A volte ci sono film che, nonostante l'indiscutibile valore artistico, perdono clamorosamente e senza possibilità alcuna la loro sfida con il tempo.
Un pò come il grunge per la musica, insomma.
Roba che al momento dell'uscita ha fatto gridare al miracolo, e che poi, inesorabilmente, è rimasta come chiusa in una sorta di "prigione dorata" d'epoca.
Svengali fa parte di questa cerchia: una sorta di elite intrappolata come ne "L'angelo sterminatore" di Bunuel, che vista fuori tempo massimo - e innaffiata di un ottimo rum agricolo della martinica - ha avuto un effetto a tratti soporifero, nonostante momenti di indubbia intensità e perizia tecnica notevole per i mezzi disponibili all'epoca (si parla del signor millenovecentotrentuno).
La trama parte da uno dei presupposti più antichi del mondo, l'amore non corrisposto che si tramuta in ossessione e diviene dapprima un sopruso, e poi un esempio di quella che verrà chiamata, tempo dopo questa pellicola, Sidrome di Stoccolma, e si sviluppa giocandosi il tutto per tutto grazie al suo protagonista, il misterioso, rasputiniano Svengali, musicista, filosofo, ipnotista e chi più ne ha più ne metta.
Una specie di Crudelia DeMon in versione maschile.
Eppure qualcosa, nell'incedere della storia, nonostante il fascino indiscutibile che la stessa irradia, cade nella trappola del tempo, mostrando il fianco a quello che nei capolavori si giustifica come un'ovvia collocazione temporale, appunto - penso a Il mostro di Dusseldorf o La morte corre sul fiume - e che nei film "normali" pesa come un macigno di proporzioni titaniche.
Restano comunque due scene memorabili e tanto fascino: la carrellata all'indietro a partire dallo sguardo ipnotico di Svengali che finisce con il volo d'uccello sulla città - espediente utilizzato anche da Murnau nel suo Faust, tanto per continuare a citare capolavoroni - e il finale, quando l'umanità pare avere il sopravvento sia sul protagonista che sulla sua "vittima", che esce dai panni dell'ipnotizzata Mrs. Svengali per tornare a mostrare tutta la dolcezza di Trilby, suo personaggio "originario".
Una sequenza davvero da brividi, certamente avanti - quella sì - per i tempi in cui fu girata.
Ad ogni modo, per tornare al discorso dell'altra sera, questo sì, che è "un film dei miei".
Quindi, se non siete vaccinati almeno un pò al cinema dell'epoca che fu, forse Svengali, per quanto la durata possa far pensare, non è roba per voi.
A meno che non sfoderiate il mio stesso rum, e allora tutto potrà andar bene, anche Martinelli.
In caso, Bally è il nome della suddetta bevanda.
Nel caso doveste incontrare un bellissimo "vintage" come Svengali o una merda totale come Il mercante di pietre.
Che, ora posso rivelarlo, è il primo della lista dei film peggiori che abbia mai visto.
Ma ci sarà tempo anche per quello.
Ora vado a farmi ipnotizzare, così, almeno fino a domani, fingerò di non averlo mai visto.
Grazie, Mr. Svengali!
"Mesmerize the simple minded
propaganda leaves us blinded."
MrFord
giovedì 29 aprile 2010
mercoledì 28 aprile 2010
Il potere del cane
L'ho già citato, giorni fa.
Ma ancora non avevo colto la grandezza dell'affresco dipinto da Don Winslow, un ritratto crudele e drammatico del rapporto "d'affari" che lega Messico e Stati Uniti rispetto al traffico di droga.
Trent'anni di storia, di avvenimenti reali - il terremoto a Città del Messico, la presidenza Reagan, la guerra in Vietnam - filtrati attraverso le vite (e le morti) di protagonisti costruiti da Winslow magistralmente, profondi quasi fossero realmente vissuti, tutti vittime del famigerato "potere del cane".
Ma cosa sarà mai, questo potere che da titolo ad uno dei più grandi romanzi americani della storia recente? Una presa per il culo, la citazione di un manuale per addestratori, una sbronza colossale del suo autore?
Il potere del cane è l'anello di Sauron, il lato oscuro di Star Wars, la capacità tutta umana di perseguire uno scopo a scapito di qualsiasi cosa si ponga sul cammino: è la corruzione, morale e fisica, giustificata da un fine "superiore", che giustifica i mezzi, l'hybris greca che torna a chiedere il conto, anche quando si pensa che non accadrà mai.
Dalle strade ai vertici del potere, come la morte, entra senza differenze nelle vite di chi si fa ghermire, anche solo per necessità, anche soltanto una volta.
Art Keller, Sean Callan, Nora Hayden, Adan e Raul Barrera, Juan Parada hanno tutti in comune un conto in sospeso con questo Destino ineluttabile, e il fardello che lo stesso porta.
Un fardello fatto di fantasmi, di sangue e morte, di sacrifici legati sempre - o quasi - alle persone più amate: perchè quando entri in un mondo, è impossibile uscirne.
Potrebbe dirlo anche Frankie Machine, personaggio successivo di Winslow, anch'egli accarezzato da questa irresistibile pulsione, vittima di un gioco all'interno del quale è egli stesso carnefice e vittima.
E in questo gioco è terribile realizzare che, per quanto si possa giustificare come una questione "divina", tutte le regole peggiori sono dettate, ed esercitate, mosse dal cuore dell'uomo, impossibilitato - nella maggior parte dei casi - a resistere a se stesso.
Questo libro è una storia di poveri e ricchi, rivincite e rivalse, amore e morte, ma soprattutto, una storia incredibilmente umana, all'interno della quale non si possono distinguere "buoni" e "cattivi", solo vivi e morti. Ma è il tempo, a fare la differenza. O a non farla.
Prima o poi, tocca a tutti.
Perchè la spada pende sulle teste di chi l'ha sentito.
Nel frattempo, bisogna solo pensare al proprio giardino, e pregare.
Pregare i santi fuorilegge di "stare lontani dalla spada, ed essere salvati dal potere del cane."
Pregare perchè è un'eccezione, e non una regola.
Perchè tutti noi ci siamo sotto.
E solo alcuni sono così forti da non sentirlo.
Ancora meno, e ancora più forti, quelli che quel giardino se lo godranno, seduti al sole, aspettando l'inverno.
Ma questa è un'altra storia.
"The wealtiest person is a pauper at times,
compared to the man with a satisfied mind."
MrFord
Ma ancora non avevo colto la grandezza dell'affresco dipinto da Don Winslow, un ritratto crudele e drammatico del rapporto "d'affari" che lega Messico e Stati Uniti rispetto al traffico di droga.
Trent'anni di storia, di avvenimenti reali - il terremoto a Città del Messico, la presidenza Reagan, la guerra in Vietnam - filtrati attraverso le vite (e le morti) di protagonisti costruiti da Winslow magistralmente, profondi quasi fossero realmente vissuti, tutti vittime del famigerato "potere del cane".
Ma cosa sarà mai, questo potere che da titolo ad uno dei più grandi romanzi americani della storia recente? Una presa per il culo, la citazione di un manuale per addestratori, una sbronza colossale del suo autore?
Il potere del cane è l'anello di Sauron, il lato oscuro di Star Wars, la capacità tutta umana di perseguire uno scopo a scapito di qualsiasi cosa si ponga sul cammino: è la corruzione, morale e fisica, giustificata da un fine "superiore", che giustifica i mezzi, l'hybris greca che torna a chiedere il conto, anche quando si pensa che non accadrà mai.
Dalle strade ai vertici del potere, come la morte, entra senza differenze nelle vite di chi si fa ghermire, anche solo per necessità, anche soltanto una volta.
Art Keller, Sean Callan, Nora Hayden, Adan e Raul Barrera, Juan Parada hanno tutti in comune un conto in sospeso con questo Destino ineluttabile, e il fardello che lo stesso porta.
Un fardello fatto di fantasmi, di sangue e morte, di sacrifici legati sempre - o quasi - alle persone più amate: perchè quando entri in un mondo, è impossibile uscirne.
Potrebbe dirlo anche Frankie Machine, personaggio successivo di Winslow, anch'egli accarezzato da questa irresistibile pulsione, vittima di un gioco all'interno del quale è egli stesso carnefice e vittima.
E in questo gioco è terribile realizzare che, per quanto si possa giustificare come una questione "divina", tutte le regole peggiori sono dettate, ed esercitate, mosse dal cuore dell'uomo, impossibilitato - nella maggior parte dei casi - a resistere a se stesso.
Questo libro è una storia di poveri e ricchi, rivincite e rivalse, amore e morte, ma soprattutto, una storia incredibilmente umana, all'interno della quale non si possono distinguere "buoni" e "cattivi", solo vivi e morti. Ma è il tempo, a fare la differenza. O a non farla.
Prima o poi, tocca a tutti.
Perchè la spada pende sulle teste di chi l'ha sentito.
Nel frattempo, bisogna solo pensare al proprio giardino, e pregare.
Pregare i santi fuorilegge di "stare lontani dalla spada, ed essere salvati dal potere del cane."
Pregare perchè è un'eccezione, e non una regola.
Perchè tutti noi ci siamo sotto.
E solo alcuni sono così forti da non sentirlo.
Ancora meno, e ancora più forti, quelli che quel giardino se lo godranno, seduti al sole, aspettando l'inverno.
Ma questa è un'altra storia.
"The wealtiest person is a pauper at times,
compared to the man with a satisfied mind."
MrFord
martedì 27 aprile 2010
Agora
Confesso di aver avuto dei pregiudizi, a proposito dell'ultima fatica di Amenabar, anche prima che le luci si spegnessero e iniziassero le due ore di peplum in stile cinema finto autoriale: del resto, se The others era passabile - ma comunque una copia ottocentesca de Il sesto senso - Mare dentro era una paraculata al 100%, così irritante da far dimenticare anche quello che, di buono, poteva esserci, appunto, dentro.
Simile, seppur inserito in una cornice completamente diversa, si è rivelato essere Agora.
Tante parole, interessanti premesse - quasi shakesperiane - per arrivare, in conclusione, a quello che i filosofi erano soliti definire "una bella mazza".
Questo senza contare che in fase di scrittura Amenabar non è proprio un Terrence Malick, e che il suo approccio alla regia è di quelli che più fanno incazzare gli appassionati di cinema, perchè provocano il fastidioso effetto finto autoriale che porta gente improbabile a dire cose del tipo "ho visto uno di quei film che piacciono a te" e cose simili.
Quasi peggio dei radical chic alla ricerca dei brividi solo con i film di Desplechin.
In realtà, Agora - e le pellicole di questo stampo - non sono affatto "quei film che piacciono a te", e pur non essendo schifezze inguardabili - lo ammetto senza problemi, meglio dieci Agora che un Lebanon, tanto per tirarlo di nuovo in mezzo - sono assolutamente ininfluenti nel percorso di una persona all'interno di quella meraviglia di mondo che è il Cinema.
Ed è anche un peccato, perchè sicuramente dalla storia di Ipazia si poteva trarre molto più che un semplice melò percorso da polemiche - neppure poi così scandalose come l'Italia governata dal Vaticano temeva - religiose all'indirizzo del cristianesimo e pillole di scienza in stile trasmissione tv: così come dal triangolo che attorno alla stessa filosofa si forma, quei tre uomini così diversi tra loro capaci di nascondere dietro politica, religione e rancore personale il fatto che, molto semplicemente, volevano lei senza mezzi termini.
I temi della libertà di pensiero e dei peccati dei culti di tutti i tempi - quel signore che professava che la religione fosse l'oppio dei popoli non lo diceva propriamente a torto -, soprattutto filtrati da una filosofia - che caso! - che avrebbe rimembrato Eyes wide shut - domanda: "E ora cosa dobbiamo fare?" Risposta: "Scopare." - di certo sarebbero stati linfa preziosissima per la penna di uno sceneggiatore come si deve e di un regista con voglia di fare, più che di stupire.
Se penso a quelle visioni da satellite che partono dalle stelle per arrivare lungo le strade di Alessandria o al ribaltamento dell'inquadratura durante l'assalto dei cristiani all'università e alla biblioteca pagane un brivido di terrore percorre inesorabile la mia schiena.
Ma, del resto, Amenabar è un pupazzo.
E questa l'avevo promessa.
Senza contare il fatto che, sottilmente, è un piacere.
"Giù dalla torre,
butterei tutti quanti gli artisti."
MrFord
Simile, seppur inserito in una cornice completamente diversa, si è rivelato essere Agora.
Tante parole, interessanti premesse - quasi shakesperiane - per arrivare, in conclusione, a quello che i filosofi erano soliti definire "una bella mazza".
Questo senza contare che in fase di scrittura Amenabar non è proprio un Terrence Malick, e che il suo approccio alla regia è di quelli che più fanno incazzare gli appassionati di cinema, perchè provocano il fastidioso effetto finto autoriale che porta gente improbabile a dire cose del tipo "ho visto uno di quei film che piacciono a te" e cose simili.
Quasi peggio dei radical chic alla ricerca dei brividi solo con i film di Desplechin.
In realtà, Agora - e le pellicole di questo stampo - non sono affatto "quei film che piacciono a te", e pur non essendo schifezze inguardabili - lo ammetto senza problemi, meglio dieci Agora che un Lebanon, tanto per tirarlo di nuovo in mezzo - sono assolutamente ininfluenti nel percorso di una persona all'interno di quella meraviglia di mondo che è il Cinema.
Ed è anche un peccato, perchè sicuramente dalla storia di Ipazia si poteva trarre molto più che un semplice melò percorso da polemiche - neppure poi così scandalose come l'Italia governata dal Vaticano temeva - religiose all'indirizzo del cristianesimo e pillole di scienza in stile trasmissione tv: così come dal triangolo che attorno alla stessa filosofa si forma, quei tre uomini così diversi tra loro capaci di nascondere dietro politica, religione e rancore personale il fatto che, molto semplicemente, volevano lei senza mezzi termini.
I temi della libertà di pensiero e dei peccati dei culti di tutti i tempi - quel signore che professava che la religione fosse l'oppio dei popoli non lo diceva propriamente a torto -, soprattutto filtrati da una filosofia - che caso! - che avrebbe rimembrato Eyes wide shut - domanda: "E ora cosa dobbiamo fare?" Risposta: "Scopare." - di certo sarebbero stati linfa preziosissima per la penna di uno sceneggiatore come si deve e di un regista con voglia di fare, più che di stupire.
Se penso a quelle visioni da satellite che partono dalle stelle per arrivare lungo le strade di Alessandria o al ribaltamento dell'inquadratura durante l'assalto dei cristiani all'università e alla biblioteca pagane un brivido di terrore percorre inesorabile la mia schiena.
Ma, del resto, Amenabar è un pupazzo.
E questa l'avevo promessa.
Senza contare il fatto che, sottilmente, è un piacere.
"Giù dalla torre,
butterei tutti quanti gli artisti."
MrFord
lunedì 26 aprile 2010
Green zone
Già mi immagino la critica più autoriale, all'idea di un nuovo Greengrass con la camera a spalla e l'ex Jason Bourne, Matt Damon, catapultato nell'Iraq delle fittizie armi di distruzione di massa.
Tutti seduti in sala storcendo il naso di fronte all'ennesimo soldato americano duro e puro che si ribella contro il sistema tanto cattivo.
Ebbene, Green zone è un ottimo action movie di quasi attualità e stampo "militaresco", decisamente più profondo di videogioconi come "Black hawk down" e più intrigante di macchinosi polpettoni - in senso buono, s'intenda - come "Syriana".
Lo script è semplice, e giocato su un concetto vecchio come il mondo: protagonista senza macchia scopre falla nel sistema e si trova a recitare la parte dell'outsider, finendo al limite della legge che ha deciso di servire.
E fino a qui si potrebbe obiettare che il cinema di guerra all'americana non ha più nulla da dire, che le pellicole sono tutte uguali, che Green zone è una versione "sporca" di "Nessuna verità", e via dicendo: eppure la sceneggiatura di Helgeland regge bene il colpo, e assolve il suo compito senza colpi d'ala - questo occorre ammetterlo - ma anche senza mancanze o buchi scandalosi; non brillerà per originalità, ma avvince e appassiona, e tiene bene il minutaggio senza far concentrare troppo lo spettatore sul sempre straniante effetto sbronza della camera "stile dogma".
Proprio a proposito del comparto tecnico occorre anche ammettere il lavoro più che buono realizzato sul montaggio, veloce e tesissimo ma mai davvero confuso - come troppo spesso accade, in questi casi -, che fa il paio con la capacità dell'intera pellicola di non risultare piatta come il più classico degli action movies alla Tony Scott ma neppure troppo cervellotico, dato che sempre di fiction, per quanto simile alla realtà, stiamo parlando.
Se si cerca, dunque, una pellicola di denuncia che vada a sviscerare le porcate perpetrate dai governi prima, dopo e durante una guerra si guardi altrove, da "Apocalisse nel deserto" di Herzog al più popolare Michael Moore, ma se si pensa che una sensibilizzazione passa anche da un prodotto "da sala" e non solo nei circoli da radical chic tutti Godard e Cassavetes, allora Green zone è un ottimo modo per calarsi nell'azione e capire che quella stessa azione dovrebbe essere solo fiction, e che i giochi di potere che marciano sulle vite umane, siano essi basati sul male di vivere - come per "Hurt locker" - o sul vivere nel male - "Valzer con Bashir" docet -, dovrebbero riuscire a rimanere chiusi in un proiettore.
Nell'attesa che accada, noi ci gustiamo questa zona verde che tanto verde non sembra - se non per i dollari - e attendiamo che, in un futuro speriamo non troppo lontano giunga Tarantino, con il Cinema a vendicare la Storia.
"Don't take your guns to town, boy.
Don't take your guns to town."
