Oggi è il mio compleanno.
Trentuno sono andati, a occhio e croce direi che ne mancano settantadue, se ho fatto bene i calcoli.
Per chi stasera sarà al mio tavolo, preparatevi a numerosi drinks.
Per chi non ci sarà, fatevi un brindisi come se ci foste. E come se ci fossi anch'io.
Direi che sono ufficialmente pronto ad assalire da vero Goonie pirata membro onorario del Cobra Kai un altro anno.
Cowabunga!
MrFord
"Now it's closing time, the music's fading out
last call for drinks, I'll have another stout,
I turn around and look at you, you're nowhere to be found,
I search the place for your lost face, I guess I'll have another round."
Tom Waits - "Hope that I don't fall in love with you" -
venerdì 29 ottobre 2010
giovedì 28 ottobre 2010
Gli spietati
Ci sono, nella mia personale carriera di spettatore, alcuni momenti dell'anno consacrati a film che sono parte di me, mi rappresentano, hanno segnato senza se e senza ma il mio percorso prima personale che cinematografico: il primo maggio è destinato a Hong Kong Express, il ventuno giugno a Il grande Lebowski, il ventinove ottobre - mio compleanno - a Gli spietati.
Con un giorno di anticipo, e per evitare a Julez l'ennesima visione di uno dei Capolavori di Clint e del Cinema americano contemporaneo, eccomi di nuovo qui, con ancora negli occhi le gesta di William Munny, noto ladro ed assassino, che la madre della giovane moglie non capisce come possa aver fatto innamorare la sua adorata figlia.
Gli spietati è tante cose: un western crepuscolare, il simbolo di una Frontiera - anche cinematografica - giunta al suo apice e al suo termine ultimo, un'ironico sguardo sulla vecchiaia, una riflessione sui peccati dell'uomo, un dramma amarissimo e terribile.
Ma, soprattutto, è William Munny: il fuorilegge che in gioventù ha assalito banche, treni e convogli uccidendo uomini, donne, bambini, nemici e compagni, maltrattando gli animali e bestemmiando Dio, o chi per Lui fosse presente, oppure no.
William Munny è Unforgiven, senza perdono.
Perchè il titolo originale è più evocativo e colmo di significati del corrispettivo italiano, legato nel profondo a tutto quello che ribolle nel cuore del suo protagonista.
William Munny marito fedele - anche alla moglie morta -, padre premuroso dei suoi figli, contadino.
William Munny che torna, spinto dal giovane Kid, a caccia di due uomini, cowboys spacconi - ma neppure troppo - colpevoli d'aver sfregiato una prostituta, portandosi dietro il vecchio amico Ned Logan.
William Munny che non è più da sella, e non beve e non uccide da undici anni.
William Munny che non ricorda di quella volta in cui uccise più uomini di quanti la sua leggenda - e chi ha lavorato al suo fianco - ricordi.
Ma non è il solo, ad essere senza perdono: attorno a lui c'è un mondo desolato, in cui nessuno pare destinato ad avere una possibilità di redenzione.
Lo squallido gestore di Greely's, che accetta cavalli in cambio della sua proprietà sfregiata, le prostitute mai sazie di vendetta, Bob l'inglese e le sue imprese ingigantite da un mito che - e si torna sempre a John Ford - è destinato a crollare di fronte alla realtà proprio perchè non esiste più quella mitica frontiera, i due cowboys prima carnefici ed infine vittime, il durissimo Little Bill - enorme Gene Hackman -, gran pistolero e scarso carpentiere, che aggiusta a suon di botte chi non rispetta le sue regole a Big Whiskey.
Ma tutto quello che posso, o potrei scrivere, di questo film dirompente ed immenso, si gioca nel dialogo fra Kid e Munny, sotto un albero isolato che pare fuggire dal nulla lasciato attorno dagli esseri umani:
"L'ho ucciso, gli ho piantato tre palle in corpo mentre lui stava cacando. Se penso che lui non camminerà più su questa terra, solo perchè ho premuto un grilletto!" - dice pressapoco Kid -
"E' una cosa grossa, uccidere un uomo. Gli togli tutto quello che ha, e anche quello che sperava di avere." - risponde William -
Uccidere un uomo è qualcosa di Unforgiven.
Senza perdono.
Anche perchè pare proprio che non sia solo la vittima, a perdere tutto ciò che ha, o che spera di avere, ma anche chi resta, a raccogliere i cocci della sua vita, una volta taciute le voci delle pistole ed iniziate quelle della coscienza.
Non tutti possono portare un fardello così grande - e Clint affronterà di nuovo il tema -, e se Kid rinuncia alla sua Skofield perchè "io non sono come te, William", Munny imbraccia bottiglia e fucile prima di tornare a regolare i suoi conti con Little Bill, perchè "non esistono meriti, in queste cose", e perchè tanto, prima o poi, si rivedranno all'inferno.
William Munny, che ha ucciso uomini, donne e bambini, "che è sempre stato fortunato, quando si trattava di ammazzare cristiani", che è come un ombra, sotto la pioggia, temuto dagli uomini fuggiti da Greely's, eppure osservato, nello scomparire fra bruma e fango, con un sorriso dalla donna che gli somiglia così tanto, con tutti quei segni sul volto.
William Munny se ne va, lasciando dietro di se una scia di sangue e una bottiglia vuota, forse a San Francisco - la città di Callaghan, guarda caso -, dove pare farà fortuna.
E la madre della sua amatissima, defunta moglie, continuerà a chiedersi come sia stato possibile, per la figlia, innamorarsi di un ladro ed un assassino.
Di un uomo senza perdono.
MrFord
"They dedicate their lives
to running all of his
he tries to please them all
this bitter man he is."
Metallica - "The unforgiven" -
Con un giorno di anticipo, e per evitare a Julez l'ennesima visione di uno dei Capolavori di Clint e del Cinema americano contemporaneo, eccomi di nuovo qui, con ancora negli occhi le gesta di William Munny, noto ladro ed assassino, che la madre della giovane moglie non capisce come possa aver fatto innamorare la sua adorata figlia.
Gli spietati è tante cose: un western crepuscolare, il simbolo di una Frontiera - anche cinematografica - giunta al suo apice e al suo termine ultimo, un'ironico sguardo sulla vecchiaia, una riflessione sui peccati dell'uomo, un dramma amarissimo e terribile.
Ma, soprattutto, è William Munny: il fuorilegge che in gioventù ha assalito banche, treni e convogli uccidendo uomini, donne, bambini, nemici e compagni, maltrattando gli animali e bestemmiando Dio, o chi per Lui fosse presente, oppure no.
William Munny è Unforgiven, senza perdono.
Perchè il titolo originale è più evocativo e colmo di significati del corrispettivo italiano, legato nel profondo a tutto quello che ribolle nel cuore del suo protagonista.
William Munny marito fedele - anche alla moglie morta -, padre premuroso dei suoi figli, contadino.
William Munny che torna, spinto dal giovane Kid, a caccia di due uomini, cowboys spacconi - ma neppure troppo - colpevoli d'aver sfregiato una prostituta, portandosi dietro il vecchio amico Ned Logan.
William Munny che non è più da sella, e non beve e non uccide da undici anni.
William Munny che non ricorda di quella volta in cui uccise più uomini di quanti la sua leggenda - e chi ha lavorato al suo fianco - ricordi.
Ma non è il solo, ad essere senza perdono: attorno a lui c'è un mondo desolato, in cui nessuno pare destinato ad avere una possibilità di redenzione.
Lo squallido gestore di Greely's, che accetta cavalli in cambio della sua proprietà sfregiata, le prostitute mai sazie di vendetta, Bob l'inglese e le sue imprese ingigantite da un mito che - e si torna sempre a John Ford - è destinato a crollare di fronte alla realtà proprio perchè non esiste più quella mitica frontiera, i due cowboys prima carnefici ed infine vittime, il durissimo Little Bill - enorme Gene Hackman -, gran pistolero e scarso carpentiere, che aggiusta a suon di botte chi non rispetta le sue regole a Big Whiskey.
