Dovete sapere che, dalle mie parti, Cormac McCarthy è un pò come Clint Eastwood per il Cinema e Johnny Cash per la musica: un'istituzione, una leggenda, una presenza confortante e mitica come solo i nonni possono e sanno essere.
Meridiano di sangue, che lessi ancora quando dire "McCarthy è il mio scrittore preferito" dipingeva espressioni stupite sui volti degli interlocutori letterari - prima che venissero Non è un paese per vecchi e La strada, per intenderci -, è ancora una delle esperienze più intense che abbia mai vissuto "sulla pagina", nonchè uno dei miei dieci romanzi preferiti in assoluto - prima o poi dedicherò un post a questa classifica -.
L'approccio a Suttree non è stato dei più facili: innanzitutto, veniva dopo una sana infornata di Lansdale, pane e salame a manetta, ed inoltre aveva alle spalle l'esperienza con La strada, che avevo ammirato come romanzo "tecnico" ma che mi aveva poco coinvolto, almeno rispetto ai trascorsi che avevo avuto con i lavori dello scrittore di Rhode Island.
L'ambientazione, resa magica e terribile dalla prosa incredibile del vecchio Cormac, non prevedeva l'evoluzione di una trama nello specifico - come per Meridiano di sangue, tanto per continuare a citarlo, ma anche Non è un paese per vecchi -, ma, più "semplicemente", l'andirivieni dei giorni di Suttree, pescatore dalle turbolenze interiori specchiate nella natura perso lungo il fiume nell'estate del 1951 a Knoxville, Tennessee.
Seguendo le orme di Joyce e del suo Ulisse o di Hesse con Il lupo della steppa, McCarthy si muove con Suttree nelle intercapedini più torbide della società, mescolandosi con predicatori, ladri, truffatori, puttane, assassini, povera gente quasi fossimo in una canzone di DeAndrè per l'occasione arrangiata dai Grateful Dead: e senza essere un leader, o vivere avventure incredibili, il vecchio Sut diventa il centro di un mondo che lo ha come riferimento, modello ad un tempo in positivo e negativo, pagine da "bello e dannato" e momenti di disperata desolazione fisica ed emotiva.
Un romanzo ostico e di non facile fruizione, che diviene fluido come un fiume inquinato e denso, capace di abbracciare o restituire alla terra le più putrescenti delle carcasse: soltanto nei momenti in cui le singole sottotrame prendono il sopravvento sull'estrema "istantaneità" dell'opera pare quasi che si decolli, dall'estate passata a pescare molluschi all'anno d'amore con la prostituta, così come nelle esplosioni di triste ironia regalate dal meraviglioso personaggio di Harrogate, che entra di diritto nell'Olimpo dei più riusciti fra i "figli" di McCarthy - anche se il mio preferito resterà sempre il Toadvine di Meridiano: sì, di nuovo lui -.
Ammetto di essere rimasto più di una volta strabiliato dall'immensità della prosa di McCarthy, che pare un incrocio fra i grandi romanzieri ottocenteschi e i Fante e Bukowski di giorni più vicini a noi: uno scrittore inarrivabile, potente e visionario come un Malick in acido totale.
Eppure, devo ammetterlo, chiudere con le avventure di Suttree non è stato per nulla facile, o immediato, e onestamente tiro un sospiro di sollievo all'idea che oggi, in treno, avrò fra le mani di nuovo Lansdale ad accompagnarmi a casa.
Detto questo, occorre anche che manifesti tutta la struggente nostalgia che lascia il vecchio Sut, che forse non avrà fatto nulla di particolare, nel corso di questi suoi anni raccontati nelle quasi seicento pagine del romanzo, eppure riesce a lasciare l'impressione di aver assolto il compito più arduo e complesso di tutti: sopravvivere. O meglio, vivere.
Il pensiero che stia ancora scappando alla mietitrice, un giorno dopo l'altro, è un piacere quasi assoluto, perchè simbolo di tutta la passione che i Suttree del mondo mettono nel vivere sempre a fondo, quasi si fosse in un fiume.
Ed io voglio continuare a pensare di esserne parte, e continuare a giocarmela come fosse sempre la prima volta.
Quella vecchia stronza dovrà sudarsela, la mia carcassa.
MrFord
"When the thrasher comes
I'll be stuck in the sun
like the dinosaurs in shrines
but I'll know the time has come to give what's mine."
Neil Young
venerdì 30 luglio 2010
Aiuto vampiro
Onestamente, non nutrivo alcuna buona aspettativa per Aiuto vampiro.
Poco importava se la sceneggiatura fosse almeno in parte firmata da Brian Helgeland - il signore che ha scritto Mystic river, mica bruscolini -, o che rappresentasse la controparte "buona" di New moon - i fratelli Weitz, al lavoro insieme su American pie (!!!), si sono dedicati l'uno alla supersaga miliardaria della Meyer, l'altro, per l'appunto, a quella meno nota di Shan -, per me rappresentava solamente l'occasione di una scelta più autoriale alla prossima serata film in famiglia.
Eppure devo onestamente ammettere che, pur essendo ben ben lontani dall'avere di fronte uno di quei film per ragazzi accattivanti e rivoluzionari dei miei sempre più cari anni '80, il prodotto sfornato non è affatto male, e tra omaggi a Spiderman - o a Raimi? - e un'atmosfera che, pur se completamente diversa nel soggetto, ha richiamato in me l'interessante operazione Lemony snicket - purtroppo, invece, ignorato e sottovalutato dai più -, il suddetto ha occupato più che degnamente i suoi cento minuti, risultando più ironico e simpatico di tanti polpettoni d'intrattenimento visti di recente - Predators e Solomon Kane, sì, proprio voi - evitandomi momenti di rimpianto, sonno e rabbia non sfogabile contro i realizzatori della pellicola.
I giovani protagonisti, uniti all'indubbio talento attoriale di John C. Reilly - che sostengo ormai da anni, e che spero di vedere in un ruolo davvero importante come protagonista -, danno un carattere unico ad un film che si innesta senza dubbio nel genere ma che mantiene una discreta identità, e riserva spunti interessanti come quello degli amici/rivali e l'utilizzo di un personaggio dalle immense potenzialità - per quanto disgustoso a vedersi e a sorbirsi, anche solo da spettatori -: Mr. Tiny.
Sicuramente occorrerà attendere per capire se il botteghino permetterà a questo nuovo franchise dedicato ai succhiasangue di proseguire la sua corsa, o se, proprio come il succitato Lemony snicket, il dimenticatoio delle saghe inconcluse sarà la sua nuova casa: eppure un minimo di curiosità resta, sia per i possibili utilizzi dell'ambientazione freak/burtoniana del Cirque che da rifugio ai protagonisti - Ken Watanabe sempre grande -, sia per l'evoluzione del rapporto fra Steve e Darren, giovani "promesse" destinate a divenire leader dei reciproci settori - vampiri "obiettori" e "killer", in un certo senso -, così come per uno spazio maggiore dato al passato di John C. Reilly e del suo "socio", interpretato nientepopodimeno che da "Goblin" Willem Defoe.
Sinceramente non sono ottimista sul futuro dell'eventuale saga, troppo intelligente per il pubblico da "intrattenimento a grana grossa" e decisamente troppo approssimativa per quello di nicchia, almeno quel tanto che basta per farne un cult: ma se le mie aspettative sono state smentite, perchè non potrebbe esserlo anche questa previsione del futuro?
In fondo, non sono mica la donna barbuta!
MrFord
"He'll wrap you in his arms,
tell you that you've been a good boy,
he'll rekindle all the dreams
it took you lifetime to destroy."
Nick Cave & The bad seeds
Poco importava se la sceneggiatura fosse almeno in parte firmata da Brian Helgeland - il signore che ha scritto Mystic river, mica bruscolini -, o che rappresentasse la controparte "buona" di New moon - i fratelli Weitz, al lavoro insieme su American pie (!!!), si sono dedicati l'uno alla supersaga miliardaria della Meyer, l'altro, per l'appunto, a quella meno nota di Shan -, per me rappresentava solamente l'occasione di una scelta più autoriale alla prossima serata film in famiglia.
Eppure devo onestamente ammettere che, pur essendo ben ben lontani dall'avere di fronte uno di quei film per ragazzi accattivanti e rivoluzionari dei miei sempre più cari anni '80, il prodotto sfornato non è affatto male, e tra omaggi a Spiderman - o a Raimi? - e un'atmosfera che, pur se completamente diversa nel soggetto, ha richiamato in me l'interessante operazione Lemony snicket - purtroppo, invece, ignorato e sottovalutato dai più -, il suddetto ha occupato più che degnamente i suoi cento minuti, risultando più ironico e simpatico di tanti polpettoni d'intrattenimento visti di recente - Predators e Solomon Kane, sì, proprio voi - evitandomi momenti di rimpianto, sonno e rabbia non sfogabile contro i realizzatori della pellicola.
I giovani protagonisti, uniti all'indubbio talento attoriale di John C. Reilly - che sostengo ormai da anni, e che spero di vedere in un ruolo davvero importante come protagonista -, danno un carattere unico ad un film che si innesta senza dubbio nel genere ma che mantiene una discreta identità, e riserva spunti interessanti come quello degli amici/rivali e l'utilizzo di un personaggio dalle immense potenzialità - per quanto disgustoso a vedersi e a sorbirsi, anche solo da spettatori -: Mr. Tiny.
Sicuramente occorrerà attendere per capire se il botteghino permetterà a questo nuovo franchise dedicato ai succhiasangue di proseguire la sua corsa, o se, proprio come il succitato Lemony snicket, il dimenticatoio delle saghe inconcluse sarà la sua nuova casa: eppure un minimo di curiosità resta, sia per i possibili utilizzi dell'ambientazione freak/burtoniana del Cirque che da rifugio ai protagonisti - Ken Watanabe sempre grande -, sia per l'evoluzione del rapporto fra Steve e Darren, giovani "promesse" destinate a divenire leader dei reciproci settori - vampiri "obiettori" e "killer", in un certo senso -, così come per uno spazio maggiore dato al passato di John C. Reilly e del suo "socio", interpretato nientepopodimeno che da "Goblin" Willem Defoe.
Sinceramente non sono ottimista sul futuro dell'eventuale saga, troppo intelligente per il pubblico da "intrattenimento a grana grossa" e decisamente troppo approssimativa per quello di nicchia, almeno quel tanto che basta per farne un cult: ma se le mie aspettative sono state smentite, perchè non potrebbe esserlo anche questa previsione del futuro?
In fondo, non sono mica la donna barbuta!
MrFord
"He'll wrap you in his arms,
tell you that you've been a good boy,
he'll rekindle all the dreams
it took you lifetime to destroy."
Nick Cave & The bad seeds
martedì 27 luglio 2010
Highlander: l'ultimo immortale
Chi non ha mai non dico pronunciato, ma sentito almeno una volta nella vita la frase "ne resterà soltanto uno"?
Continuando l'estivissimo percorso legato alle pellicole che hanno caratterizzato la mia prima formazione cinematografica, quando ancora mangiavo due tazze di latte, cacao e biscotti plasmon al mattino accompagnati da un film prima di andare a scuola, non posso mancare dal dedicare un post a questa perla figlia in toto degli anni '80 e del loro spirito, divenuta un cult anche grazie alla colonna sonora dei Queen, allora sulla cresta dell'onda per la malattia (prima) e la morte (poi) di Freddy Mercury, icona globale del rock nonchè simbolo di uno dei flagelli del periodo, che proprio con il cantante dei Queen ricordava al mondo che nessuno era al sicuro.
Ma non sono qui per fare il Bono della situazione, così torno al piacere del film e della meraviglia che suscitò la sua prima visione, e che continua a suscitarmi ora, a vent'anni se non più di distanza.
Molti sono gli elementi che da subito fecero breccia nel mio cuore: l'intro tiratissima con Princes of the universe a fare da sottofondo ad un incontro di wrestling - tra l'altro, se non sbaglio, su quel ring ci sono membri dei leggendari Freebirds fra i quali figura Michael Hayes, ora head writer di Smackdown! -, il duello nel parcheggio del Madison Square Garden, la spada giapponese di MacLeod, il passaggio improvviso ed inaspettato del primo flashback.
Ma era soltanto l'inizio: le highlands e l'incontro del protagonista con la morte fisica e il Kurgan - uno dei "villains" più interessanti degli anni '80, crudele, sanguinario e selvaggio, impressionante alla sua prima apparizione vestito di un'armatura d'ossa -, l'esilio dal villaggio ed il tradimento della sua prima donna, il nuovo amore di Heather, il sodalizio con Ramirez sono ancora oggi momenti di grande godimento ad ogni (re)visione di questo film che non perde fascino nonostante l'età, come tutte le cose fatte veramente come si conviene.
L'entrata in scena di Ramirez, poi, interpretato da uno dei migliori Sean Connery della storia, cambia marcia alla trama, che trova di colpo i suoi motivi d'interesse maggiori nei ricordi dell'highlander e del suo addestramento con l'immortale spagnolo, uomo dall'inesauribile spirito, fede e voglia di vivere, capace ad un tempo di avvertire McLeod della sofferenza che un legame terreno può comportare per quelli come loro, così come della sua missione, del "premio" che spetta all'ultimo rimasto e dell'adunanza e di ridere a tutta pancia delle sue sbavature di stile da barbaro della Scozia selvaggia del tempo.
Il duello fra Ramirez e il Kurgan, giunto a cercare l'highlander sfuggitogli anni prima, è una delle pagine più intense e magiche del fantasy del tempo, nonchè innesto per la sequenza emotivamente più forte del film, con il progressivo invecchiamento di Heather a fronte dell'eterna giovinezza di Christopher Lambert/MacLeod sulle note di Who wants to live forever.
Se mi ci soffermo anche ora, sento la pelle d'oca salire inesorabilmente.
Il climax della tensione nel presente della narrazione prosegue quasi in sordina, rispetto ai "fantasmi" di Heather e Ramirez, eppure coinvolge e mantiene alta la tensione, soprattutto nelle sequenze che vedono il Kurgan protagonista di siparietti al limite dello humour nero - la vecchia sul cofano della macchina e la prostituta Candy - e con il duello finale sul tetto di un edificio, con i neon delle lettere di un cartellone pubblicitario ad infrangersi abbattute dalle spade "elettriche" degli immortali.
Il tutto per giungere alla conclusione che le stagioni nascono e muoiono, e che non ci sono immortalità o poteri che contino, di fronte al compito di imparare a vivere la vita giorno dopo giorno.
E poco importa se Lambert/Macleod e Brown/Kurgan, allora meno che trentenni, sembrassero ben poco immortali e già nonni, o che quest'ottimo intrattenimento fornito da Mulcahy abbia dato origine a spin off assolutamente vergognosi - serie o film che fossero -: a noi Highlander piace così com'è. Unico ed insostituibile. Senza sequel vari.
E malinconico, rock, eighties, capello sciolto nel vento sulle cime delle montagne scozzesi.
Con qualche fulmine e "un poco di magia".
MrFord
"Who wants to live forever?
Who wants to live forever?
Forever is our today,
who waits forever anyway?"
The Queen
Continuando l'estivissimo percorso legato alle pellicole che hanno caratterizzato la mia prima formazione cinematografica, quando ancora mangiavo due tazze di latte, cacao e biscotti plasmon al mattino accompagnati da un film prima di andare a scuola, non posso mancare dal dedicare un post a questa perla figlia in toto degli anni '80 e del loro spirito, divenuta un cult anche grazie alla colonna sonora dei Queen, allora sulla cresta dell'onda per la malattia (prima) e la morte (poi) di Freddy Mercury, icona globale del rock nonchè simbolo di uno dei flagelli del periodo, che proprio con il cantante dei Queen ricordava al mondo che nessuno era al sicuro.
Ma non sono qui per fare il Bono della situazione, così torno al piacere del film e della meraviglia che suscitò la sua prima visione, e che continua a suscitarmi ora, a vent'anni se non più di distanza.
Molti sono gli elementi che da subito fecero breccia nel mio cuore: l'intro tiratissima con Princes of the universe a fare da sottofondo ad un incontro di wrestling - tra l'altro, se non sbaglio, su quel ring ci sono membri dei leggendari Freebirds fra i quali figura Michael Hayes, ora head writer di Smackdown! -, il duello nel parcheggio del Madison Square Garden, la spada giapponese di MacLeod, il passaggio improvviso ed inaspettato del primo flashback.
Ma era soltanto l'inizio: le highlands e l'incontro del protagonista con la morte fisica e il Kurgan - uno dei "villains" più interessanti degli anni '80, crudele, sanguinario e selvaggio, impressionante alla sua prima apparizione vestito di un'armatura d'ossa -, l'esilio dal villaggio ed il tradimento della sua prima donna, il nuovo amore di Heather, il sodalizio con Ramirez sono ancora oggi momenti di grande godimento ad ogni (re)visione di questo film che non perde fascino nonostante l'età, come tutte le cose fatte veramente come si conviene.