MrFord
Tutti seduti in sala storcendo il naso di fronte all'ennesimo soldato americano duro e puro che si ribella contro il sistema tanto cattivo.
Ebbene, Green zone è un ottimo action movie di quasi attualità e stampo "militaresco", decisamente più profondo di videogioconi come "Black hawk down" e più intrigante di macchinosi polpettoni - in senso buono, s'intenda - come "Syriana".
Lo script è semplice, e giocato su un concetto vecchio come il mondo: protagonista senza macchia scopre falla nel sistema e si trova a recitare la parte dell'outsider, finendo al limite della legge che ha deciso di servire.
E fino a qui si potrebbe obiettare che il cinema di guerra all'americana non ha più nulla da dire, che le pellicole sono tutte uguali, che Green zone è una versione "sporca" di "Nessuna verità", e via dicendo: eppure la sceneggiatura di Helgeland regge bene il colpo, e assolve il suo compito senza colpi d'ala - questo occorre ammetterlo - ma anche senza mancanze o buchi scandalosi; non brillerà per originalità, ma avvince e appassiona, e tiene bene il minutaggio senza far concentrare troppo lo spettatore sul sempre straniante effetto sbronza della camera "stile dogma".
Proprio a proposito del comparto tecnico occorre anche ammettere il lavoro più che buono realizzato sul montaggio, veloce e tesissimo ma mai davvero confuso - come troppo spesso accade, in questi casi -, che fa il paio con la capacità dell'intera pellicola di non risultare piatta come il più classico degli action movies alla Tony Scott ma neppure troppo cervellotico, dato che sempre di fiction, per quanto simile alla realtà, stiamo parlando.
Se si cerca, dunque, una pellicola di denuncia che vada a sviscerare le porcate perpetrate dai governi prima, dopo e durante una guerra si guardi altrove, da "Apocalisse nel deserto" di Herzog al più popolare Michael Moore, ma se si pensa che una sensibilizzazione passa anche da un prodotto "da sala" e non solo nei circoli da radical chic tutti Godard e Cassavetes, allora Green zone è un ottimo modo per calarsi nell'azione e capire che quella stessa azione dovrebbe essere solo fiction, e che i giochi di potere che marciano sulle vite umane, siano essi basati sul male di vivere - come per "Hurt locker" - o sul vivere nel male - "Valzer con Bashir" docet -, dovrebbero riuscire a rimanere chiusi in un proiettore.
Nell'attesa che accada, noi ci gustiamo questa zona verde che tanto verde non sembra - se non per i dollari - e attendiamo che, in un futuro speriamo non troppo lontano giunga Tarantino, con il Cinema a vendicare la Storia.
"Don't take your guns to town, boy.
Don't take your guns to town."
MrFord
Sherlock Holmes
Pochi personaggi hanno resistito a più di un secolo di storia mantenendo la loro attualità, in barba a vette di popolarità e cadute di stile.
Sherlock Holmes - merito, certo, del suo creatore Conan Doyle - è indubbiamente uno di questi.
Genio eclettico, ottimo atleta, ambizioso seduttore, segugio acutissimo, ma anche musicista dal dubbio talento, arrogante primadonna, eroinomane dai lati oscuri: tutto questo, e molto altro, è Holmes, portato sul grande schermo in molteplici occasioni e stili.
Guy Ritchie, fresco fresco del ritorno alle sue origini con Rockenrolla - peraltro non un granchè -, adatta lo stile "pulp" all'Inghilterra vittoriana, concentrandosi più sulle affinità di Downey Jr. con Holmes che non su Holmes stesso. Del resto l'attore americano, divenuto noto per le sue cadute, più che per i suoi trionfi, ha tutto il fascino "maledetto" e quell'arroganza da outsider che ottimamente si adattano alle caratteristiche del protagonista di Conan Doyle, nonostante un'atleticità sicuramente superiore ed un compagno - il fido Watson - che nell'immaginario collettivo è ben lontano dal medico militare, nonchè combattente provetto, Jude Law.
Inoltre, a scapito della tensione e del suo crescendo, occorre dire che tutta la pellicola odora di operazione di marketing, nonchè progetto pensato per un sequel già annunciato dalla Warner.
Un pò una ruffianata, insomma.
Ma tutto sommato, fra rituali satanici - che ricordano Piramide di paura, pur se in minore - e scazzottate vecchio stile, lo humour prende il sopravvento e il canovaccio della sceneggiatura regge, portando al risultato di un vero e autentico prodotto di solo intrattenimento, comunque e certamente di ottima fattura.
Ritchie non si prende troppo sul serio, e così anche i suoi protagonisti, che paiono divertirsi e, di certo, divertono il pubblico, che ha decretato il successo della pellicola probabilmente anche anticipando i tempi di produzione della nuova pellicola, annunciata per il prossimo anno.
Se, poi, all'ironia si aggiunge che al botteghino ha letteralmente mandato al tappeto i vari cinepanettoni, ha tutta la mia stima.
Che dire!? Non siamo di fronte a "La vita privata di Sherlock Holmes" di Wilder - che resta, a mio parere, il miglior film mai realizzato dedicato al detective -, ma di sicuro si tratta un prodotto onesto, divertente, ricco di sequenze d'azione ben confezionate, e pur se prevedibile, ottimo per passarsi un paio d'ore senza pensare che il cinema d'intrattenimento abbia perso del tutto il suo fascino.
Questo, sempre aspettando che Holmes (e Ritchie) sfoderino il loro diretto migliore.
"I soon got out of that, my spirits never failing
I landed on the quay, just as the ship was sailing."
MrFord
Sherlock Holmes - merito, certo, del suo creatore Conan Doyle - è indubbiamente uno di questi.
Genio eclettico, ottimo atleta, ambizioso seduttore, segugio acutissimo, ma anche musicista dal dubbio talento, arrogante primadonna, eroinomane dai lati oscuri: tutto questo, e molto altro, è Holmes, portato sul grande schermo in molteplici occasioni e stili.
Guy Ritchie, fresco fresco del ritorno alle sue origini con Rockenrolla - peraltro non un granchè -, adatta lo stile "pulp" all'Inghilterra vittoriana, concentrandosi più sulle affinità di Downey Jr. con Holmes che non su Holmes stesso. Del resto l'attore americano, divenuto noto per le sue cadute, più che per i suoi trionfi, ha tutto il fascino "maledetto" e quell'arroganza da outsider che ottimamente si adattano alle caratteristiche del protagonista di Conan Doyle, nonostante un'atleticità sicuramente superiore ed un compagno - il fido Watson - che nell'immaginario collettivo è ben lontano dal medico militare, nonchè combattente provetto, Jude Law.
Inoltre, a scapito della tensione e del suo crescendo, occorre dire che tutta la pellicola odora di operazione di marketing, nonchè progetto pensato per un sequel già annunciato dalla Warner.
Un pò una ruffianata, insomma.
Ma tutto sommato, fra rituali satanici - che ricordano Piramide di paura, pur se in minore - e scazzottate vecchio stile, lo humour prende il sopravvento e il canovaccio della sceneggiatura regge, portando al risultato di un vero e autentico prodotto di solo intrattenimento, comunque e certamente di ottima fattura.
Ritchie non si prende troppo sul serio, e così anche i suoi protagonisti, che paiono divertirsi e, di certo, divertono il pubblico, che ha decretato il successo della pellicola probabilmente anche anticipando i tempi di produzione della nuova pellicola, annunciata per il prossimo anno.
Se, poi, all'ironia si aggiunge che al botteghino ha letteralmente mandato al tappeto i vari cinepanettoni, ha tutta la mia stima.
Che dire!? Non siamo di fronte a "La vita privata di Sherlock Holmes" di Wilder - che resta, a mio parere, il miglior film mai realizzato dedicato al detective -, ma di sicuro si tratta un prodotto onesto, divertente, ricco di sequenze d'azione ben confezionate, e pur se prevedibile, ottimo per passarsi un paio d'ore senza pensare che il cinema d'intrattenimento abbia perso del tutto il suo fascino.
Questo, sempre aspettando che Holmes (e Ritchie) sfoderino il loro diretto migliore.
"I soon got out of that, my spirits never failing
I landed on the quay, just as the ship was sailing."
MrFord
Pulp fiction
Il film giusto, nel posto giusto, al momento giusto.
Non c'è altro modo per definire quello che, senza dubbio, è il film simbolo degli anni '90, culto e straculto totale ancora prima di invecchiare abbastanza per essere definito tale.
Tarantino, allora alla sua seconda vera prova dietro la macchina da presa, aveva il difficilissimo compito di mostrarsi all'altezza delle aspettative costituitesi dopo il suo fulminante esordio, quel Le iene che ancora contende, proprio a Pulp fiction, il primato nel cuore dei fan del regista di Knoxville: e nientepopodimeno, questo "secondo atto", viene presentato a Cannes, cuore della critica dura e pura e ultima roccaforte del cinema autoriale europeo, quanto di più lontano si possa trovare dal verbo tarantiniano.
E Quentin che fa!? Specifica subito, in apertura, quello che andrà a mostrare al pubblico: pulp è materia sporca, dura, sorniona, seducente e cattiva, che più di una volta può far ridere, e ancor più ridere di te che la guardi a bocca aperta come si osserva rapiti uno scarafaggio rigirato.
Pulp è come una sorta di overdose, per dirla come Mia Wallace: "Ho detto cazzo, che botta, che botta cazzo!"
Così, sulle note martellanti di Misirlov Tarantino parte, e scardina la struttura temporale convenzionale per raccontare tre storie che si intrecciano e si sfiorano, dagli esiti e dalle atmosfere completamente differenti, con protagonisti che sono comparse negli altri capitoli e comparse che divengono protagonisti, inanellando una sequenza di scene memorabili di proporzioni bibliche, che renderebbe ogni recensione, post o quant'altro una pressochè interminabile serie di citazioni di dialoghi, movimenti di macchina, canzoni, momenti da ricordare.
Che poi non sono momenti, perchè Pulp fiction si ricorda tutto, dall'inizio alla fine, dalle scene importanti - l'appartamento di Brad e soci, l'overdose di Mia, Zed e compagni, Wolf e la caffetteria - a quelle apparentemente di contorno - Zucchino e Coniglietta, l'acquisto dell'eroina, la storia dell'orologio d'oro -, e diviene, in qualche modo, uno specchio perfetto di quello che è il prodotto "sporco" americano, quasi fosse erede di una grande tradizione letteraria o musicale, senza però mostrare tutta l'ostentazione tipica del Vecchio Continente.
E se è vera l'affermazione, per dirla come Butch, "sono americano, i nostri nomi non significano un cazzo", è altrettanto vero che questo "un cazzo" portato sul grande schermo da Tarantino è quanto di più rivoluzionario, stupefacente, incredibile il cinema a stelle e strisce abbia sfornato negli ultimi vent'anni: potrà non sembrare un capolavoro a prima vista - tutti possono avere problemi, del resto -, e certo è poco paragonabile a grandi pellicole di struttura classica che, nel complesso, possono essergli superiori, ma è quanto di più sperimentale, d'avanguardia e innovativo si possa pensare rispetto alla storia recente della settima arte.
Nonostante il vecchio Quentin l'abbia tirato fuori da un mucchio di materia melmosa e putrescente di chiara origine precedente.
Non avrà creato nulla, ma cazzo, dalla merda ha tirato fuori un signor cioccolato.
Ed ecco che, addirittura, finisce per vincerla, quella Palma d'oro.
Con buona pace dell'Europa.
E volete sapere chi era a presiedere la giuria del Festival, in quel lontano 1994?
Un signore che si chiama Clint Eastwood.
Per premiare un'opera come questa non bisogna essere coraggiosi, ma spietati.
"Get down with the boogie!"
MrFord
Non c'è altro modo per definire quello che, senza dubbio, è il film simbolo degli anni '90, culto e straculto totale ancora prima di invecchiare abbastanza per essere definito tale.
Tarantino, allora alla sua seconda vera prova dietro la macchina da presa, aveva il difficilissimo compito di mostrarsi all'altezza delle aspettative costituitesi dopo il suo fulminante esordio, quel Le iene che ancora contende, proprio a Pulp fiction, il primato nel cuore dei fan del regista di Knoxville: e nientepopodimeno, questo "secondo atto", viene presentato a Cannes, cuore della critica dura e pura e ultima roccaforte del cinema autoriale europeo, quanto di più lontano si possa trovare dal verbo tarantiniano.
E Quentin che fa!? Specifica subito, in apertura, quello che andrà a mostrare al pubblico: pulp è materia sporca, dura, sorniona, seducente e cattiva, che più di una volta può far ridere, e ancor più ridere di te che la guardi a bocca aperta come si osserva rapiti uno scarafaggio rigirato.
Pulp è come una sorta di overdose, per dirla come Mia Wallace: "Ho detto cazzo, che botta, che botta cazzo!"
Così, sulle note martellanti di Misirlov Tarantino parte, e scardina la struttura temporale convenzionale per raccontare tre storie che si intrecciano e si sfiorano, dagli esiti e dalle atmosfere completamente differenti, con protagonisti che sono comparse negli altri capitoli e comparse che divengono protagonisti, inanellando una sequenza di scene memorabili di proporzioni bibliche, che renderebbe ogni recensione, post o quant'altro una pressochè interminabile serie di citazioni di dialoghi, movimenti di macchina, canzoni, momenti da ricordare.
Che poi non sono momenti, perchè Pulp fiction si ricorda tutto, dall'inizio alla fine, dalle scene importanti - l'appartamento di Brad e soci, l'overdose di Mia, Zed e compagni, Wolf e la caffetteria - a quelle apparentemente di contorno - Zucchino e Coniglietta, l'acquisto dell'eroina, la storia dell'orologio d'oro -, e diviene, in qualche modo, uno specchio perfetto di quello che è il prodotto "sporco" americano, quasi fosse erede di una grande tradizione letteraria o musicale, senza però mostrare tutta l'ostentazione tipica del Vecchio Continente.
E se è vera l'affermazione, per dirla come Butch, "sono americano, i nostri nomi non significano un cazzo", è altrettanto vero che questo "un cazzo" portato sul grande schermo da Tarantino è quanto di più rivoluzionario, stupefacente, incredibile il cinema a stelle e strisce abbia sfornato negli ultimi vent'anni: potrà non sembrare un capolavoro a prima vista - tutti possono avere problemi, del resto -, e certo è poco paragonabile a grandi pellicole di struttura classica che, nel complesso, possono essergli superiori, ma è quanto di più sperimentale, d'avanguardia e innovativo si possa pensare rispetto alla storia recente della settima arte.
Nonostante il vecchio Quentin l'abbia tirato fuori da un mucchio di materia melmosa e putrescente di chiara origine precedente.
Non avrà creato nulla, ma cazzo, dalla merda ha tirato fuori un signor cioccolato.
Ed ecco che, addirittura, finisce per vincerla, quella Palma d'oro.
Con buona pace dell'Europa.
E volete sapere chi era a presiedere la giuria del Festival, in quel lontano 1994?
Un signore che si chiama Clint Eastwood.
Per premiare un'opera come questa non bisogna essere coraggiosi, ma spietati.
"Get down with the boogie!"
MrFord
venerdì 23 aprile 2010
I Goonies
E anche oggi dedico il post alla mia infanzia.
E non c'è infanzia, per tutti quelli che si aggirano dai trenta in avanti, senza I Goonies.
Riflettendoci, credo che potrebbe rientrare senza alcuna fatica nella top five dei film che ho visto più volte, senza contare che, al contrario di quello che scrivevo ieri a proposito di Tango e Cash, in questo caso la qualità del film è anche discreta, e oserei dire che I Goonies è il lavoro migliore di Richard Donner, onesto mestierante targato anni '80.
Inoltre, nonostante il pessimo adattamento italiano - pratica consueta in quel periodo -, tutto pare funzionare anche quando non si sentono i membri della famigerata Banda Fratelli parlare in italiano con i protagonisti, anche grazie a piccole perle come la voce di Chunk - chi non ricorda il doppiatore di Eros, compagno inseparabile di Pollon? - e quella erre moscia indimenticabile.
A questo si aggiungano l'ottima trama dal sapore della grande avventura - chi fra noi non ha mai sognato almeno una volta di andare alla ricerca del tesoro di Willy l'orbo? Un pò come il viaggio di Stand by me, un must assoluto della pre-adolescenza - e le innumerevoli scene di culto: i tracobetti, la danza del ventre di Chunk e il suo incontro con Sloth, Brand sulla bicicletta da bambina, Chester Copperpot, gli scivoli d'acqua, la dinamite e la limonata dura nel "bagno" di Mickey prima che diventasse l'hobbit grasso.
Il tutto condito da una regia tutta schierata a favore del gruppo di ragazzini, e perfettamente in equilibrio con il loro punto di vista, sul modello spielberghiano di E.T. (non per nulla è lo stesso Spielberg ad essere l'autore del soggetto de I Goonies).
Non voglio spendere altre parole che risulterebbero inutili e nostalgiche, se non per Mouth, mio preferito in assoluto, con i suoi monologhi strabilianti in spagnolo e la strafottenza tipica del finto cattivo ragazzo: e ogni volta che passa la scena del pozzo, con le monete che portano l'effige di "Martin Sheen" e Mickey che attacca il suo monologo sul "nostro momento", quasi quasi ci scappa la lacrimuccia.
Perchè allora non era solo il loro momento, ma anche il nostro.
Noi di "quella generazione" siamo tutti Goonies.
E dove siamo finiti? Siamo diventati i Llewelyn in fuga di Non è un paese per vecchi o i Sam de Il Signore degli anelli? O, più semplicemente, ci siamo persi per la strada?
Guardiamoci attorno, facendo attenzione ai tracobetti, e ripartiamo per la nostra grande avventura.
