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lunedì 31 ottobre 2011

This must be the place

Regia: Paolo Sorrentino
Origine: Italia, Irlanda, Usa
Anno: 2011
Durata: 118'



La trama (con parole mie): Cheyenne, una rockstar figlia degli anni del dark e della new wave, si è da tempo ritirata in una sorta di esilio dorato a Dublino, dove vive in compagnia della moglie e quasi galleggia, etereo, in bilico tra le passeggiate al centro commerciale con la giovane Mary e le partite di pelota con la compagna Jane, ancora turbato dal suicidio di due suoi giovani fan avvenuto vent'anni prima, causa principale del suo allontanarsi dal palcoscenico.
Quando suo padre muore, Cheyenne fa ritorno negli Stati Uniti ed inizia un viaggio che diviene iniziatico alla ricerca dell'uomo che, ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, fu carceriere del genitore dell'ex rockstar: lungo la strada farà degli incontri che porranno le basi per un cambiamento radicale della sua vita.



Questo dev'essere proprio l'anno delle delusioni.
Dopo Malick, Polanski, Almodovar e Cronenberg anche Paolo Sorrentino - il mio favorito, con Giorgio Diritti, nel panorama italiano attuale - confeziona un'opera tanto perfetta nella forma quanto profondamente svuotata di sostanza.
Nonostante una regia impeccabile, movimenti di macchina da capogiro, una colonna sonora da urlo firmata da David Byrne e Bonnie "Prince" Billy, la fotografia d'impatto di Luca Bigazzi e tutti i pregi - e i difetti - di una grande produzione internazionale patinatissima, la resa ed il lascito di quest'ultima opera del regista partenopeo manca della potenza emotiva che aveva caratterizzato tutto il suo Cinema precedente, in particolare i miei titoli favoriti L'uomo in più e lo splendido Il divo.
Certo, non siamo di fronte ad una pellicola completamente sbagliata, o incapace di affascinare: i momenti magici non mancano, sia dal punto di vista tecnico - la sequenza del concerto di David Byrne riesce a rendere tutta la carica che pensavo solo un "live" potesse trasmettere allo spettatore - che emotivo - il confronto tra il protagonista ed il figlio della cameriera Rachel proprio in merito alla canzone dei Talking heads che da titolo al film -, ed il fascino del road movie autoriale made in Usa pervade l'intera opera, mescolando abilmente il Wenders di Paris, Texas e i Coen di Arizona Junior, eppure proprio in questo suo essere artisticamente convenzionale l'opera di Sorrentino perde la freschezza se vogliamo casereccia che aveva sempre contraddistinto il suo lavoro, togliendo cuore a quella che è sempre stata una sorta di macchina perfetta.
Dalla sua This must be the place ha comunque un crescendo convincente che - pur se molto lentamente - cattura l'attenzione ed il cuore dello spettatore aprendolo ad una crescita simile a quella del suo protagonista, che nonostante l'età, l'apatia ed i rimorsi attraversa la pellicola neanche fosse un adolescente ancora alla ricerca di se stesso - per quanto lo stesso possa negarlo -, riuscendo, soprattutto con il finale, ad innescare una reazione sotterranea eppure dirompente a livello sentimentale, tracciando una linea nell'esistenza di Cheyenne e, in una certa misura, nella visione dello spettatore.
In questo senso, Sean Penn - che già tutti sapevamo essere un attore assolutamente dotato - incede e conquista con il passare dei minuti, anche se la sua interpretazione risulta essere talmente sopra le righe da sfiorare - soprattutto nella parte ambientata a Dublino - quella gigioneria da bottigliate tanto osteggiata in casa Ford: lo sbuffo sul ciuffo è un esempio perfetto.
Cosa resta, dunque, di This must be the place?
Sorrentino ha iniziato a percorrere l'inevitabile - o quasi - parabola discendente delle talentuose promesse non in grado di reggere la pressione delle ribalte importanti?
O ha soltanto cominciato a prendere le misure - come fu per Nolan con Insomnia - in modo da essere pronto al vero salto di qualità con il suo prossimo lavoro?
Di certo, rispetto agli altri registi citati all'inizio del post, in questo caso la delusione è stemperata dalla voglia dell'autore - che traspare anche nei momenti meno riusciti della pellicola - di raccontare e portare sullo schermo un percorso che pare sempre profondamente personale - anche quando le sbavature dello script si fanno notare, come in questo caso - e che, soprattutto, dopo una fase centrale a rischio di perdizione tutta citazioni, gente strana degli Usa da profonda e grottesca provincia ed un autoriale sensazione di deja-vù, riesce a riprendere il filo conduttore della narrazione regalando un ottima chiusura, quasi a dirci che il Sorrentino internazionale diventerà grande, ed il futuro che lo aspetta è nuovo e, in qualche modo, privo delle "zone d'ombra" di questo suo lavoro.
Io continuo a sperarci.
Anche perchè, se dovessi proprio fare il cinico, direi che se "this must be the place", sarebbe meglio che il buon Paolo torni dalle nostre parti, perchè "il luogo" a stelle e strisce non sembra proprio giovargli.

MrFord

"Home - is where I want to be
but I guess I'm already there
I come home she lifted up her wings
guess that this must be the place
I can't tell one from the other
did I find you, or you find me?
there was a time Before we were born
if someone asks, this where I'll be . . . where I'll be."
Talking heads - "This must be the place" -


domenica 30 ottobre 2011

Benvenuti a Cedar Rapids

Regia: Miguel Arteta
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 87'



La trama (con parole mie): Tim Lippe è un assicuratore della Brown Valley, in Wisconsin, non ha mai volato o viaggiato, ha una relazione con la sua ex insegnante delle elementari ed è un nerd fatto e finito.
Quando l'uomo di punta della sua agenzia muore a seguito di pratiche di autoerotismo estreme, il boss decide che sarà Tim a prenderne il posto nell'annuale convention di Cedar Rapids, mandandolo a caccia del quarto premio consecutivo come migliore agenzia del Paese.
I pochi giorni passati lontano da casa significheranno, per Tim, una vera e propria rivoluzione interiore tra alcool, droga, nuove amicizie, sesso e la scoperta del vero volto del mondo da lui creduto dorato degli assicuratori: un covo di avvoltoi e squali mascherato da un puritanesimo della peggior specie.



