino.
Sarebbe pietà, porre fine all'esistenza di Isidoro? All'uomo responsabile dello stupro e della morte della persona che vi è accanto?
La pietà è per gli amici, dice Dexter.
Ergastolo, dice la legge, perchè Benjamin e Ricardo sono contrari alla pena di morte.
A morire, infatti, è soltanto Pablo Sandoval, il più romantico, il più guascone, il più umano.
Gli altri, restano tutti. Dal primo all'ultimo.
E non sono così diversi tra loro.
Onestamente, se fossi al posto di Morales, vorrei sentire sulle mani il sangue del colpevole.
Vorrei chiudere gli occhi, e godere del momento in cui la sua vita termina, e del fatto di essere io, a terminarla.
Vorrei liberare tutto me stesso, e lasciarlo impotente, con il respiro sempre più affannoso a portarsi via i suoi ultimi momenti.
Sympathy for Mr. Vengeance, diceva Park Chan Wook.
Questa non è pietà, e non è per gli amici.
Se restasse vivo, sarebbe come una prigione.
Per entrambi.
Se restasse vivo, il mio passeggero oscuro mi schiaccerebbe.
"E' una cosa grossa, uccidere un uomo. Gli togli tutto quello che ha, ed anche quello che sperava di avere", ringhia William Munny/Clint Eastwood ne Gli spietati.
Forse Ricardo e Benjamin, Isidoro e Mariano, non sono uomini abbastanza.
Ma io guardo a Pablo, e a Dexter. E perchè no, a William Munny.
E con tutta la paura del mondo, prego di essere dei loro.
Perchè come ne Le vite degli altri, una cosa del genere, un gesto così estremo, non sarebbe per nessuno, se non per toglierlo a lui, e "prenderlo per me".
MrFord
"Hanno ammazzato Pablo,
Pablo è vivo."
Francesco DeGregori - "Pablo" -
Lo ammetto, sono rimasto con la schiena in tensione ed i brividi pronti a scattare fino all'ultima scena. Peccato davvero, per Campanella.
Quello che poteva essere una sorta di Le vite degli altri - miracolo cinematografico dell'ormai bollito Von Donnersmarck - è rimasto come sospeso, intrappolato nella rete dei tanti buoni, buonissimi prodotti che il Cinema autoriale, fortunatamente per noi, sforna quasi ogni stagione.
Ma non è niente più di quel buono, perchè è il Buono a rovinare l'effetto di una pellicola fino a quella chiusura assolutamente incredibile: stile da vendere, una sceneggiatura congegnata alla perfezione, ottime interpretazioni, fotografia mirabile, e almeno tre sequenze tre da lezioni di Cinema.
Il vertiginoso piano sequenza all'interno dello stadio - era dai tempi di Breaking news di Johnnie To che non mi capitava di trovarne uno così travolgente -, il silenzioso scambio in ascensore tra Irene, Benjiamin ed Isidoro e la terribile rivelazione che avrebbe dovuto chiudere il film sono immagini che non si dimenticano, ma che, ad un tempo, penalizzano ancor più la scelta - dettata dal desiderio di Academy? - di concludere la vicenda portando indietro il braccio rimasto ben teso a scagliare pietre fin dal principio.
Ma non voglio dilungarmi troppo sulla retorica dell'ultima scena, o perdermi nell'esaltazione della tecnica e del coinvolgimento delle sequenze succitate, o emozionarmi da solo, di fronte allo schermo, pensando al personaggio tragico e disperatamente romantico di Pablo Sandoval, in assoluto il vero protagonista/non protagonista dell'opera.
Vorrei lasciarmi alle spalle tutte le sensazioni, la meraviglia per un film da ricordare ed il rammarico per quello che non è stato, e tormentarmi un pò con una domanda, una soltanto.
Chi è peggiore?
Isidoro Gomez, violentatore ed omicida, quello il cui sguardo tradisce il segreto della crudeltà almeno quanto un interrogatorio come non ne vedevo da tempo sullo schermo?
Mariano, squallido esecutore del Potere, pronto a vendere l'anima e a far soffocare le voci distinte a suon di pallottole?
Ordonez, pallido, insulso burocrate, testimone della nullità di un organismo in realtà non presente?
E' facile pensare al Male, quando si hanno di fronte i "cattivi".
Chi è peggiore?
