mercoledì 29 febbraio 2012

La gabbia delle scimmie

Autore: Victor Gischler
Origine: Usa
Editore: Meridiano Zero
Anno: 2001 (in Italia 2010)


La trama (con parole mie): Charlie Swift è un gangster di Orlando, Florida. E' l'uomo di fiducia del vecchio Stan, boss ottantenne vecchio stampo per il quale il killer lavora da tutta una vita. Ha un fratello minore, Danny, che ha mollato l'università e vorrebbe come lui fare parte del manipolo della gabbia delle scimmie, la gang che Charlie comanda, una madre che si preoccupa ed una donna appena conosciuta - l'ex moglie di un tizio che ha accoppato - che gli piace davvero.
Tutto funziona, fino a quando entra in gioco Beggar Johnston, che da Miami decide che è arrivato il momento di prendersi una fetta del mercato di Stan. 
Una fetta consistente. In parole povere, tutto quanto.
Charlie, scampato al massacro dei suoi, si troverà (quasi) solo ad affrontare la gang rivale, l'FBI, il passato, il futuro ed un sacco di domande senza risposta.
Domande che necessitano di un pò di piombo per essere archiviate tra le pratiche di un tempo prima di costruirsi una nuova vita.





Che Victor Gischler fosse un tipo cazzuto, frutto fatto e finito della scuola Lansdale, già era noto in casa Ford dai tempi di Notte di sangue a Coyote Crossing, nella mia personale top ten dei romanzi dello scorso anno.
Con La gabbia delle scimmie ho riscoperto la sua opera prima, un romanzo secco e frastornante come un diretto in pieno viso, pervaso dallo spirito pulp che guidò la rivoluzione cinematografica di Tarantino e dall'ironia guascona dei due eroi principali dell'appena citato Lansdale, Hap e Leonard: certo, non siamo di fronte ad un miracolo della pagina scritta, o a qualcosa di innovativo e clamoroso, eppure la vicenda di Charlie Swift - che per tutta la durata della vicenda mi ha ricordato Jason Statham - riesce nell'intento di avvincere, divertire ed incollare alla pagina senza troppo impegno dall'incipit all'epilogo, scorrendo così rapido da non avere mai l'impressione di un momento di stanca del suo autore, che certo non passerà alla storia come il più raffinato dei narratori ma che confeziona un prodotto onesto e dallo spirito clamorosamente simile a quello dei siparietti che nel pieno degli anni novanta lasciarono a bocca aperta molti fan della settima arte segnandoli per sempre grazie a due personaggi di nome Vincent e Jules, in particolare nel corso di una vicenda più nota come "La situazione Bonnie".
In questo senso ho trovato clamorosamente coinvolgente e spassosa tutta la parte centrale, in cui il buon vecchio Charlie, ritrovato uno dei suoi vecchi compagni come lui scampato all'eccidio si fa carico della missione di scovare il traditore e scoprire dove si trova e se è ancora in vita il vecchio Stan, suo padre putativo e boss: il loro peregrinare nell'entroterra della Florida fatta di città costruite attorno ai centri commerciali, in bilico tra le paludi e l'oceano, è riuscito quasi a colmare la nostalgia che continuo a provare rispetto ai momenti magici dei due eroi lansdaliani per eccellenza che smetto di citare giusto perchè altrimenti ogni post ad argomento letterario finisce per diventare un tributo a loro.
Certo, la risoluzione della trama è alquanto prevedibile, e non ci sono mai veri e propri colpi di scena, lo stile è più acerbo di quello mostrato in Notte di sangue a Coyote Crossing - giustamente, essendo quella la sua ultima fatica, fumetti esclusi -, molti personaggi tagliati con l'accetta e clamorosamente stereotipati, eppure tutto funziona, anche quando non sono presenti all'appello lampi di genio di quelli cui potrebbero abituarci un Winslow o un Nesbo.
La prosa di Gischler è tutta lì, nuda e cruda, pane e salame, così come la vicenda e la lotta per la sopravvivenza di Charlie Swift, un "buon selvaggio" che pare il ritratto sputato dei criminali tutti d'un pezzo del Cinema figlio del noir più classico, esplosivo eppure tenero, letale eppure protettivo, glaciale eppure ribollente rabbia e passione.
Un tipo che sarebbe potuto piacere a Mickey Spillane e al suo Mike Hammer, che si arrangia come può e con quello che ha, perchè sa bene quali sono i suoi pregi e limiti, e chissà che un giorno non possa smettere per dedicarsi a viaggi che fino a quel momento, tra sangue, proiettili e loschi affari, ha potuto soltanto sognare grazie alla collezione di National Geographic lasciata in eredità da suo padre.
Quello che dovrà fare il vecchio Charlie è stare in campana.
Perchè quando il sogno suonerà alla porta, non potrà fare altro che aprire, o rischiare di restare chiuso per sempre in una gabbia.
La gabbia delle scimmie.
Lo stesso posto in cui è cresciuto.
Lo stesso posto in cui è diventato uomo.
Lo stesso posto che gli ha insegnato ad uccidere.
E forse, dalla morte, gli insegnerà anche a vivere.


