sabato 31 marzo 2012

Il pianeta del tesoro

Regia: Ron Clements, John Musker
Origine: Usa
Anno: 2002
Durata: 95'



La trama (con parole mie): Jim Hawkins è un giovane e scapestrato ammiratore delle imprese dei grandi navigatori dello spazio, e sogna, come molti pirati delle galassie, di mettere le mani sul leggendario Tesoro dei Mille Mondi, che molti addirittura ritengono non esistere, e sistemare per sempre sua madre - che vive mandando avanti sola, e faticosamente, una locanda - coronando contemporaneamente il suo sogno di divenire un esploratore delle stelle.
Quando un pirata moribondo atterra sul suo pianeta e gli consegna la mappa che conduce al mitico tesoro, per Jim avrà inizio la più grande avventura che potesse immaginare, nel corso della quale troverà nel nemico anche la figura che più si avvicina a quella di suo padre, fuggito anni prima abbandonando la famiglia.




A volte è davvero un piacere sedersi sul divano e lasciarsi trasportare dall'immaginazione neanche fossimo tornati bambini, godendosi pellicole in grado di ricreare un'atmosfera magica come questa.
Complici la crescita e l'avvento della Pixar, mi sono ritrovato all'inizio degli anni zero a snobbare clamorosamente i Classici Disney per eccellenza, quelli che ai tempi delle elementari mi facevano attendere con ansia il sabato pomeriggio in sala e le patatine di Burghy dopo il film: mi ero perso dunque anche questo davvero interessante Il pianeta del tesoro, ispirato dal romanzo di Stevenson L'isola del tesoro - un supercult della narrativa per ragazzi e non solo di tutti i tempi - e realizzato dallo stesso team responsabili del già molto carino La sirenetta e dello splendido Aladdin.
L'ambientazione sci-fi unita all'atmosfera piratesca dai richiami da Isola che non c'è non hanno fatto che rendere questo prodotto ai miei occhi ancora più coinvolgente, nonostante l'esperimento di mescolare computer graphic e metodo tradizionale non può essere definito riuscito completamente: quello che, più di tutto, però, ha reso la visione coinvolgente è stata l'ottima gestione del rapporto tra il protagonista Jim Hawkins ed il vecchio cyborg Silver, ad un tempo nemesi e migliore amico del giovane aspirante esploratore dei "mari stellari".
L'incontro delle loro due solitudini - quella di Jim, abbandonato dal padre, e di Silver, abituato a non avere un amico e a non fidarsi di nessuno per meglio rendere nel suo ruolo di "cattivo" - genera un climax emotivo che pare quello di un film di formazione come Stand by me, evitando il facile scivolone nella retorica ed affrontando temi decisamente adulti per un prodotto nato sotto l'egida della più tradizionale realtà Disney, finendo per somigliare più ad un lavoro uscito dai Pixar Studios, e ugualmente attento all'evolversi della storia e al divertimento degli spettatori più piccoli - e non solo -.
La rappresentazione, inoltre, della varietà di creature presenti negli spazioporti e sulla nave in cui lo scavezzacollo Hawkins si imbarca risulta affascinante, divertita e divertente come quella delle popolazioni della galassia di Star Wars, dai marinai che si esprimono per mezzo di sole flatulenze ai malvagi pirati dalle forme aracnoidi.
Non mancano i buoni sentimenti, così come l'ormai rodata struttura dei film d'animazione di Mamma Disney costruita sull'asse "scintilla che accende la vicenda - divertimento e amicizia - canzone - momento di crisi - risoluzione": in questo senso i più accaniti detrattori degli standard di questo gigantesco colosso dell'entertainment strorceranno il naso senza ritegno - vero, Cannibale? -, ma voi non lasciatevi trarre in inganno.
Certo non stiamo parlando de La carica dei 101, Biancaneve o La bella e la bestia, eppure Il pianeta del tesoro avvince e diverte, sorprende e fa sognare come non si potrebbe sperare di fare di più nei momenti in cui si cerca rifugio nell'epoca d'oro dell'infanzia, quando tutti i sogni sono ancora a portata di mano e paiono possibili: quindi mollate gli ormeggi, recuperate il vostro passato da pirati o aspiranti tali, e buttatevi in questa avventura.
Male non potrà farvi di certo.
E chissà, potreste scoprire che la vita per mare - che sia spaziale o no - non era davvero niente male.
Forse addirittura meglio di quanto si potrebbe ricordare. 


MrFord


"E so
che non è una fantasia 
non è stata una follia
quella stella
la vedi anche tu
perciò
io la seguo ed adesso so
che io la raggiungerò
perchè al mondo
ci sono anch'io."
Max Pezzali - "Ci sono anch'io" -


venerdì 30 marzo 2012

Last friday night

La trama (con parole mie): neanche il tempo di credere che potesse essere tutto finito, e che un mese agghiacciante per le uscite fosse finalmente alle spalle, ed ecco a smentire me ed il mio fastidioso antagonista Cannibale l'ennesimo week end da dimenticare per ogni spettatore degno di questo nome.
Poche proposte, e anche meno effettivamente interessanti.
Fortunatamente - ma per chi, in fondo? - le schermaglie tra me ed il Cucciolo Eroico continuano a mantenere viva l'attenzione, quasi fossero un riscaldamento per la prossima, incombente Blog War!

"Mi dispiace, ma ti mollo per il mio nuovo amore: il Cucciolo Eroico!"
La furia dei Titani di Jonathan Liebesman


Il consiglio di Cannibal: se lo andate a vedere, scatenerete la furia dei Cannibali
Non esiste proprio che mi guardi questo film. Già avevo evitato con estrema diligenza il primo episodio, una pellicola che era andata piuttosto bene al box-office, ma senza fare cifre tali da giustificare un sequel, e di cui avevo letto in giro opinioni pessime. A me comunque era bastato vedere il trailer e il faccione di Sam Worthington per decidere di stare alla larga come quando sento puzza di WhiteRussian!
Mi auguro sia un floppone e spero che pure Ford abbia la decenza, per una volta nella sua vita, di boicottarlo!
Il consiglio di Ford: la furia delle bottigliate.
Già avevo trovato pessimo ed agghiacciante il primo, figuriamoci se mi schiaffo anche il secondo capitolo delle avventure di Teseo. Lo lascio volentieri al Cucciolo Eroico, che così può far passare meglio l'attesa per il secondo Avatar guardando il suo idolo Sam Worthington.