Irene, che permette all'amore della sua vita di fuggire e si permette di vivere una vita di silenziosa, mascherata infelicità?
Benjamin, che scappa quasi senza voltarsi, per rifugiarsi in un ricordo che sa tanto di una riparazione giunta troppo tardi?
Ricardo Morales, contrario alla pena di morte, straziato da un dolore che è quasi impossibile descrivere, privato dalla violenza animale di un selvaggio della compagna, della bellezza, di tutto quello che da sapore ai ricordi e alla vita, eppure aguzzino anche più spietato degli aguzzini stessi?
Dove finisce la vendetta, e dove comincia il Male?
Quello stesso che porta lo squallido Isidoro a commettere il suo delitto.
Non deve avere necessariamente lo stesso volto, per essere guardato negli occhi, questo mostro terribile e violento, soffocato ed inquietantemente paziente.
E viene il dubbio di cosa sia davvero in grado di fare, il mite, pacifico impiegato di banca Morales, mosso, a ragione, da vendetta, ma così subdolo da far impallidire il più deciso dei Dexter: ricordo che, nella mia personale puntata favorita del serial dedicato al killer ematologo di Miami, Easy as pie, lo stesso Dex pronunciò, di fronte all'amica morente cui stava praticando l'eutanasia, "questa è la pietà, ed è solo per gli amici".
Ancora oggi, ripensando a quel momento, sento la colonna vertebrale vibrare come una corda di violino.
Sarebbe pietà, porre fine all'esistenza di Isidoro? All'uomo responsabile dello stupro e della morte della persona che vi è accanto?
La pietà è per gli amici, dice Dexter.
Ergastolo, dice la legge, perchè Benjamin e Ricardo sono contrari alla pena di morte.
A morire, infatti, è soltanto Pablo Sandoval, il più romantico, il più guascone, il più umano.
Gli altri, restano tutti. Dal primo all'ultimo.
E non sono così diversi tra loro.
Onestamente, se fossi al posto di Morales, vorrei sentire sulle mani il sangue del colpevole.
Vorrei chiudere gli occhi, e godere del momento in cui la sua vita termina, e del fatto di essere io, a terminarla.
Vorrei liberare tutto me stesso, e lasciarlo impotente, con il respiro sempre più affannoso a portarsi via i suoi ultimi momenti.
Sympathy for Mr. Vengeance, diceva Park Chan Wook.
Questa non è pietà, e non è per gli amici.
Se restasse vivo, sarebbe come una prigione.
Per entrambi.
Se restasse vivo, il mio passeggero oscuro mi schiaccerebbe.
"E' una cosa grossa, uccidere un uomo. Gli togli tutto quello che ha, ed anche quello che sperava di avere", ringhia William Munny/Clint Eastwood ne Gli spietati.
Forse Ricardo e Benjamin, Isidoro e Mariano, non sono uomini abbastanza.
Ma io guardo a Pablo, e a Dexter. E perchè no, a William Munny.
E con tutta la paura del mondo, prego di essere dei loro.
Perchè come ne Le vite degli altri, una cosa del genere, un gesto così estremo, non sarebbe per nessuno, se non per toglierlo a lui, e "prenderlo per me".
MrFord
"Hanno ammazzato Pablo,
Pablo è vivo."
Francesco DeGregori - "Pablo" -
mercoledì 19 gennaio 2011
L'implacabile
La trama (con parole mie): Starsky di Starsky&Hutch, per liberare il suo talento (!!!) dietro la macchina da presa, portò sullo schermo un romanzo di Stephen King ambientato in un futuro che incrocia Blade runner a 1984, solo di serie molto molto b. Ben Richards, pilota di elicotteri e perseguitato politico, viene selezionato per partecipare alla trasmissione "The running man", che ricorda gli spettacoli dei gladiatori ed intrattiene il pubblico ipnotizzato dalla tv. Non andrà troppo bene agli organizzatori, essendosi messi contro Schwarzy.