MrFord


"You wired me awake
and hit me with a hand of broken nails
you tied my lead and pulled my chain
to watch my blood begin to boil
but I'm gonna break
I'm gonna break my
I'm gonna break my rusty cage and run."
Soundgarden - "Rusty cage" - 

martedì 28 febbraio 2012

War horse

Regia: Steven Spielberg
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 146'



La trama (con parole mie): Ted Narracott, ruvido ex soldato e contadino del Devon, abbagliato dalla bellezza e dal carattere di un puledro acquista l'animale spendendo tutti i suoi risparmi in barba al padrone dei suoi terreni Lyons, da sempre in rivalità con lui.
Il figlio di Ted, Albert, stringe con Joey - questo il nome che viene dato al quadrupede - un'amicizia da subito fortissima, tanto da rimanere profondamente scosso quando, a causa di un raccolto andato male e dell'inizio della guerra, suo padre è costretto a vendere il cavallo ad un capitano dell'esercito inglese.
Albert, ancora troppo giovane per arruolarsi, promette al suo inseparabile nuovo amico che un giorno o l'altro si ritroveranno: dovranno però entrambi attendere la fine del conflitto e vivere drammi e difficoltà prima che la vita possa riunirli.




Ci ho provato. Ci ho provato davvero.
Avrei voluto essere travolto dalla bellezza delle immagini, dalla qualità - indiscutibile - delle riprese, dai carrelli e dalla fotografia, dall'emozione in pieno stile Academy, da quella che dovrebbe essere la magia dei vecchi tempi, dalle parti degli anni ottanta del "telefono, casa" e di Rossella O'Hara.
Avrei davvero voluto difendere questo film a spada tratta contro il mio antagonista Cannibale, e tirarci fuori una bella Blog War extra per il nostro percorso di rivali.
Ma non ce l'ho fatta.
War horse è andato davvero oltre anche per me, con il mio amore per i Classici ed il Cinema americano old school.
War horse è così tanto, così troppo, da far sembrare Salvate il soldato Ryan una sorta di inno antiretorico.
La vicenda di Joey il cavallo virtuoso, uscita dritta da una favola che va ben oltre la concezione tipica del made in Usa "larger than life" e che vorrebbe essere un omaggio sentito ed emozionante ai tempi di Via col vento e Com'era verde la mia valle coglie lo spirito dei suddetti Capolavori nel modo più sbagliato possibile, premendo così tanto sull'acceleratore della lacrima facile da diventare ridondante e, a tratti, involontariamente ridicolo - l'intera sequenza del nonno con la nipote, o il ricongiungimento di Albert e Joey, entrambi feriti, sul finire della guerra, sono roba da rimanere a bocca aperta per lo stupore, prima di scatenare una tempesta di bottigliate sulla testa di Spielberg - rendendo così inutili le presenze di attori validi come Peter Mullan e Niels Arestrup - entrambi più che sprecati - e le acrobazie con la macchina da presa del vecchio Steven, che tecnicamente resta un regista da ammirare ed amare, nonchè da studiare da parte di chiunque voglia iniziare un percorso nel mondo della settima arte, ma sicuramente - come, visto che si parla di due tra i candidati al miglior film selezionati quest'anno dall'Academy, è stato per Scorsese - perduto dietro un compiacimento ed un'autoreferenzialità totalmente imbarazzanti, in grado di affossare anche l'intensità delle sequenze più riuscite.
Davvero un peccato, perchè a prescindere dalla materia piacerebbe sempre vedere un cineasta di questo calibro alle prese con script degni di nota in grado di esaltarne la tecnica, e anche perchè, a ben guardare, War Horse non è un film brutto nel senso più ampio ed universale del termine.
Molti lo ameranno, e da un certo punto di vista posso anche capire il perchè.
Il fatto è che questo non è il vero Spielberg, quello che ha fatto sognare una generazione - e più - di ragazzini facendo loro credere alle meraviglie del Cinema.
Il fatto è che War horse non è un omaggio ai Grandi Classici, perchè risulta già inesorabilmente più vecchio dei titoli cui vorrebbe essere associato - in questo senso, andatevi a rivedere Sentieri selvaggi di John Ford, che con i cavalli non c'entrerà nulla, ma mostra molte più palle di quante questa polpetta buonista di Spielberg si può solo sognare, o Un uomo tranquillo, che pur nell'atmosfera quasi bucolica di una commedia agreste inserisce un tema di fondo drammatico mai invasivo o sfruttato nel suo eccesso -.
Il fatto è che non è necessario, in un passaggio idealmente potentissimo, fotografato, girato e montato da leccarsi i baffi come quello dei due soldati che abbandonano le rispettive trincee per liberare Joey dal filo spinato dover a tutti i costi esagerare - dai dialoghi imbarazzanti alle tronchesi lanciate a pioggia dai commilitoni rimasti ai loro posti, passando dall'immagine del cavallo non imprigionato dal filo spinato stesso, quanto praticamente infagottato come un culatello - quasi andando a minacciare il pubblico in sala di versare una lacrima per il povero cavallino ferito, pena una nuova visione dell'intera pellicola, questa volta in 3D.
Il fatto è che non è necessario essere a tutti i costi, sempre e comunque larger than life per essere larger than life.
Lo sapeva bene un altro grande genio dei tempi d'oro del Cinema americano.
Un tizio scomodo, che fu malvisto dall'Academy, dalla critica e spesso anche dal pubblico.
Un regista che era grosso di fama - pur se non sempre positiva - e di fatto.
Un signore che si chiamava Orson Welles.
Forse, prima di pensare a Maestri che non potrà in nessun modo eguagliare - John Ford su tutti - il buon Spielberg dovrà cominciare a pensare - o tornare a farlo - che l'illusione e la meraviglia non dipendono dai mezzi messi in campo per realizzarle.
O dalle statuette vinte.
Un pò come il suo cavallo che salta oltre il tank.
Vecchio volpone d'uno Steven, come puoi pensare che io possa credere ad una cosa in cui non credi più neanche tu?