"Se volete avvicinarvi al Cannibale, dovete passare sul mio cadavere!"
I colori della passione di Lech Majewski

Il consiglio di Cannibal: i colori di sta minchia ahahah!
Film artistico-storico-palloso dal gusto radical-chic per i radical-chic non dichiarati come Mr. Ford.
Coraggio Ford, fai coming out e dichiara al mondo che pure tu, sotto sotto, sei un grandissimo radical-chic.
Pure peggio di me!
Il consiglio di Ford: ultimamente andare al Cinema è una vera e propria Passione.
Il film che apre la settimana - con qualche buona recensione qui e là - è un omaggio all'arte e alla figura di Pieter Bruegel, pittore fiammingo interpretato per l'occasione da Rutger Hauer. Ora, l'ex Hitcher potrà anche starmi simpatico, ma sinceramente questo film non mi ispira neanche un pò.
Più o meno come i titoli "neo romantici indie" consigliati dal Cannibale.

"Ma che le è successo?" "Ha guardato un film neo romantico indie, e questo è il risultato!"
Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana

Il consiglio di Cannibal: da vedere, però…
Film che ho già visto e che ho apprezzato solo in parte.
La ricostruzione della strage del 1969 di Piazza Fontana è infatti orchestrata con cura e suscita riflessioni parecchio attuali, per questo è una visione che mi sento di consigliare assolutamente. Perché pensare non fa mai male, nonostante Ford la pensi al contrario. E dunque, se la pensa così, forse pure lui ogni tanto pensa… Ma non ci giurerei eheheh.
Da un punto di vista cinematografico, la parte dell’indagine è però costruita in maniera macchinosa e per certi versi mi ha ricordato, ahimé, La talpa. Per fortuna questo film non è così noioso e anzi è interessante, però mi aspettavo di più…
Il consiglio di Ford: questa settimana è l'ennesima strage, speriamo di scamparla!
Sinceramente, dopo l'ottimo La meglio gioventù, credo che il buon Giordana si sia un pò perso, eppure rispetto all'ennesima settimana desolante questo potrebbe essere addirittura il titolo più interessante su cui puntare.
Certo non ci faccio i salti di gioia, ma se continua così, finisce che più che una rubrica, io e il Cucciolo finiremo per sparare sulla croce rossa, dunque tocca arrangiarsi.

"Vorrei denunciare il Cannibale per atti osceni contro il Cinema."
Paranormal Xperience 3D di Sergi Vizcaino

Il consiglio di Cannibal: abnormal Xperience
Paranormal Activity mi aveva spaventato di più persino delle vaccate che Ford scrive di solito sul suo blog oppure in questo spazio che gli concedo magnanimamente sul mio. A Ford non avrà fatto paura, ma d’altra parte ammetto che la visione delle pellicole cui lui è abituato, come quelle di Van Damme, in effetti sono molto più spaventose!
Nonostante il titolo, questo Paranormal Xperience non ha comunque molto a che fare con quello e sembra il solito horrorino scemo. Se voglio vivere una Paranormal Xperience però mi basta fare una capatina su WhiteRussian buahahah.
Il consiglio di Ford: non bastava l'activity, ora pure il 3D!
Sinceramente, di questa roba non ho neppure voglia di parlare.
Piuttosto passerei una serata intera ad ascoltare tutte le fregnacce del mio antagonista.

"Per costringermi a leggere Pensieri cannibali, devono legarmi con le cinghie!"
Il mio migliore incubo! di Anne Fontaine

Il consiglio di Cannibal: devo anche dirvi qual è il mio migliore incubo?
Il cinema francese starà anche vivendo un momento d’oro, ma questa commediola franco-belga non sembra certo seguire il trend. Io penso che si possa evitare tranquillamente, checché ne dica quel mio migliore (ma soprattutto peggiore) incubo di Ford!
Il consiglio di Ford: il mio sogno? Cannibale che capisce qualcosa di Cinema, o una settimana di film decenti.
Questo mi pare proprio il classico film da sala d'essai per signore attempate in cerca di giovani studenti radical chic da sfoggiare nei salotti per apparire di una trentina d'anni più young adult.
Quindi, nonostante la Huppert, credo proprio lo salterò a piè pari, un pò come faccio di solito con i titoli consigliatissimi dal mio antagonista, per evitare di rovinarmi le serate sul divano.

"Versamene un altro: se devo sorbirmi il Cannibale, non posso rimanere sobria!"
Marigold Hotel di John Madden

Il consiglio di Cannibal: andate in hotel, non al cinema
La firma di John Madden, il “registone” di Shakespeare in Love, non fa certo ben sperare. Il forte sapore british emanato dalla pellicola è però pur sempre più gradevole dell’odore emanato dal Mr. Ford dopo una battaglia nel fango contro il One Eye di Valhalla Rising e la visione potrebbe anche rivelarsi decente. Ma non credo.
Meglio farsi una visita all’Overlook che non al Marigold o al WhiteRussian Hotel…
Il consiglio di Ford: doveste decidere di viaggiare, fatelo zaino in spalla, non certo in posti come questo!
Film per vecchie tardone da sala da the parte due.
Io, per non sapere ne leggere ne scrivere, ci mando il Cannibale: non si sa mai che trovi qualche settantenne GILF che possa prenderlo sotto la sua ala protettrice e portarselo dietro alla casa di riposo - magari in India -, in modo da liberarmi della sua presenza! Ahahahahahahahahah!