Non è la prima volta, ultimamente, che la commedia americana apparentemente demenziale, pur non attestandosi a livelli particolarmente clamorosi, riesce a sorprendermi in positivo, finendo per risultare una visione godibile e rilassante invece di un vero e proprio disastro da bottigliate: di recente, la piacevole Come ammazzare il capo e vivere felici così come la sorpresa Crazy, stupid love hanno riabilitato il genere in casa Ford, spingendomi a recuperare questo lavoro di Miguel Arteta per conciliare un pomeriggio da divano selvaggio e patatine in pieno relax da lontananza dal lavoro.
Grazie anche soprattutto alle presenze di Ed Helms - memore delle sue notti da leone - e John C. Reilly il cast risulta azzeccato e in discreta forma - ottima anche Sigourney Weaver nel ruolo della tardona dalla gran voglia di divertirsi a letto -, e fa da cornice ad una regia certo non superiore al più semplice mestiere, ma che porta a casa la pagnotta riuscendo, a tratti, quasi ad apparire come una commedia "alla Sundance".
Dovendo rimanere qualche secondo in più sulle questioni tecniche, mi pare doveroso citare anche l'ottima fotografia, a tratti addirittura patinata, che si concentra su toni molto autunnali e gioca sull'equilibrio tra costumi e scenografia.
Giusto, però, per non apparire come un barboso professore per la gioia del mio nemico Cannibale, lascio alle spalle il giudizio critico per concentrarmi su una storia soltanto apparentemente sguaiata che rivela un'anima malinconica, facendo leva su un quartetto di protagonisti completamente allo sbando impegnati - almeno al principio - ad apparire decisamente meno complessati e disequilibrati di quanto in realtà non siano - un pò quello che accade a tutti noi nell'ambito lavorativo, e spesso e volentieri non solo -, senza risparmiare qualche sonora ed apprezzatissima frecciata al bigottismo fasullo da chiesotti figli della provincia profonda.
La riscossa di Tim/Ed Helms, passata attraverso l'emancipazione da tutte le regole di perbenismo in cui lo stesso protagonista è vissuto quasi rifugiandovisi fino a quel momento è un piacevole spasso fantozziano per lo spettatore, che, pur non identificandosi con il protagonista - almeno per quanto mi riguarda, ho trovato decisamente più affine la figura del casinaro Dean Ziegler/John C. Reilly, vera e propria mina vagante della convention di Cedar Rapids -, non ha difficoltà ad empatizzare con le sue gesta da imbranato conquistatore in grado di sedurre la madre di famiglia Joan Fox - personaggio che ricorda molto quello della Alex Goran/Vera Farmiga di Tra le nuvole - e la giovane prostituta Bree, che apre all'impacciato Tim un mondo che riporta alle situazioni limite del magnifico Winter's bone.
Certo, stiamo parlando di un film piccolo piccolo, eppure, a tratti, quasi mi è parso di tornare indietro ai tempi della stagione migliore del Cinema indipendente americano, quando il radicalchicchismo era soltanto un miraggio ed una certa dolceamara spontaneità la faceva di gran lunga da padrona: considerate le aspettative che nutrivo a proposito di questa pellicola, direi che si potrebbe considerare addirittura un (quasi) successo.
Inoltre, momenti come il fuori programma in piscina di Ziegler, Tim e Joan o l'ingresso trionfale al party in soccorso di Tim di Ronald in versione The Wire diventano piccole perle in grado (di nuovo quasi) di apparire a loro modo cult.
Insomma, dovendo pensare di dedicare un'ora e mezza scarsa ad un ozio gradevole e in qualche modo costruttivo, sicuramente una gita a Cedar Rapids è da prendere in considerazione: non si sa mai che i racconti delle vostre gesta non diventino un modo per farsi ammirare dalla hostess di turno.

MrFord

"But tell me please, would you one time just let me be myself ?
So I can shine with my own light, let me be myself
Would you let me be myself?"
3 Doors Down - "Let me be myself" -

sabato 29 ottobre 2011

32 (is my number)


La trama (con parole mie): ne più ne meno, il 29 ottobre di trentadue anni fa nasceva il buon, vecchio Ford. 
Per oggi, dunque, spazio ai festeggiamenti, alle bevute, ai ricordi e ai piccoli rituali legati a questa ricorrenza da inesorabile scorpione con ascendente scorpione.
Vi inviterei tutti questa sera per una bella sbevazzata tutti insieme, ma data l'impossibilità dell'impresa, direi che il meglio possibile potrebbe essere che ognuno di voi mi dedichi una bella, goduriosa, divertente e possibilmente sguaiatissima sbronza.








Onestamente, non saprei bene da cosa cominciare.
Del resto, se ho aperto un blog quasi esclusivamente di Cinema vorrà pur dire qualcosa: in particolare, che se non in riferimento alla visione di una pellicola, probabilmente come narratore di me stesso e delle imprese che quotidianamente mi vedono protagonista rischierei di essere una vera e propria scarpa vecchia.
Inizialmente pensavo che questo post sarebbe stato velato di una sorta di malinconia da amarcord autunnale, ripensando a quando, alle elementari e alle medie, compivamo gli anni nel corso del mese almeno in dieci, ed i vari papà organizzavano sempre gigantesche feste comunitarie con giochi, premi e tabelloni vari, o al mio periodo selvaggio, quando passai le serate di quella caldissima fine ottobre 2006 praticamente sempre ubriaco, o quando per i trenta Julez mi portò nel profondo della periferia milanese in un vecchio capannone per affrontare il mio primo approccio al wrestling lottato.
Poi, influenzato da giornate non troppo piacevoli al lavoro, l'idea è mutata profilando una sorta di sfogo che liberasse un pò di quello che si nasconde dietro il cowboy, mostrando il lato più (auto)distruttivo, stronzo e da outsider del sottoscritto, lo stesso che lotto ogni giorno per tenere sempre il più possibile in letargo in modo che non scombini - in negativo, ovviamente - la mia vita.
Ma, come ben sa il mio fratellino Dembo, quelli come noi sono Balboa nati, e neanche il tempo di crogiolarmi un pò nell'autocompatimento che già ero tornato a girare (quasi) al massimo, con le mie sveglie alle sei del mattino per fare palestra, i libri ad attendermi nei viaggi in treno, i pensieri e la lotta per domarli, l'idea che, prima o poi, il viaggio più importante di tutti inizierà, e tutto il resto sembrerà davvero essere stato fin troppo poco, e sarà una vera goduria continuare a muovere i miei passi in quella direzione.
Quindi eccomi qui, a parlare di tutto e di niente e con la curiosità e la voglia di festeggiare, come negli ultimi quattro anni, su una barca alcolica che unisce idealmente la frontiera del saloon allo spirito piratesco che è una parte fondamentale di tutti gli esploratori della vita come il sottoscritto.
Il tutto, ovviamente, senza dimenticare di prepararmi una bella fonda di carnazza al sangue che ricordi a me stesso e a chi mi è vicino quanto "corpo" c'è in tutto lo "spirito" che posso mettere nelle cose.
Del resto, dalle mie parti il bicchiere è sempre pieno, e un morso non si nega mai.
Quindi, che siate conquistatori dei sette mari o stanchi mandriani impolverati, alzate tutti i calici e brindate con me, fino in fondo e fino all'ultimo goccio.
Come sempre.