MrFord


"Walk on, walk on
what you got they can't steal it
no they can't even feel it
walk on, walk on...
Stay safe tonight."
U2 - "Walk on" -

 

lunedì 27 febbraio 2012

Academy Awards: i risultati

La trama (con parole mie): e così anche per quest'anno è andata. Le statuette sono state sollevate, i verdetti pronunciati, i grossi nomi dello stardom hollywoodiano hanno potuto calpestare felicemente il red carpet. Tutto come da copione.
Anche i risultati, a ben vedere.
Rispetto alla scorsa edizione non posso lamentarmi, considerato che molti dei miei preferiti tra i nominati hanno portato a casa l'ambitissimo Oscar, eppure un senso di incompiutezza resta.
Sarà colpa dell'assenza di pellicole come Drive o Take shelter!?
Può essere.
Non mi resta comunque che fare buon viso a cattivo gioco e commentare - più o meno - i risultati.


MIGLIOR FILM

The Artist

Non posso che essere contento della vittoria di The artist, un'opera in grado di unire l'amore per il Cinema, un ottima tecnica e tutta l'emozione possibile.
Per una volta, applausi all'Academy.

MIGLIOR REGIA
 
 
Michel Hazanavicius – The Artist
 

Anche qui, nulla da dire. In ogni caso, sarei stato comunque soddisfatto, tranne per il piuttosto bollito Scorsese.

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA


Jean Dujardin – The Artist

Una delle statuette che ho apprezzato di più.
Bravissimo Dujardin, il mio personale favorito della cinquina.

 
 
MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA

Meryl Streep – Iron Lady

Forse la statuetta che ha più solleticato le mie turbinanti bottiglie.
Per me, in questo caso, l'Oscar aveva un nome e un cognome.
Rooney Mara.

"Mi alleno per benino, così posso prendere a cazzotti in faccia la mia nemesi. No, non il Cannibale. Meryl Streep."
 
MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA
 
Christopher Plummer – Beginners

Statuetta telefonatissima. Mi spiace davvero per Jonah Hill.
  
MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA
 
Octavia Spencer – The Help

Avrei davvero visto bene la Bejo, ma in fondo Octavia Spencer, in onore dell'ottimo cast di The help, ci sta tutta.

 
MIGLIOR FILM STRANIERO

Altro Oscar più che annunciato, ma non posso che esserne contento. Uno dei film migliori degli ultimi mesi, anche a scapito del mio favorito Rundskop

MIGLIOR FILM D'ANIMAZIONE
 

Grande soddisfazione. Il discreto Rango ci evita cose pessime come Il gatto con gli stivali. Bene così.
 
MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE
 
Woody Allen - Midnight In Paris

Avrei voluto vedere premiato Chandor per il suo ottimo Margin Call, ma anche in questo caso, il vecchio e ritrovato Woody è solo che ben accetto.
 
SCENEGGIATURA NON ORIGINALE
 
Alexander Payne, Nat Faxon, Jim Rash - Paradiso amaro

Paradiso amaro niente male, ma sinceramente avrei optato per Le idi di marzo o Moneyball.
Voglio però vedere il bicchiere mezzo pieno, e quindi mi accontento che non abbia vinto Hugo Capretto.
 
MIGLIOR COLONNA SONORA
 
Ludovic Bource - The Artist

MIGLIOR CANZONE

Bret McKenzie ("Man or Muppet") - I Muppet

MIGLIOR FOTOGRAFIA 
 
Robert Richardson - Hugo Cabret
 
MIGLIOR MONTAGGIO
 
Angus Wall, Kirk Baxter - Millennium - Uomini che odiano le donne

MIGLIOR SCENOGRAFIA

 
Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo - Hugo Cabret

MIGLIORI COSTUMI

 
Mark Bridges - The Artist

MIGLIOR TRUCCO

 
Mark Coulier - The Iron Lady

MIGLIOR SONORO

 
Philip Stockton e Eugene Gearty - Hugo Cabret


MIGLIOR MISSAGGIO DEL SUONO

 
Tom Fleishman e John Midgley Hugo Cabret


MIGLIORI EFFETTI SPECIALI

 
Rob Legato, Joss Williams, Ben Grossmann e Alex Henning - Hugo Cabret

MIGLIOR DOCUMENTARIO

 
Undefeated di TJ Martin, Dan Lindsay e Richard Middlemas


MIGLIOR DOCUMENTARIO CORTOMETRAGGIO

 
Saving Face

MIGLIOR CORTO ANIMATO

 
The Fantastic Flying Books of Mr. Morris Lessmore (2011): William Joyce, Brandon Oldenburg

MIGLIOR CORTO

 
The Shore: Terry George
Tuba Atlantic (2010): Hallvar Witzø


I premi sono stati, in qualche modo, lo specchio dell'anima: a The artist il cuore, a Hugo Cabret la testa. Una giusta metafora di quello che sono stati i due film più discussi, amati e criticati dell'ultimo periodo, uno sguardo al passato del Cinema ma anche una via verso il suo futuro.
Drive, come prevedibile, non ha portato a casa neanche l'unica insulsa statuetta per la quale era stato nominato, così come Malick, che ancora una volta torna a casa a mani vuote dal Kodak: mi prefiggo, però, di escogitare comunque il modo per costringere il Cannibale a vedere un Van Damme qualsiasi.