L'entrata in scena di Ramirez, poi, interpretato da uno dei migliori Sean Connery della storia, cambia marcia alla trama, che trova di colpo i suoi motivi d'interesse maggiori nei ricordi dell'highlander e del suo addestramento con l'immortale spagnolo, uomo dall'inesauribile spirito, fede e voglia di vivere, capace ad un tempo di avvertire McLeod della sofferenza che un legame terreno può comportare per quelli come loro, così come della sua missione, del "premio" che spetta all'ultimo rimasto e dell'adunanza e di ridere a tutta pancia delle sue sbavature di stile da barbaro della Scozia selvaggia del tempo.
Il duello fra Ramirez e il Kurgan, giunto a cercare l'highlander sfuggitogli anni prima, è una delle pagine più intense e magiche del fantasy del tempo, nonchè innesto per la sequenza emotivamente più forte del film, con il progressivo invecchiamento di Heather a fronte dell'eterna giovinezza di Christopher Lambert/MacLeod sulle note di Who wants to live forever.
Se mi ci soffermo anche ora, sento la pelle d'oca salire inesorabilmente.
Il climax della tensione nel presente della narrazione prosegue quasi in sordina, rispetto ai "fantasmi" di Heather e Ramirez, eppure coinvolge e mantiene alta la tensione, soprattutto nelle sequenze che vedono il Kurgan protagonista di siparietti al limite dello humour nero - la vecchia sul cofano della macchina e la prostituta Candy - e con il duello finale sul tetto di un edificio, con i neon delle lettere di un cartellone pubblicitario ad infrangersi abbattute dalle spade "elettriche" degli immortali.
Il tutto per giungere alla conclusione che le stagioni nascono e muoiono, e che non ci sono immortalità o poteri che contino, di fronte al compito di imparare a vivere la vita giorno dopo giorno.
E poco importa se Lambert/Macleod e Brown/Kurgan, allora meno che trentenni, sembrassero ben poco immortali e già nonni, o che quest'ottimo intrattenimento fornito da Mulcahy abbia dato origine a spin off assolutamente vergognosi - serie o film che fossero -: a noi Highlander piace così com'è. Unico ed insostituibile. Senza sequel vari.
E malinconico, rock, eighties, capello sciolto nel vento sulle cime delle montagne scozzesi.
Con qualche fulmine e "un poco di magia".
MrFord
"Who wants to live forever?
Who wants to live forever?
Forever is our today,
who waits forever anyway?"
The Queen
Highlander: the search for vengeance
Di Yoshihaki Kawajiri ricordo l'impressione che mi fece, per intensità e tecnica, ancora ai tempi del liceo, prima ancora delle sceneggiature di fumetti, Ninja Scroll, crudo e cupissimo anime che prendeva ispirazione dal mondo del Giappone feudale trasformandolo in una sorta di arguto mix di fumetto, gioco di ruolo e videogame.
Ora, per non sembrare un nerd completo - cosa che almeno parzialmente in quel periodo potevo pensare di essere - occorre dire che l'animazione giapponese ha rappresentato un vero e proprio modello, non soltanto nelle vesti del Maestro Miyazaki, per tutto il cinema occidentale figlio della cultura "i cartoni animati sono solo per bambini".
E voi tutti sapete, cari ragazzi, che non è così.
L'animazione, dopo Bashir, la Pixar, Belleville e compagnia, ha dato tutte le prove - come se ne servissero - di essere di diritto parte del Cinema dei "grandi", ma ormai lo sappiamo tutti.
Kawajiri, in realtà famosissimo in Giappone, dalle nostre parti non ha avuto la stessa fortuna dei Kon, degli Oshii o dei Miyazaki, probabilmente anche perchè la sua eccellenza nell'animazione - e nelle sue varianti più "spigolose" - è rimasta per certi versi troppo ancorata al media manga per suscitare gli entusiasmi del pubblico soprattutto europeo.
Eppure il suo lavoro risulta prezioso, soprattutto dal punto di vista tecnico, e se, come in questo caso, non raggiunge i livelli della sua produzione migliore - Ninja scroll, per l'appunto -, resta comunque uno degli esempi più importanti di commistione di stile fra l'animazione classica e l'utilizzo del computer, il fumetto e l'anime nel senso più "nerdistico" del termine.
Quando, poi, si cita una delle pellicole di mio personale superculto quasi infantile - Highlander - non posso che parteggiare almeno un poco per il regista che, ispirandosi alla trama del film e mescolandola con elementi tutti figli della mitologia di Ken il guerriero, trae dalla storia della rivalità fra McLeod e il Kurgan - qui di origini romane - un racconto post-apocalittico che non sempre fila dal punto di vista dello script ma conserva il suo fascino dal primo all'ultimo minuto, dosando flashback e azione presente e introducendo l'elemento della vendetta all'interno di una vita almeno sulla carta eterna.
Questa è, di fatto, la riflessione più importante nonchè l'unica che possa spostare l'interesse dall'animazione: McLeod, un migliaio d'anni sul groppone, sacrifica tutto se stesso, e non solo, per vendicare la morte dell'amata Moja, che Marcus Octavius/Kurgan ha ucciso prima ancora della scoperta di McLeod stesso di essere immortale.
L'idea di una vendetta così vincolante da superare ogni legame ed epoca, rendendo addirittura l'amore che ne è origine un avvenimento lontano e sbiadito è degna, almeno sulla carta, di un Park Chan Wook, anche se, ovviamente, la realizzazione ne è di fatto ben lontana.
Niente di eccezionale per cui strapparsi i capelli, dunque, ma di sicuro un prospetto interessante anche per il futuro, sperando che i semi di Highlander possano fiorire in una nuova opera che superi Ninja scroll.
E così ho chiuso anche all'orientale.
MrFord
"Here we are,
born to be kings,
we're the princes of the universe."
The Queen
Ora, per non sembrare un nerd completo - cosa che almeno parzialmente in quel periodo potevo pensare di essere - occorre dire che l'animazione giapponese ha rappresentato un vero e proprio modello, non soltanto nelle vesti del Maestro Miyazaki, per tutto il cinema occidentale figlio della cultura "i cartoni animati sono solo per bambini".
E voi tutti sapete, cari ragazzi, che non è così.
L'animazione, dopo Bashir, la Pixar, Belleville e compagnia, ha dato tutte le prove - come se ne servissero - di essere di diritto parte del Cinema dei "grandi", ma ormai lo sappiamo tutti.
Kawajiri, in realtà famosissimo in Giappone, dalle nostre parti non ha avuto la stessa fortuna dei Kon, degli Oshii o dei Miyazaki, probabilmente anche perchè la sua eccellenza nell'animazione - e nelle sue varianti più "spigolose" - è rimasta per certi versi troppo ancorata al media manga per suscitare gli entusiasmi del pubblico soprattutto europeo.
Eppure il suo lavoro risulta prezioso, soprattutto dal punto di vista tecnico, e se, come in questo caso, non raggiunge i livelli della sua produzione migliore - Ninja scroll, per l'appunto -, resta comunque uno degli esempi più importanti di commistione di stile fra l'animazione classica e l'utilizzo del computer, il fumetto e l'anime nel senso più "nerdistico" del termine.
Quando, poi, si cita una delle pellicole di mio personale superculto quasi infantile - Highlander - non posso che parteggiare almeno un poco per il regista che, ispirandosi alla trama del film e mescolandola con elementi tutti figli della mitologia di Ken il guerriero, trae dalla storia della rivalità fra McLeod e il Kurgan - qui di origini romane - un racconto post-apocalittico che non sempre fila dal punto di vista dello script ma conserva il suo fascino dal primo all'ultimo minuto, dosando flashback e azione presente e introducendo l'elemento della vendetta all'interno di una vita almeno sulla carta eterna.
Questa è, di fatto, la riflessione più importante nonchè l'unica che possa spostare l'interesse dall'animazione: McLeod, un migliaio d'anni sul groppone, sacrifica tutto se stesso, e non solo, per vendicare la morte dell'amata Moja, che Marcus Octavius/Kurgan ha ucciso prima ancora della scoperta di McLeod stesso di essere immortale.
L'idea di una vendetta così vincolante da superare ogni legame ed epoca, rendendo addirittura l'amore che ne è origine un avvenimento lontano e sbiadito è degna, almeno sulla carta, di un Park Chan Wook, anche se, ovviamente, la realizzazione ne è di fatto ben lontana.
Niente di eccezionale per cui strapparsi i capelli, dunque, ma di sicuro un prospetto interessante anche per il futuro, sperando che i semi di Highlander possano fiorire in una nuova opera che superi Ninja scroll.
E così ho chiuso anche all'orientale.
MrFord
"Here we are,
born to be kings,
we're the princes of the universe."
The Queen
lunedì 26 luglio 2010
Solomon Kane
Dopo un weekend di relax totale è difficile anche solo pensare di mettersi a scrivere, con il cervello già spento in attesa delle ferie e desideroso di confrontarsi quasi esclusivamente con film adatti al periodo: ho scoperto, però, sulla mia pelle - e non è la prima volta, recidivo che non sono altro! - che a volte risulta essere un'impresa non da poco riuscire a sopportare film d'intrattenimento non completamente riusciti senza annoiarmi mortalmente, mentre di fronte ad un qualsiasi mattonazzo figo e ben fatto passo indenne alla minaccia del sonno spalmato sul divano.
Ma cominciamo da un assunto preciso: Solomon Kane non è proprio un granchè, ma neppure una cosa vomitevole come Scontro di titani - giusto, avevo promesso, facciamo come New Moon -.
Eppure mai e poi mai potrà, nonostante i numerosi omaggi e citazioni, anche solo immaginare di essere paragonabile a Conan il barbaro, figlio anch'esso dell'inventiva del romanziere Howard e della sottocultura fumettistica, vero e proprio cult del cinema "epico" nonchè uno dei miei film della prima adolescenza per eccellenza.
Se, da un lato, la scelta di Bassett di mescolare elementi tratti dalla saga del cimmero a situazioni che rimandano a I pirati dei caraibi e a Il mistero di Sleepy hollow è, o può essere, senz'altro interessante e dinamica, soprattutto nelle scene di combattimento e nell'utilizzo del setting quasi come personaggio "vivente", dall'altro la scrittura, completamente piatta se non nei suddetti riferimenti appare terribilmente noiosa nelle parti di storia prive d'azione, e manca della componente ironica che riusciva a fare capolino grazie a Schwarzy e al suo compagno Subotai in più di un'occasione nel corso del primo film dedicato al barbaro più famoso del Cinema.
Le scelte legate al cast e ai personaggi, inoltre, risultano a tratti quantomeno curiose: James Purefoy, brutta copia di Hugh Jackman, ce la mette tutta nel ruolo di combattuto peccatore spaccaculi tornato alla ribalta per redimersi, e devo dire che non sfigura neppure troppo, ma vogliamo proprio confrontarlo a Schwarzenegger? Per non parlare, poi, del riesumato Max Von Sydow, memore, probabilmente, dei suoi tempi d'oro proprio all'epoca di Conan il barbaro.
Inoltre tutti sanno - e non solo gli appassionati del genere - che le pellicole di questo tipo, oltre a doversi prendere per bene in giro come solo negli anni '80 parevano saper fare, necessitano di un numero spropositato e sempre ingegnoso di truculente scene d'azione, soprattutto se il regista non riesce a mantenere alta la tensione fra una morte e l'altra, e a poco serve il cattivo di turno vestito come fosse uno degli Slipknot per alimentare la tensione suddetta!
Conan il barbaro, in questo senso, ha dato una lezione come solo i migliori sono in grado di trasmettere, ma resta un raro esempio che, come in questo caso, è ancora, dopo decenni, lontano anni luce dai sottoprodotti che ha originato.
Ma quelli erano gli anni '80. E così non se ne fanno più.
So che avrete notato delle assonanze fra questo post e quello dedicato a Predators.
Del resto, ho scandalosamente modificato il file copiaincollato.
Eppure, non è stato troppo difficile.
E' triste da dire, ma questa è la dimostrazione che i film di questo tipo, ormai, si somigliano tutti.
E nessuno pare più avere quello spunto che potrà permettere, fra una ventina d'anni, di far sognare come fossero bambini una generazione di trenta/quarantenni nostalgici come il sottoscritto, ora.
Peccato per loro.
MrFord
"Cosa resterà di questi anni '80,
afferrati e già scivolati via."
Raf
Ma cominciamo da un assunto preciso: Solomon Kane non è proprio un granchè, ma neppure una cosa vomitevole come Scontro di titani - giusto, avevo promesso, facciamo come New Moon -.
Eppure mai e poi mai potrà, nonostante i numerosi omaggi e citazioni, anche solo immaginare di essere paragonabile a Conan il barbaro, figlio anch'esso dell'inventiva del romanziere Howard e della sottocultura fumettistica, vero e proprio cult del cinema "epico" nonchè uno dei miei film della prima adolescenza per eccellenza.
Se, da un lato, la scelta di Bassett di mescolare elementi tratti dalla saga del cimmero a situazioni che rimandano a I pirati dei caraibi e a Il mistero di Sleepy hollow è, o può essere, senz'altro interessante e dinamica, soprattutto nelle scene di combattimento e nell'utilizzo del setting quasi come personaggio "vivente", dall'altro la scrittura, completamente piatta se non nei suddetti riferimenti appare terribilmente noiosa nelle parti di storia prive d'azione, e manca della componente ironica che riusciva a fare capolino grazie a Schwarzy e al suo compagno Subotai in più di un'occasione nel corso del primo film dedicato al barbaro più famoso del Cinema.
Le scelte legate al cast e ai personaggi, inoltre, risultano a tratti quantomeno curiose: James Purefoy, brutta copia di Hugh Jackman, ce la mette tutta nel ruolo di combattuto peccatore spaccaculi tornato alla ribalta per redimersi, e devo dire che non sfigura neppure troppo, ma vogliamo proprio confrontarlo a Schwarzenegger? Per non parlare, poi, del riesumato Max Von Sydow, memore, probabilmente, dei suoi tempi d'oro proprio all'epoca di Conan il barbaro.
Inoltre tutti sanno - e non solo gli appassionati del genere - che le pellicole di questo tipo, oltre a doversi prendere per bene in giro come solo negli anni '80 parevano saper fare, necessitano di un numero spropositato e sempre ingegnoso di truculente scene d'azione, soprattutto se il regista non riesce a mantenere alta la tensione fra una morte e l'altra, e a poco serve il cattivo di turno vestito come fosse uno degli Slipknot per alimentare la tensione suddetta!
Conan il barbaro, in questo senso, ha dato una lezione come solo i migliori sono in grado di trasmettere, ma resta un raro esempio che, come in questo caso, è ancora, dopo decenni, lontano anni luce dai sottoprodotti che ha originato.
Ma quelli erano gli anni '80. E così non se ne fanno più.
So che avrete notato delle assonanze fra questo post e quello dedicato a Predators.
Del resto, ho scandalosamente modificato il file copiaincollato.
Eppure, non è stato troppo difficile.
E' triste da dire, ma questa è la dimostrazione che i film di questo tipo, ormai, si somigliano tutti.
E nessuno pare più avere quello spunto che potrà permettere, fra una ventina d'anni, di far sognare come fossero bambini una generazione di trenta/quarantenni nostalgici come il sottoscritto, ora.
Peccato per loro.
MrFord
"Cosa resterà di questi anni '80,
afferrati e già scivolati via."
Raf
Basilicata coast to coast
Se c'è una cosa che detesto profondamente più di un film d'autore pretenzioso e radical chic è un film italiano d'autore (?) pretenzioso e radical chic.
Giusto per definire la portata di disgusto provocato in me dalla visione dell'opera prima - e spero vivamente ultima come regista - di Rocco Papaleo scomodo immediatamente il terribile paragone con Da zero a dieci, una delle produzioni italiane più imbarazzanti dell'ultimo ventennio (se si escludono, ovviamente, abomini fuori gara come i Moccia-movies o i cinepanettoni, ma quelli non vanno neppure considerati): falso buonismo, falsi attori, falsi personaggi, false pretese di semplicità a fronte di un'operazione prettamente e scandalosamente presuntuosa.
L'unico elemento salvo a questo scempio è il paesaggio lucano, semplice e bellissimo, da film di frontiera, che, a questo punto, per avere la giustizia che merita, sarebbe stato meglio apprezzato in un bel documentario in stile National geographic.
Stilisticamente non posso cancellare dalla mia mente i fastidiosissimi sottotitoli ad indicare pensieri o parole non dette dai personaggi, scandalosamente interpretati tutti da attori non lucani poco abili nel replicare accento e impostazione locali - ad eccezione dell'ottimo Paolo Briguglia, unico a salvarsi dell'intero cast -, o i titoli di coda non pervenuti - altro scandalo, perchè se gli attori protagonisti hanno un nome sulla locandina, il resto di cast e crew, per dirla all'americana, ha bisogno di quel momento dai più ignorato per vedere riconosciuto il proprio lavoro -, così come l'accozzaglia fastidiosa di personaggi finti e poco simpatici - anche se si vorrebbe il contrario -.
