domenica 31 gennaio 2016

Cabin fever

Regia: Eli Roth
Origine: USA
Anno: 2002
Durata: 93'






La trama (con parole mie): cinque universitari freschi di laurea desiderosi di sfogarsi dopo gli anni di studio, tramite la madre di uno di loro, affittano uno chalet per una settimana che intendono dedicare a bevute, sesso e, forse, qualche passeggiata in mezzo alla natura.
Peccato che, poco prima del loro arrivo, un eremita del luogo contragga un misterioso morbo che attacca carne e sangue causando una degenerazione inquietante e terribile, e che un alterco dello stesso con il membro più instabile della compagnia porti ad una serie di circostanze a causa delle quali anche i ragazzi contrarranno la malattia stessa, finendo non solo per dubitare l'uno dell'altro, ma per rischiare di non tornare mai più a casa.
Riusciranno i cinque giovani a trovare un modo per cercare aiuto evitando di lasciarci la pelle o pugnalarsi alle spalle a vicenda senza incorrere nell'ira dei ruvidi abitanti del luogo?










L'uscita in sala del "recente" The Green Inferno ha scatenato, non so neppure io bene per quale motivo, una curiosità a proposito dell'opera di Eli Roth dietro la macchina da presa che, di fatto, non avevo mai avuto: il giovane regista e protetto di Tarantino, infatti, da queste parti era noto solo per la sua mitica partecipazione all'altrettanto mitico Bastardi senza gloria nel ruolo dell'adorato - da Julez, ma anche dal sottoscritto - Orso ebreo.
Dunque, dopo aver archiviato Hostel, il già citato Green Inferno ed il più attuale Knock knock, ho deciso di tornare indietro nel tempo all'inizio degli anni zero, quando il suddetto Roth si affacciava nel panorama della settima arte della grande distribuzione con Cabin fever, horror che richiama le atmosfere di cult come La casa e Non aprite quella porta con una spruzzata di Romero all'interno del quale il regista si divertì anche ad inserire una propria piccola apparizione, e che lo lanciò nel mondo dell'horror come uno dei nomi più caldi legati alla nuova linfa del genere - questo, ovviamente, a prescindere dalla critica più o meno favorevole -.
La visione di Cabin fever, assolutamente divertente - considerato il genere e la mia passione per lo stesso - e disimpegnata, si è rivelata piacevole anche a fronte del fatto di non essere di fronte ad una nuova sensazione dell'horror quanto più ad un ragazzo pronto a portare sullo schermo le suggestioni di migliaia di visioni appassionate di lavori che sono stati, sono e saranno decisamente più validi di quanto potrà mai essere il suo.
Quello, però, che apprezzo e probabilmente continuerò ad apprezzare di Roth è la sua grande onestà nel proporre titoli senza alcuna ambizione "alta" - e non intendo in termini di valutazioni o recensioni, quanto di approccio -, di fatto costruiti solo ed esclusivamente per intrattenere e divertire il pubblico: Cabin fever, per quanto acerbo e derivativo, può essere tranquillamente incluso nel novero, tanto da essere riuscito non solo a far passare una serata distensiva post-lavoro al sottoscritto, ma anche a Julez, per l'occasione riuscita a tenere botta fino alla fine della visione senza crollare addormentata - la gravidanza, del resto, amplifica il già notevole talento naturale della signora Ford per la nanna -.
Doppio merito, dunque, al buon Roth, che con una consistente dose di ironia nera porta al massacro l'ennesimo gruppo di giovani determinati a passare in uno chalet isolato inserito in una cornice impreziosita da rednecks senza ritorno un'intera settimana, ispirando comunque il sottoscritto non soltanto perchè l'idea dello chalet risulta effettivamente affascinante ma anche in materia alcolica - l'idea di bere solo birra durante tutta la vacanza potrebbe risultare una sfida interessante -, portando a galla quello che è il nemico più pericoloso nelle situazioni di sopravvivenza estrema - ovvero chi dovrebbe essere nostro amico - ed arrivando a soluzioni sicuramente valide - il destino di Jeff, autista del gruppo nonchè tramite dello stesso per l'affitto dello chalet -, oltre che divertenti - la figura del vicesceriffo Winston, più strafatto del Drugo dopo una sessione intensiva di White russian -.
Un bel divertissement, dunque, per gli appassionati, che senza dubbio farà storcere il naso a chi, l'horror, non è abituato a masticarlo: e per chi lo adora, come noi qui al Saloon, è una soddisfazione ancora maggiore.





MrFord




"Fever ‘cause I’m breaking
fever got me aching
fever how will you explain
break it down again
fever got me guilty
just go ahead and kill me
fever how will you explain
break it down again."
The Black Keys - "Fever" - 





sabato 30 gennaio 2016

Mustang

Regia: Deniz Gamze Erguven
Origine: Turchia, Francia, Qatar, Germania
Anno:
2015
Durata:
97'








La trama (con parole mie): siamo all'inizio dell'estate in un piccolo villaggio della Turchia settentrionale quando Lale e le sue quattro sorelle, appena terminato l'anno scolastico e separatesi dalla loro insegnante favorita, in partenza per Istanbul, decidono di passare un pomeriggio in compagnia di un gruppo di ragazzi giocando innocentemente al mare.
L'evento scatena lo scandalo nella comunità locale, tradizionalista e di vedute ristrette, e da inizio ad una serie di eventi che porteranno le cinque giovani a confrontarsi con la dura realtà dei matrimoni combinati e della libertà pressochè assente consentita alle donne, soprattutto se giovani e dalle aspirazioni di indipendenza come loro: riusciranno in qualche modo a vincere le resistenze dei parenti, le imposizioni della società ed un destino che le vede tutte già indirizzate alla stessa, identica vita?