MrFord

"Ridi ridi, che tanto Rooney Mara ti sta aspettando dietro il tendone!"
 

In time

Regia: Andrew Niccol
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 109'



La trama (con parole mie):  siamo in un imprecisato futuro in cui le esistenze di tutti si fermano a venticinque anni, quando un timer che segnala il conto alla rovescia fino al momento della morte parte con un anno di bonus. Da quel momento, il tempo diviene la moneta di scambio per poter sopravvivere nei ghetti delle città controllate da un'elite ricchissima che arriva a portare sul groppone centinaia - a volte migliaia - di anni.
A fare da arbitri nella contesa bande di criminali a caccia di tempo ed un corpo di polizia con il compito di preservare lo status quo della società.
Quando Will Salas, giovane potenzialmente ribelle, incontra un ricco centenario che gli dona il suo tempo prima di morire, ha inizio una vera e propria rivoluzione destinata a sconvolgere il mondo.



Andrew Niccol è un regista in grado di stupire, in un senso o nell'altro.
Nel corso della sua carriera è riuscito - come un suo collega che spesso e volentieri finisco per accostargli, Richard Kelly - a lasciare a bocca aperta i suoi spettatori grazie a trovate potenzialmente geniali così come a scatenare le ire più funeste con altre decisamente pessime.
In time, in qualche modo, è una sintesi perfetta di questi due aspetti del suo lavoro.
Basato su un'idea di fondo decisamente interessante e chiara metafora del mondo in cui viviamo ora - una società in cui la moneta di scambio sia il tempo dominata da pochi potentissimi ricchi da far schifo che potranno vivere millenni sfruttando l'economia per portare alla morte i poveracci succhiando loro fino all'ultimo istante - e partito discretamente, il film finisce per avvitarsi su se stesso cedendo alla tentazione della sua componente più tamarra divenendo una sorta di versione "rapfuturistica" di Bonny e Clyde, finendo per perdere di vista quello che poteva essere lo spunto in grado di fare la differenza in uno script come questo.
Incrociando un gusto per il kitsch molto eighties - come sottolineato da Julez, che ha apprezzato questo lato dell'opera di Niccol -, effetti onestamente bruttini ed un incedere che mi ha riportato alla mente I guardiani del destino in una versione più action, posso dire che In time rappresenta certo una visione innocua e assolutamente inoffensiva, ma da una sceneggiatura almeno sulla carta molto ambiziosa ci si poteva aspettare certamente un impatto maggiore.
Un pò come per il cast, che scopre il suo punto debole proprio con i suoi protagonisti: per la prima volta Justin Timberlake - che ho sempre difeso come attore molto più che come performer - mi è parso fuori ruolo e decisamente monocorde, così come la sua partner Amanda Seyfried - che imparruccata ed impacchettata in versione bladerunneriana decisamente perde molto del suo fascino -.
A tenere in piedi la baracca in questo senso pensano Cillian Murphy - il suo personaggio, il poliziotto Leon, certo rappresenta il più riuscito dell'intero lavoro - e Vincent Kartheiser, che già si era fatto notare nel ruolo di Pete Campbell, uno dei volti più importanti del riuscitissimo Mad men.
Ma il fatto che i bad guys siano il motore del crescendo dell'azione non aiuta la pellicola, che ad alcune idee decisamente interessanti - la società costituita da giovani che non lo sono, i prestiti ed i tassi in continua ascesa,  le zone temporali, il tempo regalato - alterna momenti decisamente al limite del trash - la morte della madre di Will, la facilità con la quale lo stesso protagonista trova la strada spianata ad ogni impresa, anche la più improbabile -, e a poco servono l'appeal da bastardo naturale del succitato Kartheiser o l'aspetto da duro e lupo solitario di Murphy, che sfrutta al meglio il ruolo di effettivo guardiano del suo personaggio: l'inesorabile discesa nel già visto con la storia d'amore a correre in parallelo alla carriera di Robin Hood del tempo della coppia da copertina trasforma un potenziale piccolo cult in una visione assolutamente non memorabile, innocua produzione da multisala nel weekend dalla grana grossa giusta per accontentare qualsiasi tipo di pubblico e ad un tempo attraversata da quella vena di piccola autorialità che permetterà anche ad alcuni di considerare il lavoro di Niccol come un film assolutamente da vedere.
Ora, non sarà male come lo dipingo, e sicuramente è molto meglio investire due ore scarse per un intrattenimento di questo genere che perdersi dietro ad esperimenti autoriali spocchiosi e malriusciti, ma decisamente ci si sarebbe potuti aspettare di più da un regista che, nel pieno degli anni novanta, era considerato uno dei talenti emergenti pronti a raccogliere il testimone del Ridley Scott migliore.
Evidentemente il tempo, con Niccol, non è stato così clemente.