Ma tutto quello che posso, o potrei scrivere, di questo film dirompente ed immenso, si gioca nel dialogo fra Kid e Munny, sotto un albero isolato che pare fuggire dal nulla lasciato attorno dagli esseri umani:
"L'ho ucciso, gli ho piantato tre palle in corpo mentre lui stava cacando. Se penso che lui non camminerà più su questa terra, solo perchè ho premuto un grilletto!" - dice pressapoco Kid -
"E' una cosa grossa, uccidere un uomo. Gli togli tutto quello che ha, e anche quello che sperava di avere." - risponde William -
Uccidere un uomo è qualcosa di Unforgiven.
Senza perdono.
Anche perchè pare proprio che non sia solo la vittima, a perdere tutto ciò che ha, o che spera di avere, ma anche chi resta, a raccogliere i cocci della sua vita, una volta taciute le voci delle pistole ed iniziate quelle della coscienza.
Non tutti possono portare un fardello così grande - e Clint affronterà di nuovo il tema -, e se Kid rinuncia alla sua Skofield perchè "io non sono come te, William", Munny imbraccia bottiglia e fucile prima di tornare a regolare i suoi conti con Little Bill, perchè "non esistono meriti, in queste cose", e perchè tanto, prima o poi, si rivedranno all'inferno.
William Munny, che ha ucciso uomini, donne e bambini, "che è sempre stato fortunato, quando si trattava di ammazzare cristiani", che è come un ombra, sotto la pioggia, temuto dagli uomini fuggiti da Greely's, eppure osservato, nello scomparire fra bruma e fango, con un sorriso dalla donna che gli somiglia così tanto, con tutti quei segni sul volto.
William Munny se ne va, lasciando dietro di se una scia di sangue e una bottiglia vuota, forse a San Francisco - la città di Callaghan, guarda caso -, dove pare farà fortuna.
E la madre della sua amatissima, defunta moglie, continuerà a chiedersi come sia stato possibile, per la figlia, innamorarsi di un ladro ed un assassino.
Di un uomo senza perdono.
MrFord
"They dedicate their lives
to running all of his
he tries to please them all
this bitter man he is."
Metallica - "The unforgiven" -
mercoledì 27 ottobre 2010
Scommessa con la morte
E così si è concluso il ciclo dell'Ispettore Callaghan.
Ammetto, onestamente, che i limiti di età di Clint sono giunti in soccorso di una serie che, nei suoi ultimi due capitoli, cominciava davvero a segnare il passo nonostante la sempre importante presenza dell'Eastwood di noi tutti, dell'ironia e della consueta dose di pistolettate riservate ai cattivi di turno dall'Ispettore più granitico del grande schermo.
Anche quest'ultimo capitolo, pur tornando ad una dimensione più "action" - e alla "sua" San Francisco - dopo la digressione autoriale del precedente, risulta infatti decisamente ad un livello inferiore rispetto ai primi capitoli della saga, pur restando un ottimo intrattenimento per le serate "da veri uomini", con Callaghan scatenato e preso a buttar giù criminali a colpi di quarantaquattro come fossero birilli in una partita di bowling del Drugo e a sedurre la donna di turno, sfiorando l'autoironia e, addirittura, un pò di metacinema.
Inserito in una trama che ricorda molto il DePalma di Omicidio a luci rosse, Callaghan questa volta affronta uno psicopatico legato a doppio filo ad un folle gioco chiamato "il bingo del morto", che prevede l'uccisione di una serie di vittime e le conseguenti "puntate" dei partecipanti al gioco stesso: inutile dire che, alla fine, il vecchio ispettore darà al folle quello che si merita riuscendo anche ad imporsi sui capi che lo vorrebbero utilizzare soltanto come uomo immagine, o dietro una scrivania.
Niente di particolarmente originale, ma l'inseguimento con la macchinina telecomandata, Liam Neeson nella parte del regista egocentrico e soprattutto un giovanissimo Jim Carrey a fare il verso a Ozzy Osbourne girando un video musicale su "Welcome to the jungle" dei Guns and roses valgono almeno una visione del film.
Quello che resta di Callaghan sicuramente è consegnato alla storia del Cinema dai primi due capitoli della sua saga - e, in parte, dal terzo -, eppure è evidente quanto il pubblico abbia amato - e ami ancora - uno dei personaggi di maggiore successo del ventennio settanta/ottanta e tutta la sua epopea, simbolo di una durezza e di un metodo che, come ho già più volte sottolineato parlando dei film precedenti, sono soltanto apparentemente reazionari, e restano uno specchio della crescita che lo stesso Clint ha avuto, politicamente ed umanamente, come regista, attore, autore e persona nel corso degli anni.
Senza il vecchio Harry la carogna, Walt Kovalski non sarebbe esistito.
Direi dunque che, almeno un ringraziamento, a Callaghan è più che dovuto.
MrFord
"I've been high, I've been low,
I've been yes and I've been oh, hell no!
I've been rock and roll and disco,
won't you save me, San Francisco."
Train - "Save me, San Francisco"
Ammetto, onestamente, che i limiti di età di Clint sono giunti in soccorso di una serie che, nei suoi ultimi due capitoli, cominciava davvero a segnare il passo nonostante la sempre importante presenza dell'Eastwood di noi tutti, dell'ironia e della consueta dose di pistolettate riservate ai cattivi di turno dall'Ispettore più granitico del grande schermo.
Anche quest'ultimo capitolo, pur tornando ad una dimensione più "action" - e alla "sua" San Francisco - dopo la digressione autoriale del precedente, risulta infatti decisamente ad un livello inferiore rispetto ai primi capitoli della saga, pur restando un ottimo intrattenimento per le serate "da veri uomini", con Callaghan scatenato e preso a buttar giù criminali a colpi di quarantaquattro come fossero birilli in una partita di bowling del Drugo e a sedurre la donna di turno, sfiorando l'autoironia e, addirittura, un pò di metacinema.
Inserito in una trama che ricorda molto il DePalma di Omicidio a luci rosse, Callaghan questa volta affronta uno psicopatico legato a doppio filo ad un folle gioco chiamato "il bingo del morto", che prevede l'uccisione di una serie di vittime e le conseguenti "puntate" dei partecipanti al gioco stesso: inutile dire che, alla fine, il vecchio ispettore darà al folle quello che si merita riuscendo anche ad imporsi sui capi che lo vorrebbero utilizzare soltanto come uomo immagine, o dietro una scrivania.
Niente di particolarmente originale, ma l'inseguimento con la macchinina telecomandata, Liam Neeson nella parte del regista egocentrico e soprattutto un giovanissimo Jim Carrey a fare il verso a Ozzy Osbourne girando un video musicale su "Welcome to the jungle" dei Guns and roses valgono almeno una visione del film.
Quello che resta di Callaghan sicuramente è consegnato alla storia del Cinema dai primi due capitoli della sua saga - e, in parte, dal terzo -, eppure è evidente quanto il pubblico abbia amato - e ami ancora - uno dei personaggi di maggiore successo del ventennio settanta/ottanta e tutta la sua epopea, simbolo di una durezza e di un metodo che, come ho già più volte sottolineato parlando dei film precedenti, sono soltanto apparentemente reazionari, e restano uno specchio della crescita che lo stesso Clint ha avuto, politicamente ed umanamente, come regista, attore, autore e persona nel corso degli anni.
Senza il vecchio Harry la carogna, Walt Kovalski non sarebbe esistito.
Direi dunque che, almeno un ringraziamento, a Callaghan è più che dovuto.
MrFord
"I've been high, I've been low,
I've been yes and I've been oh, hell no!
I've been rock and roll and disco,
won't you save me, San Francisco."
Train - "Save me, San Francisco"
Polpo Paul (???-2010)
Lebewohl, Polpo Paul.
Sei stato il mio personale eroe dei Mondiali 2010.
E te ne sei andato senza neppure un ultimo pronostico.
MrFord
lunedì 25 ottobre 2010
The town
Che Ben Affleck fosse coraggioso, cinematograficamente parlando, si era già capito quando firmò, con l'amico Matt Damon, la sceneggiatura del sottovalutato eppure efficacissimo Will Hunting, decisamente migliore di certi deliri voyeuristici recenti di Van Sant - qualcuno ha detto Paranoid park? -: ma pochi avrebbero scommesso che il bisteccone che anni fa si perdeva dietro Jennifer Lopez avrebbe dato il suo meglio - artisticamente parlando - dietro la macchina da presa.