Spinto da Commando, torno sulla macchina del tempo e alla mia infanzia, rivivendo di colpo l'inizio del 1989, quando mio padre, sfracellatosi la clavicola cadendo in bicicletta, si ritrovò a casa dal lavoro per tre mesi, rompendo la routine che praticamente costringeva me e mio fratello a vedere i nostri vecchi la sera a cena e nel weekend - come, del resto, accade a tutti i bambini con entrambi i genitori impegnati al lavoro -: ora, sicuramente non è da mio padre che ho ereditato la passione per il Cinema - ancora oggi ci stuzzichiamo criticando i "lunghi coltelli", sua versione dei pugnali volanti, e Steven Seagal ed il suo parrucchino, mia versione di un qualsiasi mostro in stile sci-fi anni cinquanta -, eppure ho ricordi bellissimi di quel periodo, legati principalmente alla visione integrale della serie di Ken il guerriero e dei cicli intensivi di Stallone e Schwarzy.
In particolare, L'implacabile fu registrato alla tv grazie ad un iniziativa proprio di mio padre, che lo conosceva dall'uscita in sala: la prima volta che lo vidi rimasi conquistato dall'atmosfera a metà tra il fumetto e la contesa gladiatoresca, ovviamente tifando spudoratamente per il nostro ex governatore della California mentre si prendeva la briga di fare un pò di sano culo agli sterminatori - gli uomini della produzione di "The running man" - inviati da Jesse "The body" Ventura e da Damon Killian, conduttore senza scrupoli, nell'attesa di mettere le mani proprio sul duo dei "cattivi".
Purtroppo, essendo uno dei titoli meno conosciuti del nostro Terminator, ancora non ha visto la luce, almeno in Italia, un'edizione in dvd, facendo salire la mia aspettativa dello stesso almeno quanto fu per Voglia di vincere - grazie ancora, Inaffondabile! - ed è tuttora per Senza esclusione di colpi - ne parlerò, prima o poi, statene certi! -.
Eppure, l'atmosfera da b-movie è talmente travolgente da fare invidia, a tratti, perfino al già citato Commando, e grazie alle tutine indossate dai partecipanti allo show, così come ai costumi a dir poco agghiaccianti dei "gladiatori" inviati per intercettarli, si sfiorano alcune vette quasi inarrivabili - vedi I dominatori dell'universo, altra chicca di cui prima o poi mi deciderò a parlare -, provocando negli spettatori di età inferiore ai tredici anni e nati tra i settanta e gli ottanta entusiasmo travolgente anche ora e clamorose smorfie di disapprovazione sui visi di madri e radical chic vari ed eventuali.
Onestamente, i collarini esplosivi, la battaglia sul ghiaccio con Sotto Zero ed il lancio della capsula a tutta velocità con Damon Killian all'interno ancora oggi sono in grado di strapparmi un sorriso e farmi saltare sulla sedia, e in qualche modo ricordare un periodo della mia vita in cui tutto pareva magico come le storie inventate per i G. I. Joe - cui, ricordo, facevo fare wrestling, più che battaglie - e le esplosioni e gli inseguimenti nei film di Sly o Schwarzy.
Il tempo è passato, e ovviamente l'incredulità - almeno finchè non sono di fronte a uno schermo - è certamente sospesa, eppure sono sicuro che, anche senza ossa rotte, se ci ritrovassimo ora io, mio padre e mio fratello sul divano a tifare per Richards nella sua lotta al "Running man", le risate sarebbero ancora di quelle forti.
Anzi, forse un pochino di più.
MrFord
"Too bad for the running man,
cause he waits too long so he can't
come back again."
Hanson - "The running man" -
Spinto da Commando, torno sulla macchina del tempo e alla mia infanzia, rivivendo di colpo l'inizio del 1989, quando mio padre, sfracellatosi la clavicola cadendo in bicicletta, si ritrovò a casa dal lavoro per tre mesi, rompendo la routine che praticamente costringeva me e mio fratello a vedere i nostri vecchi la sera a cena e nel weekend - come, del resto, accade a tutti i bambini con entrambi i genitori impegnati al lavoro -: ora, sicuramente non è da mio padre che ho ereditato la passione per il Cinema - ancora oggi ci stuzzichiamo criticando i "lunghi coltelli", sua versione dei pugnali volanti, e Steven Seagal ed il suo parrucchino, mia versione di un qualsiasi mostro in stile sci-fi anni cinquanta -, eppure ho ricordi bellissimi di quel periodo, legati principalmente alla visione integrale della serie di Ken il guerriero e dei cicli intensivi di Stallone e Schwarzy.