I quattro protagonisti, uno meno sopportabile dell'altro, impegnati in una traversata a piedi della Basilicata che vorrebbe tanto fare il Salvatores dei tempi migliori e invece pare proprio riuscire anche meno di quello dei tempi peggiori, intervallano momenti di ricerca interiore a canzoni, storie fugaci a soluzioni per la vita.
Imbarazzante, in questo senso, tutta la vicenda della Mezzogiorno e Max Gazzè, che spero ardentemente torni a fare semplicemente il musicista e basta, senza prestare volto ad un personaggio che neanche il più disperato degli attori si sarebbe arrischiato ad interpretare:
qualcuno dica a Papaleo che o si sta girando Figli di un dio minore o i personaggi muti - specie per scelta, e non per disabilità - risultano poco credibili, poco simpatici e assolutamente irritanti nel loro gesticolare assurdo.
Momenti, inoltre, quali l'esibizione canora della Mezzogiorno, il racconto su Babbo Natale e il comparire di Gazzè con il cappellino della suddetta icona delle feste hanno il potere di fare accapponare immediatamente la pelle, stimolando istinti di stampo bestiale rispetto a chi a scritto, diretto ed interpretato questa pellicola.
A poco servono i (rari) momenti di ripresa, principalmente legati alle immagini della Lucania e al personaggio interpretato da Briguglia, se non a rendere infinitesimamente meno terribile l'attesa per la sospirata conclusione, girata in una cornice falsamente surreale quanto improbabile e di gusto dubbio.
Ci sarà ancora tempo per il classico lieto fine in cui tutti sono felici e contenti, e Max Gazzè ritroverà la voglia di parlare "inguaiandosi" con la Mezzogiorno, simbolo di una nuova storia capace di dargli la forza di superare un trauma del passato.
Tutto è bene ciò che finisce bene, insomma.
Ma non troppo, come Italia e finto alternativismo vogliono.
Un film di quelli che tanto piacciono ai buonisti democratici, e che fanno tanto, ma tanto, incazzare chi ama il cinema, la vita vera e, tendenzialmente, per vivere la stessa è abituato a rimboccarsi le maniche.
Sarà contento Ligabue, che ora non è più solo in cima (o quasi, c'è sempre Martinelli) alla lista del peggio del peggio del cinema "d'autore" italiano.
Rocco, dammi retta: torna a fare Classe di ferro.
MrFord
"Avrai ragione te,
a fare come fai,
a stare con chi vince,
cambiarti le camicie."
L. Ligabue
Giusto per definire la portata di disgusto provocato in me dalla visione dell'opera prima - e spero vivamente ultima come regista - di Rocco Papaleo scomodo immediatamente il terribile paragone con Da zero a dieci, una delle produzioni italiane più imbarazzanti dell'ultimo ventennio (se si escludono, ovviamente, abomini fuori gara come i Moccia-movies o i cinepanettoni, ma quelli non vanno neppure considerati): falso buonismo, falsi attori, falsi personaggi, false pretese di semplicità a fronte di un'operazione prettamente e scandalosamente presuntuosa.
L'unico elemento salvo a questo scempio è il paesaggio lucano, semplice e bellissimo, da film di frontiera, che, a questo punto, per avere la giustizia che merita, sarebbe stato meglio apprezzato in un bel documentario in stile National geographic.
Stilisticamente non posso cancellare dalla mia mente i fastidiosissimi sottotitoli ad indicare pensieri o parole non dette dai personaggi, scandalosamente interpretati tutti da attori non lucani poco abili nel replicare accento e impostazione locali - ad eccezione dell'ottimo Paolo Briguglia, unico a salvarsi dell'intero cast -, o i titoli di coda non pervenuti - altro scandalo, perchè se gli attori protagonisti hanno un nome sulla locandina, il resto di cast e crew, per dirla all'americana, ha bisogno di quel momento dai più ignorato per vedere riconosciuto il proprio lavoro -, così come l'accozzaglia fastidiosa di personaggi finti e poco simpatici - anche se si vorrebbe il contrario -.
I quattro protagonisti, uno meno sopportabile dell'altro, impegnati in una traversata a piedi della Basilicata che vorrebbe tanto fare il Salvatores dei tempi migliori e invece pare proprio riuscire anche meno di quello dei tempi peggiori, intervallano momenti di ricerca interiore a canzoni, storie fugaci a soluzioni per la vita.
Imbarazzante, in questo senso, tutta la vicenda della Mezzogiorno e Max Gazzè, che spero ardentemente torni a fare semplicemente il musicista e basta, senza prestare volto ad un personaggio che neanche il più disperato degli attori si sarebbe arrischiato ad interpretare:
qualcuno dica a Papaleo che o si sta girando Figli di un dio minore o i personaggi muti - specie per scelta, e non per disabilità - risultano poco credibili, poco simpatici e assolutamente irritanti nel loro gesticolare assurdo.
Momenti, inoltre, quali l'esibizione canora della Mezzogiorno, il racconto su Babbo Natale e il comparire di Gazzè con il cappellino della suddetta icona delle feste hanno il potere di fare accapponare immediatamente la pelle, stimolando istinti di stampo bestiale rispetto a chi a scritto, diretto ed interpretato questa pellicola.
A poco servono i (rari) momenti di ripresa, principalmente legati alle immagini della Lucania e al personaggio interpretato da Briguglia, se non a rendere infinitesimamente meno terribile l'attesa per la sospirata conclusione, girata in una cornice falsamente surreale quanto improbabile e di gusto dubbio.
Ci sarà ancora tempo per il classico lieto fine in cui tutti sono felici e contenti, e Max Gazzè ritroverà la voglia di parlare "inguaiandosi" con la Mezzogiorno, simbolo di una nuova storia capace di dargli la forza di superare un trauma del passato.
Tutto è bene ciò che finisce bene, insomma.
Ma non troppo, come Italia e finto alternativismo vogliono.
Un film di quelli che tanto piacciono ai buonisti democratici, e che fanno tanto, ma tanto, incazzare chi ama il cinema, la vita vera e, tendenzialmente, per vivere la stessa è abituato a rimboccarsi le maniche.
Sarà contento Ligabue, che ora non è più solo in cima (o quasi, c'è sempre Martinelli) alla lista del peggio del peggio del cinema "d'autore" italiano.
Rocco, dammi retta: torna a fare Classe di ferro.
MrFord
"Avrai ragione te,
a fare come fai,
a stare con chi vince,
cambiarti le camicie."
L. Ligabue
Predators
Dopo un weekend di relax totale è difficile anche solo pensare di mettersi a scrivere, con il cervello già spento in attesa delle ferie e desideroso di confrontarsi quasi esclusivamente con film adatti al periodo: ho scoperto, però, sulla mia pelle - e non è la prima volta, recidivo che non sono altro! - che a volte risulta essere un'impresa non da poco riuscire a sopportare film d'intrattenimento non completamente riusciti senza annoiarmi mortalmente, mentre di fronte ad un qualsiasi mattonazzo figo e ben fatto passo indenne alla minaccia del sonno spalmato sul divano.
Ma cominciamo da un assunto preciso: Predators non è proprio un granchè, ma neppure una cosa vomitevole come Scontro di titani - che, me ne rendo conto, sto veramente tartassando, quindi alla prossima giuro che cambierò bersaglio -.
Eppure mai e poi mai potrà, nonostante i numerosi omaggi e citazioni, anche solo immaginare di essere paragonabile alla pellicola originale di John McTiernan, vero e proprio cult dell'action movie nonchè uno dei miei film estivi per eccellenza.
Se, da un lato, la scelta di Antal di riproporre effetti e situazioni simili a quelli del primo film dedicato alla razza dei predator è senz'altro da applaudire in un momento in cui bastano quei due soldi per dedicarsi ad effetti digitali spesso di scarsissima fattura, dall'altro la scrittura, completamente piatta se non nei riferimenti al lavoro di McTiernan nonchè assolutamente noiosa nei nuovi e potenzialmente interessanti elementi inseriti - il pianeta/riserva di caccia, il sopravvissuto traditore -, manca della componente ironica che infarciva la compagine di Schwarzy e soci nonchè della suspence che il primo Predator riusciva - e riesce ancora oggi, dopo una buona ventina di visioni - a trasmettere allo spettatore.
Le scelte legate al cast e ai personaggi, inoltre, risultano a tratti quantomeno curiose: Adrien Brody, ormai bollito quasi quanto Edward Norton, ce la mette tutta nel ruolo di supermercenario cazzo duro, e devo dire che non sfigura neppure troppo, ma vogliamo proprio confrontarlo a Schwarzenegger? Certo, la figura è migliore rispetto a quella rimediata da Raul Bova in Aliens vs Predator, ma di certo non si ha mai l'impressione che il carisma sia lo stesso.
E poi, caro il mio Antal, hai Danny Trejo, che ormai è un caratterista d'eccezione in questo genere di cose - e noi non vediamo l'ora di vederlo protagonista in Machete! - e lo bruci dopo una scena e mezza per tenerti l'anonimo russo!?
Inoltre tutti sanno - e non solo gli appassionati del genere - che le pellicole di questo tipo, oltre a prendersi per bene in giro come solo negli anni '80 parevano saper fare, necessitano di un numero spropositato e sempre ingegnoso di truculente scene d'azione, soprattutto se il regista non riesce a mantenere alta la tensione fra una morte e l'altra.
Il primo Predator, in questo senso, ha dato una lezione come solo i migliori sono in grado di trasmettere, ma resta un raro esempio che, come in questo caso, è ancora, dopo decenni, lontano anni luce dai sottoprodotti che ha originato.
Sinceramente, considarato il finale che già subodora di sequel, non so quanto sarò curioso di una nuova avventura nella personale riserva di caccia dei predators, specialmente se messi a confronto con alcuni fra i peggiori "predatori" umani e se, al contrario dell'originale, si ritroveranno ad utilizzare stumenti alternativi - "cani" e trappole, principalmente - e sfrutteranno il lavoro di gruppo.
Il bello di quel mostro misterioso ed invisibile era - oltre ad un charachter design ancora ineguagliato e a movenze perfette - l'atteggiamento da ronin solitario ed assetato di sangue, che solo in punto di morte si lasciava andare in una risata beffarda e terribile.
Ma quelli erano gli anni '80. E così non se ne fanno più.
MrFord
"I'm going hunting,
I'm the hunter,
I'll bring back the goods
but I don't know when."
Bjork
Ma cominciamo da un assunto preciso: Predators non è proprio un granchè, ma neppure una cosa vomitevole come Scontro di titani - che, me ne rendo conto, sto veramente tartassando, quindi alla prossima giuro che cambierò bersaglio -.
Eppure mai e poi mai potrà, nonostante i numerosi omaggi e citazioni, anche solo immaginare di essere paragonabile alla pellicola originale di John McTiernan, vero e proprio cult dell'action movie nonchè uno dei miei film estivi per eccellenza.
Se, da un lato, la scelta di Antal di riproporre effetti e situazioni simili a quelli del primo film dedicato alla razza dei predator è senz'altro da applaudire in un momento in cui bastano quei due soldi per dedicarsi ad effetti digitali spesso di scarsissima fattura, dall'altro la scrittura, completamente piatta se non nei riferimenti al lavoro di McTiernan nonchè assolutamente noiosa nei nuovi e potenzialmente interessanti elementi inseriti - il pianeta/riserva di caccia, il sopravvissuto traditore -, manca della componente ironica che infarciva la compagine di Schwarzy e soci nonchè della suspence che il primo Predator riusciva - e riesce ancora oggi, dopo una buona ventina di visioni - a trasmettere allo spettatore.
Le scelte legate al cast e ai personaggi, inoltre, risultano a tratti quantomeno curiose: Adrien Brody, ormai bollito quasi quanto Edward Norton, ce la mette tutta nel ruolo di supermercenario cazzo duro, e devo dire che non sfigura neppure troppo, ma vogliamo proprio confrontarlo a Schwarzenegger? Certo, la figura è migliore rispetto a quella rimediata da Raul Bova in Aliens vs Predator, ma di certo non si ha mai l'impressione che il carisma sia lo stesso.
E poi, caro il mio Antal, hai Danny Trejo, che ormai è un caratterista d'eccezione in questo genere di cose - e noi non vediamo l'ora di vederlo protagonista in Machete! - e lo bruci dopo una scena e mezza per tenerti l'anonimo russo!?
Inoltre tutti sanno - e non solo gli appassionati del genere - che le pellicole di questo tipo, oltre a prendersi per bene in giro come solo negli anni '80 parevano saper fare, necessitano di un numero spropositato e sempre ingegnoso di truculente scene d'azione, soprattutto se il regista non riesce a mantenere alta la tensione fra una morte e l'altra.
Il primo Predator, in questo senso, ha dato una lezione come solo i migliori sono in grado di trasmettere, ma resta un raro esempio che, come in questo caso, è ancora, dopo decenni, lontano anni luce dai sottoprodotti che ha originato.
Sinceramente, considarato il finale che già subodora di sequel, non so quanto sarò curioso di una nuova avventura nella personale riserva di caccia dei predators, specialmente se messi a confronto con alcuni fra i peggiori "predatori" umani e se, al contrario dell'originale, si ritroveranno ad utilizzare stumenti alternativi - "cani" e trappole, principalmente - e sfrutteranno il lavoro di gruppo.
Il bello di quel mostro misterioso ed invisibile era - oltre ad un charachter design ancora ineguagliato e a movenze perfette - l'atteggiamento da ronin solitario ed assetato di sangue, che solo in punto di morte si lasciava andare in una risata beffarda e terribile.
Ma quelli erano gli anni '80. E così non se ne fanno più.
MrFord
"I'm going hunting,
I'm the hunter,
I'll bring back the goods
but I don't know when."
Bjork
venerdì 23 luglio 2010
Zack&Miri make a porno
Devo proprio rimangiarmi il post su Cop out.
Tornando a vedere un VERO film di Kevin Smith salta proprio all'occhio la pochezza dell'ultimo suo lavoro. E quanto manca al suddetto una sceneggiatura come solo il Nostro sa fare, ribollente di dialoghi e serratissima, un bombardamento di parole spesso troppo veloce anche per i sottotitoli.
Ma concentriamoci su Zack&Miri make a porno, che non solo non è stato distribuito in Italia - siamo sempre geniali, esssì! - ma è anche uno dei film indipendenti made in Usa più interessanti che mi sia capitato di vedere negli ultimi anni: sboccato, divertentissimo, scritto e montato alla grande, recitato di pancia, ma con enorme partecipazione, romantico, non universale ma sicuramente in grado di parlare a tutta una generazione di spettatori - diciamo i trentenni di cultura occidentale - quasi si stesse fotografando la loro storia, o come questa generazione la vorrebbe.
Del resto, un porno è fantasia: si vuole vedere tutto quello che non si ha il coraggio di fare, che non ci si è mai trovati a fare, che si vorrebbe ma non si può o non si vuole fare.
E chi non ha mai sognato, provato, tentato o anche solo pensato nel pieno del godimento di girare - o stare girando - un porno con la propria metà?
Certo, sempre che la metà in questione non sia totalmente, inesorabilmente di legno.
Ma a quel punto il problema non sta tanto nel non poter realizzare la fantasia, quanto nell'urgenza di cambiare partner.
Ad ogni modo, Zack&Miri rappresenta uno degli esperimenti più riusciti del buon Kevin Smith, che porta la sua mitologia fatta di volgarissima semplicità e buoni sentimenti al servizio della nascita di una storia d'amore, ma anche di amicizia, presenza, calore, divertimento, e dell'idea che nell'essere "persone normali" non ci sia nulla di male, e che, al contrario, in quella normalità si possano nascondere possibilità e doti uniche - si veda il talento "idraulico" di Lester -.
E ritrovare la consueta "famiglia" di attori - che ormai suonano più come degli amici - nel pieno del turbinio di perle che solo un film di Smith può essere è un piacere quasi fisico, e dai dialoghi fra Bobby Long e il suo amante, passando dalle bolle di sapone capaci di far impallidire Priscilla la regina del deserto per concludere con l'estrazione "al volo" di Lester e la cascata di merda in faccia a Deacon - impagabile incontrare di nuovo, anche se in un ruolo minore, il vecchio Randal Graves - non c'è limite a quanto possa non essere volgare la volgarità più totale.
Ma tutto quello che potrei scrivere a proposito di questo film, anche tecnicamente parlando, dal montaggio, alla colonna sonora, alle riflessioni sulla filosofia smithiana, al fatto che questa sia in assoluto la pellicola più autoriale del regista del New Jersey non può minimamente dare l'idea delle emozioni che Zack&Miri make a porno è in grado di suscitare.