Il momento non è passato. E il tesoro ci aspetta sempre, anche se non sarà lo stesso per tutti.
Una volta Goonies, Goonies per sempre.
"What's good enough for you is good enough for me.
It's good enought, it's good enough for me."
MrFord
E non c'è infanzia, per tutti quelli che si aggirano dai trenta in avanti, senza I Goonies.
Riflettendoci, credo che potrebbe rientrare senza alcuna fatica nella top five dei film che ho visto più volte, senza contare che, al contrario di quello che scrivevo ieri a proposito di Tango e Cash, in questo caso la qualità del film è anche discreta, e oserei dire che I Goonies è il lavoro migliore di Richard Donner, onesto mestierante targato anni '80.
Inoltre, nonostante il pessimo adattamento italiano - pratica consueta in quel periodo -, tutto pare funzionare anche quando non si sentono i membri della famigerata Banda Fratelli parlare in italiano con i protagonisti, anche grazie a piccole perle come la voce di Chunk - chi non ricorda il doppiatore di Eros, compagno inseparabile di Pollon? - e quella erre moscia indimenticabile.
A questo si aggiungano l'ottima trama dal sapore della grande avventura - chi fra noi non ha mai sognato almeno una volta di andare alla ricerca del tesoro di Willy l'orbo? Un pò come il viaggio di Stand by me, un must assoluto della pre-adolescenza - e le innumerevoli scene di culto: i tracobetti, la danza del ventre di Chunk e il suo incontro con Sloth, Brand sulla bicicletta da bambina, Chester Copperpot, gli scivoli d'acqua, la dinamite e la limonata dura nel "bagno" di Mickey prima che diventasse l'hobbit grasso.
Il tutto condito da una regia tutta schierata a favore del gruppo di ragazzini, e perfettamente in equilibrio con il loro punto di vista, sul modello spielberghiano di E.T. (non per nulla è lo stesso Spielberg ad essere l'autore del soggetto de I Goonies).
Non voglio spendere altre parole che risulterebbero inutili e nostalgiche, se non per Mouth, mio preferito in assoluto, con i suoi monologhi strabilianti in spagnolo e la strafottenza tipica del finto cattivo ragazzo: e ogni volta che passa la scena del pozzo, con le monete che portano l'effige di "Martin Sheen" e Mickey che attacca il suo monologo sul "nostro momento", quasi quasi ci scappa la lacrimuccia.
Perchè allora non era solo il loro momento, ma anche il nostro.
Noi di "quella generazione" siamo tutti Goonies.
E dove siamo finiti? Siamo diventati i Llewelyn in fuga di Non è un paese per vecchi o i Sam de Il Signore degli anelli? O, più semplicemente, ci siamo persi per la strada?
Guardiamoci attorno, facendo attenzione ai tracobetti, e ripartiamo per la nostra grande avventura.
Il momento non è passato. E il tesoro ci aspetta sempre, anche se non sarà lo stesso per tutti.
Una volta Goonies, Goonies per sempre.
"What's good enough for you is good enough for me.
It's good enought, it's good enough for me."
MrFord
giovedì 22 aprile 2010
Tango e Cash
Parrò completamente rincoglionito, ma con l'età che avanza il recupero dei cult della mia infanzia ha un sapore sempre più dolce, che mi permette di godere spudoratamente di film che so a memoria senza contare che tecnicamente - e cinematograficamente - non valgono proprio un bel fico secco. Infischiandomene.
Uno dei casi più eclatanti delle mie recenti riscoperte è Tango e Cash, baracconata d'azione fracassona e sconnessa che assume il contorno di mito ed è strettamente legata a ricordi emozionanti e assolutamente belli da accarezzare: dal gioco che, bambino, facevo con mio fratello assegnando le parti di ogni film in base alle caratteristiche caratteriali - in questo caso a me toccava Cash, a lui Tango -, al capodanno con mia moglie sdraiati sul letto con Sambuca e Southern Comfort.
Potrei, senza nessuno sforzo, mettermi a sviolinare almeno una decina di scene a memoria, ridendo al computer da solo come un povero stronzo pensando al corso di lingue intensivo nel bagno della stazione di polizia, all'arrivo nel carcere, al confronto sul tetto con "coda di cavallo" con tanto di impagabili espressioni di Stallone, o al disco riallocato di Cash sul divano della sorella del suo riluttante compagno.
Ma mi limito a dire che, nel corso degli anni '80, lo spirito che muoveva gli autori di una baracconata era sempre divertito e divertente, carico di ironia e soprattutto mai, e dico proprio mai, stimolato da un eccessivo prendersi sul serio: se penso a Tango/Stallone che risponde alle provocazioni dei poliziotti dicendo "Rambo è una pulce!" (in originale ancora meglio, con "pussy") e poi corro con la mente ai vari Transformers e G.I. Joe, in cui tutti, dai registi agli addetti al cathering pensano di essere i più cool del momento, sono colto da un improvviso ed incontrollabile senso di tristezza assoluta.
Fortunatamente mi basta pensare a "Conan" - anche in questo caso, pare quasi metacinema -, avversario di Tango in carcere, per ritrovare il sorriso.
O a Kurt Russell vestito da donna. Impagabile.
Certo, qui non si può parlare di Cinema.
Ma che cazzo, è proprio bello divertirsi, ogni tanto.
"Can't stop now don't you know
I ain't never gonna let you go, don't go."
MrFord
Uno dei casi più eclatanti delle mie recenti riscoperte è Tango e Cash, baracconata d'azione fracassona e sconnessa che assume il contorno di mito ed è strettamente legata a ricordi emozionanti e assolutamente belli da accarezzare: dal gioco che, bambino, facevo con mio fratello assegnando le parti di ogni film in base alle caratteristiche caratteriali - in questo caso a me toccava Cash, a lui Tango -, al capodanno con mia moglie sdraiati sul letto con Sambuca e Southern Comfort.
Potrei, senza nessuno sforzo, mettermi a sviolinare almeno una decina di scene a memoria, ridendo al computer da solo come un povero stronzo pensando al corso di lingue intensivo nel bagno della stazione di polizia, all'arrivo nel carcere, al confronto sul tetto con "coda di cavallo" con tanto di impagabili espressioni di Stallone, o al disco riallocato di Cash sul divano della sorella del suo riluttante compagno.
Ma mi limito a dire che, nel corso degli anni '80, lo spirito che muoveva gli autori di una baracconata era sempre divertito e divertente, carico di ironia e soprattutto mai, e dico proprio mai, stimolato da un eccessivo prendersi sul serio: se penso a Tango/Stallone che risponde alle provocazioni dei poliziotti dicendo "Rambo è una pulce!" (in originale ancora meglio, con "pussy") e poi corro con la mente ai vari Transformers e G.I. Joe, in cui tutti, dai registi agli addetti al cathering pensano di essere i più cool del momento, sono colto da un improvviso ed incontrollabile senso di tristezza assoluta.
Fortunatamente mi basta pensare a "Conan" - anche in questo caso, pare quasi metacinema -, avversario di Tango in carcere, per ritrovare il sorriso.
O a Kurt Russell vestito da donna. Impagabile.
Certo, qui non si può parlare di Cinema.
Ma che cazzo, è proprio bello divertirsi, ogni tanto.
"Can't stop now don't you know
I ain't never gonna let you go, don't go."
MrFord
mercoledì 21 aprile 2010
Ombre e nebbia
Le illusioni sono il pane dell'Uomo, a quanto pare.
Se ce ne priviamo, finiamo per essere completamente in balia degli eventi, persi fra ombre e nebbia come Allen e il suo protagonista, ennesimo specchio del regista e perfetto interprete di un equilibrio che si trova solamente con i sogni, soprattutto di fronte alla crudeltà di un mondo che riserva rassegnazione e solitudini assortite.
L'eterogeneo cast, assolutamente di prim'ordine, funge da cartina tornasole per questa galleria di personaggi più o meno felici, ma sempre soli, se non fra gli uomini, di fronte agli interrogativi più alti, che il buon vecchio Woody affronta da par suo, mescolandoli alla sua consueta, pungente, irresistibile ironia - solo al pensiero della gag sulla cravatta ad inizio film ancora fatico a trattenere una risata -.
Dio e l'Uomo restano i cardini della filmografia alleniana del suo periodo d'oro, partito con Io e Annie e giunto fino ai lavori dei primi anni '90 - tra i quali Ombre e nebbia, per l'appunto -, e sono affrontati entrambi con grazia, stile - le carrellate e i movimenti di macchina fra le vie di questa mitteleuropea, immaginaria città sono straordinari -, una buona dose di divertito sarcasmo, qualche filosofeggiamento da intellettuale - altrimenti non sarebbe Allen - e un omaggio riuscito magnificamente alle atmosfere dei classici dell'espressionismo tedesco, su tutti M - Il mostro di Dusseldorf.
E se la vicenda di Mia Farrow è al contempo amarissima e dolce, altrettanto interessante è il personaggio interpretato da un giovane John Cusack, capace, quasi fosse una versione "di successo" del Kleinman di Allen, di passare da una situazione all'altra suscitando le domande e stimolando le risposte che saranno chiavi dell'intera evoluzione della trama.
Ed il confronto con l'illusionista, in chiusura, diviene simbolo di tutto l'amore che Allen prova per il cinema e la sua magia, e tutta l'importanza che la stessa settima arte può avere nella vita dei suoi spettatori: non per nulla il mostro scompare, e il passaggio oltre lo specchio è quasi un saltare oltre la magica coltre della nebbia di una sala cinematografica, sotto la luce del proiettore. The prestige e Bastardi senza gloria ringraziano.
Del resto, dove sarebbe l'Uomo, senza l'illusione?
Forse nello stesso posto dove sta Dio, pare suggerire Allen.
L'isola che non c'è.
Ed è meglio essere un Kleinman illuso che una certezza invisibile.
"Nite and fog are my days
wise men want faith."
MrFord
Se ce ne priviamo, finiamo per essere completamente in balia degli eventi, persi fra ombre e nebbia come Allen e il suo protagonista, ennesimo specchio del regista e perfetto interprete di un equilibrio che si trova solamente con i sogni, soprattutto di fronte alla crudeltà di un mondo che riserva rassegnazione e solitudini assortite.
L'eterogeneo cast, assolutamente di prim'ordine, funge da cartina tornasole per questa galleria di personaggi più o meno felici, ma sempre soli, se non fra gli uomini, di fronte agli interrogativi più alti, che il buon vecchio Woody affronta da par suo, mescolandoli alla sua consueta, pungente, irresistibile ironia - solo al pensiero della gag sulla cravatta ad inizio film ancora fatico a trattenere una risata -.
Dio e l'Uomo restano i cardini della filmografia alleniana del suo periodo d'oro, partito con Io e Annie e giunto fino ai lavori dei primi anni '90 - tra i quali Ombre e nebbia, per l'appunto -, e sono affrontati entrambi con grazia, stile - le carrellate e i movimenti di macchina fra le vie di questa mitteleuropea, immaginaria città sono straordinari -, una buona dose di divertito sarcasmo, qualche filosofeggiamento da intellettuale - altrimenti non sarebbe Allen - e un omaggio riuscito magnificamente alle atmosfere dei classici dell'espressionismo tedesco, su tutti M - Il mostro di Dusseldorf.
E se la vicenda di Mia Farrow è al contempo amarissima e dolce, altrettanto interessante è il personaggio interpretato da un giovane John Cusack, capace, quasi fosse una versione "di successo" del Kleinman di Allen, di passare da una situazione all'altra suscitando le domande e stimolando le risposte che saranno chiavi dell'intera evoluzione della trama.
Ed il confronto con l'illusionista, in chiusura, diviene simbolo di tutto l'amore che Allen prova per il cinema e la sua magia, e tutta l'importanza che la stessa settima arte può avere nella vita dei suoi spettatori: non per nulla il mostro scompare, e il passaggio oltre lo specchio è quasi un saltare oltre la magica coltre della nebbia di una sala cinematografica, sotto la luce del proiettore. The prestige e Bastardi senza gloria ringraziano.
Del resto, dove sarebbe l'Uomo, senza l'illusione?
Forse nello stesso posto dove sta Dio, pare suggerire Allen.
L'isola che non c'è.
Ed è meglio essere un Kleinman illuso che una certezza invisibile.
"Nite and fog are my days
wise men want faith."
MrFord
martedì 20 aprile 2010
District 9
Che posso dire!?
Ho un gran, gran debole per quei simpaticoni dei gamberoni!
Nonostante quell'aura da "genio artistoide" che cerca di rifilarci Neil Blomkamp, il suo è veramente un ottimo prodotto.
Ammetto senza alcun problema di avere storto parecchio il naso, la prima volta che lo vidi: ma, almeno nella stessa misura, devo confessare che la stanchezza, l'alcool e chissà cos'altro mi impedirono, ai tempi, di vederlo in una sola tornata - cosa più unica che rara - nel mezzo di attacchi di sonno lancinanti e micidiali.
Ai tempi pensai fosse colpa del film, ennesima paraculata formato radical-chic propinata da quelli che gridano al miracolo ad ogni lavoro dello Spike Jonze di turno.
Mi sono dovuto ricredere.
Seduto con tutta calma in una bella giornata di sole e sfruttando tutta la potenza della tecnologia sul televisore gigante che troneggia in sala - sia ringraziato il trasloco, e mia moglie che l'ha scovato in offerta - mi sono potuto gustare appieno la vicenda toccante, socialmente importante e amarissima, in qualche modo, di Wikus Van De Merwe e dei gamberoni.
Wikus, perfetto prototipo dello yes-man ligio alle regole e servo del potere, si trova, a causa di un eccesso di zelo, ad essere gradualmente modificato a livello genetico fino a divenire, suo malgrado, l'unico e solo legame scientifico fra gli umani e i gamberoni.
L'evento, oltre a dare inizio ad una serie di agghiaccianti mutamenti fisici degni del miglior Cronenberg, apre a Wikus le porte del pregiudizio e degli agghiaccianti esperimenti che gli umani riservano agli alieni, sfogo perfetto delle tensioni razziali all'interno del pianeta, ed in particolare del Sudafrica, patria natia del regista, per anni teatro degli orrori dell'apartheid.
Ad arricchire il comparto effettistico e la trama la scelta di partire quasi si fosse all'interno di un documentario per poi combinare l'inizio della trasformazione del protagonista con il cambio di registro narrativo che muta in quello che potrebbe essere definito una commistione di horror sociale, action movie e il più classico dei film di fantascienza: un melting pot come quello di Città del capo all'interno del film - ma non solo -, che esplode in un conflitto tesissimo sul finale che vede protagonisti Wikus - unico umano con la possibilità di utilizzare le armi aliene -, il suo nuovo amico Christopher e suo figlio, i trafficanti d'armi nigeriani e le milizie governative.
E proprio quando la generosità pare essersi fatta largo nel cuore di Wikus, il regista sceglie di lasciare aperto il finale a qualsiasi possibilità, tornando al "mockumentary" e fornendo spunti alle diverse interpretazioni della pellicola stessa.
E se anche non sarete stati dalla parte dei gamberoni e del loro curioso, singolare, splendido linguaggio (voglio specializzarmi in gamberonese!), non potrete che rimanere commossi e colpiti dalla scena di chiusura, che per quanto strano possa sembrare, all'apparenza, ho trovato umana oltre ogni limite e confine "geografico".
Sia esso planetario o galattico.
Torna, Christopher! Qui c'è bisogno di te!
"I'm an alien, I'm a little alien."
MrFord
Ho un gran, gran debole per quei simpaticoni dei gamberoni!
Nonostante quell'aura da "genio artistoide" che cerca di rifilarci Neil Blomkamp, il suo è veramente un ottimo prodotto.
Ammetto senza alcun problema di avere storto parecchio il naso, la prima volta che lo vidi: ma, almeno nella stessa misura, devo confessare che la stanchezza, l'alcool e chissà cos'altro mi impedirono, ai tempi, di vederlo in una sola tornata - cosa più unica che rara - nel mezzo di attacchi di sonno lancinanti e micidiali.
Ai tempi pensai fosse colpa del film, ennesima paraculata formato radical-chic propinata da quelli che gridano al miracolo ad ogni lavoro dello Spike Jonze di turno.
Mi sono dovuto ricredere.
Seduto con tutta calma in una bella giornata di sole e sfruttando tutta la potenza della tecnologia sul televisore gigante che troneggia in sala - sia ringraziato il trasloco, e mia moglie che l'ha scovato in offerta - mi sono potuto gustare appieno la vicenda toccante, socialmente importante e amarissima, in qualche modo, di Wikus Van De Merwe e dei gamberoni.
Wikus, perfetto prototipo dello yes-man ligio alle regole e servo del potere, si trova, a causa di un eccesso di zelo, ad essere gradualmente modificato a livello genetico fino a divenire, suo malgrado, l'unico e solo legame scientifico fra gli umani e i gamberoni.
L'evento, oltre a dare inizio ad una serie di agghiaccianti mutamenti fisici degni del miglior Cronenberg, apre a Wikus le porte del pregiudizio e degli agghiaccianti esperimenti che gli umani riservano agli alieni, sfogo perfetto delle tensioni razziali all'interno del pianeta, ed in particolare del Sudafrica, patria natia del regista, per anni teatro degli orrori dell'apartheid.
Ad arricchire il comparto effettistico e la trama la scelta di partire quasi si fosse all'interno di un documentario per poi combinare l'inizio della trasformazione del protagonista con il cambio di registro narrativo che muta in quello che potrebbe essere definito una commistione di horror sociale, action movie e il più classico dei film di fantascienza: un melting pot come quello di Città del capo all'interno del film - ma non solo -, che esplode in un conflitto tesissimo sul finale che vede protagonisti Wikus - unico umano con la possibilità di utilizzare le armi aliene -, il suo nuovo amico Christopher e suo figlio, i trafficanti d'armi nigeriani e le milizie governative.