MrFord

"Oh, I am weak.
Oh, I know I am vain.
Take this weight from me,
Let my spirit be unchained."
Johnny Cash - "Unchained" -

P.S. Chiudo con una videocitazione - in originale, giusto per apprezzare il timbro clintiano - di quello che è il mio film di compleanno per antonomasia, nonchè una delle pellicole fordiane del cuore, Gli spietati, che attorno al 29 ottobre di ogni anno cerco sempre di rivedere per ricordarmi un pò chi sono, e finire per scoprire sempre qualcosa in più.



venerdì 28 ottobre 2011

Boris - Il film

Regia: Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Luca Vendruscolo
Origine: Italia
Anno: 2011
Durata: 108'



La trama (con parole mie): Renè Ferretti, regista televisivo noto per il suo legame affettivo e scaramantico con il pesce rosso Boris, rompe con la produzione a causa di divergenze artistiche legate alla fiction dedicata al giovane Ratzinger.
Dopo mesi di chiusura, depressione ed inattività, si presenta però un'occasione unica: girare la versione cinematografica de La casta, il best seller che rivelò tutto il marcio dietro i meccanismi politici italiani, con un cast di prim'ordine ed uno staff tecnico d'avanguardia.
Peccato che, per Ferretti, l'impresa si rivelerà fin dal principio ardua: affidatosi ad un gruppo di tre sceneggiatori un pò troppo furbi, il poco equilibrato Renè si troverà a gestire primedonne impazzite, vecchi rancori, sotterfugi della produzione ed il nemico giurato di ogni cineasta del Bel Paese, il Cinepanettone.




Nonostante la sua fama, i fan raccolti a furor di popolo tra piccolo schermo, rete e stampa specializzata, sugli schermi di casa Ford non ha ancora fatto la sua apparizione la fortunatissima serie all'origine di questo interessante esperimento cinematografico, vera e propria sensazione delle ultime stagioni, almeno per quanto riguarda le qualitativamente pessime proposte che vengono prodotte qui da noi con pochissime eccezioni - Boris, per l'appunto, e quella meraviglia di Romanzo criminale -.
Occorre subito sottolineare che, per essere una sorta di "spin off" della serie, il lungometraggio risulta pienamente godibile anche da profani della stessa, dato l'indirizzo fornito dagli autori all'intera operazione, una sorta di guascona - ma neppure troppo - rivisitazione della situazione cinematografica nostrana.
E senza dubbio, nonostante le risate, ad uscirne è un quadro decisamente preoccupante per il nostro Cinema, fatto di arruffoni, incompetenti, volgarità, approssimazione e portato avanti da sonore leccate di culo distribuite in egual misura alla produzione - fantastici i colloqui con i rappresentanti della casa distributrice - e agli attori protagonisti - i siparietti che l'ottimo Francesco Pannofino/Renè Ferretti regala con le due primedonne Marilita Loy e Corinna Negri sono da manuale -, senza contare i confronti surreali con gli sceneggiatori - ottimo il terzetto di "approfittatori" in cui figura, tra l'altro, per tornare a Romanzo criminale, l'indimenticato Bufalo, così come la loro "vittoria" dell'Oscar - e con lo staff tecnico - quello "di serie A", borioso ed altezzoso, e la schiera di personaggi da bar che ben conosce chi segue la serie dal principio -.
Resta un esperimento, questo è indubbio, ancora parzialmente grezzo, eppure il senso dell'intera operazione assume connotati decisamente superiori alle aspettative che anche un non fruitore del format televisivo corrispondente come il sottoscritto riconosce ed apprezza, guadagnandosi, nel prossimo futuro, tutto il sostegno di casa Ford, dove cominceranno a passare le puntate fino ad ora lasciate nel cassetto delle (dis)avventure di questo coriaceo pesce rosso e della troupe che lo segue neanche fosse un antico idolo.
Complimenti dunque ai registi e a Pannofino, che oltre ad essere un grandissimo doppiatore si rivela un ottimo caratterista, ed un plauso al personaggio impagabile di Pietro Sermonti/Stanis, che con la sua ossessione nel voler interpretare Gianfranco Fini ed il fantastico siparietto al funerale del collega Francesco Campo risulta il vero e proprio punto di riferimento - con Biascica, senza dubbio - per la parte più trash e divertente della pellicola.
Resta il timore che, come il buon Ferretti, alla fine, nonostante tutti i tentativi di emanciparci dal Cinema "basso" e tornare ai fasti dei tempi d'oro, tutti noi figli dello stivale si sia costretti, prima o poi, a piegare la volontà di fronte al grande buco nero dei Cinepanettoni, un concentrato di volgarità e terribile ridimensionamento non soltanto delle nostre teste, ma anche dei problemi che pesano, giorno dopo giorno, sugli abitanti della Terra dei cachi.

MrFord

"Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, abusi sessuali abusivi;
tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati, motorini truccati che scippano donne truccate;
il visagista delle dive e' truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo, una lacrima sul visto:
Italia sì!"
Elio e Le Storie Tese - "La terra dei cachi" -

giovedì 27 ottobre 2011

The guard - Un poliziotto da happy hour

Regia: John Michael McDonagh
Origine: Irlanda
Anno: 2011
Durata: 96'



La trama (con parole mie): Gerry Boyle, inusuale e scorretto poliziotto di campagna irlandese, vede la sua routine fatta di qualche acido e una scopata con escort ogni tanto turbata dall'arrivo nel suo territorio dell'agente federale Wendell Everett, giunto sull'isola di smeraldo per sgominare un gruppo di narcotrafficanti locali che si sospetta stiano pianificando uno scambio con i loro soci in affari lungo la costa.
Tra omicidi, anziane madri colpite dall'Alzheimer e difficoltà con il gaelico, i due uomini - profondamente diversi tra loro - dovranno, non senza difficoltà, unire le forze per fare fronte alla corruzione della polizia locale ed evitare di essere ammazzati come nel più classico dei film noir, cercando allo stesso tempo di fare la cosa giusta.
Più o meno.