Sono il primo ad ammettere che, probabilmente, per quanto le ami da sempre, non riuscirò mai e poi mai a capire davvero le donne.
Troppo empatiche, troppo sveglie, troppo complicate per le bestie che siamo noialtri, che probabilmente e se siamo fortunati viviamo un periodo sensibile nel corso dell'adolescenza prima di lasciarci di fatto travolgere dagli istinti più selvaggi e primordiali - una cosa del tipo sesso, pappa, cacca, per intenderci -: spesso e volentieri, anzi, cerco di tenermi lontano da qualsiasi spiegazione, e cerco con tutte le forze - attuando anche fughe rocambolesche - qualsiasi rottura di palle da digressioni femminili in agguato.
Eppure, quando mi imbatto in visioni come quella di Mustang, non riesco a capacitarmi di quanto e come sia ancora possibile, ad Anni Zero ben più che appena iniziati, che esistano realtà sociali e politiche all'interno delle quali, di fatto, la donna viva ancora un ruolo da prigioniera, costretta a seguire una strada già scritta a meno di non correre rischi importanti per tentare di vivere la propria vita.
E finisco per incazzarmi, e non poco.
Perchè a ben guardare, perfino nelle nostre realtà "evolute" occidentali, la situazione risulta differente in termini macroscopici ma non microscopici: dal lavoro alla vita privata, infatti, le donne vivono ancora una condizione di sudditanza forzata rispetto all'uomo, in grado di saltare meno all'occhio del destino amaro di Lale e delle sue sorelle ma ugualmente negativa.
Penso alle signore ucraine responsabili delle pulizie nel mio posto di lavoro, che si stupiscono perchè noi italiani aiutiamo a sparecchiare la tavola, o a un sacco di miei amici o conoscenti che, a casa, non alzano il culo dal divano neppure per rifarsi il letto, lasciando le incombenze dei lavori domestici completamente alle loro compagne - una cosa che trovo piuttosto infantile, dato che, se vivessero soli, dovrebbero badare a tutta una serie di compiti con le proprie forze -: nessuno è perfetto, sia chiaro, e l'uguaglianza completa tra i sessi non è certo il mio primo pensiero, nel momento in cui penso alla fortuna che abbiamo a trovarci ad incrociare il cammino delle donne, eppure di fronte a lavori come Mustang mi sento scoraggiato rispetto al genere umano, almeno quanto quando capita di imbattersi in muri di ignoranza talmente grandi da rendere impossibile qualsiasi dialogo.
Ed è proprio la capacità di raccontare un muro di questo genere, ed il coraggio - seppur diverso per ognuna - di cinque ragazzine lasciate completamente a se stesse il pregio principale del lavoro di Deniz Gamze Erguven, che senza dubbio non inventa nulla ma porta sullo schermo un film dal grande cuore, che tengo a raccontare senza alcun riferimento legato alle connotazioni geografiche o religiose, che sarebbero solamente pretesti assurdi per collocare un certo tipo di soprusi lontani da casa nostra in modo da chiudere gli occhi rispetto a quello che avviene qui.
La storia di queste sorelle divenute pietra dello scandalo per un pomeriggio passato al mare in compagnia di alcuni compagni di scuola, rifugiatesi in piccole ribellioni quotidiane e nella speranza di una fuga da una casa che è come una prigione c'è tutta la necessità del mondo e della società di uscire da canoni vetusti ed ingiusti, che fanno comodo per coprire gli ominidi da divano e chi ha troppa paura delle donne per potercisi confrontare alla pari.
Personalmente, continuo a pensare possano essere delle gran rompicoglioni, e che in nove casi su dieci mi risparmierei volentieri il suddetto confronto, eppure questo non mi impedisce di sentire sulla pelle il piacere di potermi battere ad armi pari - pia illusione, considerata la nostra semplicità di bestie - con loro ogni volta che se ne presenti l'occasione.
E spero davvero che, un giorno non troppo lontano, giovani con un futuro ancora tutto da costruire come le protagoniste di questo piccolo, grande film possano essere libere di confrontarsi e rompere i coglioni a qualunque uomo vogliano, senza temere per questo di essere picchiate, uccise o, ancora peggio, condannate ad una prigione domestica a vita.





MrFord





"Love you so much
can't count all the ways
I'd die for you girl
and all they can say is:
He's not your kind"
Neil Diamond - "Girl, you'll be a woman soon" -





 

venerdì 29 gennaio 2016

Piccoli brividi

Regia: Rob Letterman
Origine: USA, Australia
Anno: 2015
Durata: 103'






La trama (con parole mie): il giovane Zach, appena trasferitosi in una piccola cittadina del Delaware con la madre vicepreside in cerca di un nuovo inizio dopo la morte del padre, entra in contatto con la figlia del suo vicino, la misteriosa ed affascinante Hannah, che proprio dal genitore pare essere tenuta quasi sotto chiave.
Quando una notte, deciso a capire il perchè dell'ingombrante presenza del padre della teenager, Zach, accompagnato dal nuovo amico Champ, si introduce nella casa di Hannah, scopre che lo spigoloso papà è in realtà il famoso scrittore di romanzi horror per ragazzi R. L. Stine, e che le opere dello stesso sono custodite gelosamente da serrature che, se aperte, hanno il potere di liberare i mostri protagonisti delle fantasie dell'autore nel nostro mondo.
Quando, per una casualità, i mostri troveranno il modo non solo di uscire, ma di ribellarsi, per i ragazzi e Stine inizierà un'avventura che potrebbe costare loro - ed all'intera città - ben più di qualche spavento.