In particolare, L'implacabile fu registrato alla tv grazie ad un iniziativa proprio di mio padre, che lo conosceva dall'uscita in sala: la prima volta che lo vidi rimasi conquistato dall'atmosfera a metà tra il fumetto e la contesa gladiatoresca, ovviamente tifando spudoratamente per il nostro ex governatore della California mentre si prendeva la briga di fare un pò di sano culo agli sterminatori - gli uomini della produzione di "The running man" - inviati da Jesse "The body" Ventura e da Damon Killian, conduttore senza scrupoli, nell'attesa di mettere le mani proprio sul duo dei "cattivi".
Purtroppo, essendo uno dei titoli meno conosciuti del nostro Terminator, ancora non ha visto la luce, almeno in Italia, un'edizione in dvd, facendo salire la mia aspettativa dello stesso almeno quanto fu per Voglia di vincere - grazie ancora, Inaffondabile! - ed è tuttora per Senza esclusione di colpi - ne parlerò, prima o poi, statene certi! -.
Eppure, l'atmosfera da b-movie è talmente travolgente da fare invidia, a tratti, perfino al già citato Commando, e grazie alle tutine indossate dai partecipanti allo show, così come ai costumi a dir poco agghiaccianti dei "gladiatori" inviati per intercettarli, si sfiorano alcune vette quasi inarrivabili - vedi I dominatori dell'universo, altra chicca di cui prima o poi mi deciderò a parlare -, provocando negli spettatori di età inferiore ai tredici anni e nati tra i settanta e gli ottanta entusiasmo travolgente anche ora e clamorose smorfie di disapprovazione sui visi di madri e radical chic vari ed eventuali.
Onestamente, i collarini esplosivi, la battaglia sul ghiaccio con Sotto Zero ed il lancio della capsula a tutta velocità con Damon Killian all'interno ancora oggi sono in grado di strapparmi un sorriso e farmi saltare sulla sedia, e in qualche modo ricordare un periodo della mia vita in cui tutto pareva magico come le storie inventate per i G. I. Joe - cui, ricordo, facevo fare wrestling, più che battaglie - e le esplosioni e gli inseguimenti nei film di Sly o Schwarzy.
Il tempo è passato, e ovviamente l'incredulità - almeno finchè non sono di fronte a uno schermo - è certamente sospesa, eppure sono sicuro che, anche senza ossa rotte, se ci ritrovassimo ora io, mio padre e mio fratello sul divano a tifare per Richards nella sua lotta al "Running man", le risate sarebbero ancora di quelle forti.
Anzi, forse un pochino di più.
MrFord
"Too bad for the running man,
cause he waits too long so he can't
come back again."
Hanson - "The running man" -
martedì 18 gennaio 2011
Enter the void
La trama (con parole mie): Oscar, giovane spacciatore stabilitosi a Tokyo, si riunisce alla sorella poco prima di perdere la vita in un drammatico faccia a faccia con la polizia. Inizia così un viaggio che ricorda il libro dei morti tibetano attraverso la sua intera vita, e non solo. Quello che Lebowski definisce, fumando, "un brutto trip".
Esistono alcune pellicole che, da qualunque parte le si voglia guardare, costituiscono, più che una visione, una vera e propria esperienza sensoriale prima ancora di essere storia, emozioni, contenuti: Enter the void è, di certo, una di esse.
Recentemente, con Hereafter e Departures, ho provato l'impatto di vicende strettamente legate alla morte, eppure profondamente pregne di vita e voglia di viverla, tanto da toccarmi nel profondo molto più per quello che abbiamo da questa, prima di quello che potremmo o non potremmo avere dall'altra parte.
Enter the void, di contro, è un viaggio allucinato ed allucinante nei meandri più profondi della morte: per caso o per errore, incidente o crocevia di destini, di colpo la signora più vecchia del mondo cala la sua falce e viene a prenderci, nel più improvviso e spietato dei modi, strappandoci da una storia vissuta in prima persona, quasi fosse nostra.
E poco importa se da quel momento inizierà un viaggio molto simile a quello previsto per le anime dei defunti nel libro dei morti tibetano, dandoci la certezza di un'esistenza ulteriore, a ritroso attraverso i ricordi del protagonista - che diventano, terribilmente, grazie all'uso della soggettiva, i nostri, una volta ancora - e alla scoperta del cielo, dei corpi e delle menti, legato al mondo terreno perchè "la maggior parte delle anime sono così affezionate a questa realtà da non riuscire a staccarsene" entrando nelle porte che conducono ad altre dimensioni, e a nuovi livelli d'esistenza, finendo per rimanere qui a vagare, senza poter interagire, come ospiti invisibili - noi, il pubblico della sala!? - fino alla reincarnazione inevitabile, e ad un nuovo giro su questa giostra.