"Sono un pò deluso. Pensavo che una volta gettato nel fiume, il Cannibale avrebbe gridato più forte!"
Buona giornata di Carlo Vanzina

Il consiglio di Cannibal: avrete una buona, buonissima giornata, a meno che non vediate ‘sto film
Cineovetto pasquale firmato dai Vanzina con De Sica, Lino Banfi e pure - oh mio Dio! - Abatantuono e Salemme. Tutti nomi fuori tempo massimo per un prodotto che si preannuncia da solo talmente trash che persino una recensione-massacro nei suoi confronti sarebbe un atto di crudeltà troppo facile.
Sì, anche sparare su Mister Ford ormai è diventato un giochetto troppo easy, però ancora mi diverte. Almeno fino al giorno in cui ammetterà, in lacrime, la mia superiorità assoluta!
Il consiglio di Ford: una buona giornata si passa solo lontano dalle sale.
Vanzina. De Sica. Commediaccia all'italiana.
Siamo a Pasqua, mica a Natale!
Basta.
Davvero.
E per una volta, Cannibale, non dico a te.

"Sò Diego, ti spiego: Pensieri cannibali è peggio dell'Inter e della Juve messi insieme!"

Red

Regia: Trygve Allister Diesen, Lucky McKee
Origine: Usa
Anno: 2008
Durata: 93'



La trama (con parole mie):  Avery Ludlow è un veterano proprietario di un piccolo negozio di ferramenta, vedovo, che vive solo in una grande casa con il fedele cane Red, regalatogli dalla moglie quasi quattordici anni prima in occasione del suo cinquantesimo compleanno.
Una domenica come tutte le altre, mentre l'uomo è a pesca, tre ragazzi lo minacciano e, per gioco, uno di loro uccide a sangue freddo proprio Red.
Inizia così una battaglia per la verità che Ludlow è disposto a combattere all'ultimo sangue neanche fosse ancora nel pieno del conflitto, memore del legame affettivo con l'animale e del ricordo della defunta compagna.
Il confronto con la famiglia del ragazzo responsabile dello scellerato gesto segnerà inevitabilmente le esistenze di tutti i protagonisti della vicenda, fino ad arrivare ad estreme conseguenze.




Prima di iniziare, vorrei ringraziare Einzige per la segnalazione fatta tempo fa di questo film.

Evidentemente Lucky McKee sa stimolare il mio lato più oscuro e animalesco come pochi altri registi nel corso dell'esperienza che ho potuto accumulare come spettatore.
Già con l'escalation finale dell'ottimo The woman avevo sentito ribollire il sangue nel prendere le parti dell'insolita paladina protagonista della pellicola nel pieno dell'esplosione della sua sete di vendetta rispetto ai suoi carcerieri, ma con Red la sensazione è stata anche più forte, scavata come da una lama di coltello nella carne così in profondità da raschiare l'osso.
Perchè la prima metà di questo sorprendente lavoro rischia a più riprese di essere letteralmente straziante: un ritratto lucido e terribile di una solitidine ancorata ad un ricordo dolorosissimo - gigantesco Brian Cox nel rendere tutta la sofferenza del protagonista Avery Ludlow, sommessamente espressa dal racconto della morte di sua moglie e suo figlio, assolutamente da brividi - aperto da una delle sequenze più tese e rabbiose dai tempi della mia visione di Eden Lake.
Ed è la rabbia, ad averla fatta da padrona, seguendo il percorso che Ludlow tentava, arrancando, di seguire, ingoiando merda ed allargando le spalle al peso dei soprusi e della coscienza di essere in lotta contro qualcosa più grande di lui - almeno sulla carta -, delle limitazioni di classe e denaro e della vita stessa: un percorso che passa attraverso il tentativo di risvegliare il buon senso - assente - del padre dell'assassino di Red - un sempre fastidioso Tom Sizemore -, di suo fratello o dell'amico che chiudeva l'allegro terzetto responsabile del misfatto - agghiaccianti i confronti con i genitori di quest'ultimo, interpretati dall'ex Freddy Krueger Robert Englund e da Amanda Plummer -, la legge, la stampa e l'opinione pubblica, per finire all'inevitabile tragedia dello scontro frontale.
E nel corso di tutti questi passaggi, nella mia testa continuava a serpeggiare l'istinto di una voce sommessa eppure insistente, glaciale e terribile: Avery Ludlow, tornato a casa ed individuati i colpevoli - da antologia la sequenza nel negozio di armi -, solo al mondo, privato del ricordo della moglie incarnato dal vecchio cane, aveva solo una scelta. Ucciderli tutti.
Suona davvero brutto, lo so bene.
Ma, come per il già citato Eden Lake, la strada per individui come Danny McCormack e suo padre non prevede un dialogo, o nulla che riguardi il mondo civile: si torna ai tempi della Frontiera, in cui un vecchio cowboy come Ludlow avrebbe fatto giustizia della sua perdita senza troppi scandali attorno.
Suona davvero brutto, ma gente come quella è ben oltre il crimine o il diritto. Oltre la morale. Oltre le convenzioni sociali.
Fortunatamente, viviamo in un'epoca in cui questo tipo di pulsioni viene tenuto sotto controllo dalla legge e dalla sua applicazione.
In un'epoca in cui non può capitare di andare a pesca una domenica mattina, e venire minacciati con un fucile da un gruppo di teenager insicuri e spocchiosi, e vedere il proprio compagno d'avventura spazzato via da un colpo sparato con leggerezza. E codardia.
In un'epoca in cui le pene sono commisurate ai delitti, e la giustizia - sociale e legislativa - è uguale per tutti, e non contano il denaro o la posizione.
Siamo privilegiati, perchè viviamo in un'epoca in cui le persone che lavorano e costruiscono hanno gli stessi trattamenti e fortune di quelli che hanno imparato a crescere mangiando sulle teste degli altri.
O alle loro spalle.
Saremmo privilegiati, ma sappiamo che sono tutte balle.
Viviamo in un'epoca straziante. Come Red.
Che è un attacco feroce agli States di oggi, alla nostra società, e se ci fosse, anche ad un qualsiasi Dio al di sopra.
De Andrè cantava nella splendida Il testamento di Tito "Io, senza legge, rubai in nome mio, quegli altri nel nome di Dio".
Avery Ludlow, tornato a casa e seppellito Red, non avrebbe dovuto avere altra scelta se non quella di tornare da quei tre piccoli pezzi di merda e farli fuori, con la stessa pietà che loro avevano dimostrato per il suo cane.
E se fossimo stati sulla Frontiera, avrebbe avuto diritto anche sui loro scalpi.
Fortunatamente, in questo mondo straziante, ci sono uomini come Avery Ludlow.
Che fino all'ultimo lottano per la verità, e combattono affinchè nessuno debba più ammazzare nessun'altro.
Lottano per l'altro.
E per la speranza.
E fino a quando ci saranno in giro tipi come lui, tutto sembrerà un pò meno brutto di quanto effettivamente non sia.