MrFord


"If you're lost you can look and you will find me
time after time
if you fall I will catch you I will be waiting
time after time."
Cyndi Lauper - "Time after time" -


 

domenica 26 febbraio 2012

Academy Awards: Fordpredictions

La trama (con parole mie): come tutti voi saprete, questa notte al Kodak Theatre si terrà la cerimonia per l'assegnazione degli ottantaquattresimi Academy Awards.
Come ogni anno le delusioni sono state parecchie, soprattutto per tutti noi che abbiamo amato alla follia Drive come fu all'ultima edizione per Inception, ma come ogni anno eccoci qui, pronti a parlare - e sparlare - di uno degli eventi più chiacchierati del Cinema di ogni stagione.
Ho scelto di dare un'occhiata alle dieci categorie principali, pronosticare quello che credo sarà il vincitore ufficiale, dare la mia scelta personale ed inserire un piccolo commento.


 MIGLIOR FILM





- The artist di Michel Hazanavicius (scelta dell'Academy)
- Paradiso amaro di Alexander Payne
- Molto forte, incredibilmente vicino di Stephen Dauldry
- The help di Tate Taylor
- Hugo Cabret di Martin Scorsese
- Midnight in Paris di Woody Allen
- The tree of life di Terrence Malick
- War horse di Steven Spielberg
- Moneyball di Bennett Miller (scelta di Ford)

Personalmente mi farebbe solo che piacere vedere premiato The artist, che a dire il vero è anche la mia prima scelta, ma giusto per andare un pò contro l'Academy, tiferò gli outsiders allenati da Brad Pitt, da buon Goonie che non sono altro.
E in un angolino del mio cuore, quasi quasi tifo anche per Malick, dato che la sua vittoria costerebbe al Cannibale la visione di un Van Damme qualsiasi.


MIGLIORE ATTORE PROTAGONISTA


- George Clooney per Paradiso amaro (scelta dell'Academy)
- Demian Bichir per A better life
- Gary Oldman per La talpa
- Brad Pitt per Moneyball
- Jean Dujardin per The artist (scelta di Ford)

L'Academy si sdebiterà con Clooney per non aver inserito tra i nominati il suo ottimo Le idi di marzo premiandolo come migliore attore, anche se sarà un peccato dato che Dujardin ha fatto un lavoro straordinario per reinventarsi interprete del muto.



MIGLIORE ATTRICE PROTAGONISTA

 
- Meryl Streep per The iron lady (scelta dell'Academy)
- Glenn Close per Albert Nobbs
- Viola Davis per The help
- Michelle Williams per My week with Marilyn
- Rooney Mara per Millennium - Uomini che odiano le donne (scelta di Ford)


Oscar telefonatissimo alla Streep, che sinceramente ha stracciato un pò i maroni.
Io premierei a occhi chiusi la sorprendente Rooney Mara, che ha dato un volto nuovo, fragile eppure violentissimo, alla memorabile Lisbeth Salander.

MIGLIORE ATTORE NON PROTAGONISTA


- Christopher Plummer per Beginners (scelta dell'Academy)
- Kenneth Branagh per My week with Marilyn
- Nick Nolte per Warrior
- Max Von Sydow per Molto forte, incredibilmente vicino
- Jonah Hill per Moneyball (scelta di Ford)

Massimo rispetto per un'icona come Plummer, ma io farei largo ai giovani e premierei l'outsider Jonah Hill, già idolo di casa Ford dai tempi di SuXbad.


MIGLIORE ATTRICE NON PROTAGONISTA


- Octavia Spencer per The help (scelta dell'Academy)
- Jessica Chastain per The help
- Melissa McCarthy per Le amiche della sposa
- Janet McTeer per Albert Nobbs
- Berenice Bejo per The artist (scelta di Ford)

Stupefacente Octavia Spencer, simbolo del miglior cast di questa edizione degli Academy Awards, ma anche in questo caso vale il discorso fatto per Dujardin.
Il lavoro sul muto della Bejo è stato da manuale.


MIGLIOR REGIA


- Martin Scorsese per Hugo Cabret (scelta dell'Academy)
- Woody Allen per Midnight in Paris
- Terrence Malick per The tree of life
- Alexander Payne per Paradiso amaro
- Michel Hazanavicius per The artist (scelta di Ford)

Inutile dire che, tra i due film che omaggiano la magia del Cinema che fu, la mia preferenza va tutta al magnifico lavoro di Hazanavicius, che surclassa quello del vecchio Marty e si impone come mattatore della nottata al Kodak Theatre.


MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE


- Michel Hazanavicius per The artist (scelta dell'Academy)
- Kirsten Wiig e Annie Mumolo per Le amiche della sposa
- Woody Allen per Midnight in Paris
- Asghar Fahradi per Una separazione
- J. C. Chandor per Margin Call (scelta di Ford)

Una delle selezioni migliori dell'Academy di quest'anno, per un premio che, nonostante il magnifico Una separazione, va allo straordinario esordio di J. C. Chandor, ancora colpevolmente ignorato dalla distribuzione italiana.


MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE


- John Logan per Hugo Cabret (scelta dell'Academy)
- Alexander Payne, Nat Faxon e Jim Rash per Paradiso amaro
- Steven Zaillian, Aaron Sorkin e Stan Chervin per Moneyball
- Bridget O'Connor e Peter Straughan per La talpa
- George Clooney, Grant Heslov e Beau Willimon per Le idi di marzo (scelta di Ford)

Uno dei grandi esclusi alla lista dei nominati come miglior film merita, nonostante il lavoro migliore di questa cinquina sia quello di Zaillian e soci, un riconoscimento, così a Mr. Nespresso and friends va l mia personale statuetta, in barba alla favoletta di Logan e Scorsese.