Poco importa, si diceva.
Perchè tutto, attorno, è pervaso dalla morte: l'incapacità di toccare, agire, sentirsi annullati da un'esperienza di passaggio praticamente totale, che tocca vette quasi kubrickiane con i colori delle cellule, i passaggi all'interno dei corpi e degli oggetti, le vorticose evoluzioni della macchina da presa, il volo ad incrociare un aereo che passa, noncurante, diretto alla prossima destinazione.
Ma non è questa, la nostra.
Non è questa, perchè si continuerà a vagare, perdendosi nei ricordi d'infanzia, nel rapporto con una sorella più che amata, nell'incidente - una sequenza terribile ripetuta più volte - che provocò la morte dei genitori.
Un nastro che si riavvolge, e ancora nuovi colori, nuove visioni.
Ma tutto pare fermarsi, spezzarsi, in quel momento, quando il proiettile giunge a rompere l'equilibrio una sospensione tesissima, dall'impatto immediato e coinvolgente.
Uno schiocco secco, e vediamo, o peggio, viviamo la morte in prima persona: con tutta l'incredulità della presa di coscienza di un evento tanto inevitabile quanto sorprendente.
Hanno sparato a Oscar nel bagno del Void. Oscar siamo noi. In una certa misura, è il Cinema che assume un ruolo mai visto, neppure nel più estremo degli Haneke, che non per nulla, spesso e volentieri porta la violenza fuori dallo schermo.
Gaspar Noè osa ancora di più: più che riportarla dentro, conduce lo spettatore al suo interno.
In prima persona.
Nel vuoto.
Lo stesso luogo in cui Oscar ha perso la vita, e l'ha vista scorrere dal suo corpo negli ultimi istanti del suo legame fisico con il mondo.
Nel pieno dell'era virtuale e del 3D, Enter the void rappresenta l'esperienza più estrema di interattività cinematografica possibile, portando in prima persona nello spettatore quanto e più di quanto una storia di emozioni possa essere in grado, e certamente più del più incredibile dei videogiochi, l'esperienza assoluta e terribile della morte.
La leggerezza, la passione e l'amore dei già citati Hereafter e Departures trovano qui il loro lato oscuro, l'altra faccia di una medaglia che può sorprenderci ad ogni istante, e catapultarci in un vuoto che non è detto saremo pronti ad affrontare.
Sinceramente, anche di fronte ad una vera gemma - in termini di inventiva, tecnica, idee, originalità, aperta da quaranta minuti a livelli assoluti e titoli di testa memorabili - come questa, il mio Cinema, la mia vita e la mia esperienza restano ancora con Clint, che trova sempre più importante quello che c'è da questa parte, prima di quello che ci attenderà - forse - dall'altra.
I libri dei morti li lascio volentieri a chi vorrà prepararsi per un viaggio che, difficilmente, ad ogni modo, risulterà controllabile, e mi terrò stretto questo corpo e questa carne il più a lungo possibile, stando ai miei piani fino al 2082.
Può essere, infatti, che arrivato a centotre anni io possa sentirmi pronto per mollare gli ormeggi e tentare il salto nel vuoto. Forse.
Nel frattempo, mi accontento di quest'incredibile esperienza come di una delle montagne russe più terribili nella Storia della settima arte.
MrFord
"Talking to myself all the way to the station,
pictures in my head of the final destination."
Nine inch nails - "Into the void" -
Esistono alcune pellicole che, da qualunque parte le si voglia guardare, costituiscono, più che una visione, una vera e propria esperienza sensoriale prima ancora di essere storia, emozioni, contenuti: Enter the void è, di certo, una di esse.
Recentemente, con Hereafter e Departures, ho provato l'impatto di vicende strettamente legate alla morte, eppure profondamente pregne di vita e voglia di viverla, tanto da toccarmi nel profondo molto più per quello che abbiamo da questa, prima di quello che potremmo o non potremmo avere dall'altra parte.
Enter the void, di contro, è un viaggio allucinato ed allucinante nei meandri più profondi della morte: per caso o per errore, incidente o crocevia di destini, di colpo la signora più vecchia del mondo cala la sua falce e viene a prenderci, nel più improvviso e spietato dei modi, strappandoci da una storia vissuta in prima persona, quasi fosse nostra.