Le strane coppie sono sempre state uno dei punti forti del poliziesco, al Cinema e non.
Dall'accoppiata vincente Danko/Ritzik ai formidabili Hap e Leonard letterari, passando per Starsky e Hutch, il duo di investigatori soli contro tutti ha spesso e volentieri regalato grandi soddisfazioni agli autori in grado di azzeccarne la formula, finendo per divenire una sorta di vera e propria garanzia a fronte di characthers in grado di conquistare il pubblico: The guard - mi rifiuterò di citare nel corso del post l'ignobile titolo italiano -, in questo senso, non è da meno.
Sull'onda dell'ottimo In Bruges, John Michael McDonagh recupera Brendan Gleeson e lo catapulta nella campagna irlandese tutta gaelico e facce segnate da alcool e lavoro, delineando un personaggio che ricorda il Walter lebowskiano con un pizzico - per usare un eufemismo - di eccentricità in più: il sergente Gerry Boyle, che fin dalla prima sequenza sfodera una perla dietro l'altra - impagabili le sue battute sull'origine etnica dei narcotrafficanti ed il palpeggiamento dei cadaveri -, ha tutte le caratteristiche per entrare nel cuore dello spettatore pane e salame nonostante la confezione - fotografia, scelta delle inquadrature, montaggio - sappiano fin nel profondo di Cinema autoriale un pò ruffiano.
Eppure, così come fu poco tempo fa con Nord, The guard si scrolla di dosso a suon di - a tratti nerissime - risate i suoi tratti potenzialmente più radical chic, ed in barba ad una sceneggiatura a volte un pò troppo facile ingrana la marcia con l'inserimento nel cocktail dell'agente speciale Everett, tutto d'un pezzo e ligio alle regole e alle procedure, agli antipodi rispetto al ruvido collega Boyle.
E così, dall'incomprensibile gaelico - "Che credevi, siamo in Irlanda, qui, non vorrai mica sentire parlare inglese!" - alla partecipazione del sergente alle olimpiadi di Seul 1988 passando per il suo viaggio in solitaria a DisneyWorld, i due protagonisti infilano una serie di gag azzeccate una dopo l'altra, giusto in tempo per scaldare i motori e finire a fronteggiare il malvagio - anche se pare più grottesco - trio di trafficanti, tra i quali spicca l'ormai cattivo per antonomasia Mark Strong, cui forse poteva essere dedicato addirittura più spazio.
Un omaggio, pur se particolare, all'Irlanda e ai suoi splendidi paesaggi, che fanno da sfondo ad una vicenda in realtà legata a doppio filo a corruzione, violenza, segreti nascosti - davvero triste la vicenda del giovane collega di Boyle e della moglie - e pallottole a volontà per un finale che ricorda i vecchi scenari western filtrati attraverso la sensibilità action figlia dei Michael Mann e dei William Friedkin.
E il dubbio che corre lungo la schiena di Everett se Boyle sia "uno stupido che fa il furbo" o "un furbo che si finge stupido" diviene un modo per descrivere al meglio uno dei migliori antieroi che siano capitati al noir cinematografico recente capitanato dall'indimenticabile pilota di Drive.
Certo, con parecchi anni, chili e litri di Guinness e Jameson in corpo in più.

MrFord

P. S. Un appunto - ed una serie incredibile di bottigliate - vanno ai responsabili dell'indecente titolo italiano. Roba da interdire l'accesso alle sale per tutta la vita agli autori di questo abominio.


"Dal Donegal alle isole Aran
e da Dublino fino al Connemara
dovunque tu stia viaggiando con zingari o re
il cielo d'Irlanda si muove con te
il cielo d'Irlanda è dentro di te."
Fiorella Mannoia - "Il cielo d'Irlanda" -

mercoledì 26 ottobre 2011

Super

Regia: James Gunn
Origine: Usa
Anno: 2010
Durata: 96'



La trama (con parole mie): Frank Darbo è un uomo finalmente felice. Dopo una vita da sfigato ai margini, infatti, ha trovato la sua anima gemella - la bella Sarah - ed è convolato a nozze, ed ora può alzarsi ogni mattina pensando e ripensando al giorno del fatidico "sì" e a quando aiutò un poliziotto a dare la caccia ad un borseggiatore.
Peccato che, dietro l'angolo, il destino sia pronto a riservare un tiro mancino al nostro: il piccolo criminale locale Jacques, infatti, seduce Sarah e scrive la parola fine al matrimonio di Frank, che, abbattuto e deluso, si rifugia nel fumetto e nel progetto di darsi al supereroismo elaborando l'identità di Crimson Bolt, il nuovo paladino della giustizia armato di chiave inglese.
Con difficoltà più o meno sormontabili, l'uomo comincia a farsi un nome per le strade della città, fino a quando la giovane commessa della fumetteria Libby non scopre la sua identità e decide di diventarne la spalla: a quel punto i due alleati saranno costretti a dare fondo a tutte le loro risorse per affrontare Jacques e i suoi scagnozzi.



Ormai una cinquantina e più d'anni fa, Stan Lee rivoluzionò il mondo del fumetto introducendo la caratteristica che sarebbe divenuta la chiave di volta di questa parte del mondo delle nuvole parlanti: quello del "supereroe con superproblemi". 
Dall'Uomo Ragno agli X-Men, nacquero così uno dopo l'altro personaggi che, per la prima volta, non erano schiacciasassi tutti d'un pezzo come Superman, bensì uomini e donne comuni d'improvviso alle prese con problematiche legate ad una natura in grado di renderli unici e, in una certa pericolosa misura, speciali.
Allora l'idea di una trasposizione cinematografica di uno qualsiasi di questi charachters era praticamente impensabile, e forse neppure lo stesso Lee pensava che scelte come quella di Peter Parker di lasciar fuggire il rapinatore che avrebbe poi tolto la vita al suo adorato Zio Ben avrebbero costituito uno standard con il quale ogni supereroe avrebbe dovuto confrontarsi: il tempo è passato, con gli anni abbiamo assistito ad avvenimenti da restare a bocca aperta - la morte e la resurrezione di Superman, le molteplici vicissitudini di Batman, il clone dell'Uomo Ragno - e visto passare sul grande schermo versioni finalmente degne di questo nome delle avventure degli eroi in calzamaglia che nel corso della nostra - o almeno mia - storia di lettori di fumetti abbiamo immaginato migliaia di volte di vedere resi anche in sala. 
Tanto da giungere ad una sorta di eccesso dalla parte opposta.
Così, ai tradizionali "supereroi con superproblemi" si sono aggiunti quelli improvvisati, capeggiati dall'ottimo Kick Ass, una delle cose migliori che il genere abbia riservato al pubblico negli ultimi anni.
Tutto questo, per arrivare a Super.
Onestamente, ho sempre pensato che James Gunn fosse un regista poco più che insulso - nonostante la fama consolidata che lo stesso mantiene rispetto al pubblico di nicchia - e quando sentii parlare di questo film pensai che si sarebbe rivelata la versione scopiazzata ed imbolsita dell'appena citato Kick Ass.
Al contrario di ogni mia nefasta previsione, invece, il lavoro con protagonisti gli ottimi Rainn Wilson ed Ellen Page - senza dimenticare Kevin Bacon - risulta una delle sorprese migliori dell'ultimo periodo, partendo neanche fossimo nel pieno dell'atmosfera grottesca di Scott Pilgrim per poi scivolare lentamente in una sorta di versione coloratissima da allucinogeno di un noir senza speranze, violento e terribile, e virare clamorosamente nel melò con una delle conclusioni più belle che un film di questo tipo abbia mai regalato all'audience.
La mia potrebbe sembrare una posizione addirittura esagerata, eppure non riesco davvero a non premiare il coraggio mostrato da Gunn portando sullo schermo uno sfigato totale che decide, tramite la maschera di Crimson Bolt, di applicare la vendetta personale alla giustizia nel senso "fumettistico" del termine, arrivando a tratti ad essere addirittura eccessivo in senso opposto, se non quasi psicopatico - l'aggressione al tizio che salta la fila al Cinema, o quella ai danni del giovane forse colpevole di aver rigato la macchina di un'amica della sua spalla Libby, interpretato dal Matt Saracen di Friday Night Lights -, per non parlare del rapporto tra Frank e la suddetta Libby, che porta a galla quelle che furono, ai tempi, le ipotetiche tensioni sessuali rispetto al rapporto tra Batman e Robin nel pieno dell'epoca maccartista.
Inoltre, le numerose riflessioni suscitate e mosse dal concetto del supereroe assumono dimensioni differenti e sempre più profonde con il passare dei minuti, passando dalle risate quasi di compatimento della prima parte alla silenziosa commozione del finale, una perfetta sintesi dell'accettazione della perdita emotiva - e fisica - di una persona amata nonchè una sorta di elogio del "molto piccolo", che potenzialmente potrebbe crescere e diventare qualcosa di clamorosamente grande ed unico per il mondo come una nuova vita - e più - consegnata alla Storia.
Perchè, in fondo, cos'è un eroe? Chi è che si nasconde dietro la maschera ed il costume sgargiante?
La fortuna degli Spider Man di allora fu data, di fatto, proprio dal loro essere umani ed imperfetti, tanto da stimolare la curiosità dei lettori rispetto a quello che accadeva quando il costume finiva sotto i vestiti civili, o "tra una vignetta e l'altra" l'eroe di turno aveva tutto il tempo di annoiarsi nell'attesa che un crimine potesse essere sventato.
Perchè cos'è, in fondo, un eroe? Per Sarah ed il suo futuro sarà Frank, molto prima e molto più di Crimson Bolt. 
La stessa Libby, anche in costume, non esiterà neppure un secondo a continuare a chiamarlo proprio Frank.
Essere un eroe non significa essere perfetti.
Essere un eroe non significa essere giusti.
Essere un eroe significa fare il più perfettamente possibile quello che crediamo potrà essere giusto.
Non necessariamente per noi, e sempre con l'idea che possa esserlo per le persone per cui lo facciamo.
In questo senso, Frank diventa il padre di quelli che potranno essere tutti i figli di Sarah.
In questo senso, gli eroi che ci formano, ci salvano e ci consegnano il futuro, superproblemi ed imperfezioni comprese, sono proprio i genitori.
Che fanno di tutto perchè noi, un giorno o l'altro, si possa essere eroi anche più grandi di loro.