MrFord


"The sky is turning red
return to power draws near
fall into me, the sky's crimson tears
abolish the rules made of stone."
Slayer - "Raining blood" - 


giovedì 29 marzo 2012

L'altra faccia del diavolo

 Regia: William Brent Bell
Origine: Usa
Anno: 2012
Durata: 83'


La trama (con parole mie): Maria Rossi, una gentile signora con un cuore grande così, nel pieno degli anni ottanta decide di lanciarsi nella sua personale versione de L'esorcista e fa fuori i rappresentanti della Chiesa giunti a salvarla dal Demonio o chi per lui, prima di essere rinchiusa in un manicomio a Roma.
Quasi un ventennio dopo la figlia Isabella, curiosa di scoprire se davvero dietro le azioni della madre si celi una possessione demoniaca, decide di girare un documentario che la segua nel corso del suo viaggio in Italia ed il tentativo di salvare la stessa genitrice orchestrato da due esorcisti conosciuti ad un corso di specializzazione gentilmente offerto dal Vaticano.
Le cose non andranno proprio a gonfie vele.
In fondo, la giovane donna non può saperne una più del Diavolo.




Occorre ammetterlo: tutte le questioni riguardanti l'aldilà, che siano frutto di rapimenti alieni, possessioni demoniache o presunte tali, affascinano sempre noi poveri stronzi abituati a camminare sulla Terra e ben consapevoli che probabilmente il tutto non sia originato se non da massicce dosi di suggestioni, deliri e superstizioni, e che la realtà, per quanto enorme e ancora quasi interamente da scoprire non riservi nulla che trascenda il grande ciclo della vita e della morte regolato dalla Natura.
Immagino che questa a tratti insana fascinazione sia legata alla necessità di credere che tutto non sia soltanto qui, e che esista un "dopo" che ci permetta di darci un pò di tempo più di quello che abbiamo: dal punto di vista cinematografico, dato che la questione della Fede tira fino ad un certo punto - e posso capirlo -, spesso e volentieri ci si è concentrati sulla materia opposta, ovvero sul ruolo che il Diavolo - imprevedibile e zuzzurellone antagonista del Capo - potrebbe avere nelle povere e scombinate esistenze di noi mortali.
Dai tempi de L'esorcista - un prodotto con i controfiocchi ancora in grado di inquietare - e Rosemary's baby - uno dei vertici del Cinema di Polanski -, la qualità dei titoli legati all'argomento è drasticamente calata, passando dal gigionismo de L'avvocato del diavolo - comunque ancora passabile - per finire a sottoprodotti come Paranormal activity e questo L'altra faccia del diavolo, decisamente al di sotto della soglia di guardia minima che dovrebbero mantenere le sale in tutto il mondo.
Certo, come può testimoniare anche Julez, colpita da sonno fulminante nel corso della visione, la mia definizione di "mezza merdina" utilizzata per il riassunto del "day after" non condanna in toto il lavoro di William Brent Bell, sicuramente uno dei più brutti film di questo 2012, principalmente perchè a proposito dello stesso non avevo alcuna aspettativa superiore rispetto a quello che, alla fine, si è rivelato essere: un raffazzonato collage dal montaggio pessimo poggiato su uno script degno di un telefilm tedesco e tutto giocato sull'ormai rischiosissimo format del mockumentary, che dagli anni novanta in poi è riuscito a regalare al pubblico una serie di schifezze monumentali da record alternate solo di tanto in tanto da pellicole effettivamente meritevoli - come fu per l'ottimo The Troll hunter -.
Se non altro, la brevissima durata e gli innocui e completamente amatoriali tentativi di stupire e spaventare il pubblico rendono la visione certamente rapida e quasi indolore, di quelle giuste per una serata a zero neuroni o per una sbronza pesante utile a dimenticare una giornata eccessivamente pesante, in qualsiasi ambito sia.
Peccato, invece, per il fascino del Diavolo - che certamente resta uno dei cardini più interessanti dell'horror -, ultimamente a rischio di estinzione neanche fosse una specie protetta, continuamente bistrattato da registi che dovrebbero stare inequivocabilmente lontani dalla macchina da presa: resto convinto che, in questi anni zero, le espressioni più agghiaccianti di un potenziale ruolo del "Maligno" siano senza dubbio quelle di Elephant o Capturing the Friedmans, o gli scenari più agghiaccianti mostrati da documentari come Workingman's death o L'incubo di Darwin.
Peccato che, a ben vedere, tutto il peggio e l'Orrore - per dirla come Coppola - presenti da queste parti non abbiano davvero nulla di sovrannaturale, ma siano di fatto il ritratto della creatura più pericolosa al momento in giro sulla Terra.
Avete indovinato: siamo proprio noi.


MrFord


"The devil inside
the devil inside
every single one of us
the devil inside
the devil inside
the devil inside
every single one of us
the devil inside."
Inxs - "Devil inside" -


 

mercoledì 28 marzo 2012

Cosa piove dal cielo?