Gli Zack troveranno irresistibilmente divertenti tutte le stronzate "maschiliste" sparate a ripetizione nel corso dello svolgimento della storia, le citazioni cinematografiche, le battutacce e i riferimenti al sesso senza doversi vergognare di provare dei sentimenti e riuscendo probabilmente, se in compagnia di una fanciulla, a portarsi a casa il premio maggiore come conclusione della serata.
Le Miri, invece, dissemineranno qualche risata qui e là non lesinando le critiche alla stupidità maschile - tutte meritate, del resto - pensando a quanto potrebbe essere carino avere uno Zack con la prestanza di Lester, e si godranno l'escalation sentimentale senza paura di nascondere le proprie emozioni vivendo un fine serata che sarà certo segno di un rapporto consolidato che si rafforza o di un promettente inizio di quella che, di certo, sarà una magnifica storia d'amore.
Insomma, tutti pienamente soddisfatti, da entrambi i lati del cielo.
Ma ancora non penso di essere riuscito a rendere davvero l'idea, rispetto a tutto il potenziale di Zack&Miri.
Coscientemente, perchè temo quello che sto per scrivere.
Lo temo da fan di Kevin Smith, da uomo, da stupido cazzone casinista e da appassionato di Cinema.
Ma fanculo, a volte bisogna pure rischiare un pò.
Anche se, vi avverto, suonerà un pò pesante.
Zack&Miri make a porno è, forse, il miglior film di Kevin Smith.
Avete letto bene.
Il migliore. Forse.
E sì, anche più dei due Clerks.
L'ho detto.
Cercate di non raccontarlo troppo in giro.
MrFord
"And then there she was,
like double cherry pie,
yeah there she was,
like a disco superfly."
- Marcy Playground - "Sex and candy" -
Tornando a vedere un VERO film di Kevin Smith salta proprio all'occhio la pochezza dell'ultimo suo lavoro. E quanto manca al suddetto una sceneggiatura come solo il Nostro sa fare, ribollente di dialoghi e serratissima, un bombardamento di parole spesso troppo veloce anche per i sottotitoli.
Ma concentriamoci su Zack&Miri make a porno, che non solo non è stato distribuito in Italia - siamo sempre geniali, esssì! - ma è anche uno dei film indipendenti made in Usa più interessanti che mi sia capitato di vedere negli ultimi anni: sboccato, divertentissimo, scritto e montato alla grande, recitato di pancia, ma con enorme partecipazione, romantico, non universale ma sicuramente in grado di parlare a tutta una generazione di spettatori - diciamo i trentenni di cultura occidentale - quasi si stesse fotografando la loro storia, o come questa generazione la vorrebbe.
Del resto, un porno è fantasia: si vuole vedere tutto quello che non si ha il coraggio di fare, che non ci si è mai trovati a fare, che si vorrebbe ma non si può o non si vuole fare.
E chi non ha mai sognato, provato, tentato o anche solo pensato nel pieno del godimento di girare - o stare girando - un porno con la propria metà?
Certo, sempre che la metà in questione non sia totalmente, inesorabilmente di legno.
Ma a quel punto il problema non sta tanto nel non poter realizzare la fantasia, quanto nell'urgenza di cambiare partner.
Ad ogni modo, Zack&Miri rappresenta uno degli esperimenti più riusciti del buon Kevin Smith, che porta la sua mitologia fatta di volgarissima semplicità e buoni sentimenti al servizio della nascita di una storia d'amore, ma anche di amicizia, presenza, calore, divertimento, e dell'idea che nell'essere "persone normali" non ci sia nulla di male, e che, al contrario, in quella normalità si possano nascondere possibilità e doti uniche - si veda il talento "idraulico" di Lester -.
E ritrovare la consueta "famiglia" di attori - che ormai suonano più come degli amici - nel pieno del turbinio di perle che solo un film di Smith può essere è un piacere quasi fisico, e dai dialoghi fra Bobby Long e il suo amante, passando dalle bolle di sapone capaci di far impallidire Priscilla la regina del deserto per concludere con l'estrazione "al volo" di Lester e la cascata di merda in faccia a Deacon - impagabile incontrare di nuovo, anche se in un ruolo minore, il vecchio Randal Graves - non c'è limite a quanto possa non essere volgare la volgarità più totale.
Ma tutto quello che potrei scrivere a proposito di questo film, anche tecnicamente parlando, dal montaggio, alla colonna sonora, alle riflessioni sulla filosofia smithiana, al fatto che questa sia in assoluto la pellicola più autoriale del regista del New Jersey non può minimamente dare l'idea delle emozioni che Zack&Miri make a porno è in grado di suscitare.
Gli Zack troveranno irresistibilmente divertenti tutte le stronzate "maschiliste" sparate a ripetizione nel corso dello svolgimento della storia, le citazioni cinematografiche, le battutacce e i riferimenti al sesso senza doversi vergognare di provare dei sentimenti e riuscendo probabilmente, se in compagnia di una fanciulla, a portarsi a casa il premio maggiore come conclusione della serata.
Le Miri, invece, dissemineranno qualche risata qui e là non lesinando le critiche alla stupidità maschile - tutte meritate, del resto - pensando a quanto potrebbe essere carino avere uno Zack con la prestanza di Lester, e si godranno l'escalation sentimentale senza paura di nascondere le proprie emozioni vivendo un fine serata che sarà certo segno di un rapporto consolidato che si rafforza o di un promettente inizio di quella che, di certo, sarà una magnifica storia d'amore.
Insomma, tutti pienamente soddisfatti, da entrambi i lati del cielo.
Ma ancora non penso di essere riuscito a rendere davvero l'idea, rispetto a tutto il potenziale di Zack&Miri.
Coscientemente, perchè temo quello che sto per scrivere.
Lo temo da fan di Kevin Smith, da uomo, da stupido cazzone casinista e da appassionato di Cinema.
Ma fanculo, a volte bisogna pure rischiare un pò.
Anche se, vi avverto, suonerà un pò pesante.
Zack&Miri make a porno è, forse, il miglior film di Kevin Smith.
Avete letto bene.
Il migliore. Forse.
E sì, anche più dei due Clerks.
L'ho detto.
Cercate di non raccontarlo troppo in giro.
MrFord
"And then there she was,
like double cherry pie,
yeah there she was,
like a disco superfly."
- Marcy Playground - "Sex and candy" -
mercoledì 21 luglio 2010
Ossessione
Si è sempre un pò intimoriti quando ci si confronta con i mostri sacri.
Non fa eccezione Visconti, che rappresenta, nel mio immaginario cinematografico, uno di quei registi quasi leggendari, da romanzo, lontano eppure presente, nonchè simbolo di uno dei periodi migliori del nostro Cinema, quando il mondo intero - ma sul serio - guardava alla produzione italiana come ad un esempio per l'evoluzione della settima arte.
Ossessione si colloca perfettamente in questa cornice, rappresentando a tutti gli effetti una delle opere capostipiti di quello che sarà, nel primo dopoguerra, il neorealismo, ispirandosi ad un romanzo statunitense - Il postino suona sempre due volte - e trasportandolo quasi vi fosse nato nella provincia di Ferrara in un periodo che anticipa gli anni '50 ed il boom ma che è ancora figlio degli anni '30, lontano da quelli che saranno gli orrori della seconda guerra mondiale.
Giovanna, moglie del gestore di una taverna molto più vecchio di lei cui si è ritrovata sposata "per non farsi pagare le cene dagli uomini", incontra il vagabondo Gino, ed è attrazione a prima vista in uno stile che tanto ricorda quel capolavoro di Un tram che si chiama desiderio: nell'anno 1943 è difficile pensare che potessero essere girate scene così torbide, e capaci ancora oggi di una carica di sensualità enorme.
La vicenda che parte dall'incontro dei due innescherà sentimenti tra i più oscuri e ribollenti degli esseri umani, dall'amore al possesso, dalla gelosia alla voglia di libertà, dalla vita alla morte: portando al sole un crimine che l'Hitchcock del periodo inglese avrebbe incorniciato in un qualche maniero vittoriano, Visconti riesce a rendere utili e funzionali anche i personaggi secondari, come lo Spagnolo, artista e filosofo di una vita tesa verso la vita stessa e gli altri - "Se non ci si aiuta fra noi, come andremmo a finire?", chiede a Gino dopo avergli pagato il biglietto del treno -, che in anticipo capirà il destino cui si è avviato l'amico incontrato per caso, stregato da un amore che nasce sotto i presagi più nefasti, e resiste anche alla voglia di indipendenza del protagonista, alla sua fuga, al Destino stesso, a tutte le regole che lo stesso Gino pare aver dato alla sua vita.
E Giovanna è proprio questo, il sovvertirsi di tutte le regole.
L'amore, in effetti, anche nelle sue sfumature più terribili, è in grado di estirpare anche le convinzioni più radicate nel cuore con una facilità apparentemente irrisoria, inarrestabile per chiunque lo stia provando, come una forza contro la quale è inutile lottare.
Ma lotta, Gino, lotta fino alla fine, contro i sospetti, un nuovo amore, la fuga, il ricordo del marito di Giovanna, lotta fino a quando una nuova vita compare per completare la sua.
E l'amore, a quel punto, cambia tutto di nuovo.
Così, accanto a Giovanna, in un finale da brividi che riporta alla mente le successive immagini de Il sorpasso, Gino si troverà di fronte un'altra forza inesorabile, vera antagonista dell'amore: la morte.
E l'omicidio che i due hanno commesso torna a presentare il conto nel modo più terribile, e non resterà altro, per Gino, che la resa.
Ma non, come sembra, alle forze dell'ordine ormai sulle loro tracce.
A qualcosa di più grande.
Qualcosa di fronte alla quale Gino aveva già alzato le braccia, nel momento in cui, per la prima volta, aveva incrociato lo sguardo di Giovanna.
Forse ne era ignaro, o forse, già cosciente.
Del resto, l'amore è anche questo.
"When a man loves a woman,
can't keep his mind on nothing else."
MrFord
Non fa eccezione Visconti, che rappresenta, nel mio immaginario cinematografico, uno di quei registi quasi leggendari, da romanzo, lontano eppure presente, nonchè simbolo di uno dei periodi migliori del nostro Cinema, quando il mondo intero - ma sul serio - guardava alla produzione italiana come ad un esempio per l'evoluzione della settima arte.
Ossessione si colloca perfettamente in questa cornice, rappresentando a tutti gli effetti una delle opere capostipiti di quello che sarà, nel primo dopoguerra, il neorealismo, ispirandosi ad un romanzo statunitense - Il postino suona sempre due volte - e trasportandolo quasi vi fosse nato nella provincia di Ferrara in un periodo che anticipa gli anni '50 ed il boom ma che è ancora figlio degli anni '30, lontano da quelli che saranno gli orrori della seconda guerra mondiale.
Giovanna, moglie del gestore di una taverna molto più vecchio di lei cui si è ritrovata sposata "per non farsi pagare le cene dagli uomini", incontra il vagabondo Gino, ed è attrazione a prima vista in uno stile che tanto ricorda quel capolavoro di Un tram che si chiama desiderio: nell'anno 1943 è difficile pensare che potessero essere girate scene così torbide, e capaci ancora oggi di una carica di sensualità enorme.
La vicenda che parte dall'incontro dei due innescherà sentimenti tra i più oscuri e ribollenti degli esseri umani, dall'amore al possesso, dalla gelosia alla voglia di libertà, dalla vita alla morte: portando al sole un crimine che l'Hitchcock del periodo inglese avrebbe incorniciato in un qualche maniero vittoriano, Visconti riesce a rendere utili e funzionali anche i personaggi secondari, come lo Spagnolo, artista e filosofo di una vita tesa verso la vita stessa e gli altri - "Se non ci si aiuta fra noi, come andremmo a finire?", chiede a Gino dopo avergli pagato il biglietto del treno -, che in anticipo capirà il destino cui si è avviato l'amico incontrato per caso, stregato da un amore che nasce sotto i presagi più nefasti, e resiste anche alla voglia di indipendenza del protagonista, alla sua fuga, al Destino stesso, a tutte le regole che lo stesso Gino pare aver dato alla sua vita.
E Giovanna è proprio questo, il sovvertirsi di tutte le regole.
L'amore, in effetti, anche nelle sue sfumature più terribili, è in grado di estirpare anche le convinzioni più radicate nel cuore con una facilità apparentemente irrisoria, inarrestabile per chiunque lo stia provando, come una forza contro la quale è inutile lottare.
Ma lotta, Gino, lotta fino alla fine, contro i sospetti, un nuovo amore, la fuga, il ricordo del marito di Giovanna, lotta fino a quando una nuova vita compare per completare la sua.
E l'amore, a quel punto, cambia tutto di nuovo.
Così, accanto a Giovanna, in un finale da brividi che riporta alla mente le successive immagini de Il sorpasso, Gino si troverà di fronte un'altra forza inesorabile, vera antagonista dell'amore: la morte.
E l'omicidio che i due hanno commesso torna a presentare il conto nel modo più terribile, e non resterà altro, per Gino, che la resa.
Ma non, come sembra, alle forze dell'ordine ormai sulle loro tracce.
A qualcosa di più grande.
Qualcosa di fronte alla quale Gino aveva già alzato le braccia, nel momento in cui, per la prima volta, aveva incrociato lo sguardo di Giovanna.
Forse ne era ignaro, o forse, già cosciente.
Del resto, l'amore è anche questo.
"When a man loves a woman,
can't keep his mind on nothing else."
MrFord
martedì 20 luglio 2010
Karate kid 3
Non c'è due, senza tre.
Continuo a perdermi, complice l'atmosfera rarefatta e il desiderio ribollente di ferie, nel mio percorso a ritroso nei film delle mie estati di ragazzino tornando al 1989 - anche se io lo vidi la prima volta qualche tempo dopo -, anno dell'uscita del terzo (e ultimo, almeno per me) capitolo della saga di Karate kid, quella vera.
Questa, infatti, fu l'ultima volta per Ralph Macchio, giudicato successivamente troppo vecchio e sostituito nel quarto episodio da una giovanissima Hilary Swank, per quello che personalmente considero un film estraneo alla serie.
Tutto questo senza neppure provare a menzionare la porcata che uscirà a breve con Jackie Chan e il figlio di Will Smith.
Ai tempi della mia prima visione pensai che questo terzo film fosse sicuramente migliore del secondo, complici il ritorno del Cobra Kai - questa volta riportato in auge, risibilmente, da un commilitone del vecchio sensei Kreese ricco e vendicativo e rappresentato dal "ragazzo cattivo del karate" Mike, il cui interprete finì, anni dopo, nel cast di Beautiful (!!!) - e i primi veri screzi fra Daniel-san e il maestro Miyagi, complice la crescita con conseguente aumento esponenziale di stupidità del primo e l'invecchiamento del secondo, nonostante la vicenda si svolga idealmente subito dopo il ritorno da Okinawa dei due.
Quasi cercando di tirare fuori il meglio dei due film precedenti, si torna alla formula di Daniel vessato da Mike e scagnozzi in vista di un nuovo torneo di All valley - del quale dovrà disputare soltanto la finale in quanto campione uscente - filtrata attraverso il concetto dell'onore già introdotto nel secondo capitolo, con Miyagi che rifiuta di allenare il pupillo fino a quando l'unica sua motivazione è "difendere un trofeo di metallo e plastica".
Ricordo, ai tempi, l'impressione che mi fece il raggiro di Silver, John Kreese e Mike ai danni di Daniel, così come il bonsai spezzato di Miyagi e il confronto all'interno del nuovo dojo del Cobra Kai, episodi drammatici ai miei occhi di dodici/tredicenne.
Ora, più che altro, è rimasto lo stupore per una sceneggiatura che ha del ridicolo, capace di essere sopportata soltanto grazie alle continue perle del vecchio Miyagi, al bomber arancione di Daniel-san, alle riprese a volo d'uccello sulla meditazione di maestro e allievo e al ricordo dei momenti di "tensione" della prima visione, sempre tra uno spuntino e l'altro, commentando la crudeltà crescende del Cobra Kai, che aveva abbandonato la buffoneria da bulli del primo film per dilettarsi in qualcosa di più simile ad azioni da piccoli delinquenti di strada.
In qualche modo, nei cambiamenti come quelli, si avvertiva il passaggio di un'epoca: erano finiti gli anni ottanta, e si entrava nei novanta.
Fortunatamente sono andati anche quelli.
Mentre Miyagi e Daniel-san sono rimasti.
Qualcosa vorrà pur dire.
"Try to be best
'cause you're only a man,
and a man's gotta learn to take it."
MrFord
Continuo a perdermi, complice l'atmosfera rarefatta e il desiderio ribollente di ferie, nel mio percorso a ritroso nei film delle mie estati di ragazzino tornando al 1989 - anche se io lo vidi la prima volta qualche tempo dopo -, anno dell'uscita del terzo (e ultimo, almeno per me) capitolo della saga di Karate kid, quella vera.