Ricordo bene il periodo in cui i Piccoli Brividi fecero capolino nell'allora casa Ford: mio fratello, tra la fine delle elementari e l'inizio delle medie, si prese una vera e propria cotta per i volumi firmati da R. L. Stine, che il sottoscritto, già nel pieno del turbine dell'adolescenza, snobbò se non nei momenti in cui, mosso da sentimenti da fratello maggiore, chiedevo qualche informazione rispetto agli argomenti trattati.
L'uscita del film in sala, a quasi vent'anni dall'esplosione del fenomeno legato all'opera di R. L. Stine, mi ha lasciato, in un primo momento, piuttosto tiepido, un pò per la scarsa dimestichezza con il prodotto, un pò per la presenza di Jack Black, che negli ultimi anni ha finito per interpretare la caricatura di se stesso neanche fosse Johnny Depp: giunto, dunque, sugli schermi della casa Ford attuale più per dovere di cronaca che altro, Piccoli brividi ha finito per assumere le proporzioni della quasi grande sorpresa.
Scritto e diretto con lo spirito del Cinema d'avventura per ragazzi anni ottanta - nel pieno del movimento revival che ha caratterizzato tutto il duemilaquindici -, citazionista ma mai spocchioso o eccessivo, divertente e ritmato, il lavoro di Rob Letterman non solo è riuscito a tenermi incollato allo schermo dall'inizio alla fine e a solleticare una certa curiosità per la collana che l'ha ispirato, ma anche a sfiorare una valutazione perfino più alta minata soltanto dalla scelta - giusta, considerati i buoni incassi - di tenere aperto il finale regalando al pubblico un paio di concessioni tipicamente hollywoodiane che non stonano ma riportano l'intera operazione su binari più convenzionali di quanto non si possa pensare nel corso della visione.
Nonostante questo, la valutazione dell'intera operazione non può che risultare positiva, ottima per un pubblico più giovane così come per gli eventuali genitori - o fratelli maggiori - pronti ad accompagnare i piccoli nel viaggio accanto agli azzeccati protagonisti Zach, Hannah e Champ - il vero jolly della produzione - e nella battaglia ingaggiata da questi ultimi contro i mostri liberati dai romanzi scritti da R. L. Stine - che trova anche il tempo per una frecciata presumo bonaria a Steven King -: e tra una fuga ed una lotta, un lupo mannaro ed un gruppo di piante carnivore, assistiamo anche ad un paio di momenti decisamente profondi - tanto da riportare alla memoria lo splendido Un ponte per Terabithia - abilmente celati da un'atmosfera easy e scanzonata, all'interno della quale funziona di nuovo e per la prima volta da anni proprio Jack Black.
Una più che discreta sorpresa, dunque, che non solo ha tenuto gli occupanti del Saloon ben incollati allo schermo nonostante la stanchezza del lavoro e delle imprese genitoriali, ma che ha saputo dosare la nostalgia dell'amarcord per i tempi che furono - nel nostro caso, quelli de I Goonies e de La storia infinita, o al massimo di Jumanji, che mi sono ripromesso di recuperare a breve - ed i brividi per una nuova proposta nella quale il Fordino o la sua sorellina in arrivo potranno ritrovarsi in futuro tanto quanto i loro vecchi.
E questo è il bello dell'Avventura.
Quella con la maiuscola, e senza età.
Brividi d'orrore, d'amore o d'emozione, poco importa.
L'importante è sempre il brivido.




MrFord




"Bruh, I can't, I can't even lie
I'm about to be that guy
someone else gon' have to drive me home
la la la
bang-a-rang-rang, bang-a-ring-a-rang-rang
bass in the trunk, vibrate that thang
do your thang, thang, girl
do that thang like la la la."
Jason Derulo - "Get ugly" - 






giovedì 28 gennaio 2016

Thursday's child

La trama (con parole mie): prosegue la marcia d'avvicinamento alla sempre stimolante kermesse degli Oscar, con un altro titolo che, almeno in un paio di categorie, potrebbe essere protagonista.
Al suo fianco a fare la voce grossa questo weekend in sala il remake di un cult che nessuno di noi della vecchia scuola avrebbe mai voluto vedere, e come di consueto, purtroppo, quella piaga del mio socio e co-conduttore della rubrica, Cannibal Kid.
Cercate, dunque, di fare conto che lui non esista e godetevi i commenti del sottoscritto.



"Evvai! Corro a sposarmi con Ford!"

Joy

"Cannibal, se provi a sabotare il mio matrimonio con Ford, ti faccio saltare le cervella!"
Cannibal Kid dice: C'è Jennifer Lawrence e ciò basta per rendere Joy una visione imperdibile. E infatti l'ho già visto. Il responso arriverà a breve. Nel frattempo vado a pulire con il mio mocio vileda questo blog dalla presenza nefasta di Mr. Ford.
Ford dice: Jennifer Lawrence è un argomento che un film dovrebbe sempre avere, per assicurarsi la visione del sottoscritto. Russell, invece, pare essere arrivato all'ultima possibilità, dopo le recenti delusioni.
Joy si rivelerà dunque un richiamo per le bottigliate delle grandi occasioni o un rilancio per un autore che ha finito forse troppo spesso per mettere d'accordo, nel bene o nel male, il sottoscritto e Cannibal?



Point Break

Il weekend giusto per Ford. Un pò meno per Cannibal Kid.
Cannibal Kid dice: Point Break nuova versione si candida a titolo di remake meno necessario dell'anno. E forse di sempre. Le possibilità che riesca a essere mitico anche solo lontanamente quanto l'originale sono parecchio basse. Le possibilità che sia una porcatona fordiana in piena regola sono invece molto alte.
Ford dice: Point break è inimitabile. E solo il pensiero di poterne girare un remake dovrebbe essere considerato un reato. Una cosa perfino peggiore di avere gusti simili a quelli del mio compare di rubrica.