E proprio quando la generosità pare essersi fatta largo nel cuore di Wikus, il regista sceglie di lasciare aperto il finale a qualsiasi possibilità, tornando al "mockumentary" e fornendo spunti alle diverse interpretazioni della pellicola stessa.
E se anche non sarete stati dalla parte dei gamberoni e del loro curioso, singolare, splendido linguaggio (voglio specializzarmi in gamberonese!), non potrete che rimanere commossi e colpiti dalla scena di chiusura, che per quanto strano possa sembrare, all'apparenza, ho trovato umana oltre ogni limite e confine "geografico".
Sia esso planetario o galattico.
Torna, Christopher! Qui c'è bisogno di te!
"I'm an alien, I'm a little alien."
MrFord
lunedì 19 aprile 2010
Karate kid
Non esiste, credo, adolescente o pre-adolescente degli anni '80 che non abbia imitato almeno una volta, dopo la visione di Karate kid, l'ormai mitico colpo della gru.
E non esiste genitore dei suddetti adolescenti o pre-adolescenti che non abbia fatto il verso almeno una volta all'indimenticato Miyagi e al suo "dai la cera, togli la cera".
I film generazionali, con le loro imperfezioni e ingenuità, possono prendere due possibili vie, con il passare del tempo: o un'evitabile rimpatriata con compagni di scuola che non si tiene particolarmente a vedere, o un amarcord nel quale perdersi, specialmente dopo molto tempo, gustandosi senza pregiudizi ogni scena di una pellicola che ci si riscopre a conoscere a memoria.
Il film di Avildsen - bisogna proprio ammetterlo - funziona e invecchia bene, grazie anche all'alchimia che si crea da subito con i suoi due protagonisti e gli impareggiabili duetti che riescono a sfornare, probabilmente grazie alla lezione del precedente Rocky, senz'altro il lavoro migliore di un regista che, con il tempo, non si è più particolarmente distinto.
Daniel/Ralph Macchio, inoltre, incarna benissimo la figura dell'adolescente "a metà": figo fra gli sfigati, sfigato fra i "cattivi ragazzi".
E non nasconde paura, timore, piccole vendette che rendono estremamente reale il suo atteggiamento rispetto ai suoi antagonisti del Cobra Kai, divenuto anch'esso un piccolo cult fra quelli che, crescendo, da sfigati sono passati "dall'altra parte della barricata", soppiantando i cattivi già citati.
Che poi tanto cattivi non sono, più semplicemente teenegers in preda a crisi ormonali e ansiosi di dimostrare quanto forti e duri dovrebbero essere: l'unica figura interamente negativa è quella di John Cleese, sensei veterano del Vietnam dalla filosofia spiccia del "nessuna pietà".
E nonostante i più classici luoghi comuni legati ai giapponesi, il maestro Miyagi diviene un'ottima e più matura alternativa al suo rude collega statunitense, scoprendo anch'egli i suoi fantasmi - emblematica, e certamente più importante vista ora, la scena della sbronza e del ricordo della moglie e del figlio morti durante la guerra - e una certa spigolosità.
Spigolosità che il film non ha, e che tra scene divenute mitiche - la fuga nella doccia, il litigio con i palleggi sulla spiaggia e sì, anche il "dai la cera, togli la cera", ma senza dimenticare "dopo quando? Dopo, dopo!" - e una colonna sonora completamente inserita nel contesto d'epoca e che ora è un piacere risentire, conduce lo spettatore al confronto finale fra le due scuole - di karate e di pensiero - nel torneo di All Valley.
Qui Daniel, sostenuto da Miyagi, fidanzata e mamma, avrà modo di fronteggiare i suoi avversari e il loro diverso modo di valutare le scelte di Cleese, e di crescere fornendo a tutti i suoi giovani spettatori quella spinta a tirarsi fuori, e buttare il cuore oltre l'ostacolo, perchè anche se a volte potrebbe sembrare di no, adolescenti sfigati non resta per sempre.
Almeno, non tutti.
"Cobra Kai, never dies."
(So che non è musicale, ma questa volta non ho resistito.)
MrFord
E non esiste genitore dei suddetti adolescenti o pre-adolescenti che non abbia fatto il verso almeno una volta all'indimenticato Miyagi e al suo "dai la cera, togli la cera".
I film generazionali, con le loro imperfezioni e ingenuità, possono prendere due possibili vie, con il passare del tempo: o un'evitabile rimpatriata con compagni di scuola che non si tiene particolarmente a vedere, o un amarcord nel quale perdersi, specialmente dopo molto tempo, gustandosi senza pregiudizi ogni scena di una pellicola che ci si riscopre a conoscere a memoria.
Il film di Avildsen - bisogna proprio ammetterlo - funziona e invecchia bene, grazie anche all'alchimia che si crea da subito con i suoi due protagonisti e gli impareggiabili duetti che riescono a sfornare, probabilmente grazie alla lezione del precedente Rocky, senz'altro il lavoro migliore di un regista che, con il tempo, non si è più particolarmente distinto.
Daniel/Ralph Macchio, inoltre, incarna benissimo la figura dell'adolescente "a metà": figo fra gli sfigati, sfigato fra i "cattivi ragazzi".
E non nasconde paura, timore, piccole vendette che rendono estremamente reale il suo atteggiamento rispetto ai suoi antagonisti del Cobra Kai, divenuto anch'esso un piccolo cult fra quelli che, crescendo, da sfigati sono passati "dall'altra parte della barricata", soppiantando i cattivi già citati.
Che poi tanto cattivi non sono, più semplicemente teenegers in preda a crisi ormonali e ansiosi di dimostrare quanto forti e duri dovrebbero essere: l'unica figura interamente negativa è quella di John Cleese, sensei veterano del Vietnam dalla filosofia spiccia del "nessuna pietà".
E nonostante i più classici luoghi comuni legati ai giapponesi, il maestro Miyagi diviene un'ottima e più matura alternativa al suo rude collega statunitense, scoprendo anch'egli i suoi fantasmi - emblematica, e certamente più importante vista ora, la scena della sbronza e del ricordo della moglie e del figlio morti durante la guerra - e una certa spigolosità.
Spigolosità che il film non ha, e che tra scene divenute mitiche - la fuga nella doccia, il litigio con i palleggi sulla spiaggia e sì, anche il "dai la cera, togli la cera", ma senza dimenticare "dopo quando? Dopo, dopo!" - e una colonna sonora completamente inserita nel contesto d'epoca e che ora è un piacere risentire, conduce lo spettatore al confronto finale fra le due scuole - di karate e di pensiero - nel torneo di All Valley.
Qui Daniel, sostenuto da Miyagi, fidanzata e mamma, avrà modo di fronteggiare i suoi avversari e il loro diverso modo di valutare le scelte di Cleese, e di crescere fornendo a tutti i suoi giovani spettatori quella spinta a tirarsi fuori, e buttare il cuore oltre l'ostacolo, perchè anche se a volte potrebbe sembrare di no, adolescenti sfigati non resta per sempre.
Almeno, non tutti.
"Cobra Kai, never dies."
(So che non è musicale, ma questa volta non ho resistito.)
MrFord
domenica 18 aprile 2010
Mongol
Ebbene sì, nonostante quello che si possa pensare - a partire dal titolo, con tutti i doppi sensi trash possibili - Mongol di Sergej Bodrov è davvero un buon film.
L'approccio del regista, sobrio anche nella rappresentazione delle battaglie e nell'utilizzare gli effetti digitali, rende questa pellicola uno dei kolossal epici più minimalisti e "d'autore" degli ultimi anni, in barba agli Scontri fra titani baracconeschi made in Usa in giro nelle sale in questi giorni.
Basandosi su quel (poco) che sappiamo di quello che, a tutti gli effetti, fu il più grande conquistatore delle civiltà orientali - e probabilmente del mondo -, Bodrov si concentra sulla parte umana di Temugin, raccontandone le peripezie e le sofferenze fin dalla perdita del padre, avvenuta quando il futuro Gengis Khan era ancora un bambino "troppo piccolo per essere ucciso secondo le leggi mongole".
Il confronto con la figura paterna, così come la forza di quella materna, specchio di quella che sarà la sua sposa Borte, divengono i primi mattoni etici sui quali Temugin costruirà l'intero sistema di leggi una volta conquistato il potere e riunite le instabili e nomadi tribù mongole.
Ma il punto forte di Mongol è senza dubbio il percorso che il regista disegna per il suo protagonista, mostrandolo per quello che sarà il suo volto più noto alla Storia - quello del conquistatore, per l'appunto - soltanto nella parte conclusiva, tenendo d'occhio la possibilità concreta che quest'epopea divenga una trilogia: Temugin, in questo incedere, non appare praticamente mai come un feroce tiranno, o uno spietato guerriero, quanto come un uomo capace di costruire i suoi successi sulla tenacia e sulla forza d'animo che ha soltanto chi riesce a trovare lo stimolo ad alzarsi ogni volta sia patita una sconfitta.
E la figura - straordinaria - della sua sposa, arricchisce ulteriormente la trama dando totalmente credito al detto "dietro un grande uomo c'è sempre una grande donna".
Borte, fin da bambina, diviene il legame con il mondo di Temugin, la strada da seguire di fronte alla caduta, al tormento, alla sofferenza, alla schiavitù.
Si potrebbe quasi pensare a Mongol come ad un film sull'amore, più che sull'epica di un racconto che tanto ricorda i Braveheart occidentali: Temugin, compresa l'importanza di Borte nella sua vita, accetta come suoi figli in tutto e per tutto anche i bambini che la giovane ha avuto durante i periodi di schiavitù patiti per salvare il marito; la stessa Borte, quando la più piccola, al ritorno di Temugin, chiede che fine farà suo papà, risponde "è lui il tuo vero padre"; Jamukha, fratello di sangue prima ed antagonista dopo, liberato dopo la sconfitta, ammonirà Temugin per aver liberato il suo nemico, e si sentirà rispondere "ho liberato mio fratello".
Molteplici temi, dunque, per la maggior parte incentrati sul valore dei legami più stretti ed importanti, dalla famiglia agli amici, dall'amore alla fedeltà.
Poi, certo, per chi avrà cominciato a pensare di essersi ritrovato all'interno del più classico mattone russo, ci sono anche ottime scene d'azione e battaglia: splendido, davvero, in questo senso, l'intero - e breve, purtroppo - scontro con la tribù dei Merkit, mascherati quasi Faccia di cuoio si fosse trasferito nel teatro No.
Certo, la pellicola ha anche dei difetti, patisce i tagli (probabilmente) imposti dalla produzione e in alcuni punti risulta troppo sbrigativa nei raccordi della sceneggiatura: ma è potente, serrata, visivamente ottima - i campi lunghi nelle steppe immense fanno impallidire qualsiasi Conan - e coinvolgente, pur essendo figlia di una cultura lontana e completamente (ma sarà poi vero?) diversa dalla nostra.
Che, rispetto ad un filmone epico da vedere con la voglia di lasciarsi trasportare, direi che è tutto quello che si può chiedere alla vita.
E a proposito di richieste alla vita, ricordo un dialogo di Conan il barbaro che trovo sia perfetto per l'occasione:
"Dimmi, qual è il meglio della vita?"
"La steppa infinita, un cavallo veloce, e il vento che ti stordisce."
"No! Conan, qual è il meglio della vita?"
"Ammazzare i nemici, inseguirli mentre fuggono, e sentire i lamenti delle femmine."
"Bravo! E' questo, il meglio della vita."
Se non fosse stato messo in bocca a personaggi di un film, parrebbe quasi il confronto fra un produttore, Bodrov e un regista americano qualsiasi.
John Milius, da buon, vecchio conservatore, ci aveva visto proprio lungo.
Ad ogni modo, per questa volta, da queste parti siamo tutti per la steppa.
"Run to the hills, run for your lives."
MrFord
L'approccio del regista, sobrio anche nella rappresentazione delle battaglie e nell'utilizzare gli effetti digitali, rende questa pellicola uno dei kolossal epici più minimalisti e "d'autore" degli ultimi anni, in barba agli Scontri fra titani baracconeschi made in Usa in giro nelle sale in questi giorni.
Basandosi su quel (poco) che sappiamo di quello che, a tutti gli effetti, fu il più grande conquistatore delle civiltà orientali - e probabilmente del mondo -, Bodrov si concentra sulla parte umana di Temugin, raccontandone le peripezie e le sofferenze fin dalla perdita del padre, avvenuta quando il futuro Gengis Khan era ancora un bambino "troppo piccolo per essere ucciso secondo le leggi mongole".
Il confronto con la figura paterna, così come la forza di quella materna, specchio di quella che sarà la sua sposa Borte, divengono i primi mattoni etici sui quali Temugin costruirà l'intero sistema di leggi una volta conquistato il potere e riunite le instabili e nomadi tribù mongole.
Ma il punto forte di Mongol è senza dubbio il percorso che il regista disegna per il suo protagonista, mostrandolo per quello che sarà il suo volto più noto alla Storia - quello del conquistatore, per l'appunto - soltanto nella parte conclusiva, tenendo d'occhio la possibilità concreta che quest'epopea divenga una trilogia: Temugin, in questo incedere, non appare praticamente mai come un feroce tiranno, o uno spietato guerriero, quanto come un uomo capace di costruire i suoi successi sulla tenacia e sulla forza d'animo che ha soltanto chi riesce a trovare lo stimolo ad alzarsi ogni volta sia patita una sconfitta.
E la figura - straordinaria - della sua sposa, arricchisce ulteriormente la trama dando totalmente credito al detto "dietro un grande uomo c'è sempre una grande donna".
Borte, fin da bambina, diviene il legame con il mondo di Temugin, la strada da seguire di fronte alla caduta, al tormento, alla sofferenza, alla schiavitù.
Si potrebbe quasi pensare a Mongol come ad un film sull'amore, più che sull'epica di un racconto che tanto ricorda i Braveheart occidentali: Temugin, compresa l'importanza di Borte nella sua vita, accetta come suoi figli in tutto e per tutto anche i bambini che la giovane ha avuto durante i periodi di schiavitù patiti per salvare il marito; la stessa Borte, quando la più piccola, al ritorno di Temugin, chiede che fine farà suo papà, risponde "è lui il tuo vero padre"; Jamukha, fratello di sangue prima ed antagonista dopo, liberato dopo la sconfitta, ammonirà Temugin per aver liberato il suo nemico, e si sentirà rispondere "ho liberato mio fratello".
Molteplici temi, dunque, per la maggior parte incentrati sul valore dei legami più stretti ed importanti, dalla famiglia agli amici, dall'amore alla fedeltà.
Poi, certo, per chi avrà cominciato a pensare di essersi ritrovato all'interno del più classico mattone russo, ci sono anche ottime scene d'azione e battaglia: splendido, davvero, in questo senso, l'intero - e breve, purtroppo - scontro con la tribù dei Merkit, mascherati quasi Faccia di cuoio si fosse trasferito nel teatro No.
Certo, la pellicola ha anche dei difetti, patisce i tagli (probabilmente) imposti dalla produzione e in alcuni punti risulta troppo sbrigativa nei raccordi della sceneggiatura: ma è potente, serrata, visivamente ottima - i campi lunghi nelle steppe immense fanno impallidire qualsiasi Conan - e coinvolgente, pur essendo figlia di una cultura lontana e completamente (ma sarà poi vero?) diversa dalla nostra.
Che, rispetto ad un filmone epico da vedere con la voglia di lasciarsi trasportare, direi che è tutto quello che si può chiedere alla vita.
E a proposito di richieste alla vita, ricordo un dialogo di Conan il barbaro che trovo sia perfetto per l'occasione:
"Dimmi, qual è il meglio della vita?"
"La steppa infinita, un cavallo veloce, e il vento che ti stordisce."
"No! Conan, qual è il meglio della vita?"
"Ammazzare i nemici, inseguirli mentre fuggono, e sentire i lamenti delle femmine."
"Bravo! E' questo, il meglio della vita."
Se non fosse stato messo in bocca a personaggi di un film, parrebbe quasi il confronto fra un produttore, Bodrov e un regista americano qualsiasi.
John Milius, da buon, vecchio conservatore, ci aveva visto proprio lungo.
Ad ogni modo, per questa volta, da queste parti siamo tutti per la steppa.
"Run to the hills, run for your lives."
MrFord
venerdì 16 aprile 2010
Bullitt
Cosa si può dire, che non suoni già detto, di Steve McQueen!?
Come tutte le leggende che si rispettino, è divenuto, nel tempo, qualcosa più di un attore che da volto a personaggi scritti su misura per lui, direi addirittura una sorta di trasfigurazione dei personaggi stessi.
Bullitt, in questo senso, incarna perfettamente tutto quello che ci si aspetterebbe, mito o realtà, dal buon, vecchio McQueen: ramingo eppure fragile, duro ma dal cuore sempre pronto a battere per una donna o un compagno, spericolato ma razionale.
Inserito, inoltre, nel contesto tipico del poliziesco classico con il protagonista solo contro tutti, deciso ad arrivare in fondo e quasi conscio del fatto che ce la farà, a farla pagare a quei bastardi, spinto dalle ultime eredità di quella che fu l'epoca d'oro degli eroi western, il nostro si trova nel suo naturale elemento: e lo aiuta una trama solidissima, dal ritmo serrato e arricchita da elementi di violenza di taglio estremamente realistico, sicuramente in grande anticipo rispetto ai tempi.
Ma più che stare qui a citare la famosissima scena dell'inseguimento in macchina, cult di intere generazioni, da buono spatentato mi soffermo sull'intera sequenza girata in aeroporto, quando la morsa di Bullitt si stringe sul colpevole dell'uccisione del testimone che doveva proteggere.