MIGLIOR FILM D'ANIMAZIONE


- Chris Miller per Il gatto con gli stivali (scelta dell'Academy)
- Alain Gagnol e Jean Loup Felicioli per Une vie de chat
- Jennifer Yuh per Kung fu panda 2
- Fernando Trueba e Javier Mariscal per Chico&Rita
- Gore Verbinski per Rango (scelta di Ford)

Un anno non particolarmente florido per l'animazione, condito da esclusioni a dir poco eccellenti come quella del meraviglioso Arrietty firmato dallo Studio Ghibli, che corre dritto verso una scelta scellerata tutta giocata sul dio denaro.
Io, di contro, premio l'ottimo Rango, una delle cose migliori degli ultimi mesi. Tiè, Dreamworks!



MIGLIOR FILM IN LINGUA STRANIERA


- Asghar Fahradi per Una separazione (scelta dell'Academy)
- Joseph Cedar per Hearat Shulayim
- Agnieszka Holland per In darkness
- Philippe Falardeau per Monsieur Lazhar
- Michael R. Roskam per Rundskop (scelta di Ford)

Nulla da eccepire sulla già annunciata vittoria dello splendido Una separazione.
Giusto per spirito di contraddizione rispetto all'Academy, comunque, tiferò il sorprendente Rundskop, una delle cose più interessanti che la vecchia Europa abbia sfoderato negli ultimi mesi.


Questo è solo un anticipo, in fondo mancano tutti gli Oscar tecnici e quelli "minori".
Ma ci sarà tempo di approfondire a cerimonia conclusa.
Voi, nel frattempo, da che parte state?
A quali titoli, registi o attori verranno assegnate le vostre statuette?

MrFord

Cold Case - Stagione 6

Produzione: CBS
Origine: Usa
Anno: 2009
Episodi: 23



La trama (con parole mie): siamo di nuovo alla omicidi di Philadelphia, in compagnia della squadra che si occupa dei casi irrisolti avvenuti nella "città dell'amore fraterno" dagli anni sessanta ad oggi.
A fare da parallelo alla consueta struttura da "un caso a puntata" nel corso di questa penultima stagione gli autori si sbilanciano cercando di indagare più approfonditamente sui protagonisti, dalla relazione di Scotty con la giovane esperta della scientifica Frankie alla ricerca di una nuova casa di Nick Vera, passando attraverso il tentato omicidio di Will Jeffries e la riscoperta del rapporto con il padre di Lily Rush.
Un tentativo non sempre riuscito per dare una scossa ad una serie ormai stanca.





Come ormai tutti i frequentatori abituali del saloon ben sanno, in casa Ford le serie con i morti ammazzati di mezzo - eccetto la fighetta e da noi cordialmente detestata C.S.I. in tutte le sue incarnazioni - trovano sempre terreno fertile, mettendo d'accordo il mio gusto maggiormente legato ai prodotti più realistici - I Soprano, The shield, Californication, Breaking bad, Sons of anarchy - e quello di Julez, che è di norma più attratta da titoli in grado, al contrario, di far evadere dalla quotidianità il più possibile.
Insieme a Criminal minds, Cold case è stata una delle prime serie che abbiamo iniziato a seguire consci del fatto che avrebbe trovato il compromesso giusto tra i nostri differenti approcci, divenendo di fatto una delle mascotte di casa Ford e facendo la sua regolare comparsata nei periodi di stacco da altri titoli più "forti", intrattenendoci come si conviene in attesa dei serial più attesi - in questo caso, delle seconde annate del già citato Breaking bad e del magnifico Friday night lights, prossimamente su questi schermi -: con questa sesta stagione, però, comincia a divenire evidente la stanchezza della formula e degli autori, nonostante alcuni tentativi di dare profondità e spessore ai protagonisti inserendo elementi prima sostanzialmente ignorati a proposito delle loro vite private, e, pur mancando per il momento all'appello la settima e conclusiva annata la chiusura della serie pare più che giusta.
Gli episodi - così come le colonne sonore degli stessi, piatto forte della serie soprattutto nei suoi primi anni - cominciano a diventare prevedibili e poco interessanti a meno che il coinvolgimento dei membri della squadra non divenga personale, riportando in quel caso la qualità del prodotto agli standard più alti del passato: in particolare, la puntata dedicata al tentato omicidio di Jeffries e la doppia in chiusura di stagione in cui si apre uno squarcio sul passato di Lily sono risultate le più efficaci, nonchè le uniche - o quasi - ad allontanarsi dalla consueta struttura da fumetto seriale in cui i protagonisti sono sempre uguali a se stessi e tutto quello che accade inizia e finisce nei quaranta minuti canonici senza alcuna ripercussione sul resto della storia.
D'altra parte alcune potenziali sottotrame interessanti vengono accantonate in maniera decisamente frettolosa o - peggio - ingiustificata, come la storia di Rush con l'agente della narcotici Saccardo - interpretato da Bobby Cannavale e sparito come nulla fosse da un episodio all'altro - o quella di Scotty con la giovane Frankie, portata avanti praticamente come riempitivo nei momenti di stanca di questa o quella puntata.
Certo, il risultato è comunque piacevole, il prodotto è confezionato discretamente e si lascia guardare senza fatica, ma forse, considerato l'avvicinarsi della fine del suo percorso televisivo, sarebbe stato più giusto nei confronti di un titolo comunque nel suo genere importante che gli autori si fossero impegnati maggiormente per regalare al pubblico un crescendo da cardiopalma, in modo da lasciare un ricordo davvero importante.
Staremo a vedere, dunque, con l'ultima stagione: intanto cresce un certo rimpianto per un titolo adagiatosi neanche fosse la metà stanca di una vecchia coppia.


