Regia: Paolo Sorrentino
Origine: Italia, Irlanda, Usa
Anno: 2011
Durata: 118'
La trama (con parole mie): Cheyenne, una rockstar figlia degli anni del dark e della new wave, si è da tempo ritirata in una sorta di esilio dorato a Dublino, dove vive in compagnia della moglie e quasi galleggia, etereo, in bilico tra le passeggiate al centro commerciale con la giovane Mary e le partite di pelota con la compagna Jane, ancora turbato dal suicidio di due suoi giovani fan avvenuto vent'anni prima, causa principale del suo allontanarsi dal palcoscenico.
Quando suo padre muore, Cheyenne fa ritorno negli Stati Uniti ed inizia un viaggio che diviene iniziatico alla ricerca dell'uomo che, ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, fu carceriere del genitore dell'ex rockstar: lungo la strada farà degli incontri che porranno le basi per un cambiamento radicale della sua vita.
Questo dev'essere proprio l'anno delle delusioni.
Dopo Malick, Polanski, Almodovar e Cronenberg anche Paolo Sorrentino - il mio favorito, con Giorgio Diritti, nel panorama italiano attuale - confeziona un'opera tanto perfetta nella forma quanto profondamente svuotata di sostanza.
Nonostante una regia impeccabile, movimenti di macchina da capogiro, una colonna sonora da urlo firmata da David Byrne e Bonnie "Prince" Billy, la fotografia d'impatto di Luca Bigazzi e tutti i pregi - e i difetti - di una grande produzione internazionale patinatissima, la resa ed il lascito di quest'ultima opera del regista partenopeo manca della potenza emotiva che aveva caratterizzato tutto il suo Cinema precedente, in particolare i miei titoli favoriti L'uomo in più e lo splendido Il divo.
Certo, non siamo di fronte ad una pellicola completamente sbagliata, o incapace di affascinare: i momenti magici non mancano, sia dal punto di vista tecnico - la sequenza del concerto di David Byrne riesce a rendere tutta la carica che pensavo solo un "live" potesse trasmettere allo spettatore - che emotivo - il confronto tra il protagonista ed il figlio della cameriera Rachel proprio in merito alla canzone dei Talking heads che da titolo al film -, ed il fascino del road movie autoriale made in Usa pervade l'intera opera, mescolando abilmente il Wenders di Paris, Texas e i Coen di Arizona Junior, eppure proprio in questo suo essere artisticamente convenzionale l'opera di Sorrentino perde la freschezza se vogliamo casereccia che aveva sempre contraddistinto il suo lavoro, togliendo cuore a quella che è sempre stata una sorta di macchina perfetta.
Dalla sua This must be the place ha comunque un crescendo convincente che - pur se molto lentamente - cattura l'attenzione ed il cuore dello spettatore aprendolo ad una crescita simile a quella del suo protagonista, che nonostante l'età, l'apatia ed i rimorsi attraversa la pellicola neanche fosse un adolescente ancora alla ricerca di se stesso - per quanto lo stesso possa negarlo -, riuscendo, soprattutto con il finale, ad innescare una reazione sotterranea eppure dirompente a livello sentimentale, tracciando una linea nell'esistenza di Cheyenne e, in una certa misura, nella visione dello spettatore.
In questo senso, Sean Penn - che già tutti sapevamo essere un attore assolutamente dotato - incede e conquista con il passare dei minuti, anche se la sua interpretazione risulta essere talmente sopra le righe da sfiorare - soprattutto nella parte ambientata a Dublino - quella gigioneria da bottigliate tanto osteggiata in casa Ford: lo sbuffo sul ciuffo è un esempio perfetto.
Cosa resta, dunque, di This must be the place?
Sorrentino ha iniziato a percorrere l'inevitabile - o quasi - parabola discendente delle talentuose promesse non in grado di reggere la pressione delle ribalte importanti?
O ha soltanto cominciato a prendere le misure - come fu per Nolan con Insomnia - in modo da essere pronto al vero salto di qualità con il suo prossimo lavoro?
Di certo, rispetto agli altri registi citati all'inizio del post, in questo caso la delusione è stemperata dalla voglia dell'autore - che traspare anche nei momenti meno riusciti della pellicola - di raccontare e portare sullo schermo un percorso che pare sempre profondamente personale - anche quando le sbavature dello script si fanno notare, come in questo caso - e che, soprattutto, dopo una fase centrale a rischio di perdizione tutta citazioni, gente strana degli Usa da profonda e grottesca provincia ed un autoriale sensazione di deja-vù, riesce a riprendere il filo conduttore della narrazione regalando un ottima chiusura, quasi a dirci che il Sorrentino internazionale diventerà grande, ed il futuro che lo aspetta è nuovo e, in qualche modo, privo delle "zone d'ombra" di questo suo lavoro.