Questa, infatti, fu l'ultima volta per Ralph Macchio, giudicato successivamente troppo vecchio e sostituito nel quarto episodio da una giovanissima Hilary Swank, per quello che personalmente considero un film estraneo alla serie.
Tutto questo senza neppure provare a menzionare la porcata che uscirà a breve con Jackie Chan e il figlio di Will Smith.
Ai tempi della mia prima visione pensai che questo terzo film fosse sicuramente migliore del secondo, complici il ritorno del Cobra Kai - questa volta riportato in auge, risibilmente, da un commilitone del vecchio sensei Kreese ricco e vendicativo e rappresentato dal "ragazzo cattivo del karate" Mike, il cui interprete finì, anni dopo, nel cast di Beautiful (!!!) - e i primi veri screzi fra Daniel-san e il maestro Miyagi, complice la crescita con conseguente aumento esponenziale di stupidità del primo e l'invecchiamento del secondo, nonostante la vicenda si svolga idealmente subito dopo il ritorno da Okinawa dei due.
Quasi cercando di tirare fuori il meglio dei due film precedenti, si torna alla formula di Daniel vessato da Mike e scagnozzi in vista di un nuovo torneo di All valley - del quale dovrà disputare soltanto la finale in quanto campione uscente - filtrata attraverso il concetto dell'onore già introdotto nel secondo capitolo, con Miyagi che rifiuta di allenare il pupillo fino a quando l'unica sua motivazione è "difendere un trofeo di metallo e plastica".
Ricordo, ai tempi, l'impressione che mi fece il raggiro di Silver, John Kreese e Mike ai danni di Daniel, così come il bonsai spezzato di Miyagi e il confronto all'interno del nuovo dojo del Cobra Kai, episodi drammatici ai miei occhi di dodici/tredicenne.
Ora, più che altro, è rimasto lo stupore per una sceneggiatura che ha del ridicolo, capace di essere sopportata soltanto grazie alle continue perle del vecchio Miyagi, al bomber arancione di Daniel-san, alle riprese a volo d'uccello sulla meditazione di maestro e allievo e al ricordo dei momenti di "tensione" della prima visione, sempre tra uno spuntino e l'altro, commentando la crudeltà crescende del Cobra Kai, che aveva abbandonato la buffoneria da bulli del primo film per dilettarsi in qualcosa di più simile ad azioni da piccoli delinquenti di strada.
In qualche modo, nei cambiamenti come quelli, si avvertiva il passaggio di un'epoca: erano finiti gli anni ottanta, e si entrava nei novanta.
Fortunatamente sono andati anche quelli.
Mentre Miyagi e Daniel-san sono rimasti.
Qualcosa vorrà pur dire.
"Try to be best
'cause you're only a man,
and a man's gotta learn to take it."
MrFord
lunedì 19 luglio 2010
Karate kid 2
Nel periodo estivo, alla fine della scuola, ricordo con piacere quasi infinito i cicli di film che ai tempi la tv dedicava ai ragazzi, riempiendo le videoteche casalinghe di cassette registrate e le afose mattinate - o nottate - di visioni che portavano davvero in una "dimensione avventura", come era battezzato uno dei cicli più noti di film passati in quelle ormai lontanissime estati.
A ripensarci ora, effettivamente, fa davvero un effetto Stand by me il ricordo di me e mio fratello, gran panozzi e grandi cocacole, distesi sul divano a schiaffarci l'ennesimo film di "notte horror" o, come in questo caso, il secondo capitolo delle avventure di Daniel-san.
Nonostante la struttura sia la stessa, così come il regista, è subito chiaro che il dogma del sequel neanche lontanamente paragonabile al primo capitolo di cui si è parlato ieri vale clamorosamente anche in questo caso, in cui l'occasione di aprire una lunga parentesi - cambiando ambientazione - sul passato del mitico maestro Miyagi e sulla sua terra natia - l'isola di Okinawa - si perde in una sorta di reprise retorico del film precedente, con la differenza che, questa volta, "non è torneo", per dirla come il vecchio maestro.
L'onore e il concetto dell'oltraggio da riparare diventano il centro della disfida fra gli ex amici Miyagi e Sato così come di Daniel e Chozen, allievo numero uno dell'appena citato Sato, perfetto nel ruolo di bullo che nel primo capitolo della saga era toccato alla banda del Cobra Kai.
Peccato però che il tutto funzioni pochino, e che parti potenzialmente interessanti come la morte del padre di Miyagi - il momento migliore del film - siano messe in secondo piano rispetto ad altri decisamente meno incisivi - la sfida delle lastre di ghiaccio nel locale, una cosa in stile Van Damme del periodo d'oro, giusto per rendere l'idea -: lo spazio per le perle, ad ogni modo, c'è sempre, e scene come quella dell'arpione che cala strappando la camicia a Daniel-san che cerca di imparare il segreto del tamburello ancora mi fanno venire la pelle d'oca, figli di un amarcord cinematografico - e non solo - che mi fa pensare ad un periodo fantastico della mia vita, in cui il tempo pareva dilatato e ogni viaggio della fantasia un'avventura incredibile.
E se ora rido pensando a Miyagi che spezza il tronco sul petto di Sato, o al coro di tamburelli nel momento clou della battaglia fra Daniel e Chozen, mi rendo conto di quanto importanti siano ancora quella magia, quella sospensione: in fondo, il tempo si restringe, e le estati non sono più stare notti o mattine sdraiato sul divano, ma l'unico modo per godere delle cose così pienamente è non dimenticare mai quanto la "dimensione avventura" sia importante per le nostre vite.
Anche "solo" di fronte ad uno schermo.
Del resto, lo stesso Daniel insegna una lezione fondamentale a Chozen:
- "Vita o morte?"
- "Morte!"
- "Sbagliato."
Con tanto di tenaglia sul naso.
Daniel-san come Lipton.
Per me, numero uno.
"I am the man who will fight for your honour,
I'll be the hero you're dreamin' of."
MrFord
A ripensarci ora, effettivamente, fa davvero un effetto Stand by me il ricordo di me e mio fratello, gran panozzi e grandi cocacole, distesi sul divano a schiaffarci l'ennesimo film di "notte horror" o, come in questo caso, il secondo capitolo delle avventure di Daniel-san.
Nonostante la struttura sia la stessa, così come il regista, è subito chiaro che il dogma del sequel neanche lontanamente paragonabile al primo capitolo di cui si è parlato ieri vale clamorosamente anche in questo caso, in cui l'occasione di aprire una lunga parentesi - cambiando ambientazione - sul passato del mitico maestro Miyagi e sulla sua terra natia - l'isola di Okinawa - si perde in una sorta di reprise retorico del film precedente, con la differenza che, questa volta, "non è torneo", per dirla come il vecchio maestro.
L'onore e il concetto dell'oltraggio da riparare diventano il centro della disfida fra gli ex amici Miyagi e Sato così come di Daniel e Chozen, allievo numero uno dell'appena citato Sato, perfetto nel ruolo di bullo che nel primo capitolo della saga era toccato alla banda del Cobra Kai.
Peccato però che il tutto funzioni pochino, e che parti potenzialmente interessanti come la morte del padre di Miyagi - il momento migliore del film - siano messe in secondo piano rispetto ad altri decisamente meno incisivi - la sfida delle lastre di ghiaccio nel locale, una cosa in stile Van Damme del periodo d'oro, giusto per rendere l'idea -: lo spazio per le perle, ad ogni modo, c'è sempre, e scene come quella dell'arpione che cala strappando la camicia a Daniel-san che cerca di imparare il segreto del tamburello ancora mi fanno venire la pelle d'oca, figli di un amarcord cinematografico - e non solo - che mi fa pensare ad un periodo fantastico della mia vita, in cui il tempo pareva dilatato e ogni viaggio della fantasia un'avventura incredibile.
E se ora rido pensando a Miyagi che spezza il tronco sul petto di Sato, o al coro di tamburelli nel momento clou della battaglia fra Daniel e Chozen, mi rendo conto di quanto importanti siano ancora quella magia, quella sospensione: in fondo, il tempo si restringe, e le estati non sono più stare notti o mattine sdraiato sul divano, ma l'unico modo per godere delle cose così pienamente è non dimenticare mai quanto la "dimensione avventura" sia importante per le nostre vite.
Anche "solo" di fronte ad uno schermo.
Del resto, lo stesso Daniel insegna una lezione fondamentale a Chozen:
- "Vita o morte?"
- "Morte!"
- "Sbagliato."
Con tanto di tenaglia sul naso.
Daniel-san come Lipton.
Per me, numero uno.
"I am the man who will fight for your honour,
I'll be the hero you're dreamin' of."
MrFord
domenica 18 luglio 2010
Il barbiere di Siviglia
Come il teatro, seppur attraverso una poetica e un approccio differenti, anche l'opera rappresenta, a tutti gli effetti, il Cinema prima del Cinema.
Da sempre, complice il mio amore per Mozart e per Amadeus che fu all'origine dello stesso, le grandi opere hanno esercitato un fascino particolare sul sottoscritto, anche se fino all'inizio di quest'anno non avevo ancora avuto modo di provare l'emozione dal vivo.
Dopo un'adeguata preparazione - Jules docet - a febbraio è stata la volta del Rigoletto, che ho gustato fino in fondo con un piacere che non avrei mai sospettato di provare, godendomi ogni parte dell'evento, dai posti all'ultimo "anello" della Scala ai fischi all'antagonista di Rigoletto, giudicato malissimo dai loggionisti.
Ieri, invece, è stata la volta de Il barbiere di Siviglia che, già di partenza, aveva molti punti a favore in quanto opera comica, e, in arrivo, ha confermato l'ottima impressione che avevo avuto con Rigoletto.
L'opera a teatro rappresenta più un'esperienza che non una semplice visione - o ascolto -, legata all'atmosfera, alla forma degli interpreti, alle reazioni del pubblico più che non alla trama e alla vicenda prese a loro stanti: se, poi, il caso vuole che sostituiscano il tuo posto all'ultimo anello con un palco - pur se laterale - che i protagonisti sono in serata, la regia interessante e le scenografie ottime, non si può fare altro che gustarsi lo spettacolo, il momento e la compagnia, antipasto di ciò che sarà la serata una volta innestata la modalità festa alcoolica - consultare post "The hangover" -.
Tornando al barbiere, e rimanendo il più profano possibile - anche perchè in questo caso non potrei permettermi di essere tecnico -, posso dire di essermi immerso totalmente nello spirito allegro ed ammiccante della rappresentazione grazie ai siparietti orchestrati da Figaro e Lindoro, alle reazioni di Bartolo e Basilio e alle arie - famosissime - del factotum e della calunnia.
Una sorta di commedia degli equivoci in musica, che se fosse un film sarebbe ottimo nelle mani di Howard Hawks o Pedro Almodovar, e che regala uno dei personaggi più riusciti del mondo operistico, quel Figaro un pò guascone e un pò approfittatore che sarebbe stato benissimo come Amadeus.
Anche se l'impressione è che lui, quella fine tormentata, non l'avrebbe proprio fatta.
"Ah bravo Figaro, bravo bravissimo!
ah bravo Figaro, bravo bravissimo!
A te fortuna, a te fortuna, a te fortuna non mancherà!"
MrFord
Da sempre, complice il mio amore per Mozart e per Amadeus che fu all'origine dello stesso, le grandi opere hanno esercitato un fascino particolare sul sottoscritto, anche se fino all'inizio di quest'anno non avevo ancora avuto modo di provare l'emozione dal vivo.
Dopo un'adeguata preparazione - Jules docet - a febbraio è stata la volta del Rigoletto, che ho gustato fino in fondo con un piacere che non avrei mai sospettato di provare, godendomi ogni parte dell'evento, dai posti all'ultimo "anello" della Scala ai fischi all'antagonista di Rigoletto, giudicato malissimo dai loggionisti.
Ieri, invece, è stata la volta de Il barbiere di Siviglia che, già di partenza, aveva molti punti a favore in quanto opera comica, e, in arrivo, ha confermato l'ottima impressione che avevo avuto con Rigoletto.
L'opera a teatro rappresenta più un'esperienza che non una semplice visione - o ascolto -, legata all'atmosfera, alla forma degli interpreti, alle reazioni del pubblico più che non alla trama e alla vicenda prese a loro stanti: se, poi, il caso vuole che sostituiscano il tuo posto all'ultimo anello con un palco - pur se laterale - che i protagonisti sono in serata, la regia interessante e le scenografie ottime, non si può fare altro che gustarsi lo spettacolo, il momento e la compagnia, antipasto di ciò che sarà la serata una volta innestata la modalità festa alcoolica - consultare post "The hangover" -.
Tornando al barbiere, e rimanendo il più profano possibile - anche perchè in questo caso non potrei permettermi di essere tecnico -, posso dire di essermi immerso totalmente nello spirito allegro ed ammiccante della rappresentazione grazie ai siparietti orchestrati da Figaro e Lindoro, alle reazioni di Bartolo e Basilio e alle arie - famosissime - del factotum e della calunnia.
Una sorta di commedia degli equivoci in musica, che se fosse un film sarebbe ottimo nelle mani di Howard Hawks o Pedro Almodovar, e che regala uno dei personaggi più riusciti del mondo operistico, quel Figaro un pò guascone e un pò approfittatore che sarebbe stato benissimo come Amadeus.
Anche se l'impressione è che lui, quella fine tormentata, non l'avrebbe proprio fatta.
"Ah bravo Figaro, bravo bravissimo!
ah bravo Figaro, bravo bravissimo!
A te fortuna, a te fortuna, a te fortuna non mancherà!"
MrFord
Toy story 3
Uno degli adagi più noti del Cinema ricorda a tutto il pubblico che, praticamente sempre, il secondo capitolo di ogni saga non è mai all'altezza del primo: direi che da questo tormentone si salvano così poche pellicole da poterle contare sulle dita di una mano, ristrette a Il Padrino parte seconda, L'impero colpisce ancora e pochissime altre.
Di Pixar, però, ce n'è una e una soltanto, quindi ai ragazzi geniali di Lasseter costola (?) Disney non basta confezionare un sequel migliore del primo capitolo, ma addirittura un terzo film che supera i suoi precedenti.
Ora, prima di cominciare a parlare bene, anzi benissimo, di Toy story 3, occorre fare una precisazione, visto che ormai la Pixar è così riconosciuta da riempire la bocca di ogni critico del pianeta già dal giorno precedente all'uscita di un nuovo lungometraggio: questo bellissimo, bellissimo film può stupire, divertire, emozionare e tutto quello che volete, ma nonostante la tecnica sublime e la sempre stupefacente capacità registica e di costruzione del team Pixar non rientra nei capolavori assoluti dello studio.
Non siamo di fronte, tanto per intenderci, ad un altro Up.
Detto questo, posso cominciare a tessere le lodi di cento e passa minuti di ritmo, citazioni, colori, risate e una punta di lacrime da far impallidire i migliori film d'avventura prodotti dalla fiction, ulteriore dimostrazione di quanto i gioielli di casa Pixar siano ormai ben oltre il semplice status di cartoons e facciano parte a pieno titolo del Cinema di serie A, quello dei grandi autori e dei festival, dei premi e dei riconoscimenti, esattamente come il Maestro Miyazaki, omaggiato anche in Toy story 3 grazie ad un'apparizione del pupazzo di Totoro, simbolo dello Studio Ghibli e film indimenticabile cui prima o poi dedicherò con il cuore pieno di gioia un post.
Woody e Buzz, come e meglio di tanti personaggi in carne ed ossa figli della settima arte si evolvono e stupiscono una volta ancora, approfondendo la loro amicizia e trasformandola in qualcosa che somiglia molto al concetto di famiglia: di fronte ad una realtà inevitabile - il piccolo Andy è cresciuto e, in partenza per il college, si trova di fronte alla separazione definitiva dai suoi giocattoli, ormai niente più che ricordi d'infanzia in un baule - lo sceriffo e il ranger dello spazio dovranno guidare i loro sfiduciati compagni in un viaggio avventuroso portatore di tutte le loro speranze di poter tornare ad essere utili a Andy, in un futuro che lo vedrà padre di famiglia.
Così, se per Woody la scelta è tutta dettata dalla generosità dettata da cuore e ruolo, per Buzz è la presa di coscienza di una nuova realtà, che lo porta finalmente ad essere leader del gruppo in assenza del suo inseparabile compagno, nonchè personaggio in grado di regalare i momenti più esilaranti della pellicola - la parte "spagnola" è un colpo da maestri -: le qualità di entrambi saranno determinanti per la fuga dall'asilo in cui i giocattoli si ritrovano per caso, retto da un orso di peluche dai melliflui modi che nascondono l'indole infida e ferita di un dittatore, così come all'ultimo, disperato tentativo di ritorno a casa.
Ed è proprio con la parte conclusiva che il film prende il volo, concedendo almeno due momenti di enorme forza emotiva, nella lenta discesa verso la fucina della discarica che tanto ricorda il Monte Fato di Mordor e nel confronto conclusivo fra Andy e Bonnie si trova tutta la poesia di un Cinema che non ha paura di piangere, oltre che di ridere, e lo fa tirando fuori i sentimenti, e non la retorica.