Regia: Sebastian Borensztein
Origine: Argentina
Anno: 2011
Durata: 93'



La trama (con parole mie):  Roberto, un metodico e solitario ferramenta di Buenos Aires che vive nel ricordo della madre morta e colleziona notizie ai limiti dell'assurdo ritagliate dalle cronache dei giornali incontra per caso Jun, un giovane immigrato cinese giunto in Argentina dopo la morte grottesca della sua fidanzata - schiacciata da una mucca precipitata dal cielo - alla ricerca dello zio, finendo per vedere la sua routine stravolta da questo nuovo ingresso nella sua vita.
Tra i due nascerà una gestuale amicizia in grado di lasciare un segno profondo nelle scelte e nel futuro di entrambi, passato attraverso un poliziotto di dubbia morale, un amore negato ed un futuro in un Paese di cui non si conosce nulla, neppure la lingua.




Ringrazio il Cinema che a volte, sulla strada lastricata di tamarrate, visioni che passano e vanno e film d'autore più o meno validi, si permetta a noi pellegrini della settima arte di incrociare il cammino con pellicole come questa.
Cosa piove dal cielo?, vincitore all'ultimo Festival di Roma, è uno di quei film che potrebbe apparire - e io stesso quasi ci cascai, ai tempi delle anticipazioni sulle uscite in collaborazione con il Cannibale - come radical chic estremo da saletta d'essai e che, al contrario, risulta pienamente pane e salame, nonchè onesto, diretto e confortante come una coperta di Linus trasformata in fotogrammi: la vicenda di Roberto e Jun, ambientata in una Buenos Aires fattasi piccola piccola, e giocata tutta sulla semplicità del microscopico malgrado i suoi orizzonti si allarghino all'universalità del macroscopico, risulta essere una delle più appassionanti storie di amicizia che gli ultimi mesi abbiano offerto agli schermi di casa Ford, ironica e leggera quanto profondamente drammatica nell'analizzare due delle più importanti tematiche della società attuale, l'immigrazione e la solitudine.
La prima, trasmessa all'audience dal giovane Jun, esule in terra straniera, incapace di parlare una sola parola di spagnolo, sfrutta il lato comico e grottesco dell'incomunicabilità per raccontarne il dramma, senza mai cedere un istante alla facile retorica legata al sociale e all'alternativismo di prendere a priori le parti di qualcuno che non si prenderebbe, nella realtà, mai sotto il proprio tetto.
Esattamente il contrario di quello che fa Roberto, che ha vissuto tutta la vita onorando una madre che non ha mai conosciuto spinto dal senso di colpa legato alla perdita del padre - ottimo il flashback che rivelerà la sua storia -, e proprio come lui spegne la luce ogni sera alle ventitre in punto, senza sgarrare di un solo secondo.
Roberto che ha origini italiane, e da una pagina de L'Unità ha iniziato la sua raccolta di storie assurde, quasi una prova che l'esistenza non sia altro se non una burla del Destino rispetto alla quale siamo tutti pedine sacrificabili.
Eppure, nonostante questo, lui continua a lottare: lotta nel mandare dove meritano - affanculo - clienti poco sopportabili e fornitori furbetti del suo negozio di ferramenta, nell'accogliere Jun a casa sua, e con l'ospite quella nobiltà d'animo che tanto gli decanta la spasimante Mari, nel colpire un poliziotto limitato e prepotente dove fa più male, nell'accettare che la stessa Mari continuerà ad amarlo proprio per l'uomo che è, e non per quello che potrebbe essere.
Il lavoro di Borensztein e la genuina, straordinaria umanità dei suoi protagonisti rende Cosa piove dal cielo? un film "contro" efficace come raramente se ne riescono a trovare, portatore di quella forza di cui noi che come Roberto e Jun viviamo negli angoli nascosti delle grandi città - e dell'esistenza - avremmo bisogno ogni giorno per fronteggiare l'isolamento e la solitudine, l'incomprensione dei Poteri e quella della burocrazia - esemplare la sequenza della disavventura di Roberto all'Ambasciata cinese -.
Il tutto portando la settima arte ad una dimensione più umana, lenta e "piccola" anche se solo nelle apparenze, perchè in grado, nei "porca puttana" di questo eroico ferramenta e nei silenziosi disegni del suo timido apprendista, di affrontare le domande che neppure il Cinema "alto" osa fronteggiare senza alcun trucco, divenendo così a tutti gli effetti una sorta di nuovi Don Chisciotte e Sancho Panza del grande schermo.
Avercene, di combattenti così.
Rudi, solitari e nobili.
Fragili, spauriti e indifesi.
Ognuno con una sensibilità che completa quella dell'altro.
Avercene, e soprattutto, trovare il nostro ideale, che sia dall'una o dall'altra parte.
Così sapremmo scovare sempre il coraggio di portare fino in fondo ogni nostra piccola rivoluzione.


MrFord


"Don't know what's comin' tomorrow,
maybe it's trouble and sorrow;
but we'll travel the road, sharin' our load,
side by side."
Ray Charles - "Side by side" -


martedì 27 marzo 2012

Incendies - La donna che canta

Regia: Denis Villeneuve
Origine: Canada
Anno: 2010
 Durata: 130'


La trama (con parole mie): Nawal Marwan, una donna dal passato misterioso, è appena deceduta, ed i suoi due figli gemelli, Jeanne e Simon, nati e cresciuti in Canada, scoprono di dover compiere un viaggio in Medio Oriente affinchè gli ultimi desideri della loro madre possano essere esauditi.
Ognuno di loro avrà un compito: per la prima, determinata a fare luce sul passato della famiglia, ed il secondo, decisamente arrabbiato e refrattario all'idea, si apriranno le strade verso il loro perduto padre ed il fratello che non sapevano di avere.
Un viaggio drammatico ed intenso alla scoperta delle proprie origini svelerà ben più di quanto i due si sarebbero aspettati, il passato di Nawal e la sua identità di "donna che canta" e quello che pare un monito affinchè il concetto di amore divenga più forte di quelli di odio, religione e territorialità.