Gli spazi aperti della pista d'atterraggio - che tanto mi hanno ricordato la meravigliosa conclusione di Heat - e l'inseguimento nel terminal, arricchito da un conflitto a fuoco conclusivo così secco da far rabbrividire quasi fossimo nel miglior Expect the unexpected sono perle del genere, e se non si può pensare, oltre alla fama da cult, di associare la parola capolavoro a questa pellicola, pur buonissima, di certo, anche a distanza di decenni, ci si può gustare un film che tiene ottimamente il campo grazie a ritmo e credibilità.
Per una serata "da veri uomini", come direbbe Walt Kowalski, un film come questo è paragonabile al migliore dei whisky.
Un pò come il coriaceo Steve McQueen.
Un vero duro, solitario quanto basta per intimidire o far innamorare la bella di turno.
Come il freezer grantorinese, si potrebbe dire che non ne fanno più, così.
Classe da vendere.
E se volete sentirvi cazzuti, non guardate 300, ma armatevi di Lagavulin e schiaffatevi Bullitt. Gerard Butler -e non me ne voglia, mi pare anche un tipo simpatico - non lo vede neanche da lontano.
"I'll be what I am,
a solitary man."
MrFord
Come tutte le leggende che si rispettino, è divenuto, nel tempo, qualcosa più di un attore che da volto a personaggi scritti su misura per lui, direi addirittura una sorta di trasfigurazione dei personaggi stessi.
Bullitt, in questo senso, incarna perfettamente tutto quello che ci si aspetterebbe, mito o realtà, dal buon, vecchio McQueen: ramingo eppure fragile, duro ma dal cuore sempre pronto a battere per una donna o un compagno, spericolato ma razionale.
Inserito, inoltre, nel contesto tipico del poliziesco classico con il protagonista solo contro tutti, deciso ad arrivare in fondo e quasi conscio del fatto che ce la farà, a farla pagare a quei bastardi, spinto dalle ultime eredità di quella che fu l'epoca d'oro degli eroi western, il nostro si trova nel suo naturale elemento: e lo aiuta una trama solidissima, dal ritmo serrato e arricchita da elementi di violenza di taglio estremamente realistico, sicuramente in grande anticipo rispetto ai tempi.
Ma più che stare qui a citare la famosissima scena dell'inseguimento in macchina, cult di intere generazioni, da buono spatentato mi soffermo sull'intera sequenza girata in aeroporto, quando la morsa di Bullitt si stringe sul colpevole dell'uccisione del testimone che doveva proteggere.
Gli spazi aperti della pista d'atterraggio - che tanto mi hanno ricordato la meravigliosa conclusione di Heat - e l'inseguimento nel terminal, arricchito da un conflitto a fuoco conclusivo così secco da far rabbrividire quasi fossimo nel miglior Expect the unexpected sono perle del genere, e se non si può pensare, oltre alla fama da cult, di associare la parola capolavoro a questa pellicola, pur buonissima, di certo, anche a distanza di decenni, ci si può gustare un film che tiene ottimamente il campo grazie a ritmo e credibilità.
Per una serata "da veri uomini", come direbbe Walt Kowalski, un film come questo è paragonabile al migliore dei whisky.
Un pò come il coriaceo Steve McQueen.
Un vero duro, solitario quanto basta per intimidire o far innamorare la bella di turno.
Come il freezer grantorinese, si potrebbe dire che non ne fanno più, così.
Classe da vendere.
E se volete sentirvi cazzuti, non guardate 300, ma armatevi di Lagavulin e schiaffatevi Bullitt. Gerard Butler -e non me ne voglia, mi pare anche un tipo simpatico - non lo vede neanche da lontano.
"I'll be what I am,
a solitary man."
MrFord
giovedì 15 aprile 2010
Happiness
Raramente capita di considerare un film intelligente, profondo ed importante e considerarlo, ad un tempo, sgradevole, scomodo e assolutamente allontanabile.
Solontz, esponente di spicco della new wave cinematografica americana che, sul finire degli anni '90, sfornò talenti come Wes e Paul Thomas Anderson, Vincent Gallo (in qualche modo), Johnny Depp (nella sua unica regia), Noah Baumbach e via discorrendo, parte da Altman per distruggere subdolamente la società made in Usa post-eighties, senza risparmiarsi nulla in materia di colpi bassi e quello che si potrebbe definire umorismo nero.
Eppure, c'è qualcosa di compiaciuto, nell'affresco quasi voyeuristico dipinto dal regista: qualcosa di inquietante e torbido, capace di far apparire DePalma come uno studentello delle elementari e il James Stewart de La finestra sul cortile un dilettante di quello che Powell definì "l'occhio che uccide" (e che filmone, ragazzi!).
Solontz non appare distante dalla società che demolisce dall'interno, dai suoi piccoli mostri silenziosi ed inquietanti che brindano alla felicità.
Solontz è come il piccolo rampollo dello psichiatra pedofilo che trova nello sconforto di uno dei più agghiaccianti confronti padre/figlio del Cinema la forza per tirarsi fuori - ma dovrei dire venire - da una realtà che fa sembrare lo squallore del New Jersey una sorta di patetico paradiso.
L'indimenticato Altman, nei suoi affreschi magnifici e crepuscolari, manteneva sempre un pò d'amore, e di rispetto, per quella vecchia America lontana, perduta in canzoni e malinconie che potevano significare un riscatto.
Per Solontz non è rimasto nulla. Se non venire.
Del resto, anche Nicole Kidman, al termine dello straordinario Eyes wide shut, ritiene che "scopare" sia l'ultima risposta. E chi può contraddire Kubrick!?
Forse Randy the ram, che liquida gli anni '90 come una merda creata da "Kurt Cobain, quel finocchio".
Dove sta la risposta, lo potrà dire solo la nostra coscienza.
Che se turbata da una visione come questa, forse non è lontana da una speranza di vera felicità.
Senza brindisi.
"Happiness (is a warm gun),
bang bang shoot shoot."
MrFord
Solontz, esponente di spicco della new wave cinematografica americana che, sul finire degli anni '90, sfornò talenti come Wes e Paul Thomas Anderson, Vincent Gallo (in qualche modo), Johnny Depp (nella sua unica regia), Noah Baumbach e via discorrendo, parte da Altman per distruggere subdolamente la società made in Usa post-eighties, senza risparmiarsi nulla in materia di colpi bassi e quello che si potrebbe definire umorismo nero.
Eppure, c'è qualcosa di compiaciuto, nell'affresco quasi voyeuristico dipinto dal regista: qualcosa di inquietante e torbido, capace di far apparire DePalma come uno studentello delle elementari e il James Stewart de La finestra sul cortile un dilettante di quello che Powell definì "l'occhio che uccide" (e che filmone, ragazzi!).
Solontz non appare distante dalla società che demolisce dall'interno, dai suoi piccoli mostri silenziosi ed inquietanti che brindano alla felicità.
Solontz è come il piccolo rampollo dello psichiatra pedofilo che trova nello sconforto di uno dei più agghiaccianti confronti padre/figlio del Cinema la forza per tirarsi fuori - ma dovrei dire venire - da una realtà che fa sembrare lo squallore del New Jersey una sorta di patetico paradiso.
L'indimenticato Altman, nei suoi affreschi magnifici e crepuscolari, manteneva sempre un pò d'amore, e di rispetto, per quella vecchia America lontana, perduta in canzoni e malinconie che potevano significare un riscatto.
Per Solontz non è rimasto nulla. Se non venire.
Del resto, anche Nicole Kidman, al termine dello straordinario Eyes wide shut, ritiene che "scopare" sia l'ultima risposta. E chi può contraddire Kubrick!?
Forse Randy the ram, che liquida gli anni '90 come una merda creata da "Kurt Cobain, quel finocchio".
Dove sta la risposta, lo potrà dire solo la nostra coscienza.
Che se turbata da una visione come questa, forse non è lontana da una speranza di vera felicità.
Senza brindisi.
"Happiness (is a warm gun),
bang bang shoot shoot."
MrFord
mercoledì 14 aprile 2010
Sons of anarchy
On the road again, canterebbe Willie Nelson.
Sono tornato sulle strade infuocate - e mai parole furono più azzeccate - della California.
Per l'esattezza, nella ridente cittadina di Charming, espediente narrativo degli autori dell'ottima Sons of anarchy per presentare problematiche e personaggi senza necessariamente dover fare i conti con la politica e i risvolti di riferimenti a situazioni "troppo" reali.
Così come per la straordinaria The shield, di cui parlerò presto e volentieri, si sfrutta dunque l'idea di un contesto di fiction inserito nella realtà "dura e pura" delle strade di una città come anche noi le conosciamo.
In particolare, in questo caso gli autori si concentrano su una banda di motociclisti dediti al traffico d'armi, coperti da un'attività di meccanici, che operano seguendo lo stesso metodo "goodfelliano" dei bravi ragazzi di Scorsese, tutto incentrato sulla Famiglia e su amicizie e legami che divengono indissolubili nel momento stesso in cui vengono sanciti.
E se no, può sempre scorrere il sangue.
All'interno dell'eterogeneo gruppo, interpretato da una nutrita schiera di caratteristi che ognuno di noi avrà visto almeno una decina di volte sul grande schermo - Ron Perlman su tutti -, spicca il protagonista Jax Teller, giovane poco più che trentenne, vicepresidente del club, figlio del defunto fondatore dello stesso.
Suo padre, idealista e anarchico - nel senso hippie del termine -, grazie ad un memoriale, scava dal passato nella coscienza del figlio, a sua volta alle prese con i primi problemi e le responsabilità legate alla paternità stessa, e per la prima volta colto da una sorta di crisi rispetto ai valori e alle regole divenuti bandiera della banda nel corso degli anni sotto la guida di Clay, compagno della madre di Jax e co-fondatore dei Sons.
Ma non voglio perdermi troppo nella trama, considerato che ogni serie tv ben confezionata necessita che ogni spettatore trovi il suo tempo, i suoi stimoli, i suoi personaggi e le situazioni cui si sente più legato in assoluta autonomia, e vorrei concentrarmi nella struggente ballata - perchè non mi viene in mente un modo migliore per definirlo - che è il penultimo episodio della prima stagione, "The sleep of babies".
Confermando la loro bravura, gli sceneggiatori si dedicano, sfruttando al meglio il poco tempo a disposizione, all'approfondimento dei caratteri delle loro "creature", riuscendo a definirne ruoli e sfumature anche soltanto grazie ad immagini di persone che si svegliano, o si addormentano.
Ognuno dei Sons, infatti, è prima di un criminale un uomo, con le sue meschinità e i suoi rancori, i suoi slanci di generosità e il senso di protezione ed amore che quasi ognuno di noi prova rispetto alla sua famiglia, e alle persone con cui si dividono letto e vita.
E nel crescendo che porta alla sconvolgente conclusione della puntata - e non della stagione, tanto per dire quanto, a volte, il prodotto serie tv sia ottimo pur disponendo di mezzi e tempi di gran lunga inferiori a quelli dell'industria cinematografica - la tensione e l'inevitabile sconcerto di quella che è una triste assunzione della realtà divengono difficilmente sostenibili.
Perchè se il Cinema, e con esso ogni prodotto di fiction, è e deve essere veicolo di meraviglia e stupore, a volte è confortante, pur nelle lacrime, provare sulla pelle tutto il sale e l'amarezza della vita per come la conosciamo che si fonde con la pellicola.
Ma ora basta giri di parole. Fatevi un paio di bicchieri di roba forte, accendete la moto e lanciatevi sulla strada.
Solo così vedrete dove porta il vostro viaggio.
"May you built a ladder to the stars,
and climb on every rung,
may you be forever young."
MrFord
Sono tornato sulle strade infuocate - e mai parole furono più azzeccate - della California.
Per l'esattezza, nella ridente cittadina di Charming, espediente narrativo degli autori dell'ottima Sons of anarchy per presentare problematiche e personaggi senza necessariamente dover fare i conti con la politica e i risvolti di riferimenti a situazioni "troppo" reali.
Così come per la straordinaria The shield, di cui parlerò presto e volentieri, si sfrutta dunque l'idea di un contesto di fiction inserito nella realtà "dura e pura" delle strade di una città come anche noi le conosciamo.
In particolare, in questo caso gli autori si concentrano su una banda di motociclisti dediti al traffico d'armi, coperti da un'attività di meccanici, che operano seguendo lo stesso metodo "goodfelliano" dei bravi ragazzi di Scorsese, tutto incentrato sulla Famiglia e su amicizie e legami che divengono indissolubili nel momento stesso in cui vengono sanciti.
E se no, può sempre scorrere il sangue.
All'interno dell'eterogeneo gruppo, interpretato da una nutrita schiera di caratteristi che ognuno di noi avrà visto almeno una decina di volte sul grande schermo - Ron Perlman su tutti -, spicca il protagonista Jax Teller, giovane poco più che trentenne, vicepresidente del club, figlio del defunto fondatore dello stesso.
Suo padre, idealista e anarchico - nel senso hippie del termine -, grazie ad un memoriale, scava dal passato nella coscienza del figlio, a sua volta alle prese con i primi problemi e le responsabilità legate alla paternità stessa, e per la prima volta colto da una sorta di crisi rispetto ai valori e alle regole divenuti bandiera della banda nel corso degli anni sotto la guida di Clay, compagno della madre di Jax e co-fondatore dei Sons.
Ma non voglio perdermi troppo nella trama, considerato che ogni serie tv ben confezionata necessita che ogni spettatore trovi il suo tempo, i suoi stimoli, i suoi personaggi e le situazioni cui si sente più legato in assoluta autonomia, e vorrei concentrarmi nella struggente ballata - perchè non mi viene in mente un modo migliore per definirlo - che è il penultimo episodio della prima stagione, "The sleep of babies".
Confermando la loro bravura, gli sceneggiatori si dedicano, sfruttando al meglio il poco tempo a disposizione, all'approfondimento dei caratteri delle loro "creature", riuscendo a definirne ruoli e sfumature anche soltanto grazie ad immagini di persone che si svegliano, o si addormentano.
Ognuno dei Sons, infatti, è prima di un criminale un uomo, con le sue meschinità e i suoi rancori, i suoi slanci di generosità e il senso di protezione ed amore che quasi ognuno di noi prova rispetto alla sua famiglia, e alle persone con cui si dividono letto e vita.
E nel crescendo che porta alla sconvolgente conclusione della puntata - e non della stagione, tanto per dire quanto, a volte, il prodotto serie tv sia ottimo pur disponendo di mezzi e tempi di gran lunga inferiori a quelli dell'industria cinematografica - la tensione e l'inevitabile sconcerto di quella che è una triste assunzione della realtà divengono difficilmente sostenibili.
Perchè se il Cinema, e con esso ogni prodotto di fiction, è e deve essere veicolo di meraviglia e stupore, a volte è confortante, pur nelle lacrime, provare sulla pelle tutto il sale e l'amarezza della vita per come la conosciamo che si fonde con la pellicola.
Ma ora basta giri di parole. Fatevi un paio di bicchieri di roba forte, accendete la moto e lanciatevi sulla strada.
Solo così vedrete dove porta il vostro viaggio.
"May you built a ladder to the stars,
and climb on every rung,
may you be forever young."
MrFord
I dannati di Varsavia
Sembrerà che me la meni e che non sia così "americano" come professo, andando a parlare di un'altra opera di Wajda, questa volta datata 1956/1957, ed ancora radicata all'eredità di follia e morte lasciata dal secondo conflitto mondiale.
Ma che posso dire: quando c'è di mezzo un gran film, confini ed epoche contano ben poco.
Wajda, allora trentunenne, e probabilmente fagocitato dai problemi economici e sociali della Polonia post-conflitto, si dedica ad un'opera girata con evidenti limitazioni in termini di mezzi e produzione, sopperendo agli stessi con una tecnica a dir poco splendida, dal piano sequenza iniziale - non rimanevo così affascinato dalla prima visione di Breaking news di Johnnie To, altro memorabile piano sequenza d'apertura - alla lenta, inesorabile discesa agli inferi che spetta i protagonisti della vicenda.
Condannati dalla voce narrante fin dalla prima scena, infatti, i membri della resistenza parte della squadra che sarà anima della trama divengono il simbolo di una lotta impari ed inutile contro un destino che ha già scritto non soltanto il copione del film, ma anche quello di un paese, e forse dell'intero genere umano, sprofondato in una fogna portatrice di tutto il marcio che si cela in ogni animo.
Nemici quasi invisibili a parte, dovuti a mezzi economici limitati e ad un'intuizione che farà scuola nei decenni successivi - qualcuno ha detto Carpenter? E Walter Hill? Per non parlare di The descent - i fantasmi peggiori che i protagonisti vanno ad affrontare nel loro viaggio attraverso il sistema fognario di Varsavia, diretti una salvezza che pare flebile quanto la speranza di contrastare l'esercito tedesco, in rotta eppure ancora troppo forte per loro, sono i conti in sospeso con loro stessi.
Non per nulla il regista si sofferma maggiormente sulle dinamiche interne alle due coppie creatisi nel cuore del gruppo di fuggitivi, rimaste quasi immediatamente isolate dal gruppo e alle prese l'una con una speranza - quella della sopravvivenza, e di stare insieme - che si affievolisce sempre più, e l'altra con la certezza - soltanto da una delle due parti - che questo non potrà mai accadere.
Amplificando l'effetto di questa terrificante solitudine crescente, e del terrore che si annida all'interno di una speranza sempre troppo flebile, le gallerie del sistema fognario divengono sudari viscosi di mota e fumo, pronti ad inghiottire anche per mezzo della luce, che mai come in questo caso è stata solo maschera di una salvezza impossibile.
Forse perchè dalla guerra non c'è uscita.
E forse perchè la guerra esiste con l'uomo.
Inutile tentare la fuga, e ancor più provarci passando dall'interno.