Del resto, Up ce l'aveva insegnato con la storia di Carl e Ellie.
Ma non solo.
Dai silenzi di Wall-E alla ratatouille assaggiata da Ego, passando attraverso la storia di Sully e Boo, i Pixar Studios hanno capito da tempo - da sempre, forse - che dai bambini passa tutto il resto - e l'importante - delle nostre esistenze.
Cresciamo così, senza crescere troppo.
"When you're through with life
and all hope is lost
hold out your hands cause friends will be friends
right till the end."
MrFord
Di Pixar, però, ce n'è una e una soltanto, quindi ai ragazzi geniali di Lasseter costola (?) Disney non basta confezionare un sequel migliore del primo capitolo, ma addirittura un terzo film che supera i suoi precedenti.
Ora, prima di cominciare a parlare bene, anzi benissimo, di Toy story 3, occorre fare una precisazione, visto che ormai la Pixar è così riconosciuta da riempire la bocca di ogni critico del pianeta già dal giorno precedente all'uscita di un nuovo lungometraggio: questo bellissimo, bellissimo film può stupire, divertire, emozionare e tutto quello che volete, ma nonostante la tecnica sublime e la sempre stupefacente capacità registica e di costruzione del team Pixar non rientra nei capolavori assoluti dello studio.
Non siamo di fronte, tanto per intenderci, ad un altro Up.
Detto questo, posso cominciare a tessere le lodi di cento e passa minuti di ritmo, citazioni, colori, risate e una punta di lacrime da far impallidire i migliori film d'avventura prodotti dalla fiction, ulteriore dimostrazione di quanto i gioielli di casa Pixar siano ormai ben oltre il semplice status di cartoons e facciano parte a pieno titolo del Cinema di serie A, quello dei grandi autori e dei festival, dei premi e dei riconoscimenti, esattamente come il Maestro Miyazaki, omaggiato anche in Toy story 3 grazie ad un'apparizione del pupazzo di Totoro, simbolo dello Studio Ghibli e film indimenticabile cui prima o poi dedicherò con il cuore pieno di gioia un post.
Woody e Buzz, come e meglio di tanti personaggi in carne ed ossa figli della settima arte si evolvono e stupiscono una volta ancora, approfondendo la loro amicizia e trasformandola in qualcosa che somiglia molto al concetto di famiglia: di fronte ad una realtà inevitabile - il piccolo Andy è cresciuto e, in partenza per il college, si trova di fronte alla separazione definitiva dai suoi giocattoli, ormai niente più che ricordi d'infanzia in un baule - lo sceriffo e il ranger dello spazio dovranno guidare i loro sfiduciati compagni in un viaggio avventuroso portatore di tutte le loro speranze di poter tornare ad essere utili a Andy, in un futuro che lo vedrà padre di famiglia.
Così, se per Woody la scelta è tutta dettata dalla generosità dettata da cuore e ruolo, per Buzz è la presa di coscienza di una nuova realtà, che lo porta finalmente ad essere leader del gruppo in assenza del suo inseparabile compagno, nonchè personaggio in grado di regalare i momenti più esilaranti della pellicola - la parte "spagnola" è un colpo da maestri -: le qualità di entrambi saranno determinanti per la fuga dall'asilo in cui i giocattoli si ritrovano per caso, retto da un orso di peluche dai melliflui modi che nascondono l'indole infida e ferita di un dittatore, così come all'ultimo, disperato tentativo di ritorno a casa.
Ed è proprio con la parte conclusiva che il film prende il volo, concedendo almeno due momenti di enorme forza emotiva, nella lenta discesa verso la fucina della discarica che tanto ricorda il Monte Fato di Mordor e nel confronto conclusivo fra Andy e Bonnie si trova tutta la poesia di un Cinema che non ha paura di piangere, oltre che di ridere, e lo fa tirando fuori i sentimenti, e non la retorica.
Del resto, Up ce l'aveva insegnato con la storia di Carl e Ellie.
Ma non solo.
Dai silenzi di Wall-E alla ratatouille assaggiata da Ego, passando attraverso la storia di Sully e Boo, i Pixar Studios hanno capito da tempo - da sempre, forse - che dai bambini passa tutto il resto - e l'importante - delle nostre esistenze.
Cresciamo così, senza crescere troppo.
"When you're through with life
and all hope is lost
hold out your hands cause friends will be friends
right till the end."
MrFord
The hangover
Situazione alle ore dieci e ventitre della domenica:
- andato a letto alle quattro, ubriaco, dopo taglio di capelli totale ad opera di Jules.
- sveglia alle sette con tentativo poco riuscito di fare pesi.
- straccio in bocca e nausea.
- caldo.
- treno in ritardo.
- negozio pieno.
- gente che ha perso la speranza ancor prima di entrare, esattamente proposta in questa sequenza terribile: il nuovo puzzone con medicazione al piede, la cicciona basculante, il rintronato di Star trek con tanto di orologino di plastica con la bandiera degli Stati Uniti e un coglione di proporzioni bibliche e di bruttezza altrettanto mistica che legge dandosi un tono la trama di Rec 2 alla fidanzata, che non si sa come ha deciso, forse perchè cieca, sorda e muta come Anna Frank di dargliela. Il coglione porta una sorta di divisa di un genere poco identificato e la pistola alla cinta.
Manco in Una notte da leoni.
Quasi quasi me lo rivedo.
"I-I-I-I got a hangover,
I-I-I-I got a hangover,
and I'm buzzin'."
MrFord
- andato a letto alle quattro, ubriaco, dopo taglio di capelli totale ad opera di Jules.
- sveglia alle sette con tentativo poco riuscito di fare pesi.
- straccio in bocca e nausea.
- caldo.
- treno in ritardo.
- negozio pieno.
- gente che ha perso la speranza ancor prima di entrare, esattamente proposta in questa sequenza terribile: il nuovo puzzone con medicazione al piede, la cicciona basculante, il rintronato di Star trek con tanto di orologino di plastica con la bandiera degli Stati Uniti e un coglione di proporzioni bibliche e di bruttezza altrettanto mistica che legge dandosi un tono la trama di Rec 2 alla fidanzata, che non si sa come ha deciso, forse perchè cieca, sorda e muta come Anna Frank di dargliela. Il coglione porta una sorta di divisa di un genere poco identificato e la pistola alla cinta.
Manco in Una notte da leoni.
Quasi quasi me lo rivedo.
"I-I-I-I got a hangover,
I-I-I-I got a hangover,
and I'm buzzin'."
MrFord
giovedì 15 luglio 2010
L'uomo che verrà
Esistono dei casi in cui un film è così "tanto" da rendere davvero difficile riuscire a scriverne senza far sembrare il post un pistolotto da finto intenditore, così come approcciare lo stesso con l'ironia che si potrebbe mettere rispetto ad una pellicola scadente o peggio.
Parliamoci chiaro: L'uomo che verrà è uno dei tre film italiani del decennio insieme a Il divo e Vincere, e riesce a conciliare L'albero degli zoccoli e Katyn, la bucolica magia della campagna e tutto l'orrore della guerra, una radicata ideologia partigiana all'equilibrio di fronte agli orrori commessi in guerra dall'Uomo, a prescindere dal suo schieramento.
Proprio questa pare essere la riflessione più importante di Diritti - teniamocelo stretto, perchè questo signore è un regista e uno sceneggiatore di quelli da baciarsi i gomiti -, resa ancora più profonda grazie all'utilizzo pressochè perfetto di Martina, la piccola protagonista resa muta dalla perdita del fratellino che osserva le dinamiche della sua famiglia, dei compaesani, della guerra e delle conseguenze che porta rispetto a quel piccolo mondo che poi tanto piccolo non è, per quanto lontano possa sembrare rispetto a Bologna e Milano, luoghi in cui si viene pagati bene alla giornata, parola del padre della bimba.
L'approfondimento dei personaggi, lasciato a vere e proprie sfumature e mai imbeccato a forza dalla sceneggiatura, che al contrario lascia una libertà quasi totale allo spettatore, è tanto discreto quanto totale, e al regista bastano pochi fotogrammi per definire un carattere, una storia, un percorso.
Martina, Lena, Beniamina e tutti i protagonisti di questo affresco escono dallo schermo ad ogni scena, perchè espressione di una sincerità artistica quasi incredibile, che ha qualcosa della scuola orientale, e trova nei neorealismi di DeSica e Satyiajit Ray ideali padri cinematografici.
Prima di spronfondare totalmente nel già citato - e temutissimo - pistolotto, lascio che la visione - o ancora meglio, le visioni, perchè questo film ne merita molte - suggerisca ad ognuno di voi le eventuali considerazioni tecniche, e mi tuffo, pur se intimorito, nella parte più emotiva dell'opera di Diritti: l'escalation che porterà alla tristemente nota strage di Marzabotto è una delle pagine di Cinema più intense che mi sia capitato di vedere negli ultimi anni, soprattutto pensando alla produzione nostrana, in cui ogni mezzo tecnico - montaggio e fotografia su tutti - è al servizio della tensione drammatica e dei momenti di profondo dolore che le immagini evocano nello spettatore.
Poco importa, di fronte alla crudeltà, quale sia la divisa che si indossa - Martina è sconvolta dell'esecuzione di un soldato tedesco tanto quanto dal massacro dei suoi compaesani -, quanto tutta la bassezza che l'Uomo è in grado di raggiungere, perpetrando azioni abominevoli e dispensando assurdi gesti di carità - l'ufficiale nazista che risparmia Beniamina perchè "somiglia a sua moglie" -: proprio nel confronto fra la stessa Beniamina e il suo "benefattore", che porterà alla morte di entrambi, c'è tutto il rigore morale di un Cinema che riesce a schierarsi con l'umanità anche quando la stessa umanità sembra essersi allontanata così tanto da se stessa da indurre a pensare che non ci può essere speranza.
E un Cinema che ha il coraggio di affermare che il gesto di Beniamina e la sua uccisione dell'ufficiale, che le costerà la vita, è umana e giusta quanto la corsa del padre di Martina verso due soldati nel bosco, urlando una vendetta che neppure la Storia potrà portare a tutte quelle vittime, è un Cinema necessario, prima di ogni altra considerazione possibile.
Diritti è come Il lupo, capo dei partigiani, che si tiene fuori dalla politica.
E fa bene, perchè è proprio lì che si trovano le serpi pronte a tradire, e a cambiare divisa come fosse la cosa più naturale del mondo.
Diritti è Martina, che come un animale protegge il fratellino appena nato, simbolo di una guerra che sta per finire, di una nuova vita, e rinasce nella generosità delle persone, prima ancora che delle istituzioni che rappresentano - stupenda anche la rappresentazione della Chiesa, quella che ci piace di più, che trova il suo giusto spazio in uno dei momenti storici più drammatici del nostro paese -.
Diritti è il fratellino piangente, che pare suggerire una nuova fuga, verso una salvezza che è necessaria per poter pensare di sopravvivere, di andare avanti.
Diritti è l'immagine magnifica che chiude la pellicola, e la voce di Martina che torna per cantare una ninna nanna al bimbo di fronte alla loro casa, svuotata di cose, vite e persone.
Letti vuoti, silenzi terribili.
Rotti da una voce flebile di speranza.
E da un bimbo.
De Andrè avrebbe scritto che quel piccoletto sarebbe diventato il Salvatore.
In effetti, quel bimbo è l'Uomo che verrà.
"O partigiano, portami via,
che mi sento di morir."
MrFord
Parliamoci chiaro: L'uomo che verrà è uno dei tre film italiani del decennio insieme a Il divo e Vincere, e riesce a conciliare L'albero degli zoccoli e Katyn, la bucolica magia della campagna e tutto l'orrore della guerra, una radicata ideologia partigiana all'equilibrio di fronte agli orrori commessi in guerra dall'Uomo, a prescindere dal suo schieramento.
Proprio questa pare essere la riflessione più importante di Diritti - teniamocelo stretto, perchè questo signore è un regista e uno sceneggiatore di quelli da baciarsi i gomiti -, resa ancora più profonda grazie all'utilizzo pressochè perfetto di Martina, la piccola protagonista resa muta dalla perdita del fratellino che osserva le dinamiche della sua famiglia, dei compaesani, della guerra e delle conseguenze che porta rispetto a quel piccolo mondo che poi tanto piccolo non è, per quanto lontano possa sembrare rispetto a Bologna e Milano, luoghi in cui si viene pagati bene alla giornata, parola del padre della bimba.
L'approfondimento dei personaggi, lasciato a vere e proprie sfumature e mai imbeccato a forza dalla sceneggiatura, che al contrario lascia una libertà quasi totale allo spettatore, è tanto discreto quanto totale, e al regista bastano pochi fotogrammi per definire un carattere, una storia, un percorso.
Martina, Lena, Beniamina e tutti i protagonisti di questo affresco escono dallo schermo ad ogni scena, perchè espressione di una sincerità artistica quasi incredibile, che ha qualcosa della scuola orientale, e trova nei neorealismi di DeSica e Satyiajit Ray ideali padri cinematografici.
Prima di spronfondare totalmente nel già citato - e temutissimo - pistolotto, lascio che la visione - o ancora meglio, le visioni, perchè questo film ne merita molte - suggerisca ad ognuno di voi le eventuali considerazioni tecniche, e mi tuffo, pur se intimorito, nella parte più emotiva dell'opera di Diritti: l'escalation che porterà alla tristemente nota strage di Marzabotto è una delle pagine di Cinema più intense che mi sia capitato di vedere negli ultimi anni, soprattutto pensando alla produzione nostrana, in cui ogni mezzo tecnico - montaggio e fotografia su tutti - è al servizio della tensione drammatica e dei momenti di profondo dolore che le immagini evocano nello spettatore.
Poco importa, di fronte alla crudeltà, quale sia la divisa che si indossa - Martina è sconvolta dell'esecuzione di un soldato tedesco tanto quanto dal massacro dei suoi compaesani -, quanto tutta la bassezza che l'Uomo è in grado di raggiungere, perpetrando azioni abominevoli e dispensando assurdi gesti di carità - l'ufficiale nazista che risparmia Beniamina perchè "somiglia a sua moglie" -: proprio nel confronto fra la stessa Beniamina e il suo "benefattore", che porterà alla morte di entrambi, c'è tutto il rigore morale di un Cinema che riesce a schierarsi con l'umanità anche quando la stessa umanità sembra essersi allontanata così tanto da se stessa da indurre a pensare che non ci può essere speranza.
E un Cinema che ha il coraggio di affermare che il gesto di Beniamina e la sua uccisione dell'ufficiale, che le costerà la vita, è umana e giusta quanto la corsa del padre di Martina verso due soldati nel bosco, urlando una vendetta che neppure la Storia potrà portare a tutte quelle vittime, è un Cinema necessario, prima di ogni altra considerazione possibile.
Diritti è come Il lupo, capo dei partigiani, che si tiene fuori dalla politica.
E fa bene, perchè è proprio lì che si trovano le serpi pronte a tradire, e a cambiare divisa come fosse la cosa più naturale del mondo.
Diritti è Martina, che come un animale protegge il fratellino appena nato, simbolo di una guerra che sta per finire, di una nuova vita, e rinasce nella generosità delle persone, prima ancora che delle istituzioni che rappresentano - stupenda anche la rappresentazione della Chiesa, quella che ci piace di più, che trova il suo giusto spazio in uno dei momenti storici più drammatici del nostro paese -.
Diritti è il fratellino piangente, che pare suggerire una nuova fuga, verso una salvezza che è necessaria per poter pensare di sopravvivere, di andare avanti.
Diritti è l'immagine magnifica che chiude la pellicola, e la voce di Martina che torna per cantare una ninna nanna al bimbo di fronte alla loro casa, svuotata di cose, vite e persone.
Letti vuoti, silenzi terribili.
Rotti da una voce flebile di speranza.
E da un bimbo.
De Andrè avrebbe scritto che quel piccoletto sarebbe diventato il Salvatore.
In effetti, quel bimbo è l'Uomo che verrà.
"O partigiano, portami via,
che mi sento di morir."
MrFord
mercoledì 14 luglio 2010
Eclipse
E' ormai chiaro quanto la mia personale passione per il Cinema sia totalmente onnivora, se si escludono pregiudizi atavici rispetto ai lavori di Martinelli e Mel Gibson e al radicalchicchismo da finti sapientoni: infatti, senza indugio e in tutta tranquillità, eccomi qui a parlare del terzo capitolo della saga di Twilight, fenomeno adolescenziale del nuovo millennio nonchè piccolo cult di Julez, e di conseguenza, per citare Pulp fiction, indirettamente anche mio.
Più o meno.
Ai tempi di Twilight approcciai la pellicola pensando che mi sarei trovato di fronte ad una merda di proporzioni bibliche, e forse proprio questo approccio me lo rese meno indigesto del previsto.