L'abbiamo fatta grossa

"Quei due bloggers? Non li scritturerei neanche per un film tragico!"
Cannibal Kid dice: Carletto Verdone negli ultimi tempi sembra essere entrato nella fase discendente della sua carriera, però se c'è da vedere un suo nuovo filmetto, me lo sparo senza problemi. Il problema è che qui è affiancato da Antonio Albanese che, dopo il curioso Uomo d'acqua dolce, ha presto finito per annoiarmi. Spero che qui non prenda il sopravvento sulla componente verdoniana, così come spero che Ford non prenda mai il sopravvento in questa rubrica. Altrimenti ci sarebbe davvero da sbadigliare.
Ford dice: Verdone e Albanese, nonostante le loro poco interessanti produzioni recenti, sono due volti del Cinema e non solo italiani cui non posso fare a meno di voler bene. Dunque, se dovesse capitare, una visione a questo L'abbiamo fatta grossa la darò.
Quella di Cannibal Kid, invece, me la risparmio volentieri.



Una volta nella vita

"Quel Cannibal Kid è un tipo pericoloso, non lo vogliamo ad insegnare nella nostra scuola. Per non parlare di Ford."
Cannibal Kid dice: Pellicola francese di ambientazione scolastica che affronta il tema della Shoa. Sarà una frizzante visione adolescenzial-cannibale, oppure una noiosa lezione di Storia per professorini alla Mister James Ford?
Ford dice: in piena Road to the Oscars, sinceramente, faccio a meno dei recuperi forzati e scolastici.
Li lascio volentieri a Cannibal Creed, che pensa ancora di essere ai bei tempi del liceo.



The Eichmann Show

"Certo che questi due bloggers sono davvero soggetti da studio."
Cannibal Kid dice: In occasione del Giorno della Memoria, è approdato nei cinema italiani questo film di stampo storico-documentaristico che sembra tanto una roba buona per Ford. Io mi sa che passo.
Ford dice: una cosa che mi infastidisce della cultura italiana è lo sfruttamento selvaggio di occasioni come il Giorno della Memoria. Può starci, per carità, ma penso che neppure il Cannibale riuscirebbe ad essere così figlio del marketing. Passo.



Doraemon il film: Nobita e gli eroi dello spazio

"Manca solo quel pusillanime di Cannibal Creed, e poi siamo pronti per la nostra gita."
Cannibal Kid dice: Doraemon e Nobita li lascio volentieri ai miei nipotini. E a quell'eterno bambinone di James Ford. O altrimenti che rimangano pure nello spazio. Sia loro che Ford.
Ford dice: Doraemon è un personaggio che ho sempre ben accolto da queste parti, ma considerato che la passione per il gatto del futuro del Fordino si è spenta presto, direi che posso tranquillamente passare la mano.
E spedire il mio antagonista nello spazio per un viaggio di sola andata.


mercoledì 27 gennaio 2016

Steve Jobs

Regia: Danny Boyle
Origine: USA, UK
Anno: 2015
Durata: 122'






La trama (con parole mie): attraverso tre episodi chiave della sua carriera - la presentazione del Mac nell'ottantaquattro, quella di Next nell'ottantotto e dell'IMac nel novantotto - scopriamo l'uomo dietro la leggenda di Steve Jobs, creatore e direttore d'orchestra di una delle realtà industriali e di cultura pop più importanti dell'ultimo secolo, Apple.
Dall'ego smisurato ai complicati rapporti con i colleghi e la figlia, così come con il suo passato di bambino adottato, passando per i confronti che l'hanno portato sotto i riflettori sia da un punto di vista umano che lavorativo, scopriamo i fiumi di parole ed i rari, intensi silenzi di un innovatore che seppe sfruttare al meglio il suo talento di sfruttare ed organizzare il talento di altri.