MrFord

"I, I will be King
and you, you will be Queen
though nothing will drive them away
we can be heroes just for one day
we can be us just for one day."
David Bowie - "Heroes" -


martedì 25 ottobre 2011

Melancholia

Regia: Lars Von Trier
Origine: Danimarca
Anno: 2011
Durata: 136'


La trama (con parole mie): Justine e Michael si sono appena sposati, felici e contenti e pronti a farsi due risate nonostante il loro ritardo al ricevimento del matrimonio a causa di una limo troppo ingombrante per i tornanti che portano al fiabesco eremo dove li attendono parenti ed amici.
Peccato che, appena arrivati, la sposa diventi una depressa completamente imprevedibile cui non frega più nulla di quello che ha attorno, più che altro perchè c'è qualcosa di molto più importante, ad attendere la Terra.
Qualcosa che si chiama Melancholia.
Un pianeta venuto da chissà dove che piove dritto dritto sulle nostre teste, pronto a seminare distruzione nella vita borghese e tutta certezze della sorella tutta d'un pezzo Claire, moglie del fu Jack Bauer, ex uomo d'acciaio improvvisamente convertito ad astronomia e cagasottismo.




Permettetemi di parafrasare L'attimo fuggente.
Escrementi.
Ecco cosa penso del Cinema attuale di Lars Von Trier.
Ho appena concluso la visione di quello che, da parte di molti, in questi giorni, ho letto essere considerato un Capolavoro.
Mi ci sono voluti un bel pò di patatine, altrettanta Coca Cola e molto, molto più Jack Daniels.
Non tanto perchè fosse noioso - e lo è stato, senza se e senza ma -, o perchè la tanto celebrata Dunst non sia stata minimamente all'altezza delle sue interpretazioni migliori.
Non tanto perchè il buon Lars passi le due ore e oltre della pellicola a smanettarsi di fronte al seno della suddetta.
Non tanto perchè pare quasi di avere di fronte un figlio di papà che più borghese non si potrebbe tentare - senza successo, peraltro - di disconoscere la sua natura.
Più che altro perchè Melancholia è l'ennesimo tentativo di riportare Kubrick in sala cercando di dimostrarsi l'erede ultimo di quello che è stato uno dei più grandi registi di tutti i tempi.
Ci aveva già provato, con risultati decisamente negativi, anche Malick, qualche mese fa, in occasione dello stesso Festival di Cannes che ha visto Von Trier cacciato per le sue inutili sparate da esibizionista dall'ego troppo grande perchè il talento possa sorreggerne le ambizioni.
E dove ha fallito Malick, dal sottoscritto sempre profondamente amato, cosa poteva fare il povero Lars, autore di uno degli scempi cinematografici più clamorosi di tutti i tempi - per chi non lo sapesse, Antichrist -?
Niente, è la risposta.
Tant'è che Melancholia si rivela pessimo fin dall'incipit, che cerca di ricalcare l'unico barlume di talento intravisto nel crimine contro il Cinema citato poco sopra: una sequenza terrificante di immagini random che vorrebbero sconvolgere lo spettatore - o creare aspettativa - di quello che si rivelerà poi la pellicola: un'interminabile attesa del momento in cui Melancholia metterà fine alle sofferenze dello spettatore, intrappolato in un incubo che rimanda - oltre a Kubrick - all'Altman di Un matrimonio e a Bergman, ovviamente senza raggiungere neanche per scherzo i livelli di Maestri che l'ex profeta del Dogma potrà solo e soltanto continuare a sognarsi, almeno quanto le tette della Dunst, che insegue per buona parte della pellicola e sfodera per il suo - e di numerosi spettatori - piacere in una scena che sfiora per ridicolo le peggiori della sua indecorosa opera precedente.
Infarcito di terrificanti prese di posizione - siamo soli nell'universo perchè io lo so - e da una spocchia che vorrebbe tanto, ma proprio tanto, sconvolgere quelli che sono i dogmi - per l'appunto - della più "buona" società di cui il regista è il primo e più importante esponente - un pò come il suo irritante cast, Rampling e Hurt su tutti -, a Melancholia non basta l'attesa, ma desidera ardentemente che noi martiri in sala si vada fino in fondo: in questo senso, diviene agghiacciante ed involontariamente ridicola tutta la prima parte dedicata alla festa del matrimonio, preludio di una ancora più terribile seconda metà completamente dedicata all'apocalittico arrivo del pianeta "nascosto" pronto a cancellare la nostra esistenza dall'universo - e se non c'è nessuno a parte noi, chi se ne fregherà mai, dico io!? - nel corso della quale le due sorelle protagoniste danno libero sfogo all'agghiacciante approccio del regista, neppure per un istante sincero o sentito.
Tutto, in questo film povero e traboccante ego, è vuoto ed assolutamente lontano a quello che dovrebbe essere il grande Cinema.
Le uniche cose azzeccate paiono essere il "bacio" tra i due pianeti nel delirio dell'incipit e la presenza di Antares e del "mio" scorpione.
Ne avevo già parlato, in occasione di Drive.
Lo scorpione non perdona.
E adora pungere le sue rane.
Specialmente quelle che pensano che il loro saper nuotare implichi, in qualche modo, il fatto di essere prescelte.
E a voi anfibi insignificanti dico: la vostra grotta magica non vi servirà.
Se questo mondo cattivo di cui tanto avete paura dovesse essere schiacciato da questo piccolo pianeta melanconico, finirete in polvere come tutti noi.
A proposito della grotta magica: ancora rido, cazzo.
La grotta magica.
E di nuovo ho Antichrist davanti agli occhi.
Fortunatamente solo per un istante.
Perchè poi penso alle tette della Dunst.
E al fatto che Von Trier deve averle desiderate oltre ogni limite. 
Ma c'è un ma.
Von Trier, per loro, l'avrà sempre davvero molto, molto piccolo.
E puzzolente.
E la macchina da presa - mi spiace per te, Lars -, non potrà mai essere un surrogato valido.