MrFord


"You've got time, you've got time to escape
there's still time, it's no crime to escape
it's no crime to escape, it's no crime to escape
there's still time, so escape
it's no crime, crime."
Pearl Jam - "All thos yesterdays" -


 

sabato 25 febbraio 2012

Blood brothers

Regia: Alexi Tan
Origine: Cina, Taiwan
Anno: 2007
Durata: 95'


La trama (con parole mie): Feng, Gang e Hu sono tre inseparabili compagni originari di un piccolo villaggio nella campagna cinese. Spinti dall'entusiasmo e dall'ambizione di Gang, decidono di trasferirsi nella sfarzosa Shanghai degli anni trenta per tentare fortuna: quando entrano nel giro di un boss che gestisce un locale principesco, le loro strade cominciano a dividersi.
Mentre Feng stringe amicizia con la splendida moglie del boss, Lulu, e con il killer - nonchè segreto compagno della donna - Mark, Hu non riesce ad integrarsi nella sua nuova realtà di gangster, al contrario di Gang, che scala ben presto le gerarchie della banda.
Quando il boss scoprirà il legame tra Lulu e Mark, le strade dei vecchi amici si separeranno, e resterà soltanto il tempo di un bagno di sangue.





I gangster movies sono da sempre un quasi sinonimo di cult, in casa Ford: ricordo quando, ai tempi, passavo le ore a discutere con mio fratello se fosse meglio l'eleganza di C'era una volta in America o la cruda realtà di Casinò o Quei bravi ragazzi, e passavo dai Classici con James Cagney al "che te lo dico a fare?" di Donnie Brasco.
In questa sorta di particolare formazione di genere, l'Oriente ha avuto un ruolo certamente importante, con i capisaldi del suo melò action targati John Woo o le magistrali sequenze di Jonnie To: proprio al primo fa capo Alexi Tan, allievo del Maestro del Cinema made in Hong Kong che tentò la ribalta qualche anno fa con questo omaggio ad uno dei Capolavori dello stesso Woo, il meraviglioso Bullet in the head, trasportando una vicenda molto simile nella Cina degli anni trenta che tanto ricorda - almeno qui nella Terra dei cachi - l'ambientazione ormai mitologica della pellicola simbolo di Sergio Leone.
La storia di Feng, Gang e Hu è perfettamente inseribile nel filone dell'amicizia virile destinata alla tragedia che è alla base di gran parte dei titoli di questo genere, nonchè assolutamente elegante nella sua esecuzione tecnica, nella fotografia e nella colonna sonora, splendidamente romantica come è giusto che siano queste pellicole che paiono vere e proprie coreografie di danza nel sangue: peccato che, a dispetto di un comparto tecnico notevole - e di un'ispirazione chiara ai grandi nomi che ho citato poco sopra - la sceneggiatura non si riveli neppure lontanamente all'altezza delle ambizioni del regista, tanto da suscitare nel sottoscritto un dubbio enorme rispetto alla fase di post produzione.
Quello che pare, infatti, rispetto ad alcuni veri e propri salti temporali e logici nello script, è che l'opera, probabilmente troppo lunga, sia stata pesantemente potata in modo da essere presentata nelle sale senza rischiare che gli spettatori non avvezzi potessero pensare di trovarsi proiettati all'interno di un interminabile odissea - un pò quello che succede se non si è preparati al già citatissimo C'era una volta in America - chiedendo a gran voce la testa di regista e produttori - cosa, peraltro, accaduta anche negli States al Sergione nostro -.
Se così non fosse, ci troveremmo di fronte ad un gioiellino di tecnica irrimediabilmente rovinato da una fase di scrittura scellerata non tanto per le scelte, quanto per una mancanza di unità talmente palese da lasciare interdetti anche i più disattenti e disinteressati elementi dell'audience: qualunque sia la risposta, parte della responsabilità è certo imputabile anche allo stesso John Woo, qui in veste di produttore, perso forse troppo a pensare a quanto ingigantisce l'ego il fatto che un giovane regista possa scegliere di esordire praticamente venerando una delle tue opere migliori.
Resta, dunque, una grande scatola tutto sommato vuota in grado di regalare momenti davvero efficaci a livello realizzativo - il carrello laterale sul massacro finale è da brividi, così come le due sequenze ambientate al villaggio d'origine dei protagonisti, il ballo iniziale e la decisione dei tre di muoversi a Shanghai, ripresa anche come chiusura del climax conclusivo - ma clamorosamente carente a livello di scrittura, un esempio evidente di quanto importante sia avere nella partita un grande sceneggiatore e sfruttarlo davvero.
Volendo osare, si potrebbe pensare che rinunciare a questo aspetto è un pò come decidere di accantonare Sergio Leone per accontentarsi di Muccino.
Decidete voi se ne vale la pena.
   