Non sono mai stato un patito di tecnologia.
Ricordo i tempi delle cassette riavvolte con le Bic, il passaggio al lettore cd, internet visto come un mondo da scoprire la prima volta che lo provai in ufficio, quando ancora averlo in casa era quasi fantascienza, almeno in Italia, il primo cellulare, ma di fatto, niente che mi abbia fatto emozionare davvero.
Personalmente, ho memoria dell'IMac soltanto perchè, nei primi anni zero, tutti i disegnatori con i quali lavoravo ai tempi della mia scellerata avventura come sceneggiatore di fumetti l'avevano: e penso di avere totalmente ignorato la vita e le imprese di Steve Jobs - fatta eccezione per i riferimenti alla Pixar - fino alla sua morte.
Curioso, in questo senso, che io sia e sia stato un utente Apple, almeno in parte.
E che tutta l'intuitività dei prodotti della Mela non abbia fatto mai particolarmente breccia, qui al Saloon.
Non troppo tempo fa, nonostante i suoi palesi limiti ed una certa banalità di fondo, avevo finito perfino per sopportare, come fosse un film d'intrattenimento senza pretese, il primo biopic - piuttosto scialbo - dedicato a quella che è stata l'anima di un'azienda che ha cambiato a suo modo il mondo, il "direttore d'orchestra" di un gruppo di ragazzi che da un garage di Cupertino, in California, ha di fatto conquistato l'intero pianeta.
Ma è stato come non avere il polso della situazione, del personaggio, della quadratura del cerchio, fino alla visione dello Steve Jobs di Danny Boyle - per una volta imbrigliato e sobrio con la macchina da presa - ed Aaron Sorkin, che si conferma uno degli sceneggiatori più mostruosi che il Cinema americano abbia in forza attualmente: personalmente, le aspettative rispetto a questo anomalo biopic erano piuttosto basse, complici il recente fallimento del suo regista - al quale ho sempre voluto bene, sia chiaro -, In trance, e l'idea dell'inutilità di fondo di un secondo lungometraggio dedicato al guru dell'Apple nel giro di un paio di stagioni cinematografiche, dunque ho finito per approcciare la pellicola nel modo più distante e critico possibile.
E cosa orchestrano, sfruttando un cast in stato di grazia - dalla conferma Fassbender all'ormai veterano caratterista Jeff Daniels, passando per un sorprendente per il ruolo Seth Rogen e la garanzia Kate Winslet - i già citati Boyle e Sorkin?
Un vero e proprio tripudio di classe, una versione backstage di un biopic classico, che punta più a mostrare i fantasmi del personaggio che racconta che non il personaggio stesso - in questo senso, parliamoci chiaro, Steve Jobs era decisamente un sacco di merda -, una sorta di versione realistica e travolgente di Birdman che, spogliato dai manierismi e dalle lungaggini, interpreta una delle realtà più importanti della società attuale - e parlo in termini pop, non tecnologici - ed il suo fautore, un uomo che non ha avuto paura di farsi odiare finendo, di fatto, per costruire un impero e farsi amare da più generazioni di utenti che, di fatto, lo hanno consacrato quasi al livello di un'icona religiosa.
Ed è davvero un'impresa non da poco, inchiodare alla sedia con un ritmo forsennato il pubblico incentrando l'intera ossatura di un film su un personaggio che, in termini di empatia, non ha davvero nulla da dare, affidandosi esclusivamente a dialoghi serrati, montaggio ed una regia che è una rasoiata, più che a retorica o facili stratagemmi: ci si appella a meccanismi istintivi ed umani, al non detto che, nella vita di tutti i giorni di ognuno di noi, direttori d'orchestra o no, finisce per influenzare in modo definitivo anche tutte le parole che buttiamo su qualsiasi palco della nostra esistenza.
E questo è il vero miracolo di un film di questo genere, che sento già in molti considerare freddo, distaccato, verboso, noioso, lontano, egocentrico: un pò come il suo protagonista.
Onestamente, non mi è mai fregato un cazzo, di Steve Jobs, se non come monito che tutto lo status, i soldi e l'influenza possibili non riusciranno mai e poi mai a salvarci dal Destino almeno quanto l'ultimo dei poveri stronzi.
Eppure, nel corso di queste due ore, Steve Jobs l'ho sentito sulla pelle.
Più di quanto il Mac o l'IPod siano mai riusciti a fare.




MrFord





"Outside of the window
I was sticking with you
we were only kids then
I was staying at yours
sheltered in our own worlds."

The Maccabees - "Grew up at midnight" - 







martedì 26 gennaio 2016

Beasts of no nation

Regia: Cary Joji Fukunaga
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 137'






La trama (con parole mie): nel cuore di una innominata nazione africana, il piccolo Agu e la sua famiglia vengono colti di sorpresa dal sopraggiungere di una guerra civile che ne sconvolge la vita. Separato dai suoi cari, in parte fuggiti ed in parte uccisi durante il tentativo di fuga, Agu è reclutato forzatamente da un gruppo di miliziani per la maggior parte composto da bambini come lui o ragazzi poco più grandi agli ordini di un Comandante pronto a seguire l'onda sanguinaria della nuova rivoluzione in atto.
Quando, dopo mesi di lotta, morte e massacri, droga e situazioni traumatiche, Agu ed i suoi compagni vengono richiamati nella capitale dal nuovo leader, le cose cambiano ancora, e per il piccolo esercito giunge il momento di confrontarsi con la possibilità di non riuscire più a smettere di combattere.










La realtà del mondo in cui viviamo, inutile negarlo, è spesso e volentieri tosta e dura da digerire: che si tratti di condizioni sociali invivibili, lavori al limite della follia, guerre, malattie e chi più ne ha, più ne metta, sono molti i luoghi della Terra che non prospettano ai loro abitanti una vita non tanto lontanamente decente, quanto lunga abbastanza per poter quantomeno pensare di aver vissuto.
La realtà dei bambini soldato in alcuni paesi dell'Africa - ma non solo, ovviamente - è una delle più amare da mandare giù non soltanto per chi, come il sottoscritto, ha dei figli, ma penso in generale per qualsiasi adulto sano di mente: senza, però, scadere in pistolotti retorici in proposito, ricordo in questo senso l'analisi splendida di Rebelle, pellicola che qualche anno fa non solo fotografò alla grande il fenomeno, ma lo fece per la prima volta sfruttando lo sguardo di una protagonista femminile.
Si inserisce nello stesso filone questo Beasts of no nation, più che buon prodotto targato Netflix - che sta diventando una delle realtà più felici del piccolo schermo e non solo - firmato dallo stesso Cary Joji Fukunaga divenuto noto prima per la sua trasposizione di Jane Eyre e dunque per True Detective -: l'odissea terrificante del piccolo Agu, divenuto un miliziano e forzatamente "educato" da un comandante che assume una doppia connotazione di padre e padrone - un ottimo Idris Elba, al centro delle recenti discussioni originate dal "solito" Spike Lee a proposito delle candidature agli Oscar "troppo bianche" -, diretta con occhio come al solito efficace dal regista californiano, fotografata splendidamente - la sequenza lisergica della battaglia con Agu sotto effetto di droga o la camminata tra le trincee nel finale sono visivamente indimenticabili - e ben in equilibrio tra racconto pronto a sensibilizzare il grande pubblico e lavoro autoriale è una delle visioni più interessanti uscite sul finire dello scorso anno, che ho recuperato e vissuto con grande partecipazione, ma che, rispetto al già citato Rebelle, ha finito per convincermi in misura minore.
Probabilmente, e paradossalmente a causa dei pregi appena elencati, ho trovato il lavoro di Fukunaga fin troppo patinato ed in equilibrio per essere davvero sentito dal suo autore, che, indubbiamente, risparmia al pubblico l'americanata finto sconvolgente in stile Blood Diamond ma non ha il coraggio di andare fino in fondo, pur non risparmiando certo passaggi di grande impatto emotivo.
I punti di forza più efficaci restano la riflessione rispetto a questi bambini combattenti, bestie senza paese costrette a combattere fino alla morte - come recita il titolo del film stesso - e la figura del Comandante cui presta volto e fisicità il succitato Elba, in grado di guidare i suoi "uomini" come fossero una sorta di ibrido tra figli, reclute, fratelli di sangue e di lotta ed animali: in questo senso, il suo ruolo di eterno combattente alla ricerca del confronto di forza e dell'affermazione del proprio valore risulta affascinante se messo in relazione con la parte più politica anche di questi sanguinosi conflitti - come si evince dal confronto con il leader della rivoluzione, pronto a relegare il Comandante ad un ruolo di controllo anche a dispetto della volontà di quest'ultimo di continuare a battersi accanto ai suoi "ragazzi" -, che finisce sempre e comunque non solo per essere la causa primaria dei conflitti stessi, ma anche per svilire la lotta di chi li vive in prima linea.
Una prima linea che fagocita anche una volta riusciti ad allontanarsi tutti interi - o quasi - dalla stessa, e rende ancora più selvaggi delle bestie che, in guerra, si è costretti a diventare: bestie che il resto del mondo - quello più vicino alla normalità - dovrà faticare non poco per addomesticare una volta ancora, in cerca di un futuro migliore per entrambe le parti in campo.