MrFord


"La noia è come il blues ti fa pensare a dio
leggera come un gas che penetra il tuo io
la noia è nostalgia di un posto che non c'è
è voglia di andar via da tutti e anche da te
è la malinconoia che uccide a questa età
è il cuore che si scuoia cercando quel che ha già
e il cielo cade giù con la sua tenda buia
e non esisti più nella malinconoia."
Marco Masini - "Malinconoia" -




lunedì 24 ottobre 2011

Amici di letto

Regia: Will Gluck
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 109'



La trama (con parole mie): Dylan è un blogger di successo di Los Angeles, legatissimo al padre ex giornalista malato di Alzheimer che ora vive con la sorella; Jamie una giovane cacciatrice di teste in cerca di un nuovo art director per la sede newyorkese di GQ. 
Entrambi, alla fine di una storia, sono stati giudicati dai rispettivi ex emotivamente instabili.
Così, quando Jamie convince Dylan ad accettare il lavoro ed una sistemazione a New York e i due diventano amici per la pelle, decidono di dedicarsi al sesso giurandosi di non cadere nella consueta trappola dei sentimenti per evitare conseguenze per entrambi: ma le buone intenzioni conteranno poco, e quando i due decideranno di darci un taglio per cercare altrove una storia seria finiranno per scoprire che forse la persona di cui hanno davvero bisogno è quella che hanno già accanto.



Considerato come è nato il rapporto tra me e Julez - grande complicità, racconti delle rispettive avventure, uscite a bere nel corso delle quali io finivo a dormire a casa sua completamente sbronzo e lei mi guidava, completamente sobria, confessioni e risate, sboccatissimi resoconti delle nottate passate con altre/i per poi finire quasi a non parlarsi più, e dopo ancora arrivare a sposarsi -, devo dire di essere in qualche modo estremamente vulnerabile alle commedie romantiche legate alla classica situazione dei due amici che, inevitabilmente, scoprono di provare sentimenti che vanno ben oltre l'uscita da pacche sulle spalle e sguardi rivolti altrove: personalmente, mi sento di affermare con una discreta sicurezza che è decisamente più utile iniziare una storia quando la vostra partner conosce già a menadito i vostri difetti, piuttosto che dover fingere per i primi appuntamenti in attesa speranzosa che la ragazza di turno si decida a darvela e scoprire soltanto in seguito manie o difetti che potrebbero rovinare una sorta di "aura mitica" sviluppata nel corso dell'attesa, e finire per scappare quasi senza salutare finendo per ritagliarsi il ruolo del vero stronzo - che ha definito una buona parte del mio passato, peraltro -.
Pur non raggiungendo certo i livelli di Zack&Miri, dunque, Amici di letto diverte ed intrattiene come si conviene, confermando la già buona impressione che il regista Will Gluck mi aveva fatto con l'ancor più convincente Easy A, una delle commedie meglio riuscite passate la scorsa primavera sugli schermi di casa Ford: lo stesso incipit - titoli di testa e montaggio alternato della sequenza del "doppio scaricamento" - di questa pellicola risulta a dir poco folgorante, e prova la freschezza di scrittura di un autore che, almeno in questo genere, potrebbe rivelarsi come uno dei volti più interessanti del panorama statunitense recente, e trova in Justin Timberlake - sono sempre più convinto di vederlo decisamente meglio in questa sua veste da attore, piuttosto che da cantante - e Mila Kunis due spalle perfette sulle quali appoggiare l'intero script - con l'ausilio forse troppo limitato ma ugualmente efficace di un sempre grande Woody Harrelson, che addirittura torna a calcare i campi di pallacanestro di strada a vent'anni di distanza da Chi non salta bianco è -, giocando sulla tipica sincerità tra amici che trova risvolti ovviamente sessuali e ovviamente molto divertenti quando gli stessi amici sono un uomo ed una donna - anche se, occorre ammetterlo, spesso e volentieri la Kunis appare più mascolina dell'apparentemente gay Timberlake -: spassosi, in questo senso, sono i continui riferimenti a Harry Potter e i doppi sensi per nulla velati sparati a raffica da Harrelson all'indirizzo del suo art director.
Non manca qualche piccolo scivolone o momento tirato per i capelli, e forse con una decina di minuti in meno il film avrebbe complessivamente guadagnato in efficacia, ma non lamentiamoci troppo: tra un flash mob ed una sana scopata, molte risate spontanee ed una certa predisposizione dei due protagonisti all'autoironia, questa pellicola dal terribile titolo italiano - molto più convincente l'originale Friends with benefits - appare perfetta per una serata di coppia, e finisce per essere in grado di soddisfare le aspettative delle Jamie sempre in cerca della commedia romantica perfetta e del principe azzurro - Pretty woman, quanti danni hai fatto! - e dei Dylan che, prima di arrivare a capire di essere innamorati, hanno bisogno di pensare di essere duri, fighi, tosti ed inattaccabili. 
Harry Potter permettendo.
Il tutto senza dimenticare che nonostante un panesalamismo diffuso e più che generoso, non c'è una scena volgare neppure a volerla cercare a forza, e le parolacce ed il sesso appaiono quanto di più genuino possa trovarsi in un rapporto di coppia: i benefici di partire dall'amicizia.
Che poi, a ben guardare, offre una tradizione decisamente favorevole: Harry e Sally ne sanno qualcosa.