MrFord


"There are times when I feel I'm afraid for the world
there are times I'm ashamed of us all
when you're floating on all the emotion you feel
and reflecting the good and the bad."
Iron Maiden - "Blood brothers" -

venerdì 24 febbraio 2012

La stangata

Regia: George Roy Hill
Origine: Usa
Anno: 1973
Durata: 129'



La trama (con parole mie): siamo nella Chicago degli anni trenta provata dalla Grande Depressione e avvolta da tutto il fascino dei gangsters e delle sale da gioco. Nei vicoli della città si muove il piccolo truffatore Johnny Hooker, che il vecchio Luther spinge tra le braccia di Henry Gondorff, giocatore eccezionale nonchè potenziale maestro per il giovane.
Quando a causa di un raggiro alla persona sbagliata Johnny e Luther finiscono per pestare i piedi al boss Doyle Lonnegan ed il secondo perde la vita, Hooker si rivolge a Gondorff per vendicarsi, dando inizio ad un progetto di "stangata" che, almeno sulla carta, dovrebbe mettere in ginocchio lo spietato Lonnegan.
La realizzazione della stessa, però, sarà tutt'altro che semplice.




Nel pieno della settimana che condurrà agli Academy Awards approfitto per un tuffo nel passato con un Classico che, ai tempi, sbancò il botteghino e, ancora prima, il teatro durante la famigerata Notte degli Oscar divenendo da subito un riferimento per tutti gli appassionati di Cinema e non solo, facendo la storia di un genere che unisce la settima arte al gioco.
In un'epoca in cui i casinò non erano ancora visitabili online e tutto si consumava sulla strada, spesso e volentieri tra lacrime e sangue, si muovono due dei più grandi divi che il Cinema a stelle e strisce abbia regalato al suo pubblico: Paul Newman e Robert Redford, di nuovo accanto a George Roy Hill dopo i fasti dell'indimenticabile Butch Cassidy, sfoderano il loro meglio per quello che è un vero e proprio omaggio al Cinema dell'epoca dei grandi studios e all'azzardo come filosofia guascona di vita, strumento per una volta non visto in accezione negativa ma addirittura sfruttato come strumento di vendetta rispetto allo spietato boss Lonnegan, rappresentato come un personaggio in bilico tra la caricatura e il ritratto di quelli che furono i criminali di tutto il filone noir sviluppato alla grande proprio negli States dagli anni trenta ai cinquanta, ed omaggiato in tutte le salse ancora oggi.
Proprio accanto allo spietato Lonnegan - un ottimo Robert Shaw - si consumano i momenti migliori dei due protagonisti, truffatori da manuale affascinanti e dalla risposta pronta: tutta la sequenza del viaggio in treno con il confronto a poker tra Newman e Shaw resta una pagina da antologia, in perfetto equilibrio tra tensione, montaggio serratissimo, ironia - nonostante abbia ormai visto questo film allo sfinimento, rido sempre come la prima volta ad ogni storpiatura del cognome Lonnegan operata da Gondorff - ed una buona dose di thrilling.
La stessa pellicola, costruita come un'opera lirica e suddivisa in singole scene, nonostante l'evidente aura scanzonata non lesina momenti di dramma - la morte di Luther, il confronto finale con l'FBI ed il tenente Snyder - ed altri caratterizzati da un crescendo di tensione ad orologeria - Hooker ed il killer sulle sue tracce in particolare -, risultando per certi versi addirittura più completa del già ottimo - e da me preferito per questioni di ambientazione e mitologia personale - e citato poco sopra Butch Cassidy, che definì per primo la fortuna di questo terzetto da leggenda.
Newman e Redford si divertono portando in scena quelli che sono di fatto i loro protagonisti ideali, e se il primo, ai miei occhi, continuerà ad essere uno degli uomini più affascinanti ed uno degli attori più amati della storia del Cinema statunitense - dal vecchio Butch Cassidy, per l'appunto, al mitico Eddy Felsom -, il secondo si difende e, più che una spalla, va a rappresentare quello che l'allievo dovrebbe essere per il maestro, nonchè perfetta metà "action" della coppia, sempre pronto comunque a cedere il passo al compare "d'annata" quando si tratta di sfoderare il meglio al tavolo da gioco.
E se allora i tempi erano certo più naif - tanto da sfoderare, nell'adattamento italiano, i biliardini ad intendere quello che sarebbero state slot machine e affini - si intravedeva anche una maggiore capacità di affrontare una tematica che oggi sarebbe per certi versi scomoda come quella del gioco in tutte le sue accezioni, regalando all'audience due (anti)eroi spesso e volentieri inclini all'errore eppure mai davvero esempi di un'ottica borderline o negativa: questi giocatori indefessi e truffatori cool, decisamente più delle loro controparti moderne - Danny Ocean e soci su tutti -, sul tavolo verde come nella vita, sono alla ricerca dello stesso brivido che Butch Cassidy e Sundance Kid cercavano lungo la Frontiera.
O in Australia.
Ma questa è un'altra storia.
E se vorrete sentirla, vi toccherà venire al saloon e per giocare un'altra partita.


MrFord


"Cause' I'm a picker
I'm a grinner
I'm a lover
and I'm a sinner
I play my music in the sun
I'm a joker
I'm a smoker
I'm a midnight toker
I sure don't want to hurt no one."
Steve Miller Band - "The joker" -



  
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