MrFord




"I was born into a scene of angriness and greed, and dominance and persecution.
my mother was a queen, my dad I've never seen, I was never meant to be.
and now I spend my time looking all around,
for a man that's nowhere to be found.
until I find him I'm never gonna stop searching,
I'm gonna find my man, gonna travel around."
Iron Maiden - "Wrathchild" - 






lunedì 25 gennaio 2016

Fargo - Stagione 2

Produzione: FX
Origine: USA
Anno:
2015
Episodi: 10






La trama (con parole mie): siamo nel millenovecentosettantanove, in Minnesota. La famiglia Gerhardt, da tempo dominatrice della malavita locale, alle prese con la decadenza del suo leader Otto, si trova alle strette rispetto alla Mafia di Kansas City, pronta a mettere le mani sulla loro fetta di territorio a tutti i costi.
Quando Rye, il più giovane della dinastia, decide di imporre il proprio carattere tentando il colpo uccidendo un giudice locale finendo per causare un massacro in un caffè e la propria morte, il caos ha inizio: le forze di polizia locali, rappresentate da Hank Larsson e Lou Solverson, rispettivamente suocero e genero, i coniugi Ed e Peggy Blumquist, macellaio e parrucchiera, e gli stessi Gerhardt, si troveranno a giocare tutte le loro carte al cospetto di un Destino che pare sempre e comunque più grande di quanto potranno mai pensare.













Se si dovesse pensare alla giungla più selvaggia all'interno della quale giocarsi la propria esistenza, non avrei dubbi nel rispondere che si tratti di quella umana.
Allo stesso tempo, credo non ne esista un'altra in grado di smuovere emozioni così forti, o una partecipazione tale, nel bene e nel male, da cambiare una vita intera.
Nel corso della prima stagione di Fargo, avevamo assistito ad un delinearsi progressivo del prototipo del predatore organizzato e consapevole così come di quello pronto a formarsi passo dopo passo, nel pieno rispetto della pellicola che l'aveva ispirata e delle riflessioni che portarono la stessa season one a giocarsi lo scettro di migliore del duemilaquattordici con True Detective.
Con il passo indietro temporale di questo secondo giro di giostra, di fatto, assistiamo ad un approfondimento delle stesse tematiche reso ancor più coinvolgente e di pancia dall'amplificazione che avviene, di fatto, rispetto al concetto di Famiglia da una parte e dall'altra del confine tracciato dalla Legge.
Dai charachters assolutamente perfetti di Ed e Peggy Blumquist alla convinzione distorta della propria forza dei Gerhardt, passando attraverso l'approccio tutto d'un pezzo di Lou Solverson ed Hank Larsson, assistiamo ad un progressivo precipitare tratteggiato alla grande sia in termini di sceneggiatura che di ritmo, impreziosito da episodi destinati a diventare riferimenti del genere - in particolare il settimo e l'ottavo, protagonisti di uno scambio temporale perfetto - e spalle indimenticabili - Hanzee finisce, di fatto, per essere la pietra angolare del bad guy da tutti i punti di vista - pronte a fornire assist perfetti a protagonisti che dalla prima apparizione finiscono per diventare indimenticabili - Mike Milligan, da uomo di forza a uomo di sistema, parabola inquietante e quasi orrorifica del cambiamento legato al mondo del crimine organizzato in tutto il mondo -.
Con la seconda stagione, dunque, Fargo non solo finisce per battere la concorrenza del suo rivale più agguerrito - il già citato True detective -, ma anche per superarlo, trasportando lo spettatore in una provincia da Western profondo e noir sarcastico, quasi comico ed assolutamente grottesco, in grado di raccontare storie profondamente drammatiche e di sdrammatizzarne altre senza darsi alcun tono autoriale e supponente - splendidi, in questo senso, i due dialoghi che vedono protagonista la lettrice accanita addetta alla cassa in macelleria prima e dunque baby sitter dei Solverson confrontarsi con Ed e la moglie di Lou a proposito dell'appoccio "filosofico" alla morte -.
E i sogni californiati di Peggy incarnati da una baia che non si vedrà mai davvero e quelli di un linguaggio universale auspicato da Hank, che sogna per la figlia un futuro che superi il suo, fanno da contraltare a quelli materiali e senza perdono o ritorno dei Gerhardt e di Milligan, delle occasioni pronte a complicare la vita e delle casualità, degli approcci violenti e privi di empatia di chi non sa ancora dove andare, ma sa che si muoverà grazie alla forza come unica risposta.
Ed il fantasma della guerra che popola il tutto di sensi di colpa o tentativi di redenzione finisce per rendere questa seconda stagione di Fargo ancora più intensa e travolgente della prima, tanto da stuzzicare la curiosità non solo di noi spettatori, ma anche di alieni provenienti da chissà quale altro mondo.
Del resto, la passione miete sempre vittime.
C'è da sperare soltanto che, una volta o l'altra, siano quelle giuste, a poter vedere l'alba e sognare un mondo dove non sia necessario lottare per forza per sopravvivere ai predatori.