MrFord

"Your lipstick stains on the front lobe of my left side brains
I knew I wouldn't forget you, and so I went and let you blow my mind
Your sweet moon beam, the smell of you in every single dream I dream
I knew when we collided, you're the one I have decided who's one of my kind."
Train - "Hey soul sister" -

 

domenica 23 ottobre 2011

Assassination games

Regia: Ernie Barbarash
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 101'



La trama (con parole mie): Vincent Brazil e Roland Flint sono due tra i migliori assassini prezzolati del mondo. Il primo, professionista della vecchia scuola, continua a rifugiarsi in un vecchio quartiere di Bucarest e farsi pagare in diamanti in attesa di ritirarsi, mentre il secondo, già scomparso dai radar dei suoi vecchi datori di lavoro, accudisce a tempo pieno la moglie in stato vegetativo a seguito dell'attacco del criminale Polo.
Quando i vertici dell'Interpol si ritrovano al centro di uno scandalo di corruzione, emerge la necessità di eliminare tutti i "collaboratori esterni" di cui gli stessi si sono avvalsi nel corso degli anni: a questo punto il ruolo di Polo diviene importantissimo per stanare Flint ed eliminarlo.
Peccato che, dopo una prima serie di schermaglie, quest'ultimo e Brazil uniranno le forze per fare piazza pulita di tutti quelli che pensano di potersi liberare di loro neanche fossero l'immondizia del giorno prima.
E a quel punto, sarà chiaro a tutti come andranno a finire le cose.



Quando, quasi per caso, ho scoperto l'esistenza di questo film, ho avuto una sorta di tuffo al cuore.
Scott "Boyka" Adkins, ammirato in Undisputed 2 e 3, e l'intramontabile Van Damme fianco a fianco nella stessa pellicola significava, in qualche modo, rivivere i fasti degli Expendables o immaginare un incontro tra Snake Plissken e Rambo.
L'emozione, dunque, era quella delle grandi occasioni e del bambino che è in noi tornato a farsi prepotentemente sentire neanche avesse addocchiato un giocattolo cui proprio sente di non poter fare a meno.
Peccato che, nonostante le premesse di botte da orbi ed una confezione che strizza l'occhio alla quasi autorialità - chiara imitazione dell'ottimo JCVD -, Assassination games somigli più al soporifero Professione assassino che non alle pellicole che, ormai vent'anni fa, lanciavano il vecchio Jean Claude nell'Olimpo degli eroi action più amati di tutti i tempi, finendo per rendere questo film un ibrido senza troppi spunti che, nel corso della visione, rischia addirittura di annoiare in più di un'occasione, tanto pare evidente lo sforzo di portare a casa un risultato nettamente al di sopra delle effettive possibilità di regista, attori e staff tecnico, risultando addirittura, a tratti, involontariamente ridicolo - o quasi, come nella sequenza iniziale, che pare uscita da un siparietto caricaturale di Kusturica e viene salvata solo grazie ad uno dei momenti di maggior fisicità dell'intera pellicola, firmato dall'inossidabile Van Damme -.
Colpevole principale dell'insuccesso dell'operazione, almeno per quanto mi riguarda, è il regista, che evita non si sa per quale oscura ragione di avvalersi delle straordinarie doti fisiche soprattutto di Adkins e si concentra su uno script che avrebbe potuto portare in scena anche il più bolso dei Ray Liotta con una pistola in pugno: quando hai per le mani un atleta come l'anglosassone succitato, è quasi un delitto pensare di sprecarlo nel ruolo del marito malinconico e triste - ingiustificata, oltretutto, la scena dell'aggressione subita dalla moglie di Flint, che da buono spaccaculi inarrestabile difficilmente starebbe legato come un salame da un pò di nastro isolante ad una sedia mentre violentano e lasciano in fin di vita la sua compagna - impegnato quasi esclusivamente dalla lunga distanza e che neppure di fronte al suo nemico giurato - il già citato Polo - sfodera una scazzottata come ci si aspetterebbe in questi casi.
Lo stesso Van Damme, che cerca in tutti i modi di salvare il salvabile - la storia con la prostituta che sogna il riscatto e le carezze alla tartaruga sono degne delle sue migliori perle trash figlie dei gloriosi eighties -, appare poco convinto della validità dell'intera operazione, e nonostante per primo abbia investito denaro nel progetto, pare certo che i fasti del già citato JCVD non possano essere raggiunti neppure per scherzo.
Un vero peccato, perchè un approccio più tamarro e casinaro avrebbe sicuramente reso questo film un piccolo cult di genere, in grado di far saltare di gioia i fan della vecchia scuola come il sottoscritto sempre soggetti al fascino di qualche caro, vecchio, sonoro calcio rotante.

MrFord

"Yeah, yeah!
Tear it up,
rip it up
kick it up!"
Peaches feat. Iggy Pop - "Kick it" -


sabato 22 ottobre 2011

Prospettive di un delitto

Regia: Pete Travis
Origine: Usa
Anno: 2008
Durata: 90'



La trama (con parole mie): a Salamanca, in Spagna, si tiene una grande manifestazione che è il culmine della collaborazione tra il governo americano e quelli europei per arginare la minaccia del terrorismo internazionale. Durante la cerimonia, un misterioso cecchino fa fuoco sul Presidente degli Usa, scoppiano due bombe e con loro il panico. Chi si cela dietro il complotto?
Attraverso le prospettive del capitano di Ogni maledetta domenica reinventatosi Jack Bauer per l'occasione, un turista buono e caro come solo gli ammmeregani sanno essere, i giornalisti cinici che si sciolgono di fronte all'evento traumatico, Said giunto dalle strade de L'odio, il bolsissimo William Hurt ed un altro Jack, quello di Lost, assistiamo ad una sarabanda di eventi che vorrebbero essere sorprendenti e tesissimi, eppure appaiono come una clamorosa sagra del telefonato.



A volte capita di incrociare film per i quali scrivere un post anche minimamente interessante e che vada oltre le cinque/dieci righe dell'introduzione risulta essere un'impresa a dir poco titanica: sono le cosiddette sòle, roba giusto buona per riempire casualmente un pomeriggio di goduriosissimo relax casalingo dopo una settimana di lavoro non sempre piacevole, assolutamente innocua - e meno male! - ma altrettanto clamorosamente inutile rispetto alla nostra vita di spettatori.
Da tempo - esattamente dai giorni migliori di Lost - io e Julez pensavamo di regalare almeno una visione a questa facilmente dimenticabile pellicola, e quasi per caso finiti davanti ad un suo passaggio nella programmazione tv - altro miracolo, che veda qualcosa inserito nei comuni palinsesti - abbiamo deciso di approfittare dell'ozio domenicale per scoprire se il gioco del rewind poteva valere la candela e rendere la visione qualcosa in più del semplice blockbuster che il vostro collega non proprio a suo agio con il grande schermo sarà sempre pronto a definirvi un filmone il lunedì mattina, quando non vorreste nient'altro che essere stesi al sole su una spiaggia tropicale con un bel cocktail e la vostra dolce metà.
Ma cosa non va, per l'esattezza, in Prospettive di un delitto?
Per prima cosa, la patinatissima regia di Pete Travis, anonima quanto più non si potrebbe, seguita a ruota dal consueto cast all stars presenti giusto per il lauto compenso e neppure lontanamente sfiorati dal pensiero di sprecarsi troppo per fornire un'interpretazione non dico memorabile, ma almeno degna dei loro nomi.
Lo stesso script, inoltre, in bilico tra il Cinema action della peggior specie ed una sorta di pallida imitazione della già citata 24, non ha un solo spunto particolarmente sorprendente, ed il gioco - peraltro arcinoto - del continuo ripetersi della singola scena sfruttando i diversi punti di vista dei protagonisti rischia di stancare già al terzo passaggio - e sono otto! -, senza contare che nel momento della vera deflagrazione della storia l'effetto sorpresa è talmente poco sorprendente da lasciare sorpresi al contrario.
Ad aggravare ulteriormente una situazione già delicata, il pessimo personaggio interpretato da Forrest Whitaker, che pare uscito dritto dritto da un film Disney diretto da Muccino o, al limite, da Michael Bay: la sua presenza nel centro del climax conclusivo che porta alla risoluzione della vicenda è in armonia con il resto almeno quanto la scomposta ed involontariamente ridicola corsa dello stesso Whitaker in pieno delirio da eroe del momento.
Se non avete mai provato, nel corso di una visione, il vero terrore, riservatevi di dedicare almeno un rewind - tanto per non andare fuori tema - al bolso Forrest - corri, Forrest, corri! - all'inseguimento dei cattivi, cattivissimi terroristi che non hanno alcun problema, ovviamente, a far saltare una bomba in una piazza gremita all'inverosimile uccidendo decine di persone ma al momento giusto sono pronti a mettere a repentaglio il piano e le loro stesse vite per non investire una bambina.
Bravi.
Benvenuti nel mondo della magia dove tutti siamo amici e amati e felici.
Una sveglia ottima è pensare lucidamente a questo film: che tolto il puro e semplice intrattenimento - molto, molto semplice - non ha assolutamente nient'altro da offrire.
Figuriamoci il realismo.