Esistono pellicole in grado di toccare temi molto noti ed esaminati a fondo dalla settima arte riuscendo ugualmente a mostrarne aspetti unici ed irripetibili, a portare sullo schermo personaggi memorabili o scene di culto: Incendies - o La donna che canta - è senza dubbio parte del novero.
Personalmente ho sempre seguito - per quanto possibile rispetto alla distribuzione italiana e occidentale in genere - con molto interesse il Cinema mediorientale, in grado di regalare al mondo Maestri come Kiarostami - se non avete mai visto nulla di suo, correte a recuperare quel Capolavoro che è Il sapore della ciliegia - o volti nuovi di una sensibilità potente e moderna come Jafar Panahi - Il cerchio ed Oro rosso cult imperdibili -, ma anche piccole perle di valore come La sposa siriana, o La banda.
Spinto da una produzione tutta occidentale, il lavoro di Villeneuve riesce ad inserirsi alla perfezione nello stesso ambito narrando una storia in bilico tra passato e presente che è una scoperta dei martoriati territori dibattuti tra israeliani e palestinesi - ma non solo - ed un viaggio di intensità incredibile all'interno di una famiglia, dal suo passato, al presente fino al futuro, con l'eredità consegnata da Nawal ai suoi due figli gemelli, generati dall'odio eppure spinti come solo una madre può fare verso una nuova via, quella del perdono e dell'amore che abbraccia un concetto non tanto religioso quanto figlio delle posizioni di John Lennon o Fabrizio De Andrè, che scava a piene mani nella miseria ed affiora dal sangue e dal fango per costruire qualcosa di nuovo.
In particolare, risultano strepitosi i passaggi ambientati nel passato della protagonista, dall'esecuzione del primo flashback all'agghiacciante incendio dell'autobus che da titolo all'intera vicenda, così come il faccia a faccia conclusivo tra Jeanne e Simon e le loro scoperte a proposito di padre e fratello, in grado di rievocare ai miei occhi il lirismo terrificante di opere indimenticabili quali Old Boy, sempre considerando quanto da queste parti scelte di regia e sceneggiatura così coraggiose sarebbero osteggiate ad ogni livello, dalla produzione all'opinione pubblica bigotta e limitata con la quale ci ritroviamo a confrontarci regolarmente.
Il tutto portato sullo schermo con un'abilità impressionante dietro la macchina da presa, una fotografia ed un piglio che fanno delle opere del già citato Kiarostami una vera e propria lezione ed un crescendo di potenza impressionante, che intreccia la vita di un figlio cresciuto nell'odio e nella guerra e quelle di due preservati da un passato che rischiava di essere troppo fino a quando non fossero stati pronti unite dalla volontà ferrea di una madre che, di fatto, non ha mai abbandonato nessuno di loro, neppure nell'assenza, neppure rinchiusa tra le pareti di una prigione che non l'ha piegata neanche portandole via tutto quello che si potrebbe togliere ad un essere umano.
E con le lettere che giungono ai loro destinatari a compimento del viaggio e della promessa fatta da e a Nawal assistiamo ad uno dei finali emotivamente più toccanti che il Cinema mi abbia riservato in tempi recenti, evocando i fantasmi emotivi di meraviglie come Departures.
Anche in quel caso, la perdita diveniva uno strumento per una nuova consapevolezza, ed una scoperta di se stessi che pare un'eredità: ed è questo, più di ogni altro bene materiale, che Nawal lascia a Jeanne e Simon.
L'eredità di chi ha lottato, è stato oppresso ma non si è fatto schiacciare, ha vissuto la violenza per trasformarla in amore.
L'eredità di ogni madre.
L'eredità della donna che canta.


MrFord


"Per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre,
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce."
Fabrizio De Andrè - "Tre madri" -



lunedì 26 marzo 2012

Young adult

Regia: Jason Reitman
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 94'



La trama (con parole mie): Mavis Gary, ghost writer di una saga di successo per adolescenti giunta alla sua conclusione, fresca di divorzio e stabilitasi con la sua vita disordinata a Minneapolis, torna al paese natale - un piccolo centro di provincia - in occasione del battesimo della figlia di Buddy, ex fidanzato dei tempi del liceo.
La donna, fingendosi in visita per una transazione immobiliare, cerca in realtà di tornare ai tempi in cui lei era la reginetta della scuola ed il futuro sembrava migliore di quanto la vita le abbia riservato, dal matrimonio fallito all'alcolismo incombente, e la strada perchè ciò accada, ai suoi occhi, è legata alla (ri)conquista del vecchio amore.
Peccato che il Destino - ed il paese - abbiano piani diversi per Mavis.