New moon, al contrario, rispettò in pieno le aspettative che avevo del primo film: sceneggiatura inesistente, brutti effetti, noia indicibile.
Eclipse, terzo capitolo dei quattro previsti - ho già promesso che l'ultimo lo vedrò al cinema: i compromessi della vita di coppia anche cinematografica - si pone più a ridosso di Twilight che non di New moon, anche se devo ammettere l'evidenza data dal fatto che regia e sceneggiatura siano di livello assolutamente prescolare.
Eppure la noia che pervadeva clamorosamente il secondo capitolo è spesso evitata grazie ad una dose inaspettata di ironia consumata principalmente nella gestione del triangolo amoroso Edward - Bella - Jacob, che riesce a strappare più di una risata e regala anche la battuta migliore del film, con Edward che, traducendo i pensieri di tutti gli spettatori di sesso maschile, chiede a Bella, indicando Jacob come al solito a petto nudo di fronte a loro: "Ma non ce l'ha una camicia?".
Queste piccole, piccole cose salvano dall'abisso completo di schifezze abominevoli come Scontro di titani questo Eclipse, anche se siamo ben lungi da poterlo definire anche solo un film d'intrattenimento: i dialoghi "seri" sono assolutamente risibili, così come l'utilizzo dissennato di Bryce Dallas Howard, che sarà stata pagata profumatamente solo per apparire di striscio in tre sequenze, e gli effetti speciali sono francamente di un livello così basso da far ripensare a Wolfman - e questo dice tutto -.
Non fingerò, ad ogni modo, di averlo visto sotto costrizione - come fenomeno sociale o anche solo come blackout del cervello da relax questi film ci stanno tutti, molto peggio chi è andato volontariamente al cinema per "godersi" Il mercante di pietre - o di non ricordarmi neppure i nomi dei personaggi o la trama.
Se un film si vede, si vede.
E ammetterò che Jasper Cullen, un personaggio utile all'economia della storia nei precedenti capitoli più o meno come Mauro Repetto agli 883, approfondito - pur se approssimativamente - con una digressione legata al suo passato di soldato dell'esercito confederato ha scalato le mie personali classifiche di gradimento.
Sarà il sudismo che chiama.
Per concludere, un consiglio: nel caso vogliate passarvi una serata di spegnimento di cervelli, o fare pensieri osceni sul fisico scolpito di Jacob, o semplicemente siete fan dei romanzi della Meyer e dei conseguenti film, evitate di vedere Eclipse o uno qualsiasi dei due precedenti capitoli - specialmente New moon! - dopo aver visto una puntata di quella meraviglia di torbida passionalità vampirica e non solo che è True blood.
Sarebbe come pensare di veder giocare Roberto Baggio e, subito dopo, dilettarvi con Pepe.
Ecco, ci sono ricascato!
"I saw a werewolf with a chinese menu in his hand
walkin' through the streets of Soho in the rain."
MrFord
Più o meno.
Ai tempi di Twilight approcciai la pellicola pensando che mi sarei trovato di fronte ad una merda di proporzioni bibliche, e forse proprio questo approccio me lo rese meno indigesto del previsto.
New moon, al contrario, rispettò in pieno le aspettative che avevo del primo film: sceneggiatura inesistente, brutti effetti, noia indicibile.
Eclipse, terzo capitolo dei quattro previsti - ho già promesso che l'ultimo lo vedrò al cinema: i compromessi della vita di coppia anche cinematografica - si pone più a ridosso di Twilight che non di New moon, anche se devo ammettere l'evidenza data dal fatto che regia e sceneggiatura siano di livello assolutamente prescolare.
Eppure la noia che pervadeva clamorosamente il secondo capitolo è spesso evitata grazie ad una dose inaspettata di ironia consumata principalmente nella gestione del triangolo amoroso Edward - Bella - Jacob, che riesce a strappare più di una risata e regala anche la battuta migliore del film, con Edward che, traducendo i pensieri di tutti gli spettatori di sesso maschile, chiede a Bella, indicando Jacob come al solito a petto nudo di fronte a loro: "Ma non ce l'ha una camicia?".
Queste piccole, piccole cose salvano dall'abisso completo di schifezze abominevoli come Scontro di titani questo Eclipse, anche se siamo ben lungi da poterlo definire anche solo un film d'intrattenimento: i dialoghi "seri" sono assolutamente risibili, così come l'utilizzo dissennato di Bryce Dallas Howard, che sarà stata pagata profumatamente solo per apparire di striscio in tre sequenze, e gli effetti speciali sono francamente di un livello così basso da far ripensare a Wolfman - e questo dice tutto -.
Non fingerò, ad ogni modo, di averlo visto sotto costrizione - come fenomeno sociale o anche solo come blackout del cervello da relax questi film ci stanno tutti, molto peggio chi è andato volontariamente al cinema per "godersi" Il mercante di pietre - o di non ricordarmi neppure i nomi dei personaggi o la trama.
Se un film si vede, si vede.
E ammetterò che Jasper Cullen, un personaggio utile all'economia della storia nei precedenti capitoli più o meno come Mauro Repetto agli 883, approfondito - pur se approssimativamente - con una digressione legata al suo passato di soldato dell'esercito confederato ha scalato le mie personali classifiche di gradimento.
Sarà il sudismo che chiama.
Per concludere, un consiglio: nel caso vogliate passarvi una serata di spegnimento di cervelli, o fare pensieri osceni sul fisico scolpito di Jacob, o semplicemente siete fan dei romanzi della Meyer e dei conseguenti film, evitate di vedere Eclipse o uno qualsiasi dei due precedenti capitoli - specialmente New moon! - dopo aver visto una puntata di quella meraviglia di torbida passionalità vampirica e non solo che è True blood.
Sarebbe come pensare di veder giocare Roberto Baggio e, subito dopo, dilettarvi con Pepe.
Ecco, ci sono ricascato!
"I saw a werewolf with a chinese menu in his hand
walkin' through the streets of Soho in the rain."
MrFord
Tutto su mia madre
Si torna al Cinema, dunque.
E tanto per non farci mancare nulla in materia di collegamenti ipertestuali, colgo la vittoria ai mondiali della Spagna come una palla al balzo per riprendere il filo con la settima arte partendo da un film del più noto regista iberico vivente, il buon Pedro Almodovar.
Avevo visto per la prima - ed unica, a dire il vero - volta Tutto su mia madre almeno cinque o sei anni fa, ancora quando esistevano le videocassette, iniziando così il mio percorso all'interno della filmografia del Pedrito, che, occorre ammetterlo, se ancora non è riuscito a farmi pronunciare la fatidica parola "capolavoro" ha mantenuto uno standard sempre alto nella sua produzione, deliziandomi con cose grosse come Parla con lei, Donne sull'orlo di una crisi di nervi e Carne tremula, tanto per citare le mie preferite.
Ai tempi, forse condizionato dal clamore e dal successo che come un'onda lo trainarono all'uscita, portandolo all'Oscar per il miglior film straniero, lo giudicai un buon film, pur se troppo eccessivo nel suo omaggiare il ruolo della madre, e quasi subito lo accantonai come un Almodovar sopravvalutato e, per certi versi, minore.
Ieri, quando ho premuto il tasto eject sul telecomando del lettore dvd, avevo i brividi.
Tutto su mia madre non è solo un grandissimo film, ma anche un più che doveroso e mai abbastanza eccessivo riconoscimento al ruolo più importante del mondo.
Quello della madre, appunto, visto da due punti di vista solo apparentemente scollegati: da un lato, infatti, come sempre nei lavori di Almodovar, è palese un omaggio al Cinema ed una dichiarazione d'amore spudorata alle sue grandi interpreti - Bette Davis su tutte -, dall'altro un ritratto di intensità straordinaria sul mondo delle madri, siano esse donne o uomini che vorrebbero essere donne.
L'incompiutezza dell'uomo come genere è imbarazzante ed evidente neanche fossimo nel film più profondamente femminile di Jane Campion, e passa dal dramma del giovane Esteban, che muore prima di conoscere il suo vero padre, dalle vite al limite di Agrado e Lola - che si fecero le tette insieme, a Parigi, prima di tornare e creare scompiglio nelle vite di chi li ha amati -, dal vagare mesto del padre di Rosa, preda dell'Alzheimer.
A sostenere questi uomini perduti, una schiera di donne che ribollono forza e passione, capaci quasi di scomparire sotto il peso delle lacrime e dispensare subito dopo sferzate d'ironia e gioia di vivere: dall'apparentemente fragile e straordinariamente interpretata da Cecilia Roth Manuela all'algida Huma, omaggio alle grandi attrici del passato e a "Un tram che si chiama desiderio", per passare attraverso Rosa, solare, segnata giovane suora dalla sotterranea ma esplosiva gioia di vivere e dallo stoico confronto con le brutture che la vita le ha riservato.
E il perdono concesso a Lola/Esteban da parte di Manuela, così come il momento del loro incontro al funerale di Rosa, porta tutti i brividi che solo il grande Cinema può: la discesa di Lola dalla scalinata è una scossa da Viale del tramonto, e quel notes che finisce nelle sue mani un'esistenza che si completa.
Esteban incontra Esteban.
In modo che la loro morte possa significare una nuova vita, un altro Esteban che possa raccogliere la loro eredità e proseguire il viaggio, senza le loro miserie.
Manuela ci sarà, e continuerà ad esserci, come tutte le madri.
E la dedica di Almodovar è lì a dimostrarlo.
Ma tutti noi già lo sapevamo, che la mamma è sempre la mamma.
"I've seen your face a hundred times,
everyday we've been apart,
I don't care about the sunshine, yeah,
'cause mama, mama I'm comin' home."
MrFord
E tanto per non farci mancare nulla in materia di collegamenti ipertestuali, colgo la vittoria ai mondiali della Spagna come una palla al balzo per riprendere il filo con la settima arte partendo da un film del più noto regista iberico vivente, il buon Pedro Almodovar.
Avevo visto per la prima - ed unica, a dire il vero - volta Tutto su mia madre almeno cinque o sei anni fa, ancora quando esistevano le videocassette, iniziando così il mio percorso all'interno della filmografia del Pedrito, che, occorre ammetterlo, se ancora non è riuscito a farmi pronunciare la fatidica parola "capolavoro" ha mantenuto uno standard sempre alto nella sua produzione, deliziandomi con cose grosse come Parla con lei, Donne sull'orlo di una crisi di nervi e Carne tremula, tanto per citare le mie preferite.
Ai tempi, forse condizionato dal clamore e dal successo che come un'onda lo trainarono all'uscita, portandolo all'Oscar per il miglior film straniero, lo giudicai un buon film, pur se troppo eccessivo nel suo omaggiare il ruolo della madre, e quasi subito lo accantonai come un Almodovar sopravvalutato e, per certi versi, minore.
Ieri, quando ho premuto il tasto eject sul telecomando del lettore dvd, avevo i brividi.
Tutto su mia madre non è solo un grandissimo film, ma anche un più che doveroso e mai abbastanza eccessivo riconoscimento al ruolo più importante del mondo.
Quello della madre, appunto, visto da due punti di vista solo apparentemente scollegati: da un lato, infatti, come sempre nei lavori di Almodovar, è palese un omaggio al Cinema ed una dichiarazione d'amore spudorata alle sue grandi interpreti - Bette Davis su tutte -, dall'altro un ritratto di intensità straordinaria sul mondo delle madri, siano esse donne o uomini che vorrebbero essere donne.
L'incompiutezza dell'uomo come genere è imbarazzante ed evidente neanche fossimo nel film più profondamente femminile di Jane Campion, e passa dal dramma del giovane Esteban, che muore prima di conoscere il suo vero padre, dalle vite al limite di Agrado e Lola - che si fecero le tette insieme, a Parigi, prima di tornare e creare scompiglio nelle vite di chi li ha amati -, dal vagare mesto del padre di Rosa, preda dell'Alzheimer.
A sostenere questi uomini perduti, una schiera di donne che ribollono forza e passione, capaci quasi di scomparire sotto il peso delle lacrime e dispensare subito dopo sferzate d'ironia e gioia di vivere: dall'apparentemente fragile e straordinariamente interpretata da Cecilia Roth Manuela all'algida Huma, omaggio alle grandi attrici del passato e a "Un tram che si chiama desiderio", per passare attraverso Rosa, solare, segnata giovane suora dalla sotterranea ma esplosiva gioia di vivere e dallo stoico confronto con le brutture che la vita le ha riservato.
E il perdono concesso a Lola/Esteban da parte di Manuela, così come il momento del loro incontro al funerale di Rosa, porta tutti i brividi che solo il grande Cinema può: la discesa di Lola dalla scalinata è una scossa da Viale del tramonto, e quel notes che finisce nelle sue mani un'esistenza che si completa.
Esteban incontra Esteban.
In modo che la loro morte possa significare una nuova vita, un altro Esteban che possa raccogliere la loro eredità e proseguire il viaggio, senza le loro miserie.
Manuela ci sarà, e continuerà ad esserci, come tutte le madri.
E la dedica di Almodovar è lì a dimostrarlo.
Ma tutti noi già lo sapevamo, che la mamma è sempre la mamma.
"I've seen your face a hundred times,
everyday we've been apart,
I don't care about the sunshine, yeah,
'cause mama, mama I'm comin' home."
MrFord
lunedì 12 luglio 2010
Olanda-Spagna (0-1)
Così, il buon vecchio polpo Paul aveva ragione. Otto su otto.
E la Spagna è campione del mondo per la prima volta nella sua storia, realizzando un "doble" che fa il paio - pur se a vittorie invertite - con quello della Francia, mondiale nel 1998 ed europeo nel 2000.
Le furie rosse ce l'hanno fatta, pur non brillando come nella semifinale con la Germania ed essendo protagoniste di una gara segnata - ma era inevitabile - dal nervosismo e dalla paura di sbagliare, come quasi tutte le finali degli ultimi vent'anni.
Ad ogni modo, la tensione è stata pressochè costante, e i gol mancati da entrambe le parti - clamorosi gli errori di Robben e Fabregas - hanno mantenuto altissima l'attenzione fino alla rete decisiva, firmata da quel furbetto di Iniesta - costato il cartellino rosso a Heitinga con un volo modello Inzaghi -, che mette dentro una palla che cambia la storia, scacciando lo spettro dei rigori ormai a tre minuti e poco più di distanza.
Curioso il fatto che, a condividere cibo e alcool nel corso della finalissima, ci fosse parte dello stesso gruppo che il 9 luglio del 2006 uscì in condizioni di devastazione totale dal Palacucco, e che la nostra sostenitrice spagnola di allora sia stata sostenuta da noi - quasi tutti - anche nella serata di ieri.
Grande dispiacere per il folletto Wesley, che nella notte della partita più importante della sua carriera pare essersi dimenticato di accendere la lampadina decisiva come era stato, al contrario, per gli altri scontri vinti dagli orange, che erano giunti a quest'ultimo match imbattuti, al contrario della Roja, sconfitta dalla Svizzera proprio alla prima partita di questo mondiale.
L'assist straordinario a Robben prima del suo gol mancato è stato l'unico acuto di una serata finita mestamente con le lacrime agli occhi, seduto sul campo ormai divenuto teatro della festa spagnola.
D'altro canto, la gioia dei nostri cugini iberici è stata liberatoria e condivisa - anche se apparentemente contenuta, rispetto ai nostri standard italioti - e ha regalato due dei momenti più belli della finale e non solo: sollevata la coppa, la compagine spagnola ha sfilato in un corridoio formato dagli avversari sconfitti, che, chi incazzato chi affranto, chi rassegnato e chi sportivamente felice per gli avversari, dispensavano strette di mano e pacche sulle spalle.
Per la seconda immagine, invece, mi concedo addirittura una foto - o meglio, un fotogramma, restando in ambito cinematografico - legato al post partita del capitano spagnolo.
Dall'inizio della kermesse iridata - specialmente dopo l'inaspettata sconfitta all'esordio - venne criticata aspramente in patria la presenza costante, dietro la porta di Iker Casillas, della giornalista televisiva Sara Carbonero, fidanzata dell'estremo difensore delle furie rosse.
La coppia incassa e prosegue per la sua strada, in barba a malignità e critiche, e giunge insieme alla finale.
Spagna vittoriosa, tutti felici, dal popolo alla regina, ed intervista inevitabile al termine della premiazione: Sara Carbonero mantiene un contegno formale ineccepibile, degno di una giornalista di grido.
Casillas, al contrario, complici l'euforia della vittoria e l'adrenalina salita dopo il pianto di gioia che l'aveva colto sul fischio finale, trattiene a stento le risate: ascolta, risponde, ci prova fino all'ultimo.
Ma a tutto c'è un limite.
Così il portierone spagnolo - autore, va detto, di un miracolo che ha reso meno grave l'errore di Robben mettendo il piede là dove nessun uomo l'avrebbe messo - si porta le mani sul viso, cercando con un ultimo sforzo di resistere, prima di ridere, afferrare la fidanzata e baciarla in diretta, lasciando a bocca aperta lei e tutti gli spettatori.