Già un paio d'anni fa stupì favorevolmente pubblico e critica con il discreto Gone baby gone, tratto dalla stessa materia letteraria dell'autore di Mystic river, impreziosito da un ottimo dilemma morale conclusivo e meritevole di aver lanciato il fratellino Casey, un attore decisamente più dotato di Ben - come dimostrato dall'ottima prova ne L'assassino di Jesse James per mano del codardo Roberd Ford -.
Ora, con un cast di prim'ordine in mano - Jon Hamm, Jeremy Renner, Pete Postlethwaite -, Ben ci riprova senza rischiare troppo, affidandosi una volta ancora alla Boston di Lehane, questa volta vista come capitale mondiale delle rapine in banca e degli assalti ai furgoni portavalori.
La vicenda, torbida e senza uscita per i suoi protagonisti, destinati fin dal principio a non lasciare indenni la città che li ha visti nascere, crescere, uccidere, scontare pene nel nome di famiglia, fede o onore e dei rigidi legami che ogni irlandese pare avere con questi capisaldi, si sviluppa attorno alla squadra che Affleck e Renner portano al successo nel mondo del crimine, sponsorizzati dal misterioso fioraio, padrino silenzioso ed inquietante.
Il ritmo non manca, così come l'efficacia delle scene d'azione - molto buona la sequenza d'apertura -, il cast risulta in parte, e si dosano con sapienza tensione e dramma.
Eppure, c'è qualcosa che non convince fino in fondo, in questo The town, che porta l'opera esattamente nel punto in cui Affleck ci aveva lasciato con Gone baby gone: ovvero non oltre il livello percui si è contenti di una visione, ma già, dentro, si sa che della stessa poco o nulla resterà nella nostra storia personale di spettatori.
La tecnica è ben padroneggiata, ma se solo si paragona la pur interessante rapina con le maschere da teschio con le equivalenti sequenze di Point break, Il cavaliere oscuro, Inside man o The heat - La sfida - The town perde clamorosamente il confronto, così come rispetto ai risvolti drammatici di Mystic river o The departed, restando nell'ambiente bostoniano/irlandese.
Principalmente, mi viene da pensare che il pur in gamba Ben ancora manchi della zampata che trasforma un film carino in una pellicola da ricordare, e resta pesante il dubbio che la stessa materia, fra le mani di un Eastwood, uno Scorsese o un Mann sarebbe divenuta dinamite pura.
Certo, è giusto che giovani come Affleck si facciano le ossa un passo alla volta, e occorre riconoscere che un lavoro come questo è senz'altro migliore di molti altri firmati da suoi colleghi più maturi e considerati, eppure è giusto che lo stesso regista affronti i suoi limiti con umiltà e voglia di crescere, che, a questo punto e dato il suo percorso dai tempi dello scellerato Pearl Harbour, pare proprio non gli manchi.
Così, se non promuovo a pieni voti The town e lo relego "solamente" al grande limbo dei "film carini", dico forte e sicuro di non venire deluso: "Dacci dentro, Ben, sei sulla buona strada."
In fondo, il nostro bisteccone deve solo smettere di fare l'Eastwood, o il Mann, e cercare la sua impronta personale.
Quando l'avrà trovata, ci sarà da rimanere stupiti.
E su questo, non ho dubbi.
MrFord
"I'm shipping up to Boston
I'm shipping up to Boston
I'm shipping up to Boston
I'm shipping off to fìnd my wooden leg."
Dropkick Murphys - "Shipping up to Boston" -
Già un paio d'anni fa stupì favorevolmente pubblico e critica con il discreto Gone baby gone, tratto dalla stessa materia letteraria dell'autore di Mystic river, impreziosito da un ottimo dilemma morale conclusivo e meritevole di aver lanciato il fratellino Casey, un attore decisamente più dotato di Ben - come dimostrato dall'ottima prova ne L'assassino di Jesse James per mano del codardo Roberd Ford -.
Ora, con un cast di prim'ordine in mano - Jon Hamm, Jeremy Renner, Pete Postlethwaite -, Ben ci riprova senza rischiare troppo, affidandosi una volta ancora alla Boston di Lehane, questa volta vista come capitale mondiale delle rapine in banca e degli assalti ai furgoni portavalori.
La vicenda, torbida e senza uscita per i suoi protagonisti, destinati fin dal principio a non lasciare indenni la città che li ha visti nascere, crescere, uccidere, scontare pene nel nome di famiglia, fede o onore e dei rigidi legami che ogni irlandese pare avere con questi capisaldi, si sviluppa attorno alla squadra che Affleck e Renner portano al successo nel mondo del crimine, sponsorizzati dal misterioso fioraio, padrino silenzioso ed inquietante.
Il ritmo non manca, così come l'efficacia delle scene d'azione - molto buona la sequenza d'apertura -, il cast risulta in parte, e si dosano con sapienza tensione e dramma.
Eppure, c'è qualcosa che non convince fino in fondo, in questo The town, che porta l'opera esattamente nel punto in cui Affleck ci aveva lasciato con Gone baby gone: ovvero non oltre il livello percui si è contenti di una visione, ma già, dentro, si sa che della stessa poco o nulla resterà nella nostra storia personale di spettatori.
La tecnica è ben padroneggiata, ma se solo si paragona la pur interessante rapina con le maschere da teschio con le equivalenti sequenze di Point break, Il cavaliere oscuro, Inside man o The heat - La sfida - The town perde clamorosamente il confronto, così come rispetto ai risvolti drammatici di Mystic river o The departed, restando nell'ambiente bostoniano/irlandese.
Principalmente, mi viene da pensare che il pur in gamba Ben ancora manchi della zampata che trasforma un film carino in una pellicola da ricordare, e resta pesante il dubbio che la stessa materia, fra le mani di un Eastwood, uno Scorsese o un Mann sarebbe divenuta dinamite pura.
Certo, è giusto che giovani come Affleck si facciano le ossa un passo alla volta, e occorre riconoscere che un lavoro come questo è senz'altro migliore di molti altri firmati da suoi colleghi più maturi e considerati, eppure è giusto che lo stesso regista affronti i suoi limiti con umiltà e voglia di crescere, che, a questo punto e dato il suo percorso dai tempi dello scellerato Pearl Harbour, pare proprio non gli manchi.
Così, se non promuovo a pieni voti The town e lo relego "solamente" al grande limbo dei "film carini", dico forte e sicuro di non venire deluso: "Dacci dentro, Ben, sei sulla buona strada."
In fondo, il nostro bisteccone deve solo smettere di fare l'Eastwood, o il Mann, e cercare la sua impronta personale.
Quando l'avrà trovata, ci sarà da rimanere stupiti.
E su questo, non ho dubbi.
MrFord
"I'm shipping up to Boston
I'm shipping up to Boston
I'm shipping up to Boston
I'm shipping off to fìnd my wooden leg."
Dropkick Murphys - "Shipping up to Boston" -
domenica 24 ottobre 2010
Coraggio... Fatti ammazzare
Siamo giunti quasi alla conclusione della saga dell'Ispettore Callaghan, nonchè al capitolo più atteso in questa rivisitazione della stessa da parte del sottoscritto dopo il primo, indimenticabile, caso Scorpio: con Sudden impact - titolo originale molto più azzeccato della versione italiana dello stesso -, infatti, Clint passa anche dietro la macchina da presa firmando la regia di uno dei personaggi che gli ha reso più notorietà in qualità di attore.
Il risultato, onestamente, è stato molto inferiore al ricordo e alle aspettative che avevo dello stesso, nonchè una delle pellicole decisamente meno interessanti firmate Eastwood: c'è da dire che di quello stesso periodo - siamo nel pieno degli eighties reaganiani - sono anche Assassinio sull'Eiger e Firefox, decisamente fra i suoi - pochissimi - lavori non brillanti, e che, forse, l'impegno in politica che assorbì il regista/attore in quel periodo influì negativamente sulla qualità di alcune sue opere.