E poco importa se da quel momento inizierà un viaggio molto simile a quello previsto per le anime dei defunti nel libro dei morti tibetano, dandoci la certezza di un'esistenza ulteriore, a ritroso attraverso i ricordi del protagonista - che diventano, terribilmente, grazie all'uso della soggettiva, i nostri, una volta ancora - e alla scoperta del cielo, dei corpi e delle menti, legato al mondo terreno perchè "la maggior parte delle anime sono così affezionate a questa realtà da non riuscire a staccarsene" entrando nelle porte che conducono ad altre dimensioni, e a nuovi livelli d'esistenza, finendo per rimanere qui a vagare, senza poter interagire, come ospiti invisibili - noi, il pubblico della sala!? - fino alla reincarnazione inevitabile, e ad un nuovo giro su questa giostra.
Poco importa, si diceva.
Perchè tutto, attorno, è pervaso dalla morte: l'incapacità di toccare, agire, sentirsi annullati da un'esperienza di passaggio praticamente totale, che tocca vette quasi kubrickiane con i colori delle cellule, i passaggi all'interno dei corpi e degli oggetti, le vorticose evoluzioni della macchina da presa, il volo ad incrociare un aereo che passa, noncurante, diretto alla prossima destinazione.
Ma non è questa, la nostra.
Non è questa, perchè si continuerà a vagare, perdendosi nei ricordi d'infanzia, nel rapporto con una sorella più che amata, nell'incidente - una sequenza terribile ripetuta più volte - che provocò la morte dei genitori.
Un nastro che si riavvolge, e ancora nuovi colori, nuove visioni.
Ma tutto pare fermarsi, spezzarsi, in quel momento, quando il proiettile giunge a rompere l'equilibrio una sospensione tesissima, dall'impatto immediato e coinvolgente.
Uno schiocco secco, e vediamo, o peggio, viviamo la morte in prima persona: con tutta l'incredulità della presa di coscienza di un evento tanto inevitabile quanto sorprendente.
Hanno sparato a Oscar nel bagno del Void. Oscar siamo noi. In una certa misura, è il Cinema che assume un ruolo mai visto, neppure nel più estremo degli Haneke, che non per nulla, spesso e volentieri porta la violenza fuori dallo schermo.
Gaspar Noè osa ancora di più: più che riportarla dentro, conduce lo spettatore al suo interno.
In prima persona.
Nel vuoto.
Lo stesso luogo in cui Oscar ha perso la vita, e l'ha vista scorrere dal suo corpo negli ultimi istanti del suo legame fisico con il mondo.
Nel pieno dell'era virtuale e del 3D, Enter the void rappresenta l'esperienza più estrema di interattività cinematografica possibile, portando in prima persona nello spettatore quanto e più di quanto una storia di emozioni possa essere in grado, e certamente più del più incredibile dei videogiochi, l'esperienza assoluta e terribile della morte.
La leggerezza, la passione e l'amore dei già citati Hereafter e Departures trovano qui il loro lato oscuro, l'altra faccia di una medaglia che può sorprenderci ad ogni istante, e catapultarci in un vuoto che non è detto saremo pronti ad affrontare.
Sinceramente, anche di fronte ad una vera gemma - in termini di inventiva, tecnica, idee, originalità, aperta da quaranta minuti a livelli assoluti e titoli di testa memorabili - come questa, il mio Cinema, la mia vita e la mia esperienza restano ancora con Clint, che trova sempre più importante quello che c'è da questa parte, prima di quello che ci attenderà - forse - dall'altra.
I libri dei morti li lascio volentieri a chi vorrà prepararsi per un viaggio che, difficilmente, ad ogni modo, risulterà controllabile, e mi terrò stretto questo corpo e questa carne il più a lungo possibile, stando ai miei piani fino al 2082.
Può essere, infatti, che arrivato a centotre anni io possa sentirmi pronto per mollare gli ormeggi e tentare il salto nel vuoto. Forse.
Nel frattempo, mi accontento di quest'incredibile esperienza come di una delle montagne russe più terribili nella Storia della settima arte.
MrFord
"Talking to myself all the way to the station,
pictures in my head of the final destination."
Nine inch nails - "Into the void" -
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