Un gesto pane e salame che risveglia la passione che lo sport e la vita - se usati bene - possono stimolare in ognuno di noi.
Basta solo viverli davvero, in fondo.
Potrà poi anche essere che Sara, irritata dal gesto del fidanzato, lo pianti clamorosamente.
Ma anche fosse, sono convinto che ci sono milioni di donne, spagnole e non solo, che dopo aver visto questa semplice, intensissima dimostrazione d'amore saranno più che pronte a prendere il suo posto.
Oppure, colpita anch'ella, mollerà la carriera di giornalista e diventerà la moglie di un campione del mondo. Che dovrà dimostrarsi tale per il resto della sua vita. Sconfitte o vittorie che siano.
Il mondiale è finito, dunque, e con lui due eventi catturano la mia attenzione e le ultime righe del post prima del ritorno del Cinema a protagonista di queste pagine: il ritiro del polpo Paul, che si è chiamato fuori dal grande giro degli indovini, e il premio di miglior giocatore del mondiale assegnato a Forlan, trascinatore dell'Uruguay.
Se con il primo mi trovo dispiaciuto di perdere il mio simpatico antagonista acquatico nonchè rivale imbattibile nelle previsioni delle partite, con il secondo non posso che essere felice per il fuoriclasse della Celeste, vincitore morale della classifica marcatori - tecnicamente, con il parimerito, il titolo è andato a Muller per il conteggio degli assist - ed esempio perfetto di quanto un campione non debba necessariamente conquistare copertine e far vendere magliette per essere in grado di regalare vagonate di sogni ai suoi tifosi.
E la sparerò anche più grossa: per quanto bene abbia voluto a Snejider durante questo mondiale, mi piacerebbe che il prossimo Pallone d'oro andasse proprio al buon Forlan.
Speriamo. E speriamo che il polpo Paul speri con noi.
In fondo, lui non ne sbaglia una.
"La tierra de mi gente hermosa
(armada latina),
cielo y sol, me acompanan donde quiera
(mi fama in prada)."
MrFord
E la Spagna è campione del mondo per la prima volta nella sua storia, realizzando un "doble" che fa il paio - pur se a vittorie invertite - con quello della Francia, mondiale nel 1998 ed europeo nel 2000.
Le furie rosse ce l'hanno fatta, pur non brillando come nella semifinale con la Germania ed essendo protagoniste di una gara segnata - ma era inevitabile - dal nervosismo e dalla paura di sbagliare, come quasi tutte le finali degli ultimi vent'anni.
Ad ogni modo, la tensione è stata pressochè costante, e i gol mancati da entrambe le parti - clamorosi gli errori di Robben e Fabregas - hanno mantenuto altissima l'attenzione fino alla rete decisiva, firmata da quel furbetto di Iniesta - costato il cartellino rosso a Heitinga con un volo modello Inzaghi -, che mette dentro una palla che cambia la storia, scacciando lo spettro dei rigori ormai a tre minuti e poco più di distanza.
Curioso il fatto che, a condividere cibo e alcool nel corso della finalissima, ci fosse parte dello stesso gruppo che il 9 luglio del 2006 uscì in condizioni di devastazione totale dal Palacucco, e che la nostra sostenitrice spagnola di allora sia stata sostenuta da noi - quasi tutti - anche nella serata di ieri.
Grande dispiacere per il folletto Wesley, che nella notte della partita più importante della sua carriera pare essersi dimenticato di accendere la lampadina decisiva come era stato, al contrario, per gli altri scontri vinti dagli orange, che erano giunti a quest'ultimo match imbattuti, al contrario della Roja, sconfitta dalla Svizzera proprio alla prima partita di questo mondiale.
L'assist straordinario a Robben prima del suo gol mancato è stato l'unico acuto di una serata finita mestamente con le lacrime agli occhi, seduto sul campo ormai divenuto teatro della festa spagnola.
D'altro canto, la gioia dei nostri cugini iberici è stata liberatoria e condivisa - anche se apparentemente contenuta, rispetto ai nostri standard italioti - e ha regalato due dei momenti più belli della finale e non solo: sollevata la coppa, la compagine spagnola ha sfilato in un corridoio formato dagli avversari sconfitti, che, chi incazzato chi affranto, chi rassegnato e chi sportivamente felice per gli avversari, dispensavano strette di mano e pacche sulle spalle.
Per la seconda immagine, invece, mi concedo addirittura una foto - o meglio, un fotogramma, restando in ambito cinematografico - legato al post partita del capitano spagnolo.
Dall'inizio della kermesse iridata - specialmente dopo l'inaspettata sconfitta all'esordio - venne criticata aspramente in patria la presenza costante, dietro la porta di Iker Casillas, della giornalista televisiva Sara Carbonero, fidanzata dell'estremo difensore delle furie rosse.
La coppia incassa e prosegue per la sua strada, in barba a malignità e critiche, e giunge insieme alla finale.
Spagna vittoriosa, tutti felici, dal popolo alla regina, ed intervista inevitabile al termine della premiazione: Sara Carbonero mantiene un contegno formale ineccepibile, degno di una giornalista di grido.
Casillas, al contrario, complici l'euforia della vittoria e l'adrenalina salita dopo il pianto di gioia che l'aveva colto sul fischio finale, trattiene a stento le risate: ascolta, risponde, ci prova fino all'ultimo.
Ma a tutto c'è un limite.
Così il portierone spagnolo - autore, va detto, di un miracolo che ha reso meno grave l'errore di Robben mettendo il piede là dove nessun uomo l'avrebbe messo - si porta le mani sul viso, cercando con un ultimo sforzo di resistere, prima di ridere, afferrare la fidanzata e baciarla in diretta, lasciando a bocca aperta lei e tutti gli spettatori.
Un gesto pane e salame che risveglia la passione che lo sport e la vita - se usati bene - possono stimolare in ognuno di noi.
Basta solo viverli davvero, in fondo.
Potrà poi anche essere che Sara, irritata dal gesto del fidanzato, lo pianti clamorosamente.
Ma anche fosse, sono convinto che ci sono milioni di donne, spagnole e non solo, che dopo aver visto questa semplice, intensissima dimostrazione d'amore saranno più che pronte a prendere il suo posto.
Oppure, colpita anch'ella, mollerà la carriera di giornalista e diventerà la moglie di un campione del mondo. Che dovrà dimostrarsi tale per il resto della sua vita. Sconfitte o vittorie che siano.
Il mondiale è finito, dunque, e con lui due eventi catturano la mia attenzione e le ultime righe del post prima del ritorno del Cinema a protagonista di queste pagine: il ritiro del polpo Paul, che si è chiamato fuori dal grande giro degli indovini, e il premio di miglior giocatore del mondiale assegnato a Forlan, trascinatore dell'Uruguay.
Se con il primo mi trovo dispiaciuto di perdere il mio simpatico antagonista acquatico nonchè rivale imbattibile nelle previsioni delle partite, con il secondo non posso che essere felice per il fuoriclasse della Celeste, vincitore morale della classifica marcatori - tecnicamente, con il parimerito, il titolo è andato a Muller per il conteggio degli assist - ed esempio perfetto di quanto un campione non debba necessariamente conquistare copertine e far vendere magliette per essere in grado di regalare vagonate di sogni ai suoi tifosi.
E la sparerò anche più grossa: per quanto bene abbia voluto a Snejider durante questo mondiale, mi piacerebbe che il prossimo Pallone d'oro andasse proprio al buon Forlan.
Speriamo. E speriamo che il polpo Paul speri con noi.
In fondo, lui non ne sbaglia una.
"La tierra de mi gente hermosa
(armada latina),
cielo y sol, me acompanan donde quiera
(mi fama in prada)."
MrFord
domenica 11 luglio 2010
Waiting for the final: polpo Paul, sport e cuore
Prima di ogni cosa, vorrei autofesteggiare i miei primi cento post, di cui non sarei neppure riuscito ad accorgermi senza la pronta segnalazione di Julez: grazie, hot patootie!
Dunque: fra qualche ora si giocherà la finale di questo mondiale 2010, la terza per l'Olanda e la prima per la Spagna, entrambe ancora alla ricerca del primo successo alla manifestazione calcistica più importante del pianeta.
Il grande viaggio iniziato un mese fa sta per finire, e, da buon tifoso del pallone, spero possa concludersi nel migliore dei modi, con una partita sensazionale e combattuta fino all'ultimo secondo, in attesa che il Brasile prenda il testimone dal Sudafrica per la kermesse del 2014.
Di questo mondiale si ricorderanno il tormentone vuvuzelas, le figuracce di Francia e Italia, le clamorose eliminazioni di Inghilterra, Argentina e Brasile, una finale inedita, Larissa Riquelme, la Germania multietnica di Loew, la sorpresa Celeste ed un'allegria diffusa che è stata denominatore comune del primo mondiale in terra d'Africa.
Peccato solo che il Senegal non ce l'abbia fatta, ad arrivare fra le prime quattro.
Ad ogni modo, il vero, vero protagonista di questo mondiale, alla facciazza di tutte le stelle che hanno toppato nelle prestazioni - Rooney, Cristiano Ronaldo, Torres, Kakà, Messi -, è stato il polpo Paul, mio vero antagonista per queste finali, in particolare quella di stasera.
Iniziato come un gioco, il momento della predizione del buon vecchio Paul è diventato il tormentone numero uno del mondiale, considerato che il simpatico tentacolato ha azzeccato tutti e sette i risultati delle partite della Germania, sua squadra di casa, anche rispetto alle sconfitte.
Così, come da post precedente, mi sono preso a cuore l'incombenza di tifare contro Paul e le sue predizioni in queste due finali.
Ieri, da programma, mi sono schierato dalla parte di Forlan e soci, uscendo clamorosamente sconfitto dal cefalopode.
La partita di stasera, però, è tutta un'altra faccenda: due squadre che ho in simpatia - anche questo concetto già sviscerato -, espressione del miglior calcio al momento in circolazione e spinte da giocatori in grado di far sognare le proprie tifoserie.
La mia anima latina preme per la Spagna, la mia inclinazione per i "losers" all'Olanda, che sarebbe un delitto perdesse la sua terza finale.
Difficile. Davvero.
Poi arriva Paul, che snocciola un pronostico a favore della Spagna.
E le cose si complicano, invece di sistemarsi.
Prima di continuare con la mia rivalità con Paul e il pronostico della finale, vorrei sottolineare un fatto a dir poco assurdo che ho pescato leggendo a proposito dell'evento di questa sera fra i vari siti delle principali testate giornalistiche del bel paese: dato che Lippi e i suoi hanno regalato a tutti noi il peggior mondiale mai disputato dalla Nazionale, ora, tanto per non smentirci, e ritagliarci un pò di spazio come i peggiori degli accattoni, esce fuori che l'allevatrice di Paul dichiara che il polipo ha origini italiane.
Un pò come dire: "La vera stella del mondiale è nostra, così imparate a chiederci la coppa indietro."
Faccio una previsione anch'io, a questo proposito: fino a quando manterremo questo atteggiamento da poveri di spirito, un'altra vittoria ce la sogniamo di certo.
Ma veniamo al dunque: dopo aver profondamente riflettuto, ho capito che al cuore non si comanda, e memore dei miei trascorsi in terra iberica, di amicizie e passionalità, non posso che schierarmi accanto alle furie rosse, tifando spudoratamente per una loro vittoria.
Per non essere da meno, però, rispetto alla parola data e alle predizioni di Paul, decido di pronosticare la vittoria dell'Olanda.
Facile, penserete voi. Il piede in due scarpe.
Invece no.
Perchè se dovesse vincere la Spagna mi sentirei in colpa verso Wesley e compagni e vedrei tradita la mia sfida a Paul, mentre se a vincere fossero gli orange avrei sconfitto il mio acquatico rivale con tutto il dispiacere di una sconfitta più mia di quello che si potrebbe pensare.
In qualche modo, sarà come perdere in ogni caso qualcosa.
Ma se la partita sarà la migliore possibile, e tutti, in campo, daranno il loro meglio, lo spettacolo che ne verrà sarà la vittoria più grande anche per gli sconfitti.
Quasi mi sento un Ringo-boy!
Sarà meglio che corra a bere e a spararne qualcuna di quelle grosse, in modo che il turpiloquio e l'alcool possano ristabilire il mio status di esponente del lato oscuro!
Buona finale!
"It's all about the game and how you play it.
All about control and if you can take it."
MrFord
Dunque: fra qualche ora si giocherà la finale di questo mondiale 2010, la terza per l'Olanda e la prima per la Spagna, entrambe ancora alla ricerca del primo successo alla manifestazione calcistica più importante del pianeta.
Il grande viaggio iniziato un mese fa sta per finire, e, da buon tifoso del pallone, spero possa concludersi nel migliore dei modi, con una partita sensazionale e combattuta fino all'ultimo secondo, in attesa che il Brasile prenda il testimone dal Sudafrica per la kermesse del 2014.
Di questo mondiale si ricorderanno il tormentone vuvuzelas, le figuracce di Francia e Italia, le clamorose eliminazioni di Inghilterra, Argentina e Brasile, una finale inedita, Larissa Riquelme, la Germania multietnica di Loew, la sorpresa Celeste ed un'allegria diffusa che è stata denominatore comune del primo mondiale in terra d'Africa.
Peccato solo che il Senegal non ce l'abbia fatta, ad arrivare fra le prime quattro.
Ad ogni modo, il vero, vero protagonista di questo mondiale, alla facciazza di tutte le stelle che hanno toppato nelle prestazioni - Rooney, Cristiano Ronaldo, Torres, Kakà, Messi -, è stato il polpo Paul, mio vero antagonista per queste finali, in particolare quella di stasera.
Iniziato come un gioco, il momento della predizione del buon vecchio Paul è diventato il tormentone numero uno del mondiale, considerato che il simpatico tentacolato ha azzeccato tutti e sette i risultati delle partite della Germania, sua squadra di casa, anche rispetto alle sconfitte.
Così, come da post precedente, mi sono preso a cuore l'incombenza di tifare contro Paul e le sue predizioni in queste due finali.
Ieri, da programma, mi sono schierato dalla parte di Forlan e soci, uscendo clamorosamente sconfitto dal cefalopode.
La partita di stasera, però, è tutta un'altra faccenda: due squadre che ho in simpatia - anche questo concetto già sviscerato -, espressione del miglior calcio al momento in circolazione e spinte da giocatori in grado di far sognare le proprie tifoserie.
La mia anima latina preme per la Spagna, la mia inclinazione per i "losers" all'Olanda, che sarebbe un delitto perdesse la sua terza finale.
Difficile. Davvero.
Poi arriva Paul, che snocciola un pronostico a favore della Spagna.
E le cose si complicano, invece di sistemarsi.
Prima di continuare con la mia rivalità con Paul e il pronostico della finale, vorrei sottolineare un fatto a dir poco assurdo che ho pescato leggendo a proposito dell'evento di questa sera fra i vari siti delle principali testate giornalistiche del bel paese: dato che Lippi e i suoi hanno regalato a tutti noi il peggior mondiale mai disputato dalla Nazionale, ora, tanto per non smentirci, e ritagliarci un pò di spazio come i peggiori degli accattoni, esce fuori che l'allevatrice di Paul dichiara che il polipo ha origini italiane.
Un pò come dire: "La vera stella del mondiale è nostra, così imparate a chiederci la coppa indietro."
Faccio una previsione anch'io, a questo proposito: fino a quando manterremo questo atteggiamento da poveri di spirito, un'altra vittoria ce la sogniamo di certo.
Ma veniamo al dunque: dopo aver profondamente riflettuto, ho capito che al cuore non si comanda, e memore dei miei trascorsi in terra iberica, di amicizie e passionalità, non posso che schierarmi accanto alle furie rosse, tifando spudoratamente per una loro vittoria.
Per non essere da meno, però, rispetto alla parola data e alle predizioni di Paul, decido di pronosticare la vittoria dell'Olanda.
Facile, penserete voi. Il piede in due scarpe.
Invece no.
Perchè se dovesse vincere la Spagna mi sentirei in colpa verso Wesley e compagni e vedrei tradita la mia sfida a Paul, mentre se a vincere fossero gli orange avrei sconfitto il mio acquatico rivale con tutto il dispiacere di una sconfitta più mia di quello che si potrebbe pensare.
In qualche modo, sarà come perdere in ogni caso qualcosa.
Ma se la partita sarà la migliore possibile, e tutti, in campo, daranno il loro meglio, lo spettacolo che ne verrà sarà la vittoria più grande anche per gli sconfitti.
Quasi mi sento un Ringo-boy!
Sarà meglio che corra a bere e a spararne qualcuna di quelle grosse, in modo che il turpiloquio e l'alcool possano ristabilire il mio status di esponente del lato oscuro!
Buona finale!
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MrFord
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