MrFord

"It's a different point of view to you
you cannot see things that are different to me
and I can't understand why you cannot see
the things that I cannot see."
Blink 182 - "Point of view" -

venerdì 21 ottobre 2011

A dangerous method

Regia: David Cronenberg
Origine: Canada
Anno: 2011
Durata: 99'



La trama (con parole mie): siamo agli inizi del novecento, nel pieno della rivoluzione della psicanalisi operata da Sigmund Freud, vero e proprio pioniere di questa nuova scienza.
Il giovane Carl Jung, suo già designato erede, comincia a sviluppare una serie di teorie che possano significare un vero e proprio superamento del punto di vista del suo stesso maestro, intrecciando ad un tempo con Freud un'amicizia che diviene progressivamente pacata ma decisa rivalità e con la giovane paziente - e futura psichiatra - Sabina Spielrein una relazione che significherà la scoperta dei suoi lati nascosti nonchè la prima di una serie di relazioni extraconiugali che lo resero noto quasi quanto le innovazioni apportate rispetto al progresso della scienza.



Alla fine è successo (addirittura) anche con Cronenberg.
La strana epidemia che pare attanagliare i grandi nomi del Cinema non ha risparmiato neppure uno dei più grandi registi degli ultimi vent'anni, in grado di sconvolgere e deliziare il pubblico con pietre miliari del calibro di A history of violence, La promessa dell'assassino, M. Butterfly, La mosca, Videodrome o Inseparabili: con A dangerous method, infatti, l'autore canadese conosce, a mio parere, il punto più basso della sua produzione recente, confezionando certo una pellicola di classe, girata con stile ed interpretata egregiamente dai protagonisti, eppure completamente priva del mordente e della potenza cui lo stesso cineasta ci aveva abituati.
Un Cinema da salotto simile a quello mostrato da Polanski in Carnage, elegantemente portato sullo schermo, narrato in modo così pulito e lineare - se si esclude la troppo breve parentesi dedicata a Vincent Cassel - da apparire come il più conforme dei compitini, lontano dalle metamorfosi e dalle trasformazioni - fisiche e morali - da sempre legate al lavoro di Cronenberg.
Certo, la progressiva maturazione della giovane Sabina e l'evolversi del rapporto tra Jung e Freud potrebbero essere associate allo stesso concetto, eppure, con il passare dei minuti, l'impressione che manchi sempre qualcosa diviene progressivamente certezza, specie considerato che proprio nel momento in cui la pellicola pare finalmente decollare - l'emancipazione e la nuova vita di Sabine, il "lato oscuro" di Jung vissuto di nuovo, con un'altra amante, e la sua quasi profetica visione dell'imminente Prima Guerra Mondiale, la solitudine che sa di esilio preventivo di Freud - tutto si chiude quasi sottovoce, come se il regista si trovasse, invece che alle prese con la materia fisica e modellabile delle sue opere precedenti, nel pieno di un negozio di cristalleria e abbia in qualche modo troppa paura di fare il passo sbagliato e ritrovarsi a dover pagare i danni.
Forse la psicanalisi o la discreta intellettualità degli scontri tra Jung e Freud non rappresentano il campo migliore nel quale il regista possa dimostrare tutto il suo gigantesco talento, eppure quello che, in condizioni normali, sarebbe un freddo ma decisamente buon film d'autore, si trasforma in questo caso nella copia sbiadita e spenta del Cronenberg dei tempi migliori, tanto da far rimpiangere le più estreme delle "eastern promises" o i due volti del capofamiglia americano così tanto da ritrovarsi quasi senz'aria - e decisamente annoiati - attendendo un'esplosione che, di fatto, nel corso di A dangerous method, non arriva mai.
Lo stesso Mortensen, meraviglioso ed ispiratissimo protagonista delle ultime e già citate fatiche del regista, appare compiaciuto come il suo Freud per i sigari cui non riesce a rinunciare, e pur se con classe, non fa che alimentare il rimpianto per un'occasione decisamente mancata.
Fassbender e la Knightley, dal canto loro, sfoderano due interpretazioni da ricordare eppure mai davvero in grado di arrivare al cuore dello spettatore, quasi fossero contagiati dall'atmosfera posticcia che pervade l'intera opera, finendo per alimentare i dubbi ed il disincanto di tutti quelli che attendevano con ansia questa pellicola - come il sottoscritto -.
"Talvolta occorre compiere qualcosa di imperdonabile per continuare a vivere", sussurra Jung ad un passo dalla depressione che lo coglierà in parallelo allo scoppio del primo conflitto mondiale e lo accompagnerà per tutta la durata della guerra, mentre Sabine si avvia ad un nuovo destino, una nuova vita, una nuova famiglia.
Viene quasi da sperare che anche Cronenberg abbia fatto lo stesso, e questo A dangerous method altro non sia che una marchetta dovuta al distributore per rispettare un contratto in attesa di poter davvero sconvolgere il nostro mondo di spettatori proprio come Freud e Jung con il loro primo viaggio negli Stati Uniti.
Personalmente, lo spero davvero.
Perchè questo suo nuovo metodo non mi pare affatto pericoloso.
Se non per la qualità dell'opera.

MrFord

"Giving into what has got me
feeling claustrophobic, scarred
severed me from all emotion
life is just too fucking hard
SNAP! Your face was all it took
cuz this need ain't doin' me no good
fall on my face, but can't you see?
This fucking life is killing me!"
Slipknot - "Me inside" -