MrFord





"Up all night long
and there's something very wrong
and I know it must be late
been gone since yesterday
I'm not like you guys
I'm not like you."

Blink 182 - "Aliens exist" - 






domenica 24 gennaio 2016

Non essere cattivo

Regia: Claudio Caligari
Origine: Italia
Anno:
2015
Durata:
100'






La trama (con parole mie): siamo a Ostia, nel pieno degli anni novanta. Cesare e Vittorio, cresciuti insieme ed abituati ad una realtà difficile e degradata, passano le loro giornate rimbalzando tra la piccola criminalità e le serate tra alcool e droga, fino a quando, per caso, Vittorio conosce Linda, che vive mantenendo un figlio tentando di stare lontana dalle zone d'ombra, e decide di mollare tutto, ripulirsi e ricominciare come operaio in cantiere.
Cesare, invece, resta ancorato agli eccessi ed al vecchio mondo dei due amici, rimbalzando tra l'amore per la madre e la piccola nipote malata, i tentativi di reinventarsi un'esistenza normale proprio accanto a Vittorio ed una storia con la ex di quest'ultimo, Viviana, che vorrebbe coronare trovando una casa dove, chissà, un giorno o l'altro potrebbe formare una famiglia.
Quando, però, i nodi di una realtà troppo dura verranno al pettine, Cesare dovrà affrontare il suo destino.





Questo post partecipa alle celebrazioni nostrane ribattezzate Cinema Italiano I love you!





"Bruno, tu ci sei mai salito, su una barca come quella?"
"No."
"Mi sa che non ci saliremo mai."
Recita più o meno così il confronto nell'ombra tra Cesare e Bruno, pronti ad osservare un pezzo grosso - che sia criminalità, politica o chissà cos'altro poco importa - allontanarsi dopo la loro consegna con una donna al seguito su uno yacht di lusso, mentre a loro non resta altro che tornare alla quotidiana desolazione del litorale ostiense.
Potrebbe essere quasi tutto qui, il senso dell'ultimo, potentissimo film di Claudio Caligari, uno che ha dovuto lottare con le unghie e con i denti ad ogni sua produzione - questa compresa - solo per finire "a morire come uno stronzo avendo fatto solo due film", come confessò all'amico Valerio Mastandrea, grazie all'impegno del quale è riuscito ad arrivare in sala postumo anche Non essere cattivo.
Ma nella storia di Cesare e Vittorio - interpretati straordinariamente da Luca Marinelli e Alessandro Borghi - c'è molto di più: tutta l'energia della gioventù bruciata, della voglia di riscatto, della condanna sancita dal luogo in cui si nasce, dello scoramento che porta ad una candela che brucia dai due lati o ad una quotidiana lotta pronta a logorarci - e ancora una volta un altro dialogo, quello tra Vittorio e la sua compagna a tavola nel finale, risulta quasi agghiacciante, con lei che quasi scocciata domanda a lui, che proprio per starle accanto ha rinunciato al crimine ed alle droghe per guadagnarsi il pane con il sudore della fronte ed i calli sulle mani, se quello che hanno davvero gli basta -, la potenza del Pasolini di Accattone e, in tempi più recenti, dei Loach e dei Dardenne, le risate e le lacrime, la tristezza senza possibilità di appello ed anche, perchè no, una speranza.
E chissà se Cesare guarderà a Vittorio come ad un modello, e lotterà per uscire da una periferia così grande da fagocitare anche più della grande città, o se il destino di suo padre segnerà per lui un percorso definito, come è stato per la cugina che non conoscerà mai, quella che abbraccia un orso di peluche e vede un Cesare che nessun'altro può vedere, al quale può chiedere, implicitamente, di non essere cattivo, e guardare al futuro con la speranza di qualcosa di meglio di quello che hanno.
Nessuno dei ragazzi di Ostia ha una risposta, probabilmente, non ce l'ha Bruno, che assicura a Vittorio che quello che considera come il figlio di quest'ultimo non avrà posto tra i suoi uomini, perchè non vorrebbe mai vedere il sangue del sangue di un amico entrare nel giro, non ce l'ha lo stesso Vittorio, che probabilmente si sentirà, nella sua vittoria contro l'ovvio fato che pareva prestabilito, come il peggiore degli sconfitti, non ce l'ha chi resta, e chi se n'è andato.
Non da un'altra parte, migliore.
Ma sottoterra.
Forse, ad averla, è solo Cesare.
Il Cesare del futuro, che sorride a quello che per suo padre è stato come un fratello, e che deve ancora costruire tutta la sua vita.
E può sognarla senza dover per forza lottare.
Senza dover essere per forza cattivo.





MrFord





"Se scoppio questo è un ciao 
non è un addio 
se hai un fratello che ti vuole bene quello sono io 
un nuovo giorno nasce 
blu come la sorte 
io inseguo i miei fantasmi 
e ti abbraccerò due volte 
uno è per l'amore 
uno per la forza 
perderò la strada e troverò la mia salvezza 
staccarsi non è facile per niente ma va bene 
il mondo sconosciuto è il mondo che mi appartiene."