Crescere non è facile. No davvero.
Ancor di più scoprire di essere diventati adulti, in quel decennio tra i trenta e i quaranta  in cui ci si trova a dover mettere a confronto sogni, aspettative e desideri ancora vivi con responsabilità e cambiamenti che paiono pesare come macigni. Uno stato che si potrebbe definire di consapevolezza ed esperienza cui manca, però, l'equilibrio che soltanto la maturità - e solo a volte - è in grado di dare con il sopraggiungere della vecchiaia.
Mavis Gary questo non l'ha ancora imparato sulla pelle - e chissà, forse non lo imparerà mai -, così, armi e bagagli alla mano, muove guerra al suo vecchio paese di provincia e ad una vita che ad un tempo la porta in palmo di mano e la riduce all'ombra del ricordo che ha di se stessa, concentrandosi sulla conquista della vecchia fiamma Buddy, amore mai dimenticato degli anni del liceo, nel pieno dei nineties che tanto ricordano Giovani, carini e disoccupati.
Diablo Cody - classe 1978 - quel periodo deve ricordarlo davvero bene, un pò come il sottoscritto e tutti quelli che, ai tempi, sognavano Wynona Rider o Ethan Hawke: deve esserci molto, di lei, in Mavis, o almeno i fantasmi che gli inquieti si portano dietro anche quando la loro vita prende una direzione definita o di successo.
Ma la cosa che più mi ha colpito della sceneggiatura della diabolica Cody e di Young adult è la capacità dello script di mostrare il meglio - ma soprattutto ed impietosamente il peggio - dei due lati della barricata: se, infatti, Mavis maschera dietro l'aura del successo cittadino una natura fragile e meschina, il fantasma dell'alcolismo ed un'immaturità imbarazzante - terribili le sequenze dei confronti con l'ex compagno di liceo Matt ed il suddetto Buddy - portati in scena da una stratosferica Charlize Theron, la geografia umana del paese cui fa ritorno appare clamorosamente arida, fatta di ignoranza e banalità, pregiudizi e visioni limitate - se non peggio, come nel caso dei genitori di Mavis o della sorella di Matt -.
Nessuno pare salvarsi, da questo ritratto impietoso che deve la sua efficacia più alla penna della sceneggiatrice che non a Jason Reitman, che continua fondalmentalmente il discorso già iniziato con i lavori precedenti riscattandosi comunque senza dubbio dello scialbo Tra le nuvole, e dai personaggi - quasi tutti in qualche modo perdenti - al pubblico non si esce senza una qualche ferita dalla lotta che ingaggia Mavis rispetto allo status quo del suo passato, e perfino quando la presa di coscienza della protagonista - nella già citata sequenza da brividi della festa per il battesimo della figlia di Buddy - pare dare una qualche speranza rispetto al futuro tutto cambia completamente prospettiva al primo - limitatissimo - riconoscimento del vecchio io della stessa Mavis.
Una fotografia terribile che potrebbe vestire meglio un dramma, più che una commedia, e che ricorda i momenti più oscuri di un altro road movie dell'anima da crisi di mezza età come fu Broken flowers, senza però la stessa carica imprevedibile e sbarazzina in grado di lasciar intravedere una luce in fondo al tunnel.
La partenza di Mavis, infatti, suona come una vittoria di Pirro da entrambe le parti, e la sensazione di essere coccolati e liberi eppure inesorabilmente prigionieri crea un legame quasi empatico con il piccolo cane completamente in balìa di questa scrittrice fantasma non più così giovane come vorrebbe.
Un pò come volere, e non potere.
Niente di più simile ai dolori della crescita.
A qualsiasi età decidano di bussare alla nostra porta.


MrFord


"And so I cry sometimes when I'm lying in bed
just to get it all out, what's in my head
and I, I'm feeling a little peculiar
and so I wake in the morning and I step
outside and I take deep breath
and I get real high
and I scream to the top of my lungs
what's goin' on?"
4 Non Blondes - "What's up" -


domenica 25 marzo 2012

Safe house - Nessuno è al sicuro






 Regia: Daniel Spinosa
Origine: Usa
Anno: 2012
Durata: 115'



La trama (con parole mie): Matt Weston lavora per la CIA come custode di una casa sicura a Città del Capo, e coltiva da mesi il desiderio di essere trasferito a Parigi, dove sta per tornare la sua ragazza. Non ha ancora avuto incarichi importanti e non è mai stato al centro dell'azione quando nella sua vita piomba Tobin Frost, un ex agente divenuto fuorilegge che intende trafficare un file con informazioni riguardanti elementi corrotti dei servizi segreti di tutto il mondo, CIA inclusa. 
Braccato da misteriosi inseguitori e costretto a rifugiarsi all'ambasciata statunitense, Frost diverrà partner forzato di Weston, confuso rispetto a dove si trovi la verità: sta nelle parole del suo "protetto" o in quelle dei suoi capi? Nella ribellione o nell'informazione?
La risposta giusta potrebbe costargli la vita.




Onestamente, pensavo davvero molto peggio.
Le prospettive perchè fosse previsto un uragano di bottigliate c'erano tutte: un regista di quelli presi direttamente dal grande libro dei mestieranti, il pessimo Ryan Reynolds, una trama che non si presentava come la più originale della Storia del Cinema ed un Denzellone Washington in gigioneggiamento selvaggio: eppure devo ammettere che Safe house si è lasciato guardare in discreta scioltezza, collocandosi senza infamia e senza lode tra quei titoli utili per i weekend di relax o le serate di stanca, quando non si vuole chiedere troppo al cervello ma neppure al tamarro che è in noi, e si cerca una pellicola che passi e vada, senza colpo ferire.
Certo, effettivamente lo script è prevedibile e già visto e sentito, Reynolds è inespressivo come al solito, Washington spadroneggia quasi a voler rimarcare il fatto di trovarsi tra i produttori esecutivi della pellicola e già dal decimo minuto è chiaro quale sarà la direzione presa dal regista e come finirà la vicenda, eppure si segue il tutto con discreto piacere senza fare troppo caso alla senzazione di deja-vù perenne, Reynolds risulta quasi quasi simpatico - ho detto quasi, sia chiaro -, Denzellone comunque è un grande e quindi gli si perdona un eccesso di ego da crisi di mezza età e la regia di Espinosa, per quanto priva di qualsiasi originalità, non presenta neppure, di contro, particolari mancanze tali da giustificare la furia dello spettatore.
Una volta presa coscienza di questi fatti, basta solo lasciarsi coinvolgere come se ci trovassimo in un episodio di Alias o 24, tornando con la mente alle atmosfere di un altro titolo dal sottoscritto decisamente più apprezzato e sopra le righe con lo stesso protagonista, Man on fire: azione e complotto mescolati come nel più classico degli spy movies del passato recente, con il dubbio a rendere la vita dura al consueto protagonista in pieno boy scout style fino all'inevitabile confronto tra le ombre del potere ed i suoi nemici - o almeno quelli dichiarati tali dallo stesso -.
Insomma, tutto quello che, nel decennio passato, è stato seminato dai vari Bourne e tradotto in opere più o meno impegnate e riuscite negli anni della paura post undici settembre viene raccolto e sgravato del fardello di quel periodo, presentando un prodotto che ha tutte le caratteristiche del blockbuster senza impegno ma che, a conti fatti, riesce a mantenere la credibilità necessaria affinchè non si pensi di aver buttato nel cesso quasi due ore del proprio tempo con un'opera neppure degna di essere distribuita.
Il peggio che possa capitarvi, tra una sparatoria ed un inseguimento, un complotto ed una storia d'amore, Brendan Gleeson e Vera Farmiga, è di assopirvi sul divano: ma niente paura.
Il bello di prodotti come questo è che riescono a passare indenni anche attraverso il sonno, neanche fossero una sorta di maggiordomo premuroso che ci appoggia il cuscino sotto la testa dopo averlo sprimacciato e avvolge la coperta attorno ai nostri piedi, in pieno stile mummia egizia.
A volte, dopo una giornata tra lavoro e impegni di ogni genere, non si può davvero chiedere quasi nulla di più.