Partito come il più classico dei Callaghan, ironico, pungente e cattivissimo, Coraggio... Fatti ammazzare deraglia dopo la prima mezzora passata ancora una volta per le strade di San Francisco a regolare i conti con i criminali di turno - il confronto in ascensore con il giovane scampato alla galera a proposito della merda secca e la rapina sventata da "Smith, Wesson e me" nel bar sono mitici - cambiando il setting dell'avventura dell'Ispettore, portandolo a Nord a seguire un'indagine che vede la vittima di uno stupro avvenuto dieci anni prima vendicarsi ad uno ad uno dei colpevoli - interpretata, tra le altre cose, dall'allora compagna del regista Sondra Locke, già al suo fianco in Bronco Billy e Il texano dagli occhi di ghiaccio -.
Proprio nella parte centrale la sceneggiatura mostra il fianco ad una fiacca evoluzione che non sembra fare altro che attendere il climax finale e gli isolati colpi di classe del regista - il conflitto a fuoco sulla giostra di cavalli resta impresso, senza dubbio -, sperando che gli spettatori si perdano nella splendida fotografia senza notare che lo stesso Callaghan appare insolitamente poco caustico una volta allontanatosi dalla sua città, per nulla aiutato da comprimari quali erano stati i suoi compagni di pattuglia così come i suoi "avversari" nei capitoli precedenti.
A poco servono il colpo di scena legato al destino amarissimo del figlio del capo della polizia locale, coinvolto nello stupro della donna, così come la scelta di Callaghan di schierarsi al suo fianco al termine della vicenda, scagionandola di fatto dalle inevitabili accuse dell'omicidio dei componenti della banda a ravvivare la tensione di un film che pare quasi essere un riempitivo, o un compito fatto su commissione.
Pare proprio che, al vecchio Harry la carogna, l'autorialità ed una trama da noir con pretese torbide non riescano proprio a giovare, limitando di fatto il raggio d'azione di un personaggio che è nato per l'esplosività e la provocazione, le sparatorie ed il linguaggio colorito, ufficialmente contro tutti eppure sempre in grado di valutare con giudizio da che parte stare.
Certo, anche questa volta lo fa.
Ma con poca convinzione e molta meno ironia: che, all'epopea di Callaghan, servono almeno quanto i due vecchi amici Smith&Wesson.
MrFord
"Heat burns to kill
the night is black and still
look to the sky
don't ask why."
Exciter - "Sudden impact" -
Il risultato, onestamente, è stato molto inferiore al ricordo e alle aspettative che avevo dello stesso, nonchè una delle pellicole decisamente meno interessanti firmate Eastwood: c'è da dire che di quello stesso periodo - siamo nel pieno degli eighties reaganiani - sono anche Assassinio sull'Eiger e Firefox, decisamente fra i suoi - pochissimi - lavori non brillanti, e che, forse, l'impegno in politica che assorbì il regista/attore in quel periodo influì negativamente sulla qualità di alcune sue opere.
Partito come il più classico dei Callaghan, ironico, pungente e cattivissimo, Coraggio... Fatti ammazzare deraglia dopo la prima mezzora passata ancora una volta per le strade di San Francisco a regolare i conti con i criminali di turno - il confronto in ascensore con il giovane scampato alla galera a proposito della merda secca e la rapina sventata da "Smith, Wesson e me" nel bar sono mitici - cambiando il setting dell'avventura dell'Ispettore, portandolo a Nord a seguire un'indagine che vede la vittima di uno stupro avvenuto dieci anni prima vendicarsi ad uno ad uno dei colpevoli - interpretata, tra le altre cose, dall'allora compagna del regista Sondra Locke, già al suo fianco in Bronco Billy e Il texano dagli occhi di ghiaccio -.
Proprio nella parte centrale la sceneggiatura mostra il fianco ad una fiacca evoluzione che non sembra fare altro che attendere il climax finale e gli isolati colpi di classe del regista - il conflitto a fuoco sulla giostra di cavalli resta impresso, senza dubbio -, sperando che gli spettatori si perdano nella splendida fotografia senza notare che lo stesso Callaghan appare insolitamente poco caustico una volta allontanatosi dalla sua città, per nulla aiutato da comprimari quali erano stati i suoi compagni di pattuglia così come i suoi "avversari" nei capitoli precedenti.
A poco servono il colpo di scena legato al destino amarissimo del figlio del capo della polizia locale, coinvolto nello stupro della donna, così come la scelta di Callaghan di schierarsi al suo fianco al termine della vicenda, scagionandola di fatto dalle inevitabili accuse dell'omicidio dei componenti della banda a ravvivare la tensione di un film che pare quasi essere un riempitivo, o un compito fatto su commissione.
Pare proprio che, al vecchio Harry la carogna, l'autorialità ed una trama da noir con pretese torbide non riescano proprio a giovare, limitando di fatto il raggio d'azione di un personaggio che è nato per l'esplosività e la provocazione, le sparatorie ed il linguaggio colorito, ufficialmente contro tutti eppure sempre in grado di valutare con giudizio da che parte stare.
Certo, anche questa volta lo fa.
Ma con poca convinzione e molta meno ironia: che, all'epopea di Callaghan, servono almeno quanto i due vecchi amici Smith&Wesson.
MrFord
"Heat burns to kill
the night is black and still
look to the sky
don't ask why."
Exciter - "Sudden impact" -
The horde
A volte, è proprio vero, il talento non va affatto a braccetto con le ambizioni - e le recensioni che le accompagnano-.
Spinto da pareri quasi ovunque entusiastici, The horde è arrivato sullo schermo di casa Ford con tutte le migliori intenzioni, quasi fosse una specie di esplosivo cocktail di 28 giorni dopo e Machete: purtroppo, non ha l'angosciante incedere del primo e neppure l'ironico stile del secondo.
Partendo da una trama che sulla carta poteva effettivamente essere interessante - una squadra di poliziotti diretti nel cuore della banlieue per compiere una vendetta personale ed uccidere un boss locale costretta a giocarsi la sopravvivenza contro il consueto "esercito" di zombies lottando proprio accanto a chi si era prefissata di eliminare - il film non trova mai una precisa identità, lasciando il dubbio nello spettatore rispetto allo spirito con il quale lo stesso è stato girato: si passa senza alcun tipo di giustificazione da momenti grotteschi e almeno nella mente degli autori ironici ad altri tesissimi, drammatici e violenti.
Eppure, in nessuno di questi, la logica pare farla da padrona: di nuovo, dunque, si ripropone il morbo che pare colpire la maggior parte degli horror contemporanei, dal quale è sempre più difficile per registi e sceneggiatori fuggire, quasi fosse il peggiore dei mostri affrontati dai loro protagonisti sul grande schermo.
L'apparato degli effetti, inoltre, si rivela - almeno nelle scene di maggior impatto - assolutamente inadeguato, producendo una delle sequenze completate in computer graphic - o almeno credo fosse tale - più brutte che abbia mai visto in vita mia, roba da fare il paio con il secondo episodio di 4bia: la testa dello zombie fracassata contro il pilone dal Samuel Jackson dei poveri Adewale è talmente imbarazzante da risultare minacciata soltanto dall'insulsa corsa in pieno stile football americano verso l'esercito di "infetti" di Ouessem.
Si salvano soltanto alcuni dei momenti che riesce a regalare il personaggio del vecchio militante armato fino ai denti ed il finale non consolatorio, che, ad ogni modo, riesce a risultare comunque preparato a tavolino per contraddire gli spettatori che, giunti a quel punto, si aspetterebbero esattamente il contrario.
Niente a che vedere, dunque, con il già citato 28 giorni dopo, ma più con il suo cugino sfigato 28 settimane dopo, ed ancor meno con il tesissimo Nido di vespe - che deve molto del suo fascino a Distretto 13 di Carpenter, va ammesso -, pellicola dagli stessi punti di partenza - poliziotti e criminali sullo stesso fronte di fronte ad una minaccia più grande -, quasi sconosciuta, eppure un vero gioiellino di tecnica e tensione narrativa.
Tutto questo senza neppure citare l'immenso L'alba dei morti dementi - lo so, il titolo italiano è tra i peggiori del secolo -, a tutti gli effetti una delle pietre angolari del genere zombie dell'ultimo decennio.
Un vero peccato sia per il Cinema di genere europeo, senz'altro rinato nelle ultime stagioni in sala rispetto a quello statunitense, sia per una potenziale buona trama letteralmente data in pasto agli zombies pur se mascherata da quella stessa finta autorialità che aveva reso Martyrs uno degli horror peggiori di questo inizio millennio.