Qualcuno una volta ha avvertito il mondo che guardando nell'abisso, l'abisso ricambierà sempre l'occhiata.
"So much blood from such a tiny little hole."
MrFord
Ma che posso dire: quando c'è di mezzo un gran film, confini ed epoche contano ben poco.
Wajda, allora trentunenne, e probabilmente fagocitato dai problemi economici e sociali della Polonia post-conflitto, si dedica ad un'opera girata con evidenti limitazioni in termini di mezzi e produzione, sopperendo agli stessi con una tecnica a dir poco splendida, dal piano sequenza iniziale - non rimanevo così affascinato dalla prima visione di Breaking news di Johnnie To, altro memorabile piano sequenza d'apertura - alla lenta, inesorabile discesa agli inferi che spetta i protagonisti della vicenda.
Condannati dalla voce narrante fin dalla prima scena, infatti, i membri della resistenza parte della squadra che sarà anima della trama divengono il simbolo di una lotta impari ed inutile contro un destino che ha già scritto non soltanto il copione del film, ma anche quello di un paese, e forse dell'intero genere umano, sprofondato in una fogna portatrice di tutto il marcio che si cela in ogni animo.
Nemici quasi invisibili a parte, dovuti a mezzi economici limitati e ad un'intuizione che farà scuola nei decenni successivi - qualcuno ha detto Carpenter? E Walter Hill? Per non parlare di The descent - i fantasmi peggiori che i protagonisti vanno ad affrontare nel loro viaggio attraverso il sistema fognario di Varsavia, diretti una salvezza che pare flebile quanto la speranza di contrastare l'esercito tedesco, in rotta eppure ancora troppo forte per loro, sono i conti in sospeso con loro stessi.
Non per nulla il regista si sofferma maggiormente sulle dinamiche interne alle due coppie creatisi nel cuore del gruppo di fuggitivi, rimaste quasi immediatamente isolate dal gruppo e alle prese l'una con una speranza - quella della sopravvivenza, e di stare insieme - che si affievolisce sempre più, e l'altra con la certezza - soltanto da una delle due parti - che questo non potrà mai accadere.
Amplificando l'effetto di questa terrificante solitudine crescente, e del terrore che si annida all'interno di una speranza sempre troppo flebile, le gallerie del sistema fognario divengono sudari viscosi di mota e fumo, pronti ad inghiottire anche per mezzo della luce, che mai come in questo caso è stata solo maschera di una salvezza impossibile.
Forse perchè dalla guerra non c'è uscita.
E forse perchè la guerra esiste con l'uomo.
Inutile tentare la fuga, e ancor più provarci passando dall'interno.
Qualcuno una volta ha avvertito il mondo che guardando nell'abisso, l'abisso ricambierà sempre l'occhiata.
"So much blood from such a tiny little hole."
MrFord
martedì 13 aprile 2010
Operazione paura
Senza dover a tutti i costi fare il creativo che, in base alle indicazioni di Tarantino, segue una moda nata e sviluppatasi negli ultimi anni, devo ammettere che Mario Bava risulta ancora oggi estremamente attuale e all'avanguardia.
Confesso anche che, nonostante tutto, a mio parere il suo lavoro più geniale resta quello in cui meno è in mostra il suo talento per l'immagine e la fotografia, quel Cani arrabbiati che fa sembrare Le iene un film da bollino verde in prima serata.
Eppure, così come per La maschera del demonio, Reazione a catena, I coltelli del vendicatore, Terrore nello spazio profondo - solo per citare i più noti -, Operazione paura mostra quanto sia stato sottovalutato, all'epoca, il buon Mario.
Pescando da un immaginario che, nel tempo, avrebbe originato le ghost stories di bambini terribili degli anni '80 - Shining e Poltergeist - e la nuova ondata a cavallo del nuovo millennio - Il sesto senso e The others -, Operazione paura mette il talento di Bava al servizio di una fotografia allucinata e satura, e di immagini che omaggiano dichiaratamente il cinema noir anni '40, da La scala a chiocciola a Vertigine, passando attraverso Le catene della colpa.
Il tutto condito da un gusto per il macabro unico - che in alcuni casi sarebbe preso per trash - e un occhio che, indiscutibilmente, ricorda quello di un piccolo Welles.
Il pretesto della maledizione che incombe su uno sperduto villaggio di inizio secolo scorso è ideale per il regista, che mostra prima il suo talento visivo grazie a piccole acrobazie della macchina - nonostante il budget limitatissimo - come la soggettiva sull'altalena, e poi delizia gli spettatori con una serie di inquietanti apparizioni della bambina fantasma che culminano in un confronto drammatico all'interno della villa ove risiede sua madre, veicolo (o motore?) di tutte le atrocità consumate approfittando di superstizione e, appunto, paura.
Una sorta di incontro fra sociologia ed intrattenimento, che concilia una critica feroce alla superstizione e all'omertà - agghiacciante il racconto della bambina investita dalla carrozza che suona, ignorata, la campana della chiesa - ad un gusto unico per gli stilemi classici del genere - l'inseguimento fra doppi all'interno della villa è qualcosa di veramente unico, che sconfina quasi nella sci-fi anni '50 e vale da solo l'intera visione -.
Sicuramente una pellicola molto più "di nicchia" di quello che si possa pensare, capace di interessare più gli studenti di cinema che gli appassionati di horror, eppure, a distanza di quasi quarant'anni, ancora in grado di ipnotizzare lo spettatore.
Un'altra conferma rispetto ad un regista troppo spesso - e troppo in fretta - dimenticato dalla critica italiana.
Da queste parti, invece, con un sorriso sornione come solo Welles sapeva fare, osserviamo compiaciuti l'opera di un vero e proprio genio incompreso.
Altro che Ed Wood, caro Burton!
"E ti amo Mario!"
MrFord
Confesso anche che, nonostante tutto, a mio parere il suo lavoro più geniale resta quello in cui meno è in mostra il suo talento per l'immagine e la fotografia, quel Cani arrabbiati che fa sembrare Le iene un film da bollino verde in prima serata.
Eppure, così come per La maschera del demonio, Reazione a catena, I coltelli del vendicatore, Terrore nello spazio profondo - solo per citare i più noti -, Operazione paura mostra quanto sia stato sottovalutato, all'epoca, il buon Mario.
Pescando da un immaginario che, nel tempo, avrebbe originato le ghost stories di bambini terribili degli anni '80 - Shining e Poltergeist - e la nuova ondata a cavallo del nuovo millennio - Il sesto senso e The others -, Operazione paura mette il talento di Bava al servizio di una fotografia allucinata e satura, e di immagini che omaggiano dichiaratamente il cinema noir anni '40, da La scala a chiocciola a Vertigine, passando attraverso Le catene della colpa.
Il tutto condito da un gusto per il macabro unico - che in alcuni casi sarebbe preso per trash - e un occhio che, indiscutibilmente, ricorda quello di un piccolo Welles.
Il pretesto della maledizione che incombe su uno sperduto villaggio di inizio secolo scorso è ideale per il regista, che mostra prima il suo talento visivo grazie a piccole acrobazie della macchina - nonostante il budget limitatissimo - come la soggettiva sull'altalena, e poi delizia gli spettatori con una serie di inquietanti apparizioni della bambina fantasma che culminano in un confronto drammatico all'interno della villa ove risiede sua madre, veicolo (o motore?) di tutte le atrocità consumate approfittando di superstizione e, appunto, paura.
Una sorta di incontro fra sociologia ed intrattenimento, che concilia una critica feroce alla superstizione e all'omertà - agghiacciante il racconto della bambina investita dalla carrozza che suona, ignorata, la campana della chiesa - ad un gusto unico per gli stilemi classici del genere - l'inseguimento fra doppi all'interno della villa è qualcosa di veramente unico, che sconfina quasi nella sci-fi anni '50 e vale da solo l'intera visione -.
Sicuramente una pellicola molto più "di nicchia" di quello che si possa pensare, capace di interessare più gli studenti di cinema che gli appassionati di horror, eppure, a distanza di quasi quarant'anni, ancora in grado di ipnotizzare lo spettatore.
Un'altra conferma rispetto ad un regista troppo spesso - e troppo in fretta - dimenticato dalla critica italiana.
Da queste parti, invece, con un sorriso sornione come solo Welles sapeva fare, osserviamo compiaciuti l'opera di un vero e proprio genio incompreso.
Altro che Ed Wood, caro Burton!
"E ti amo Mario!"
MrFord
lunedì 12 aprile 2010
Katyn
Gli avvenimenti che scuotono la Polonia in questi giorni mi hanno riportato alla mente una delle pellicole che più mi ha sconvolto negli ultimi mesi, di quelle che ti lasciano così secco che, appena terminate, o si chiudono in un baule e si gettano nell'oceano sperando di non ritrovarle mai più, o diventano immediatamente un riferimento.
Direi che, nel mio caso, riguardo a Katyn, è stata clamorosamente ed esplosivamente la seconda.
E' clamoroso quanto, almeno nel percorso pre universitario, questo avvenimento storico - di importanza fondamentale - passi quasi sotto (colpevole) silenzio: ma non sono qui a spiegare la vicenda che portò alla morte quasi ventiduemila polacchi per mano dell'esercito russo, o gli squallidi retroscena che videro l'armata rossa accusare i nazisti prima di ammettere una colpa che le famiglie degli scomparsi ed assassinati attesero per anni.
Sono qui per cercare di trasmettere quanto Wajda ha messo in questo film folgorante, che parte come una testimonianza storica per divenire un macigno scagliato contro i silenzi, le uccisioni, le ingiustizie e tutto quello che sprigiona una guerra.
Il potere del cane, direbbe Winslow.
Il contrario di Lebanon, direi io.
Wajda, che perse il padre nell'eccidio del settembre 1939, dirige con una freddezza glaciale le vicende che si intrecciano, come un triste mosaico, attorno al massacro, concentrandosi più sui congiunti degli assassinati che sugli assassinati stessi, mostrando quanto l'attesa e la speranza possano logorare il cuore di quelle che, a loro volta e in misura anche maggiore, divengono vittime ulteriori, pur se non esplicitamente "fisiche", di un atto terribile e smisuratamente agghiacciante.
Non c'è spazio per l'amore o la rivincita, nel racconto gelido di Wajda, ed inevitabilmente i destini di chi (non) ha visto morire il proprio marito, o figlio, o fratello, vengono da quelle stesse morti condizionati, colpiti, segnati per sempre.
Come un epitaffio per una lapide che non si vuole mostrare. Perchè è la prova di un peccato cui nessuno ha posto rimedio.
Come la voce di un giovane zittito per strada, ammazzato, schiacciato, e della sua novella innamorata che penserà di essere stata abbandonata.
Tutto scorre, inevitabile e spietato. Prima della conclusione.
Perchè Wajda decide, proprio quando meno ce lo si potrebbe aspettare, di mostrare la sua visione del massacro. E lo fa nel modo più terribile e diretto.
Quasi avesse tenuto dentro tutto lo sdegno e la rabbia per quegli atti disumani, quasi volesse gridare con tutto il fiato possibile che quelle vittime hanno nomi e cognomi, così come i loro assassini.
Che quella lapide esiste, ed esisterà per sempre.
Che quella voce non può essere zittita. Che quella ragazza non sarà abbandonata.
Che la foresta di Katyn ha alberi cresciuti nel sangue.
"Mama said the pistol is the devil's right hand."
MrFord
Direi che, nel mio caso, riguardo a Katyn, è stata clamorosamente ed esplosivamente la seconda.
E' clamoroso quanto, almeno nel percorso pre universitario, questo avvenimento storico - di importanza fondamentale - passi quasi sotto (colpevole) silenzio: ma non sono qui a spiegare la vicenda che portò alla morte quasi ventiduemila polacchi per mano dell'esercito russo, o gli squallidi retroscena che videro l'armata rossa accusare i nazisti prima di ammettere una colpa che le famiglie degli scomparsi ed assassinati attesero per anni.
Sono qui per cercare di trasmettere quanto Wajda ha messo in questo film folgorante, che parte come una testimonianza storica per divenire un macigno scagliato contro i silenzi, le uccisioni, le ingiustizie e tutto quello che sprigiona una guerra.
Il potere del cane, direbbe Winslow.
Il contrario di Lebanon, direi io.
Wajda, che perse il padre nell'eccidio del settembre 1939, dirige con una freddezza glaciale le vicende che si intrecciano, come un triste mosaico, attorno al massacro, concentrandosi più sui congiunti degli assassinati che sugli assassinati stessi, mostrando quanto l'attesa e la speranza possano logorare il cuore di quelle che, a loro volta e in misura anche maggiore, divengono vittime ulteriori, pur se non esplicitamente "fisiche", di un atto terribile e smisuratamente agghiacciante.
Non c'è spazio per l'amore o la rivincita, nel racconto gelido di Wajda, ed inevitabilmente i destini di chi (non) ha visto morire il proprio marito, o figlio, o fratello, vengono da quelle stesse morti condizionati, colpiti, segnati per sempre.
Come un epitaffio per una lapide che non si vuole mostrare. Perchè è la prova di un peccato cui nessuno ha posto rimedio.
Come la voce di un giovane zittito per strada, ammazzato, schiacciato, e della sua novella innamorata che penserà di essere stata abbandonata.
Tutto scorre, inevitabile e spietato. Prima della conclusione.
Perchè Wajda decide, proprio quando meno ce lo si potrebbe aspettare, di mostrare la sua visione del massacro. E lo fa nel modo più terribile e diretto.
Quasi avesse tenuto dentro tutto lo sdegno e la rabbia per quegli atti disumani, quasi volesse gridare con tutto il fiato possibile che quelle vittime hanno nomi e cognomi, così come i loro assassini.
Che quella lapide esiste, ed esisterà per sempre.
Che quella voce non può essere zittita. Che quella ragazza non sarà abbandonata.
Che la foresta di Katyn ha alberi cresciuti nel sangue.
"Mama said the pistol is the devil's right hand."
MrFord
domenica 11 aprile 2010
Vincere
Torno, e con il botto.
Perchè Bellocchio sarà anche un radical chic supersnob ed intellettualoide, ma Vincere conferma che è anche uno dei più grandi registi italiani attualmente in attività.
Ad un'apertura fulminea - la sfida di Mussolini, giovane esponente del partito socialista, a Dio in persona - segue una prima parte purtroppo solo ed esclusivamente concentrata sull'estetismo sfrenato delle immagini - splendido, non c'è che dire, ma decisamente insipido - e sui duetti nella penombra del talamo di Timi/Mussolini e Mezzogiorno/Dalser.
Tanto da farmi temere per la caduta rovinosa di un regista che, negli ultimi anni e con le recenti opere, pareva aver ritrovato la magia che permeava il suo straordinario debutto, quel Pugni in tasca datato ormai 1965: ma evidentemente a Bellocchio piace giocare, così si tiene le carte migliori per il finale.
Nel momento cruciale della pellicola - il passaggio anche fisico fra il Mussolini cinematografico e quello reale dei filmati di repertorio sapientemente distribuiti all'interno del film - il registro, ed il regista, cambiano marcia dedicandosi principalmente al dramma di una donna sola contro un Paese, un Governo, una realtà che uno psichiatra definirà transitoria - "Tenga duro, Ida, pensi al futuro: il fascismo non durerà per sempre." - ma che pare schiacciante e granitica come il busto del Duce che il piccolo Benito Albino fa cadere senza riuscire a distruggere.
E il dramma umano che coinvolge anche le poche persone ancora vicine alla disperata protagonista diviene critica feroce alla Chiesa - straordinario il dialogo fra Ida e la Madre Superiora - e al regime imposto da uomini che paiono conoscere solo sotterfugio e violenza, quand'anche questa non sia esplicitamente fisica.
Un Changeling alla rovescia e dalla potenza smisurata, che si traduce in due carrellate da antologia nel momento della separazione di Ida e il suo adorato figlio e nell'ultimo arresto avvenuto di fronte a tutto il suo paese, una piccola comunità della provincia trentina.
La folla lotta, cerca di aprire la portiera della macchina che sta conducendo questa donna sola e non più abbandonata di nuovo in manicomio - dove morirà -, grida "assassini" alle camicie nere, prima di lasciare il campo e l'inquadratura al silenzio di Ida, che guarda avanti a se mentre alle sue spalle scorrono le scritte sui muri "Il Duce ha sempre ragione".
Il tempo di voltarsi verso la macchina da presa, ed arrivano le parole magiche: "Non dimenticatevi di me."
Bellocchio non l'ha fatto. Perchè sarà un intellettuale un pò troppo snob e dai gusti eccessivamente estetizzanti, ma non dimentica. E non perdona.
E proprio quando, con i brividi, pare sia tutto finito, il regista, come la sua protagonista, ci ricorda di non dimenticarci di come era iniziato: la sfida di Mussolini a Dio.
"Se entro cinque minuti Dio non mi avrà fulminato, sarà la prova che non esiste."
Mussolini, ricorda la grafica in chiusura, morirà giustiziato dai partigiani nel 1945, più di trent'anni dopo.
Forse Dio non ha la stessa concezione del tempo che possiamo avere da queste parti, ma qualche dubbio, in proposito, rimane.
Bellocchio rinnova la sua sfida. Forse la vince, e forse no. Del resto, il senso del grido che da titolo al film è stato solo l'antefatto di una sconfitta. La nostra, prima della sua.
Più che di Dio, in questo Paese pare si possa parlare solo del Divo.
Ma questa è un'altra storia.
"L'ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto e un Dio che è morto."
MrFord
Perchè Bellocchio sarà anche un radical chic supersnob ed intellettualoide, ma Vincere conferma che è anche uno dei più grandi registi italiani attualmente in attività.