Assalti frontali - "Va tutto bene" -




Partecipano alla festa made in Italy anche:

Solaris: Io sono l'amore
Pensieri Cannibali: Non essere cattivo
Director's Cult: Il volto di un'altra
Mari's Red Room: Shadow
Non c'è paragone: Basilicata Coast to Coast
In Central Perk: Maicol Jecson
Bollalmanacco: Almost Blue
Delicatamente perfido: Italiano medio





sabato 23 gennaio 2016

Aloha - Sotto il cielo delle Hawaii

Regia: Cameron Crowe
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 105'





La trama (con parole mie): Brian Gilcrest, ex militare passato al settore privato segnato da un incidente che quasi gli costò la vita in Afghanistan, torna in uno dei luoghi che hanno più significato per la sua vita lavorativa e personale, le Hawaii.
Incaricato all'apparenza di presenziare ad una cerimonia pubblica ed in realtà legato a doppio filo agli interessi dell'Esercito e del magnate Carson Welch, Brian si troverà travolto, più che dagli incarichi assegnatigli, dalle tempeste del cuore: alle Hawaii, infatti, vive la sua vecchia fiamma Tracy, sposata da anni con un pilota, madre di famiglia ma ancora legata a lui, mentre a fargli da "cane da guardia" gli è assegnato il Capitano Allison Ng, che fin dai primi istanti pare scuoterlo nel profondo.
Le due donne, con i differenti vissuti ed approcci, finiranno per segnare definitivamente la vita e la carriera di Gilcrest.










Cameron Crowe mi è sempre stato simpatico: un tipo giusto, rock ma non eccessivo, di quelli che ti danno sempre l'impressione, attraverso le storie che raccontano, di essere pane e salame, e vicini alla tua realtà, non ancorati al dorato mondo di Hollywood ed affini.
In realtà non ho mai completato la sua filmografia, ma ad un titolo come Almost famous vorrò sempre bene, dunque mi sentirò in ogni modo in debito rispetto ad un regista che, forse, non ha mai espresso al massimo il potenziale che avrebbe potuto esprimere: alla vigilia della visione di Aloha il pensiero era che, forse, quel momento potesse essere arrivato.
Una commedia romantica e dolceamara, il setting delle Hawaii - che adoro, e che ha fatto da cornice anche a cose buone come Paradiso amaro -, un gruppo di attori molto interessante - Bradley Cooper, la sempre più benvista in casa Ford Rachel McAdams, Emma Stone ed il sempre mitico Bill Murray su tutti - parevano mettere sul tavolo tutte le carte giuste per trasformare questo lavoro nel miglior lavoro di Crowe.
Peccato che, a conti fatti, non sia stato assolutamente così: intendiamoci, Aloha è godibile, scorre veloce, regala un paio di momenti divertenti, i siparietti tra Cooper e la Stone ricordano molto la commedia slapstick anni cinquanta, le immagini delle Hawaii sono sempre splendide, eppure il film risulta essere una delle occasioni mancate più clamorose degli ultimi mesi, privo di carattere e di una direzione precisa, incapace di emozionare neppure nei momenti in cui ci sarebbe da correre dritti al fazzoletto.
La mescolanza di romanticismo, commedia spionistica - clamorosamente sprecato, almeno per quanto riguarda il sottoscritto, Bill Murray - e dichiarazione d'amore alla Natura ed ai Riti di uno degli arcipelaghi più affascinanti del mondo non riesce a trovare una propria identità ed una strada attraverso la quale guidare lo spettatore, finendo per rendere il compito più difficile sia ai protagonisti che alla vicenda stessa: la storia di Brian Gilcrest, decisamente telefonata a livello sentimentale nella sua evoluzione, spinge quasi a prendere in forte antipatia il main charachter, e pare essere stata scritta principalmente per far leva sull'emotività della fetta di pubblico più sensibile, sfruttando anche espedienti - come quello della figlia dell'ex grande amore Tracy - che sinceramente potevano anche essere risparmiati all'audience.
A tutto questo si aggiunga una Emma Stone che, per quanto carina e pronta a stare al gioco, è risultata al sottoscritto tremendamente forzata, un pò come quelle fighe di legno che fingono di essere alla mano e simpatiche e si rivelano essere un palo in culo come la peggiore delle principessine buone giusto per lo shopping nel quadrilatero della moda, e la frittata di Crowe ha finito per essere più che fatta.
Un vero peccato, considerati il regista, il cast e le potenzialità, così come il fatto che il film scorre e non si fa affatto voler male: ma con tutta la simpatia che si può provare per autore e prodotto, appare quasi impossibile non notare il caos e la pochezza del lavoro finito, che, seppur in misura meno catastrofica, sta al buon Cameron quanto quella schifezza di Accidental love è stata a David O. Russell.
Presa coscienza di questo, restano le note positive rappresentate dal marito di poche parole di Tracy - forse il personaggio più interessante dell'intera pellicola - e dalla già citata cornice delle splendide isole, che alimentano i sogni del sottoscritto di trasferirsi, un bel giorno, in posti come questi: mare, coolness, un fare easy diffuso, una Natura che mozza il fiato.
Portassero poi in dono anche film che evitino di deludere, sarebbe davvero perfetto.




MrFord




"Yesterday she went to see
the Polynesian band
but she came home with her hair all wet
and her clothes all filled with sand
I didn't have to come to Maui
to be treated like a jerk
how do you think I feel
when I see the bellboys smirk?
and I can hear the ukuleles playing
down by the sea
she's gone with the hula hula boys
she don't care about me."
Warren Zevon - "The Hula Hula Boys" - 






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