Inoltre, onestamente, sale un pò di tristezza al pensiero che, se un film di questo tipo fosse stato prodotto con i medesimi risultati negli Usa, la critica avrebbe gridato allo scandalo giudicandolo come l'ennesima baracconata priva di senso buona giusto giusto per gli adolescenti in libera uscita nei centri commerciali il sabato pomeriggio.
E invece no, cari ragazzi: le cagate - horror o che dir si voglia - riusciamo a confezionarle per bene anche noi, qui nel vecchio continente.
Solo che lo facciamo con molta, molta più spocchia.
MrFord
"Keep holding on
when my brain's ticking like a bomb
guess the black thoughts
have come again to get me."
Korn - "Coming undone" -
Spinto da pareri quasi ovunque entusiastici, The horde è arrivato sullo schermo di casa Ford con tutte le migliori intenzioni, quasi fosse una specie di esplosivo cocktail di 28 giorni dopo e Machete: purtroppo, non ha l'angosciante incedere del primo e neppure l'ironico stile del secondo.
Partendo da una trama che sulla carta poteva effettivamente essere interessante - una squadra di poliziotti diretti nel cuore della banlieue per compiere una vendetta personale ed uccidere un boss locale costretta a giocarsi la sopravvivenza contro il consueto "esercito" di zombies lottando proprio accanto a chi si era prefissata di eliminare - il film non trova mai una precisa identità, lasciando il dubbio nello spettatore rispetto allo spirito con il quale lo stesso è stato girato: si passa senza alcun tipo di giustificazione da momenti grotteschi e almeno nella mente degli autori ironici ad altri tesissimi, drammatici e violenti.
Eppure, in nessuno di questi, la logica pare farla da padrona: di nuovo, dunque, si ripropone il morbo che pare colpire la maggior parte degli horror contemporanei, dal quale è sempre più difficile per registi e sceneggiatori fuggire, quasi fosse il peggiore dei mostri affrontati dai loro protagonisti sul grande schermo.
L'apparato degli effetti, inoltre, si rivela - almeno nelle scene di maggior impatto - assolutamente inadeguato, producendo una delle sequenze completate in computer graphic - o almeno credo fosse tale - più brutte che abbia mai visto in vita mia, roba da fare il paio con il secondo episodio di 4bia: la testa dello zombie fracassata contro il pilone dal Samuel Jackson dei poveri Adewale è talmente imbarazzante da risultare minacciata soltanto dall'insulsa corsa in pieno stile football americano verso l'esercito di "infetti" di Ouessem.
Si salvano soltanto alcuni dei momenti che riesce a regalare il personaggio del vecchio militante armato fino ai denti ed il finale non consolatorio, che, ad ogni modo, riesce a risultare comunque preparato a tavolino per contraddire gli spettatori che, giunti a quel punto, si aspetterebbero esattamente il contrario.
Niente a che vedere, dunque, con il già citato 28 giorni dopo, ma più con il suo cugino sfigato 28 settimane dopo, ed ancor meno con il tesissimo Nido di vespe - che deve molto del suo fascino a Distretto 13 di Carpenter, va ammesso -, pellicola dagli stessi punti di partenza - poliziotti e criminali sullo stesso fronte di fronte ad una minaccia più grande -, quasi sconosciuta, eppure un vero gioiellino di tecnica e tensione narrativa.
Tutto questo senza neppure citare l'immenso L'alba dei morti dementi - lo so, il titolo italiano è tra i peggiori del secolo -, a tutti gli effetti una delle pietre angolari del genere zombie dell'ultimo decennio.
Un vero peccato sia per il Cinema di genere europeo, senz'altro rinato nelle ultime stagioni in sala rispetto a quello statunitense, sia per una potenziale buona trama letteralmente data in pasto agli zombies pur se mascherata da quella stessa finta autorialità che aveva reso Martyrs uno degli horror peggiori di questo inizio millennio.
Inoltre, onestamente, sale un pò di tristezza al pensiero che, se un film di questo tipo fosse stato prodotto con i medesimi risultati negli Usa, la critica avrebbe gridato allo scandalo giudicandolo come l'ennesima baracconata priva di senso buona giusto giusto per gli adolescenti in libera uscita nei centri commerciali il sabato pomeriggio.
E invece no, cari ragazzi: le cagate - horror o che dir si voglia - riusciamo a confezionarle per bene anche noi, qui nel vecchio continente.
Solo che lo facciamo con molta, molta più spocchia.
MrFord
"Keep holding on
when my brain's ticking like a bomb
guess the black thoughts
have come again to get me."
Korn - "Coming undone" -
venerdì 22 ottobre 2010
Robin hood
Devo dare atto a Ridley Scott del fatto che, nonostante l'inevitabile flessione avuta dalla sua carriera - del resto, quando parti con la sequenza I duellanti/Alien/Blade runner è difficile riuscire a mantenere uno standard sempre così elevato -, questo inconsueto regista è sempre riuscito a stupirmi, ad ogni visione di un suo lavoro.
Perchè inconsueto, vi chiederete?
In fondo stiamo parlando dell'autore di Black hawn down ed Un'ottima annata.
Proprio per questo, dico io.
Ridley Scott, che si può amare o detestare, è attualmente uno dei registi più eclettici del panorama internazionale, tanto da farmi scomodare, in tal senso, anche il mio personale mito e mostro sacro Clint, se non per l'eccellenza nei risultati, quantomeno per il coraggio mostrato nel cimentarsi in generi completamente diversi fra loro.
Ma veniamo a Robin hood.
Presentato a Cannes e seguito da un dibattito che vide sia il pubblico che la critica sostanzialmente spaccati in due fra chi lo osannava e chi invocava pietà, la pellicola che, a tutti gli effetti, doveva essere una sorta di nuovo Gladiatore con il suddetto c'entra davvero poco se non per il suo attore protagonista: ci sono Braveheart, Il signore degli anelli, Hero, Salvate il soldato Ryan, La leggenda di Robin hood - quello con Flynn, per intenderci -, perfino qualcosa del già citato Black hawk down, ma poche tracce di Massimo, se non nel rapporto conflittuale a distanza fra Longstride ed il geloso e nevrotico Giovanni, che se dovesse effettivamente essere realizzato un sequel potrebbe davvero ambire al trono lasciato vacante da Joaquin Phoenix e dal suo Commodo.
Gli intermezzi dedicati agli orfani di Sherwood, inoltre - che richiamano Mongol e devono qualcosa anche al nuovo horror spagnolo in stile The orphanage -, aggiunti al rapporto "perduto" più che con il suo stesso padre con i due uomini che l'hanno salvato - ottimo Von Sydow - arricchiscono lo spessore di una pellicola che da il suo meglio, paradossalmente, nella parte centrale, quando all'azione è preferito l'intrigo da una parte - Mark Strong/Godfrey, che dopo Sherlock Holmes da un'altra ottima prova da "cattivo" - ed ironia e "contemplazione" dall'altra, come fu per I sette samurai di Kurosawa, che al furore della battaglia antepone una lunga parte bucolica che porta nel cuore dello spettatore ognuno dei protagonisti.
Ovviamente il lavoro di Scott non è o sarà mai paragonabile all'immensità dell'opera di Kurosawa, eppure devo ammettere che questo Robin hood sporco e cattivo, opportunista e spiccio, eppure padre - con gli orfani -, leader - con i compagni -, marito - con Marion - e figlio - con Walter -, mi ha proprio conquistato, permettendomi di gustare due ore e mezza di Cinema d'avventura di una volta - tematica quanto mai d'attualità, in questi ultimi post - senza annoiarmi un secondo, permettendomi addirittura di perdonare al vecchio Ridley anche qualche esibizionismo di troppo - la battaglia conclusiva ha qualche eccesso in retorica da blockbuster, senza dubbio -.
In tutto questo, la tecnica e la confezione sono indiscutibilmente frutto di un grande mestiere, così come la sceneggiatura di Brian Helgeland, che si destreggia abilmente su più linee narrative non così semplici come sembrerebbero da gestire: onestamente ammetto di essere effettivamente curioso di come potrebbe essere gestito un eventuale secondo capitolo, magari incentrato sullo spirito "comunitario" di Robin e degli uomini di Sherwood, foresta spettrale e magica, in cui ci si può perdere o trovare una famiglia.