Io continuo a sperarci.
Anche perchè, se dovessi proprio fare il cinico, direi che se "this must be the place", sarebbe meglio che il buon Paolo torni dalle nostre parti, perchè "il luogo" a stelle e strisce non sembra proprio giovargli.
MrFord
Dopo Malick, Polanski, Almodovar e Cronenberg anche Paolo Sorrentino - il mio favorito, con Giorgio Diritti, nel panorama italiano attuale - confeziona un'opera tanto perfetta nella forma quanto profondamente svuotata di sostanza.
Nonostante una regia impeccabile, movimenti di macchina da capogiro, una colonna sonora da urlo firmata da David Byrne e Bonnie "Prince" Billy, la fotografia d'impatto di Luca Bigazzi e tutti i pregi - e i difetti - di una grande produzione internazionale patinatissima, la resa ed il lascito di quest'ultima opera del regista partenopeo manca della potenza emotiva che aveva caratterizzato tutto il suo Cinema precedente, in particolare i miei titoli favoriti L'uomo in più e lo splendido Il divo.
Certo, non siamo di fronte ad una pellicola completamente sbagliata, o incapace di affascinare: i momenti magici non mancano, sia dal punto di vista tecnico - la sequenza del concerto di David Byrne riesce a rendere tutta la carica che pensavo solo un "live" potesse trasmettere allo spettatore - che emotivo - il confronto tra il protagonista ed il figlio della cameriera Rachel proprio in merito alla canzone dei Talking heads che da titolo al film -, ed il fascino del road movie autoriale made in Usa pervade l'intera opera, mescolando abilmente il Wenders di Paris, Texas e i Coen di Arizona Junior, eppure proprio in questo suo essere artisticamente convenzionale l'opera di Sorrentino perde la freschezza se vogliamo casereccia che aveva sempre contraddistinto il suo lavoro, togliendo cuore a quella che è sempre stata una sorta di macchina perfetta.
Dalla sua This must be the place ha comunque un crescendo convincente che - pur se molto lentamente - cattura l'attenzione ed il cuore dello spettatore aprendolo ad una crescita simile a quella del suo protagonista, che nonostante l'età, l'apatia ed i rimorsi attraversa la pellicola neanche fosse un adolescente ancora alla ricerca di se stesso - per quanto lo stesso possa negarlo -, riuscendo, soprattutto con il finale, ad innescare una reazione sotterranea eppure dirompente a livello sentimentale, tracciando una linea nell'esistenza di Cheyenne e, in una certa misura, nella visione dello spettatore.
In questo senso, Sean Penn - che già tutti sapevamo essere un attore assolutamente dotato - incede e conquista con il passare dei minuti, anche se la sua interpretazione risulta essere talmente sopra le righe da sfiorare - soprattutto nella parte ambientata a Dublino - quella gigioneria da bottigliate tanto osteggiata in casa Ford: lo sbuffo sul ciuffo è un esempio perfetto.
Cosa resta, dunque, di This must be the place?
Sorrentino ha iniziato a percorrere l'inevitabile - o quasi - parabola discendente delle talentuose promesse non in grado di reggere la pressione delle ribalte importanti?
O ha soltanto cominciato a prendere le misure - come fu per Nolan con Insomnia - in modo da essere pronto al vero salto di qualità con il suo prossimo lavoro?
Di certo, rispetto agli altri registi citati all'inizio del post, in questo caso la delusione è stemperata dalla voglia dell'autore - che traspare anche nei momenti meno riusciti della pellicola - di raccontare e portare sullo schermo un percorso che pare sempre profondamente personale - anche quando le sbavature dello script si fanno notare, come in questo caso - e che, soprattutto, dopo una fase centrale a rischio di perdizione tutta citazioni, gente strana degli Usa da profonda e grottesca provincia ed un autoriale sensazione di deja-vù, riesce a riprendere il filo conduttore della narrazione regalando un ottima chiusura, quasi a dirci che il Sorrentino internazionale diventerà grande, ed il futuro che lo aspetta è nuovo e, in qualche modo, privo delle "zone d'ombra" di questo suo lavoro.
Io continuo a sperarci.
Anche perchè, se dovessi proprio fare il cinico, direi che se "this must be the place", sarebbe meglio che il buon Paolo torni dalle nostre parti, perchè "il luogo" a stelle e strisce non sembra proprio giovargli.
MrFord
but I guess I'm already there
I come home she lifted up her wings
guess that this must be the place
I can't tell one from the other
did I find you, or you find me?
there was a time Before we were born
if someone asks, this where I'll be . . . where I'll be."
Talking heads - "This must be the place" -