MrFord


"He lives in a house 
a very big house
in the country
watching afternoon repeats
and the food he eats
in the country."
Blur - "Country house" -


sabato 24 marzo 2012

Il ragazzo con la bicicletta

Regia: Jeanne-Pierre e Luc Dardenne
Origine: Belgio
Anno: 2011
Durata: 87'



La trama (con parole mie): Cyril è un ragazzino con evidenti problemi comportamentali legati al suo abbandono da parte del padre Guy e alla permanenza in un istituto.
Nel corso di una delle sue continue fughe dallo stesso alla ricerca dell'indirizzo del genitore, Cyril incontra per caso la giovane parrucchiera Samantha, che prende subito a cuore la sua vicenda e si offre di ospitarlo come tutrice nei week end, nonchè di aiutarlo a rintracciare il suddetto padre.
Quando l'incontro con Guy non va come Cyril vorrebbe, il legame tra lui e Samantha cresce d'intensità, pur se minacciato dall'influenza negativa che il giovane Wes potrebbe esercitare sul suo futuro.
Cosa attenderà dunque il ragazzino sempre ai pedali della sua affezionatissima bicicletta? Una nuova figura materna o una vita sulla strada, con il soprannome di Pitbull?
Cyril, forse per la prima volta, avrà tutto nelle sue mani.



Devo confessare di non avere mai avuto un rapporto idilliaco con i fratelli Dardenne: per quanto, infatti, continui a pensare che siano una delle voci più importanti del panorama del Cinema d'autore europeo, mi sono ritrovato ad ammirare alcuni loro lavori - La promesse e Il figlio su tutti - e a detestarne profondamente altri - il pluripremiato ed incensato Rosetta -, nonchè a contestare la giuria di Cannes che, una volta sì e l'altra pure, tende ad assegnare la Palma d'oro ai due fratelli ormai francesi d'adozione.
Il mio approccio ad ogni loro nuovo lavoro, dunque, è sempre piuttosto cauto, dato il suddetto amore/odio che riescono a suscitare nel sottoscritto: con questo Il ragazzo con la bicicletta, insolitamente ignorato all'ultimo Festival di Cannes vinto dal pippone malickiano The tree of life, devo ammettere per la prima volta di essermi trovato di fronte ad un loro film soltanto discreto, incapace di farmi incazzare ed inveire, dunque, contro tutte le orde di radical chic che venerano i due fratelli più noti alla settima arte del Vecchio Continente o, al contrario, di lasciarmi senza parole, stordito dalla potenza di un Cinema che ha fatto dell'anti-spettacolarizzazione uno dei suoi punti di forza.
La vicenda di Cyril e Samantha, infatti, per quanto ricca di spunti decisamente interessanti e sempre in linea con una realtà durissima e mai conciliante, mi è parsa più debole rispetto a quanto i Dardenne sono soliti proporre, tanto da ricordarmi più il leggero e piacevole Tomboy - una delle sorprese più interessanti del Cinema transalpino recente - che non una delle storie tutte peso e sofferenza dei creatori del già citato Rosetta.
Ora, lungi da me criticare una pellicola perchè non abbastanza dura o senza speranza - la capacità di arrivare al cuore dello spettatore passa senza dubbio anche dall'ottimismo -, ma ho trovato in questo film una certa difficoltà di fondo - o meglio, incertezza - sulla direzione da far prendere all'intero lavoro: dall'inizio insistito ed irritante cucito addosso ai dolori del giovane Cyril all'incontro rivelazione con il padre in grado di far rivedere il giudizio precedente sull'irrequieto pre-adolescente, dalla vita con Samantha all'incontro con Wes, dal drammatico confronto finale con le due vittime della rapina in grado di lasciar presagire il peggio ad un'apertura che, più che orientata alla speranza, resta insapore come una realtà per la quale lottare è un affare di ogni giorno, un insieme di scelte una più difficile dell'altra da prendere per poter pensare di andare avanti - Samantha ed il suo compagno, Cyril e suo padre -.
In questo senso troviamo, forse, il meglio che quest'opera abbia da offrire, fatto di decisioni spesso e volentieri che più che di piacere o dolore risultano di sopravvivenza, come quelle dei due protagonisti, che trovano nel loro legame un modo per uscire da una realtà che potrebbe non offrire loro quello che vorrebbero: con un minutaggio maggiore e, forse, qualche scelta stilistica in grado di allontanarsi da quello che ormai è un consolidato standard - o clichè? -, forse, ci saremmo trovati di fronte ad una nuova pietra miliare targata Dardenne.
Invece restiamo qui a pensare a I 400 colpi e la sua eredità osservando il giovane Cyril lottare per la sua bicicletta, ultimo ricordo e lascito di un padre inadeguato e codardo, e in sella alla stessa affrontare ogni caduta e conseguenza delle stesse.
In fondo, con qualche graffio in più, resta sempre lei.
E se anche non sarà la migliore del mondo, sarà la sua: quella che viaggia al passo e alla marcia giusti, e che sa dove dovrà condurlo per tornare a casa.


MrFord


"Bicycle bicycle bicycle
I want to ride my bicycle bicycle bicycle
I want to ride my bicycle
I want to ride my bike
I want to ride my bicycle
I want to ride it where I like."
The Queen - "Bycicle race" -
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