"Per ogni inglese la propria casa è un castello", dichiara Longstride a Re Giovanni.
"Ribellarsi ancora, e ancora, fino a quando gli agnelli diverranno leoni", scolpì suo padre nella pietra.
Viene da ripensare a Jean Dominique, che portava la sua voce e la sua radio al popolo di Haiti raccontando di altri uomini oppressi che insorgevano contro i regimi: ma è un'altra storia, questa.
O forse no.
Intanto, mi godo Robin hood, e le sue frecce tirate contro il potere.
MrFord
"Il signor Hood era un galantuomo,
sempre ispirato dal sole,
con due pistole caricate a salve
ed un canestro di parole."
Francesco DeGregori - "Il signor Hood" -
Perchè inconsueto, vi chiederete?
In fondo stiamo parlando dell'autore di Black hawn down ed Un'ottima annata.
Proprio per questo, dico io.
Ridley Scott, che si può amare o detestare, è attualmente uno dei registi più eclettici del panorama internazionale, tanto da farmi scomodare, in tal senso, anche il mio personale mito e mostro sacro Clint, se non per l'eccellenza nei risultati, quantomeno per il coraggio mostrato nel cimentarsi in generi completamente diversi fra loro.
Ma veniamo a Robin hood.
Presentato a Cannes e seguito da un dibattito che vide sia il pubblico che la critica sostanzialmente spaccati in due fra chi lo osannava e chi invocava pietà, la pellicola che, a tutti gli effetti, doveva essere una sorta di nuovo Gladiatore con il suddetto c'entra davvero poco se non per il suo attore protagonista: ci sono Braveheart, Il signore degli anelli, Hero, Salvate il soldato Ryan, La leggenda di Robin hood - quello con Flynn, per intenderci -, perfino qualcosa del già citato Black hawk down, ma poche tracce di Massimo, se non nel rapporto conflittuale a distanza fra Longstride ed il geloso e nevrotico Giovanni, che se dovesse effettivamente essere realizzato un sequel potrebbe davvero ambire al trono lasciato vacante da Joaquin Phoenix e dal suo Commodo.
Gli intermezzi dedicati agli orfani di Sherwood, inoltre - che richiamano Mongol e devono qualcosa anche al nuovo horror spagnolo in stile The orphanage -, aggiunti al rapporto "perduto" più che con il suo stesso padre con i due uomini che l'hanno salvato - ottimo Von Sydow - arricchiscono lo spessore di una pellicola che da il suo meglio, paradossalmente, nella parte centrale, quando all'azione è preferito l'intrigo da una parte - Mark Strong/Godfrey, che dopo Sherlock Holmes da un'altra ottima prova da "cattivo" - ed ironia e "contemplazione" dall'altra, come fu per I sette samurai di Kurosawa, che al furore della battaglia antepone una lunga parte bucolica che porta nel cuore dello spettatore ognuno dei protagonisti.
Ovviamente il lavoro di Scott non è o sarà mai paragonabile all'immensità dell'opera di Kurosawa, eppure devo ammettere che questo Robin hood sporco e cattivo, opportunista e spiccio, eppure padre - con gli orfani -, leader - con i compagni -, marito - con Marion - e figlio - con Walter -, mi ha proprio conquistato, permettendomi di gustare due ore e mezza di Cinema d'avventura di una volta - tematica quanto mai d'attualità, in questi ultimi post - senza annoiarmi un secondo, permettendomi addirittura di perdonare al vecchio Ridley anche qualche esibizionismo di troppo - la battaglia conclusiva ha qualche eccesso in retorica da blockbuster, senza dubbio -.
In tutto questo, la tecnica e la confezione sono indiscutibilmente frutto di un grande mestiere, così come la sceneggiatura di Brian Helgeland, che si destreggia abilmente su più linee narrative non così semplici come sembrerebbero da gestire: onestamente ammetto di essere effettivamente curioso di come potrebbe essere gestito un eventuale secondo capitolo, magari incentrato sullo spirito "comunitario" di Robin e degli uomini di Sherwood, foresta spettrale e magica, in cui ci si può perdere o trovare una famiglia.
"Per ogni inglese la propria casa è un castello", dichiara Longstride a Re Giovanni.
"Ribellarsi ancora, e ancora, fino a quando gli agnelli diverranno leoni", scolpì suo padre nella pietra.
Viene da ripensare a Jean Dominique, che portava la sua voce e la sua radio al popolo di Haiti raccontando di altri uomini oppressi che insorgevano contro i regimi: ma è un'altra storia, questa.
O forse no.
Intanto, mi godo Robin hood, e le sue frecce tirate contro il potere.
MrFord
"Il signor Hood era un galantuomo,
sempre ispirato dal sole,
con due pistole caricate a salve
ed un canestro di parole."
Francesco DeGregori - "Il signor Hood" -
giovedì 21 ottobre 2010
Fuga per la vittoria
Stavo parlando proprio ieri dei film "di una volta", quei classiconi che non stancano mai e sono, in genere, portatori dell'atmosfera che identificherei come quella dei nostri nonni, uomini che hanno passato la vita a rimboccarsi le maniche e, tendenzialmente, sono allo stesso tempo dei duri e dei veri signori.
John Huston, padre di Angelica nonchè uno dei più significativi nomi del Cinema americano, si concesse, poco tempo prima della sua morte e del capolavorissimo The dead - Gente di Dublino, di cui prima o poi dovrò assolutamente parlare, un'incursione nel mainstream dirigento un cast d'eccezione per una storia che gli valse - e gli vale ancora oggi - fama presso il pubblico meno avvezzo a cose enormi come Fat City e più ai grandi blockbuster.
Perchè Fuga per la vittoria altro non è che l'ennesimo incontro fra il Cinema d'autore ed il grande pubblico in una delle sue occasioni migliori, di quelle come sono state Le ali della libertà, Il miglio verde o lo stesso Avatar - e qui già ti vedo, Cannibale, a storcere il naso -: lo stile di Huston è inconfondibile - basti pensare alla carrellata laterale che precede la sequenza della fuga che apre la pellicola -, e nel crescendo finale è quasi impossibile evitare l'immedesimazione nei giocatori della selezione dei Paesi alleati contro la squadra della Germania nazista, e poco importa che si sia appassionati di calcio, oppure no.
Certo, la sceneggiatura risulta, nel complesso, abbastanza scolastica, e in molti passaggi la semplicità con la quale gli avvenimenti accadono per favorire il pezzo forte del film - la partita stessa - è disarmante, ma ugualmente riesce a non eccedere in banalità e retorica - almeno non più di quanto il genere non esiga per sua stessa natura -, introducendo anche spunti di riflessione non comuni - Max Von Sydow nel ruolo dell'ufficiale nazista appassionato di calcio ed onorevole, i capi della resistenza completamente ossessionati dal loro ruolo "politico" - e coinvolgendo il pubblico anche quando lo stesso non vorrebbe, soprattutto perchè pur se i più rigidi sostenitori del Cinema di nicchia possono resistere, negare, fare finta di nulla facendo i sostenuti, film come questo fanno respirare quella parte sentimentale che è presente in ognuno di noi e non si può nascondere dietro nessun tipo di cultura, o presunta tale.
La rovesciata di Pelè, i numeri di Ardiles - ancora oggi mi ricordo la prima volta che lo vidi passare l'avversario sollevando la palla con il tacco, magico - il rigore conclusivo che vede opposto lo yankee Stallone poco avvezzo al calcio e molto al football americano al capitano tedesco, sono tutti momenti che difficilmente si dimenticano, e sono in grado di trasformare un film assolutamente popolare in una sorta di versione sportiva di Stalag 17 di Billy Wilder, uno dei capisaldi del Cinema legato ai campi di prigionia, nettamente superiore a pur maggiormente mitiche pellicole come La grande fuga.
Un inno allo sport e al senso dell'onore, dunque, ma anche, più semplicemente, alla libertà che lo sport stesso - e l'agonismo, perchè no - possono dare soprattutto in tempi in cui dimenticare il bello della vita era facile almeno quanto respirare.
Principalmente perchè riuscire a continuare a farlo - respirare, intendo - era la preoccupazione principale, e quotidiana, di tutti quanti.