Ad un'apertura fulminea - la sfida di Mussolini, giovane esponente del partito socialista, a Dio in persona - segue una prima parte purtroppo solo ed esclusivamente concentrata sull'estetismo sfrenato delle immagini - splendido, non c'è che dire, ma decisamente insipido - e sui duetti nella penombra del talamo di Timi/Mussolini e Mezzogiorno/Dalser.
Tanto da farmi temere per la caduta rovinosa di un regista che, negli ultimi anni e con le recenti opere, pareva aver ritrovato la magia che permeava il suo straordinario debutto, quel Pugni in tasca datato ormai 1965: ma evidentemente a Bellocchio piace giocare, così si tiene le carte migliori per il finale.
Nel momento cruciale della pellicola - il passaggio anche fisico fra il Mussolini cinematografico e quello reale dei filmati di repertorio sapientemente distribuiti all'interno del film - il registro, ed il regista, cambiano marcia dedicandosi principalmente al dramma di una donna sola contro un Paese, un Governo, una realtà che uno psichiatra definirà transitoria - "Tenga duro, Ida, pensi al futuro: il fascismo non durerà per sempre." - ma che pare schiacciante e granitica come il busto del Duce che il piccolo Benito Albino fa cadere senza riuscire a distruggere.
E il dramma umano che coinvolge anche le poche persone ancora vicine alla disperata protagonista diviene critica feroce alla Chiesa - straordinario il dialogo fra Ida e la Madre Superiora - e al regime imposto da uomini che paiono conoscere solo sotterfugio e violenza, quand'anche questa non sia esplicitamente fisica.
Un Changeling alla rovescia e dalla potenza smisurata, che si traduce in due carrellate da antologia nel momento della separazione di Ida e il suo adorato figlio e nell'ultimo arresto avvenuto di fronte a tutto il suo paese, una piccola comunità della provincia trentina.
La folla lotta, cerca di aprire la portiera della macchina che sta conducendo questa donna sola e non più abbandonata di nuovo in manicomio - dove morirà -, grida "assassini" alle camicie nere, prima di lasciare il campo e l'inquadratura al silenzio di Ida, che guarda avanti a se mentre alle sue spalle scorrono le scritte sui muri "Il Duce ha sempre ragione".
Il tempo di voltarsi verso la macchina da presa, ed arrivano le parole magiche: "Non dimenticatevi di me."
Bellocchio non l'ha fatto. Perchè sarà un intellettuale un pò troppo snob e dai gusti eccessivamente estetizzanti, ma non dimentica. E non perdona.
E proprio quando, con i brividi, pare sia tutto finito, il regista, come la sua protagonista, ci ricorda di non dimenticarci di come era iniziato: la sfida di Mussolini a Dio.
"Se entro cinque minuti Dio non mi avrà fulminato, sarà la prova che non esiste."
Mussolini, ricorda la grafica in chiusura, morirà giustiziato dai partigiani nel 1945, più di trent'anni dopo.
Forse Dio non ha la stessa concezione del tempo che possiamo avere da queste parti, ma qualche dubbio, in proposito, rimane.
Bellocchio rinnova la sua sfida. Forse la vince, e forse no. Del resto, il senso del grido che da titolo al film è stato solo l'antefatto di una sconfitta. La nostra, prima della sua.
Più che di Dio, in questo Paese pare si possa parlare solo del Divo.
Ma questa è un'altra storia.
"L'ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto e un Dio che è morto."
MrFord
lunedì 5 aprile 2010
Anamorph
E' dura, molto dura, più di quando ci si trova di fronte un film pessimo, confrontarsi con la visione di una pellicola che pare non aver lasciato nulla. O quasi.
Anamorph, tentativo d'imitazione di Seven senza il benchè minimo spessore rispetto alla pellicola ispiratrice, è uscito in sordina - e con un ritardo di anni - qui in Italia principalmente grazie alla presenza nel cast di Willem Defoe, che dopo essersi specializzato nel corso della sua carriera nell'interpretazione di personaggi schizzati e folli, qui interpreta un personaggio che schizzato e folle sembra soltanto.
In realtà, come le vittime della catena di omicidi che caratterizza la vicenda, è una preda anch'egli del serial killer "artista" che anni prima ha creduto di aver ucciso, e che, al contrario, si è preso tutto il suo tempo per preparare una vendetta come si deve.
Questa è quella che dovrebbe essere l'ossatura della trama: peccato che la sceneggiatura, scritta forse facendo un pò troppo affidamento su quella che dovrebbe essere la parte visivamente disturbante dell'opera, risulti macchinosa, lenta e poco credibile.
Un pò come i capelli - tinti o posticci, qui sta il dilemma? - corvini di Defoe, del quale è soltanto abbozzata la storia passata, così come le relazioni con i comprimari della pellicola, dal confidente e trafficante d'arte Peter Stornmare, al collega detective, fino a quella che dovrebbe essere la sua presunta fidanzata - ed anche in questo caso, perchè il personaggio interpretato da Defoe dovrebbe preoccuparsi tanto della migliore amica della sua ex, ultima vittima del serial killer prima della "morte"? E perchè dovrebbe incoraggiarla a frequentare gli alcolisti anonimi, lui che si attacca alla bottiglia ad ogni piè sospinto? -.
La stessa risoluzione della trama, giocata su un indizio che non aveva riferimenti precedenti nella pellicola, appare poco logica, come se il fotogramma finale che rievoca il concetto di anamorfosi nell'arte - unico punto interessante del film - possa bastare a distrarre lo spettatore da un lavoro mediocre ed insipido.
Sempre che alla fine uno riesca ad arrivare, data la verve scoppiettante e la tensione insostenibile dello script.
Se volete un consiglio, in caso vi trovaste ad affrontare questa "inquietante opera d'arte", arrivate fino alla comparsata del grande Mick Foley, e non spingetevi oltre.
Il punto più alto l'avrete già raggiunto.
Se Seven è seven, qui si arriva a stento all'uno.
"I wanna do bad things with you."
MrFord
Anamorph, tentativo d'imitazione di Seven senza il benchè minimo spessore rispetto alla pellicola ispiratrice, è uscito in sordina - e con un ritardo di anni - qui in Italia principalmente grazie alla presenza nel cast di Willem Defoe, che dopo essersi specializzato nel corso della sua carriera nell'interpretazione di personaggi schizzati e folli, qui interpreta un personaggio che schizzato e folle sembra soltanto.
In realtà, come le vittime della catena di omicidi che caratterizza la vicenda, è una preda anch'egli del serial killer "artista" che anni prima ha creduto di aver ucciso, e che, al contrario, si è preso tutto il suo tempo per preparare una vendetta come si deve.
Questa è quella che dovrebbe essere l'ossatura della trama: peccato che la sceneggiatura, scritta forse facendo un pò troppo affidamento su quella che dovrebbe essere la parte visivamente disturbante dell'opera, risulti macchinosa, lenta e poco credibile.
Un pò come i capelli - tinti o posticci, qui sta il dilemma? - corvini di Defoe, del quale è soltanto abbozzata la storia passata, così come le relazioni con i comprimari della pellicola, dal confidente e trafficante d'arte Peter Stornmare, al collega detective, fino a quella che dovrebbe essere la sua presunta fidanzata - ed anche in questo caso, perchè il personaggio interpretato da Defoe dovrebbe preoccuparsi tanto della migliore amica della sua ex, ultima vittima del serial killer prima della "morte"? E perchè dovrebbe incoraggiarla a frequentare gli alcolisti anonimi, lui che si attacca alla bottiglia ad ogni piè sospinto? -.
La stessa risoluzione della trama, giocata su un indizio che non aveva riferimenti precedenti nella pellicola, appare poco logica, come se il fotogramma finale che rievoca il concetto di anamorfosi nell'arte - unico punto interessante del film - possa bastare a distrarre lo spettatore da un lavoro mediocre ed insipido.
Sempre che alla fine uno riesca ad arrivare, data la verve scoppiettante e la tensione insostenibile dello script.
Se volete un consiglio, in caso vi trovaste ad affrontare questa "inquietante opera d'arte", arrivate fino alla comparsata del grande Mick Foley, e non spingetevi oltre.
Il punto più alto l'avrete già raggiunto.
Se Seven è seven, qui si arriva a stento all'uno.
"I wanna do bad things with you."
MrFord
domenica 4 aprile 2010
Questione di cuore
La parola che mi viene in mente è peccato.
Non nel senso seveniano del termine, quanto più perchè Questione di cuore della Archibugi poteva essere un ottimo film, e invece è soltanto carino.
Per carità, considerato quanto è difficile trovare buoni prodotti nostrani, ben venga anche questo.
Ma le premesse per renderlo qualcosa in più c'erano tutte, dagli attori - tutti in parte e fin troppo - al tema - due uomini colpiti da infarto che scoprono l'amicizia e si trovano di fronte a un cambio radicale nelle loro vite -, fino al talento - bellissime le parentesi con il piccolo Ayrton e gli occhiali "da scrittore" - e il coraggio - la statua della Madonna buttata a terra da Rossana, una sorta di Bellocchio piccolo piccolo -.
Ad ogni modo, la pellicola scorre bene e piacevolmente, sfruttando l'ironia nella prima parte e una riflessione più profonda nella seconda, quando Angelo, cuore - in tutto e per tutto - di una famiglia accortosi di essere prossimo al Destino che colpì anche suo padre fa ogni cosa in suo potere per cercare di trasformare la vita di Alberto - abituato a tutta la scomoda ed egoistica libertà del single - nella sua.
Dalla confidenza con i suoi due figli, il piccolo Ayrton e l'adolescente inquieta Perla, al legame stesso con la moglie Rossana, quasi potesse, in questo modo, rimediare ad una mancanza di cui si sente primo ed unico responsabile.
Una metafora interessante dei meccanismi di generosità - anche eccessiva - innescati dal nucleo di una famiglia, capaci di rendere speciale la vita "ordinaria" - che ordinaria non è affatto - di un gruppo di persone al cospetto di chi, in una posizione di libertà pressochè totale, nelle relazioni come nel lavoro, e nello stesso scorrere dei giorni, è costretto ad inventare e indovinare le "vite degli altri" per poter sopportare la solitudine della propria.
Ripensandolo in questo modo - con il cuore, appunto - il lavoro della Archibugi risveglia molteplici riflessioni, da qualunque parte di questa strana frontiera ci si trovi.
Un pò come se John Smith e John Rolfe di New World avessero condiviso una stanza d'ospedale e sviscerato a quattr'occhi la questione del loro amore per Pocahontas.
Certo, la Archibugi non sarà Malick e gli spazi sconfinati dell'America ancora non colonizzata non sono il turbolento quartiere nel quale Pasolini girò Accattone - un pò una ruffianata, a proposito, quel ritratto appeso alla parete del bar -, ma ugualmente, sulle rive di un piccolo lago italiota, i pensieri corrono, e con loro il cuore, finchè ce la fa.
Ed è quasi un peccato scoprire il (neo) realismo del finale, in cui a non farcela è proprio chi era stato già annunciato.
Ma non c'è due senza tre, dice Angelo.
Noi, da queste parti, speriamo di avere qualche cartuccia in più.
"E mai poter bere alla coppa d'un fiato,
ma a piccoli sorsi interrotti."
MrFord
Non nel senso seveniano del termine, quanto più perchè Questione di cuore della Archibugi poteva essere un ottimo film, e invece è soltanto carino.
Per carità, considerato quanto è difficile trovare buoni prodotti nostrani, ben venga anche questo.
Ma le premesse per renderlo qualcosa in più c'erano tutte, dagli attori - tutti in parte e fin troppo - al tema - due uomini colpiti da infarto che scoprono l'amicizia e si trovano di fronte a un cambio radicale nelle loro vite -, fino al talento - bellissime le parentesi con il piccolo Ayrton e gli occhiali "da scrittore" - e il coraggio - la statua della Madonna buttata a terra da Rossana, una sorta di Bellocchio piccolo piccolo -.
Ad ogni modo, la pellicola scorre bene e piacevolmente, sfruttando l'ironia nella prima parte e una riflessione più profonda nella seconda, quando Angelo, cuore - in tutto e per tutto - di una famiglia accortosi di essere prossimo al Destino che colpì anche suo padre fa ogni cosa in suo potere per cercare di trasformare la vita di Alberto - abituato a tutta la scomoda ed egoistica libertà del single - nella sua.
Dalla confidenza con i suoi due figli, il piccolo Ayrton e l'adolescente inquieta Perla, al legame stesso con la moglie Rossana, quasi potesse, in questo modo, rimediare ad una mancanza di cui si sente primo ed unico responsabile.
Una metafora interessante dei meccanismi di generosità - anche eccessiva - innescati dal nucleo di una famiglia, capaci di rendere speciale la vita "ordinaria" - che ordinaria non è affatto - di un gruppo di persone al cospetto di chi, in una posizione di libertà pressochè totale, nelle relazioni come nel lavoro, e nello stesso scorrere dei giorni, è costretto ad inventare e indovinare le "vite degli altri" per poter sopportare la solitudine della propria.
Ripensandolo in questo modo - con il cuore, appunto - il lavoro della Archibugi risveglia molteplici riflessioni, da qualunque parte di questa strana frontiera ci si trovi.
Un pò come se John Smith e John Rolfe di New World avessero condiviso una stanza d'ospedale e sviscerato a quattr'occhi la questione del loro amore per Pocahontas.
Certo, la Archibugi non sarà Malick e gli spazi sconfinati dell'America ancora non colonizzata non sono il turbolento quartiere nel quale Pasolini girò Accattone - un pò una ruffianata, a proposito, quel ritratto appeso alla parete del bar -, ma ugualmente, sulle rive di un piccolo lago italiota, i pensieri corrono, e con loro il cuore, finchè ce la fa.
Ed è quasi un peccato scoprire il (neo) realismo del finale, in cui a non farcela è proprio chi era stato già annunciato.
Ma non c'è due senza tre, dice Angelo.
Noi, da queste parti, speriamo di avere qualche cartuccia in più.
"E mai poter bere alla coppa d'un fiato,
ma a piccoli sorsi interrotti."
MrFord
sabato 3 aprile 2010
La passione di Cristo
Sfrutto l'onda del post di ieri e approfitto dello spirito pasquale per dedicarmi al secondo film peggiore mai visto nella mia vita.
A tal proposito tengo subito a specificare che in questa mia personale classifica non prendo in considerazione i film trash o le schifezze subumane stile cinepanettone, ma solo ed esclusivamente il Cinema che vorrebbe essere, almeno sulla carta, autoriale.
E di certo, pensando a produzione e realizzazione, l'horror di Mel Gibson è a tutti gli effetti un prodotto sicuramente valido.
Peccato che la questione, in questo caso, sia principalmente morale.
Tralasciando gli elementi gore che rendono, al suo confronto, Hostel o Martyrs - altra pellicola con buone premesse devastata dalle malsane idee nate da una sorta di fanatismo religioso - roba accostabile alle Winx già partiamo male con il Getsemani e la prima sequenza della pellicola.
Capiamo subito, infatti, che Gesù Cristo, in realtà, era Bruce Lee, e lui con il serpente non voleva proprio averci niente a che fare.
Anzi, quel viscidone si meritava proprio una bella ripassata.
E in men che non si dica, il nostro divino vendicatore risolve la questione con un pestone degno di tutti i tre dell'operazione drago.
Archiviata la pratica del rettile, tra un ralenti e una fustigata, passiamo attraverso Barabba, scartato all'ultimo da Tod Browning per il suo freaks, e partiamo diretti per il festival della caduta.
Le mie - scarsissime, ammetto - reminiscenze di catechismo mi portano a pensare fossero tre, ma forse il buon Mel - o dovremmo dire santo !? - ha fonti più attendibili, e le stesse si moltiplicano come i pani e i pesci, così come il tormento dello spettatore sano di mente che dopo i primi trenta secondi di compiaciuta, malsana violenza mostrata mostra inevitabilmente i segni di chi vorrebbe uscire dalla sala o togliere il disco dal lettore, liberandosene al più presto e portandolo in un luogo sicuro e segreto il più lontano possibile dalla sua persona.
Forse occorrono Friedkin e L'esorcista. O Rosemary's baby.
Non sperate che ci sia una redenzione. Neppure alla fine.
Neppure quando pare che Gibson sia pronto a girare Cristo 2: La vendetta.
Quel foro sulla mano nel momento dell'apertura del sepolcro è una cosa che pensavo avrebbe potuto fare solo il regista di un film con Steven Seagal.
Evidentemente ho sottovalutato il buon Mel.
Per favore, per favore, per favore.
Se non l'avete mai visto, se avete questa immensa, straordinaria fortuna, approfittatene.
E pensate a L'ultima tentazione di Cristo di Scorsese e Il vangelo secondo Matteo di Pasolini.
E se proprio volete immergervi a fondo nello spirito - santo o non santo? - di questi giorni, ascoltate La buona novella di Fabrizio De Andrè.
Tutta un'altra storia.
E non sperate che vi sveli ancora quale pellicola sta in cima al peggio.
Quella me la voglio giocare con calma.
"Nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l'amore."
MrFord
A tal proposito tengo subito a specificare che in questa mia personale classifica non prendo in considerazione i film trash o le schifezze subumane stile cinepanettone, ma solo ed esclusivamente il Cinema che vorrebbe essere, almeno sulla carta, autoriale.
E di certo, pensando a produzione e realizzazione, l'horror di Mel Gibson è a tutti gli effetti un prodotto sicuramente valido.
Peccato che la questione, in questo caso, sia principalmente morale.
Tralasciando gli elementi gore che rendono, al suo confronto, Hostel o Martyrs - altra pellicola con buone premesse devastata dalle malsane idee nate da una sorta di fanatismo religioso - roba accostabile alle Winx già partiamo male con il Getsemani e la prima sequenza della pellicola.
Capiamo subito, infatti, che Gesù Cristo, in realtà, era Bruce Lee, e lui con il serpente non voleva proprio averci niente a che fare.