E i nostri nonni lo sapevano bene.
MrFord
"Loro stanno chiusi ma
cosa importa chi vincerà
perchè in fondo lo squadrone siamo noi,
lo squadrone siamo noi."
883 - "La dura legge del gol" -
John Huston, padre di Angelica nonchè uno dei più significativi nomi del Cinema americano, si concesse, poco tempo prima della sua morte e del capolavorissimo The dead - Gente di Dublino, di cui prima o poi dovrò assolutamente parlare, un'incursione nel mainstream dirigento un cast d'eccezione per una storia che gli valse - e gli vale ancora oggi - fama presso il pubblico meno avvezzo a cose enormi come Fat City e più ai grandi blockbuster.
Perchè Fuga per la vittoria altro non è che l'ennesimo incontro fra il Cinema d'autore ed il grande pubblico in una delle sue occasioni migliori, di quelle come sono state Le ali della libertà, Il miglio verde o lo stesso Avatar - e qui già ti vedo, Cannibale, a storcere il naso -: lo stile di Huston è inconfondibile - basti pensare alla carrellata laterale che precede la sequenza della fuga che apre la pellicola -, e nel crescendo finale è quasi impossibile evitare l'immedesimazione nei giocatori della selezione dei Paesi alleati contro la squadra della Germania nazista, e poco importa che si sia appassionati di calcio, oppure no.
Certo, la sceneggiatura risulta, nel complesso, abbastanza scolastica, e in molti passaggi la semplicità con la quale gli avvenimenti accadono per favorire il pezzo forte del film - la partita stessa - è disarmante, ma ugualmente riesce a non eccedere in banalità e retorica - almeno non più di quanto il genere non esiga per sua stessa natura -, introducendo anche spunti di riflessione non comuni - Max Von Sydow nel ruolo dell'ufficiale nazista appassionato di calcio ed onorevole, i capi della resistenza completamente ossessionati dal loro ruolo "politico" - e coinvolgendo il pubblico anche quando lo stesso non vorrebbe, soprattutto perchè pur se i più rigidi sostenitori del Cinema di nicchia possono resistere, negare, fare finta di nulla facendo i sostenuti, film come questo fanno respirare quella parte sentimentale che è presente in ognuno di noi e non si può nascondere dietro nessun tipo di cultura, o presunta tale.
La rovesciata di Pelè, i numeri di Ardiles - ancora oggi mi ricordo la prima volta che lo vidi passare l'avversario sollevando la palla con il tacco, magico - il rigore conclusivo che vede opposto lo yankee Stallone poco avvezzo al calcio e molto al football americano al capitano tedesco, sono tutti momenti che difficilmente si dimenticano, e sono in grado di trasformare un film assolutamente popolare in una sorta di versione sportiva di Stalag 17 di Billy Wilder, uno dei capisaldi del Cinema legato ai campi di prigionia, nettamente superiore a pur maggiormente mitiche pellicole come La grande fuga.
Un inno allo sport e al senso dell'onore, dunque, ma anche, più semplicemente, alla libertà che lo sport stesso - e l'agonismo, perchè no - possono dare soprattutto in tempi in cui dimenticare il bello della vita era facile almeno quanto respirare.
Principalmente perchè riuscire a continuare a farlo - respirare, intendo - era la preoccupazione principale, e quotidiana, di tutti quanti.
E i nostri nonni lo sapevano bene.
MrFord
"Loro stanno chiusi ma
cosa importa chi vincerà
perchè in fondo lo squadrone siamo noi,
lo squadrone siamo noi."
883 - "La dura legge del gol" -
mercoledì 20 ottobre 2010
Nick mano fredda
A volte esistono film che paiono quasi un monito: "non ne fanno più, così".
Classici e cult per antonomasia, spesso ingigantiti da una fama che ne amplifica le qualità anche quando le stesse non possono essere definite quelle di un Capolavoro, capaci di non invecchiare ed affascinare il pubblico anche quando a separare l'audience dall'opera ci sono generazioni, culture, idee.
Nick mano fredda è senza dubbio un esponente - illustre, per giunta - di questa categoria, e considerato che non l'avevo ancora visto è stato una sorpresa anche più coinvolgente di quanto mi sarei aspettato alla vigilia della visione: onestamente, infatti, credevo che avrei assistito all'amarcord di un'epoca ormai dimenticata filtrato attraverso il velo che, spesso, rende i "colori" di opere come questa un pò meno brillanti, rendendo palese il fatto che, probabilmente, fa qualche decina d'anni film di quel genere saranno considerati dal pubblico nato dagli anni settanta in poi alla stregua dei muti più "statici" dagli spettatori odierni.
Il film di Stuart Rosenberg, al contrario, acquista con il passare dei minuti e la tipica, impossibile resistergli interpretazione di Paul Newman, uno degli uomini più affascinanti della Storia del Cinema - roba grossa, a mio parere è l'unico a potersela giocare con Marlon Brando, da questo punto di vista -, un linguaggio sempre più universale capace di comunicare con chi sta di fronte allo schermo a prescindere dalla sua età cinematografica, anagrafica o culturale.
Ma tutta questa sbrodolata seriosa e tecnica non varrebbe nulla senza Nick - Luke nella versione originale, e ancora non capisco quali fossero stati i motivi dei responsabili dell'adattamento italiano per un cambio di questo genere -, straordinario protagonista e simbolo di una volontà ferrea, indomabile e legata a doppio filo con una libertà non tanto fisica, o di circostanza - in fondo, anche all'interno della colonia penale dalla quale continuamente fugge il nostro non avrebbe vita così difficile -, quanto spirituale.
Ricordo quando nel magnifico Il cavaliere oscuro - Nolan è sempre Nolan - Alfred raccontava a Bruce Wayne del brigante incontrato ai tempi del suo servizio militare che saccheggiava i beni della Regina per poi liberarsi dei diamanti gettandoli via, facendo riferimento ed un evidente paragone con il Joker.
"Esistono uomini la cui unica regola è il caos", recitava più o meno quel racconto.
Nick, con la sua voglia continua di sfidare lo status quo di qualsiasi regola o imposizione, se non addirittura la vita stessa, e Dio - meravigliosi i suoi monologhi rivolto al cielo -, il sorriso beffardo e la freddezza di un consumato giocatore di poker - e tornano subito in mente altre due piccole meraviglie come La stangata e Butch Cassidy -, mangia cinquanta uova, continua a rialzarsi ad ogni pugno incassato, finge improbabili cambi di rotta, invia foto di una vita che i detenuti possono solo sognare la notte, o immaginarsi accanto ad un provocante lavaggio di macchina, per poi giurare che sia solo un falso, fugge, ritorna e fugge di nuovo alla ricerca di un significato che pare impossibilitato a raggiungere, ma che non vuole certo gli sia imposto da altri.
Meglio ritrovarsi con quel sorriso anche ad un passo dalla morte, solo come un eroe dei tempi andati, venerato dagli amici ed odiato dai nemici, ma sempre rispettato come qualcuno che, anche nella sconfitta, vince sempre.
Tornando alla mitologia personale, potrei quasi dire che Nick mano fredda riesce a tenere i cavalli, mangiare la polvere e vincere il rodeo allo stesso tempo.
Senza mai perdere quel sorriso, neanche per un secondo.
MrFord
"She remembers how the world was the day he left
and now how that world is dead
a good man is hard to find."
Bruce Springsteen - "A good man is hard to find" -
Classici e cult per antonomasia, spesso ingigantiti da una fama che ne amplifica le qualità anche quando le stesse non possono essere definite quelle di un Capolavoro, capaci di non invecchiare ed affascinare il pubblico anche quando a separare l'audience dall'opera ci sono generazioni, culture, idee.
Nick mano fredda è senza dubbio un esponente - illustre, per giunta - di questa categoria, e considerato che non l'avevo ancora visto è stato una sorpresa anche più coinvolgente di quanto mi sarei aspettato alla vigilia della visione: onestamente, infatti, credevo che avrei assistito all'amarcord di un'epoca ormai dimenticata filtrato attraverso il velo che, spesso, rende i "colori" di opere come questa un pò meno brillanti, rendendo palese il fatto che, probabilmente, fa qualche decina d'anni film di quel genere saranno considerati dal pubblico nato dagli anni settanta in poi alla stregua dei muti più "statici" dagli spettatori odierni.