Anzi, quel viscidone si meritava proprio una bella ripassata.
E in men che non si dica, il nostro divino vendicatore risolve la questione con un pestone degno di tutti i tre dell'operazione drago.
Archiviata la pratica del rettile, tra un ralenti e una fustigata, passiamo attraverso Barabba, scartato all'ultimo da Tod Browning per il suo freaks, e partiamo diretti per il festival della caduta.
Le mie - scarsissime, ammetto - reminiscenze di catechismo mi portano a pensare fossero tre, ma forse il buon Mel - o dovremmo dire santo !? - ha fonti più attendibili, e le stesse si moltiplicano come i pani e i pesci, così come il tormento dello spettatore sano di mente che dopo i primi trenta secondi di compiaciuta, malsana violenza mostrata mostra inevitabilmente i segni di chi vorrebbe uscire dalla sala o togliere il disco dal lettore, liberandosene al più presto e portandolo in un luogo sicuro e segreto il più lontano possibile dalla sua persona.
Forse occorrono Friedkin e L'esorcista. O Rosemary's baby.
Non sperate che ci sia una redenzione. Neppure alla fine.
Neppure quando pare che Gibson sia pronto a girare Cristo 2: La vendetta.
Quel foro sulla mano nel momento dell'apertura del sepolcro è una cosa che pensavo avrebbe potuto fare solo il regista di un film con Steven Seagal.
Evidentemente ho sottovalutato il buon Mel.
Per favore, per favore, per favore.
Se non l'avete mai visto, se avete questa immensa, straordinaria fortuna, approfittatene.
E pensate a L'ultima tentazione di Cristo di Scorsese e Il vangelo secondo Matteo di Pasolini.
E se proprio volete immergervi a fondo nello spirito - santo o non santo? - di questi giorni, ascoltate La buona novella di Fabrizio De Andrè.
Tutta un'altra storia.
E non sperate che vi sveli ancora quale pellicola sta in cima al peggio.
Quella me la voglio giocare con calma.
"Nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l'amore."
MrFord
venerdì 2 aprile 2010
Lebanon
Pensavo che fosse il momento giusto per cogliere i proverbiali due piccioni con una fava.
Un film che non fosse americano, e la prima, ufficiale stroncatura postata.
Lebanon di Samuel Maoz, vincitore - !!! - del Leone d'oro all'ultimo Festival di Venezia, accontenta entrambe queste personali voglie.
Ricordo che lo vidi per conto di www.effettonotteonline.com, quando uscì nelle sale, con tutte le aspettative che poteva generare il film "erede" nel palmares del Lido di un pezzo da novanta come The wrestler, che andava ad affrontare gli stessi argomenti di quella meraviglia per gli occhi che è lo straziante, splendido e chi più ne ha più ne metta Valzer con Bashir.
Ricordo la prima inquadratura. Fissa. Un campo di girasoli dai colori quasi saturi.
Per - indicativamente - tre interminabili minuti.
Una di quelle inquadrature che, per un appassionato di cinema, sono giustificate solo ed esclusivamente ai Maestri.
E che, tendenzialmente, quegli stessi Maestri tendono per genialità ad evitare.
Ricordo il timore che percorreva quasi divertito la mia schiena a salire fino al collo, cercando di farmi voltare verso mia moglie. Il senso di colpa è stato troppo forte per farcela.
Come se fosse già chiaro quello che ci aspettava per i successivi novanta minuti.
A ben guardare, forse quel primo, terribile, intellettualoide e finto artistico impatto non era niente di che, se confrontato al resto: un'idea che poteva rivelarsi effettivamente geniale, quella di scegliere di ambientare l'intero film all'interno di un cingolato, imprigionandovi i protagonisti e rendendoli più vulnerabili alla guerra e alle sue brutture di quanto non sarebbero stati all'esterno, sprecata in un festival di voyeurismo dal gusto pessimo, che sfrutta il mirino telescopico dell'obice per mostrare violenza, cadaveri, messaggi di "pace", un Paese e vite dissipate.
L'insistenza con la quale il regista sceglie di trasmettere il suo messaggio anti-militarista (così almeno Maoz ha presentato il film) mi ha riportato alla mente, per il compiacimento morboso mostrato verso le immagini di orrore mostrate, La passione di Cristo di Mel Gibson, ufficialmente sul podio dei peggiori film che io abbia mai visto.
E questo non è mai una buona cosa.
Il meschino sistema di narrazione di Maoz, perfetto, in un festival, quando si sceglie di voler scioccare a tutti i costi pubblico e soprattutto giuria, funziona al meglio quando la stessa ha al suo interno componenti senza il coraggio necessario a stroncare pellicole che trattino temi scottanti per timore di essere tacciati di - in questo caso - sostegno alla guerra e alla sua perpetrazione.
Curioso quanto, da spettatore, Lebanon mi sia sembrato, al contrario di quanto dichiarato da Maoz, un film di compiaciuto piacere rispetto alla catena di tragedie umane, geografiche e politiche, innescate da un qualsiasi conflitto bellico.
Peccato davvero che la giuria del Lido non sia stata la stessa di Cannes, perchè chi ha stroncato Antichrist di Lars Von Trier - che condivide il podio del peggio con la succitata Passione di Cristo - sarebbe andato a nozze con Lebanon.
Che altro dire!?
Se vi piacciono lo stile scandalistico di Studio aperto e Cronaca qui o siete di quelli che vanno alla ricerca dei filmati con gli incidenti su Youtube, la pellicola di Maoz è proprio quello che fa per voi.
In caso contario, obiettate. Come si faceva con il servizio militare.
Chissà se Maoz l'ha fatto?
"Please, don't try this at home."
MrFord
Un film che non fosse americano, e la prima, ufficiale stroncatura postata.
Lebanon di Samuel Maoz, vincitore - !!! - del Leone d'oro all'ultimo Festival di Venezia, accontenta entrambe queste personali voglie.
Ricordo che lo vidi per conto di www.effettonotteonline.com, quando uscì nelle sale, con tutte le aspettative che poteva generare il film "erede" nel palmares del Lido di un pezzo da novanta come The wrestler, che andava ad affrontare gli stessi argomenti di quella meraviglia per gli occhi che è lo straziante, splendido e chi più ne ha più ne metta Valzer con Bashir.
Ricordo la prima inquadratura. Fissa. Un campo di girasoli dai colori quasi saturi.
Per - indicativamente - tre interminabili minuti.
Una di quelle inquadrature che, per un appassionato di cinema, sono giustificate solo ed esclusivamente ai Maestri.
E che, tendenzialmente, quegli stessi Maestri tendono per genialità ad evitare.
Ricordo il timore che percorreva quasi divertito la mia schiena a salire fino al collo, cercando di farmi voltare verso mia moglie. Il senso di colpa è stato troppo forte per farcela.
Come se fosse già chiaro quello che ci aspettava per i successivi novanta minuti.
A ben guardare, forse quel primo, terribile, intellettualoide e finto artistico impatto non era niente di che, se confrontato al resto: un'idea che poteva rivelarsi effettivamente geniale, quella di scegliere di ambientare l'intero film all'interno di un cingolato, imprigionandovi i protagonisti e rendendoli più vulnerabili alla guerra e alle sue brutture di quanto non sarebbero stati all'esterno, sprecata in un festival di voyeurismo dal gusto pessimo, che sfrutta il mirino telescopico dell'obice per mostrare violenza, cadaveri, messaggi di "pace", un Paese e vite dissipate.
L'insistenza con la quale il regista sceglie di trasmettere il suo messaggio anti-militarista (così almeno Maoz ha presentato il film) mi ha riportato alla mente, per il compiacimento morboso mostrato verso le immagini di orrore mostrate, La passione di Cristo di Mel Gibson, ufficialmente sul podio dei peggiori film che io abbia mai visto.
E questo non è mai una buona cosa.
Il meschino sistema di narrazione di Maoz, perfetto, in un festival, quando si sceglie di voler scioccare a tutti i costi pubblico e soprattutto giuria, funziona al meglio quando la stessa ha al suo interno componenti senza il coraggio necessario a stroncare pellicole che trattino temi scottanti per timore di essere tacciati di - in questo caso - sostegno alla guerra e alla sua perpetrazione.
Curioso quanto, da spettatore, Lebanon mi sia sembrato, al contrario di quanto dichiarato da Maoz, un film di compiaciuto piacere rispetto alla catena di tragedie umane, geografiche e politiche, innescate da un qualsiasi conflitto bellico.
Peccato davvero che la giuria del Lido non sia stata la stessa di Cannes, perchè chi ha stroncato Antichrist di Lars Von Trier - che condivide il podio del peggio con la succitata Passione di Cristo - sarebbe andato a nozze con Lebanon.
Che altro dire!?
Se vi piacciono lo stile scandalistico di Studio aperto e Cronaca qui o siete di quelli che vanno alla ricerca dei filmati con gli incidenti su Youtube, la pellicola di Maoz è proprio quello che fa per voi.
In caso contario, obiettate. Come si faceva con il servizio militare.
Chissà se Maoz l'ha fatto?
"Please, don't try this at home."
MrFord
giovedì 1 aprile 2010
Il mambo degli orsi
Joe R. Lansdale è un gran figlio di buona donna. Con uno stile fantastico.
Hap e Leonard, protagonisti di una serie di sette (per ora) romanzi sono da annoverare in quel ristrettissimo gruppo di personaggi capaci di entrare nel cuore dei lettori almeno quanto sono radicati in quello del loro creatore, che non ha paura a strapazzarli, a mostrarli per quello che sono, a farli sbagliare per poi dare loro una mano ad alzarsi rendendoli al contempo più umani possibile.
Il mambo degli orsi, terzo capitolo della serie loro dedicata, raccoglie l'eredità profondamente violenta del noir che definì la parte conclusiva di Una stagione selvaggia, prima avventura dei due improvvisati detective/avventurieri, e l'umorismo al vetriolo legato ad un indagine complessa e ricca di sfumature che aveva costituito l'ossatura di Mucho mojo, il romanzo successivo.
Eppure, all'interno de Il mambo degli orsi, c'è qualcosa in più.
Hap e Leonard, con le loro battute pronte e il cuore sempre oltre l'ostacolo, questa volta le prendono. E di brutto. Giusto per ricordarci che nessuno di noi è invincibile, e che, usando le parole di Charlie, poliziotto aficionado del K-Mart amico dei nostri due ragazzacci "c'è sempre qualcuno più forte, più furbo e più cattivo di te."
La differenza starà nel non arrendersi a se stessi, più che a chi ha fatto loro sputare sangue, e all'idea che un avvenimento traumatico può cambiare anche il più coraggioso ed impulsivo degli uomini.
Come se non bastasse, ci sono un mucchio di sfumature così incredibilmente variegate da poter controscrivere un saggio. Ma non sarebbe cosa che Lansdale apprezzerebbe.
Joe R., tutto pane e salame, si prenderebbe giusto uno di quei momenti di riflessione da veranda, come Hap in chiusura di romanzo, sospirando e gustandosi un sigaro, una birra o semplicemente le stelle.
Il mambo degli orsi è selvaggio, oscuro, ostile, ingiusto, violento e cattivo.
Ma anche pieno di passione, di quella che permette agli uomini come Hap e Leonard di sopravvivere, tutto sommato.
E di scoprire che il bigottismo e la cultura sudista delle peggiori, quella che sottintende il KKK e i suoi lenzuoli, non è diffuso fino in fondo al cuore di uomini con le palle così grosse da scendere quasi alle ginocchia, e che a volte il delitto, e il sangue, sporcano le mani di chi porta dentro peccati più antichi e terribili, che vanno ben oltre il razzismo, e che, forse, sono proprio alle sue radici.
Figlio di tanto padre, verrebbe da dire pensando a Tim.
Perchè il vecchio Jackson, ricco, bello e potente ce la fa, e ha tutta l'aria di chi ce la farà sempre. Almeno fino alla fine. E quella arriva inesorabile, anche se spesso non è così giusta come si potrebbe sperare.
Come la natura e la sua pioggia purificatrice, crudele e feroce come il Destino.
Destino che non risparmia Hanson e Florida, entrambi uccisi per non aver mosso un passo oltre, o forse proprio per averlo fatto. O forse per averlo fatto senza che un Hap o un Leonard guardasse loro le spalle.
E' una triste storia, quella dell'ex fidanzata - o presunta tale - di Hap e del poliziotto che l'aveva soffiata al nostro amico, che suscita rabbia e malinconia, proprio perchè profondamente umana nella sua annunciata e tragica conclusione.
E in quel momento, nel pieno dell'alluvione, con Hap appeso a un albero e alla vita e il cadavere di Florida quasi crocefisso dalla marea proprio di fronte a lui, pare quasi che il Destino tracci un confine, fra chi ce l'ha fatta e chi no. E non è mai una cosa troppo allegra.
Come non è allegro pensare che così come Jackson l'ha scampata, l'hanno scampata Hap e Leonard. E che anche per loro arriverà, inesorabile, una fine.
Quella è la marea che nessuno può combattere, e che non ci sarà albero che tenga quando verrà il nostro momento.
Ma fintanto che dura, è bello pensare che Hap e Leonard sono in giro, un pò come direbbe Lo straniero del Drugo.
Ed è quasi più bello pensare che in giro ci sia anche un certo Joe R. Lansdale, che oltre al sensei continua ad avere voglia di fare anche lo scrittore, come un vecchio - ma neanche troppo - bastardo dannatamente, fottutamente bravo.
"And then I see a darkness."
MrFord
Hap e Leonard, protagonisti di una serie di sette (per ora) romanzi sono da annoverare in quel ristrettissimo gruppo di personaggi capaci di entrare nel cuore dei lettori almeno quanto sono radicati in quello del loro creatore, che non ha paura a strapazzarli, a mostrarli per quello che sono, a farli sbagliare per poi dare loro una mano ad alzarsi rendendoli al contempo più umani possibile.
Il mambo degli orsi, terzo capitolo della serie loro dedicata, raccoglie l'eredità profondamente violenta del noir che definì la parte conclusiva di Una stagione selvaggia, prima avventura dei due improvvisati detective/avventurieri, e l'umorismo al vetriolo legato ad un indagine complessa e ricca di sfumature che aveva costituito l'ossatura di Mucho mojo, il romanzo successivo.
Eppure, all'interno de Il mambo degli orsi, c'è qualcosa in più.
Hap e Leonard, con le loro battute pronte e il cuore sempre oltre l'ostacolo, questa volta le prendono. E di brutto. Giusto per ricordarci che nessuno di noi è invincibile, e che, usando le parole di Charlie, poliziotto aficionado del K-Mart amico dei nostri due ragazzacci "c'è sempre qualcuno più forte, più furbo e più cattivo di te."
La differenza starà nel non arrendersi a se stessi, più che a chi ha fatto loro sputare sangue, e all'idea che un avvenimento traumatico può cambiare anche il più coraggioso ed impulsivo degli uomini.
Come se non bastasse, ci sono un mucchio di sfumature così incredibilmente variegate da poter controscrivere un saggio. Ma non sarebbe cosa che Lansdale apprezzerebbe.
Joe R., tutto pane e salame, si prenderebbe giusto uno di quei momenti di riflessione da veranda, come Hap in chiusura di romanzo, sospirando e gustandosi un sigaro, una birra o semplicemente le stelle.
Il mambo degli orsi è selvaggio, oscuro, ostile, ingiusto, violento e cattivo.
Ma anche pieno di passione, di quella che permette agli uomini come Hap e Leonard di sopravvivere, tutto sommato.
E di scoprire che il bigottismo e la cultura sudista delle peggiori, quella che sottintende il KKK e i suoi lenzuoli, non è diffuso fino in fondo al cuore di uomini con le palle così grosse da scendere quasi alle ginocchia, e che a volte il delitto, e il sangue, sporcano le mani di chi porta dentro peccati più antichi e terribili, che vanno ben oltre il razzismo, e che, forse, sono proprio alle sue radici.
Figlio di tanto padre, verrebbe da dire pensando a Tim.
Perchè il vecchio Jackson, ricco, bello e potente ce la fa, e ha tutta l'aria di chi ce la farà sempre. Almeno fino alla fine. E quella arriva inesorabile, anche se spesso non è così giusta come si potrebbe sperare.
Come la natura e la sua pioggia purificatrice, crudele e feroce come il Destino.
Destino che non risparmia Hanson e Florida, entrambi uccisi per non aver mosso un passo oltre, o forse proprio per averlo fatto. O forse per averlo fatto senza che un Hap o un Leonard guardasse loro le spalle.
E' una triste storia, quella dell'ex fidanzata - o presunta tale - di Hap e del poliziotto che l'aveva soffiata al nostro amico, che suscita rabbia e malinconia, proprio perchè profondamente umana nella sua annunciata e tragica conclusione.
E in quel momento, nel pieno dell'alluvione, con Hap appeso a un albero e alla vita e il cadavere di Florida quasi crocefisso dalla marea proprio di fronte a lui, pare quasi che il Destino tracci un confine, fra chi ce l'ha fatta e chi no. E non è mai una cosa troppo allegra.
Come non è allegro pensare che così come Jackson l'ha scampata, l'hanno scampata Hap e Leonard. E che anche per loro arriverà, inesorabile, una fine.
Quella è la marea che nessuno può combattere, e che non ci sarà albero che tenga quando verrà il nostro momento.
Ma fintanto che dura, è bello pensare che Hap e Leonard sono in giro, un pò come direbbe Lo straniero del Drugo.
Ed è quasi più bello pensare che in giro ci sia anche un certo Joe R. Lansdale, che oltre al sensei continua ad avere voglia di fare anche lo scrittore, come un vecchio - ma neanche troppo - bastardo dannatamente, fottutamente bravo.
"And then I see a darkness."
MrFord
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