Il film di Stuart Rosenberg, al contrario, acquista con il passare dei minuti e la tipica, impossibile resistergli interpretazione di Paul Newman, uno degli uomini più affascinanti della Storia del Cinema - roba grossa, a mio parere è l'unico a potersela giocare con Marlon Brando, da questo punto di vista -, un linguaggio sempre più universale capace di comunicare con chi sta di fronte allo schermo a prescindere dalla sua età cinematografica, anagrafica o culturale.
Ma tutta questa sbrodolata seriosa e tecnica non varrebbe nulla senza Nick - Luke nella versione originale, e ancora non capisco quali fossero stati i motivi dei responsabili dell'adattamento italiano per un cambio di questo genere -, straordinario protagonista e simbolo di una volontà ferrea, indomabile e legata a doppio filo con una libertà non tanto fisica, o di circostanza - in fondo, anche all'interno della colonia penale dalla quale continuamente fugge il nostro non avrebbe vita così difficile -, quanto spirituale.
Ricordo quando nel magnifico Il cavaliere oscuro - Nolan è sempre Nolan - Alfred raccontava a Bruce Wayne del brigante incontrato ai tempi del suo servizio militare che saccheggiava i beni della Regina per poi liberarsi dei diamanti gettandoli via, facendo riferimento ed un evidente paragone con il Joker.
"Esistono uomini la cui unica regola è il caos", recitava più o meno quel racconto.
Nick, con la sua voglia continua di sfidare lo status quo di qualsiasi regola o imposizione, se non addirittura la vita stessa, e Dio - meravigliosi i suoi monologhi rivolto al cielo -, il sorriso beffardo e la freddezza di un consumato giocatore di poker - e tornano subito in mente altre due piccole meraviglie come La stangata e Butch Cassidy -, mangia cinquanta uova, continua a rialzarsi ad ogni pugno incassato, finge improbabili cambi di rotta, invia foto di una vita che i detenuti possono solo sognare la notte, o immaginarsi accanto ad un provocante lavaggio di macchina, per poi giurare che sia solo un falso, fugge, ritorna e fugge di nuovo alla ricerca di un significato che pare impossibilitato a raggiungere, ma che non vuole certo gli sia imposto da altri.
Meglio ritrovarsi con quel sorriso anche ad un passo dalla morte, solo come un eroe dei tempi andati, venerato dagli amici ed odiato dai nemici, ma sempre rispettato come qualcuno che, anche nella sconfitta, vince sempre.
Tornando alla mitologia personale, potrei quasi dire che Nick mano fredda riesce a tenere i cavalli, mangiare la polvere e vincere il rodeo allo stesso tempo.
Senza mai perdere quel sorriso, neanche per un secondo.
MrFord
"She remembers how the world was the day he left
and now how that world is dead
a good man is hard to find."
Bruce Springsteen - "A good man is hard to find" -
martedì 19 ottobre 2010
Il colore viola
A seguito del concorso che avevo indetto ai tempi delle ferie estive - vinto alla grandissima dalla super suocera Antonella con Grosso guaio a Chinatown - eccomi qui a parlare de Il colore viola, uno dei film di maggior successo di pubblico e critica di Steven Spielberg con il minor numero di premi incassati fra Globes ed Academy.
Dal romanzo premio Pulitzer di Alice Walker, il più mainstream degli Autori statunitensi ha tratto un dramma classicissimo, simbolo di quel Cinema americano che tendenzialmente la critica snob si diverte a distruggere accusandolo di sentimentalismo e che, al contrario, da queste parti è grandemente apprezzato proprio per il suo coraggio nel mostrare emozioni popolari senza la minima vergogna e, in casi come questo, mantenendo una sobrietà nella narrazione assolutamente invidiabile.
Proprio a proposito di narrazione occorre sottolineare il mestiere da leccarsi i baffi di Spielberg nel mettere in scena questo dramma che, negli anni, non ha perso il suo smalto, pur rimanendo più legato all'immaginario collettivo del Pubblico che non alla Storia della settima arte, pur essendo palesemente superiore ad altre pellicole decisamente più fiacche dello stesso Steven succitato (Salvate il soldato Ryan docet): l'interpretazione di Woopy Goldberg prima che diventasse la controfigura macchiettistica di se stessa in pieno stile DeNiro e quella di Danny Glover - che ora è finito a lavorare accanto a John Cena, che con tutto il mio rispetto come wrestler, al grande schermo ha da dire proprio pochino - si mantengono in equilibrio perfetto anche nel pieno del dramma regalando momenti cui è difficile rimanere indifferenti, specie se si approccia la pellicola da un punto di vista emozionale prima ancora che moralistico, o tecnico.
Una fotografia di un'epoca che è anche simbolo di una progressiva emancipazione, portata sullo schermo in pieno stile made in Usa senza che dello stesso possano essere visibili solo i difetti ed i vizi di forma: una sorta di Forrest Gump ante litteram e dalla portata decisamente superiore, a modesto parere del sottoscritto ancora uno dei migliori film dello Spielberg "autoriale".
Negli occhi e nelle lettere di Celie e Sofia c'è tutta la potenza del legame tra sorelle, del coraggio dell'altra metà del cielo e della Storia che trova l'impulso di chiedere il suo tributo agli errori dell'Uomo - inteso come genere e come genere umano -.
Wow.
A volte mi stupisco di come possa fare anche un post quasi completamente serio.
MrFord
"But my hand was made strong
by the hand of the Almighty
we forward in this generation
triumphantly."
Bob Marley - "Redemption song" -
Dal romanzo premio Pulitzer di Alice Walker, il più mainstream degli Autori statunitensi ha tratto un dramma classicissimo, simbolo di quel Cinema americano che tendenzialmente la critica snob si diverte a distruggere accusandolo di sentimentalismo e che, al contrario, da queste parti è grandemente apprezzato proprio per il suo coraggio nel mostrare emozioni popolari senza la minima vergogna e, in casi come questo, mantenendo una sobrietà nella narrazione assolutamente invidiabile.
Proprio a proposito di narrazione occorre sottolineare il mestiere da leccarsi i baffi di Spielberg nel mettere in scena questo dramma che, negli anni, non ha perso il suo smalto, pur rimanendo più legato all'immaginario collettivo del Pubblico che non alla Storia della settima arte, pur essendo palesemente superiore ad altre pellicole decisamente più fiacche dello stesso Steven succitato (Salvate il soldato Ryan docet): l'interpretazione di Woopy Goldberg prima che diventasse la controfigura macchiettistica di se stessa in pieno stile DeNiro e quella di Danny Glover - che ora è finito a lavorare accanto a John Cena, che con tutto il mio rispetto come wrestler, al grande schermo ha da dire proprio pochino - si mantengono in equilibrio perfetto anche nel pieno del dramma regalando momenti cui è difficile rimanere indifferenti, specie se si approccia la pellicola da un punto di vista emozionale prima ancora che moralistico, o tecnico.
Una fotografia di un'epoca che è anche simbolo di una progressiva emancipazione, portata sullo schermo in pieno stile made in Usa senza che dello stesso possano essere visibili solo i difetti ed i vizi di forma: una sorta di Forrest Gump ante litteram e dalla portata decisamente superiore, a modesto parere del sottoscritto ancora uno dei migliori film dello Spielberg "autoriale".
Negli occhi e nelle lettere di Celie e Sofia c'è tutta la potenza del legame tra sorelle, del coraggio dell'altra metà del cielo e della Storia che trova l'impulso di chiedere il suo tributo agli errori dell'Uomo - inteso come genere e come genere umano -.
Wow.
A volte mi stupisco di come possa fare anche un post quasi completamente serio.
MrFord
"But my hand was made strong
by the hand of the Almighty
we forward in this generation
triumphantly."
Bob Marley - "Redemption song" -
Answering Vitone
Sempre momentaneamente e forzatamente in pausa cinematografica - domani sera mi rifarò, non sto più nella pelle -, approfitto per rispondere al richiamo di Vitone e al suo passaggio di testimone per conoscerci tutti quanti un pò meglio attraverso queste poche domandine.
A seguito delle stesse e delle mie risposte indicherò un pò di compari di blog affinchè raccolgano a loro volta l'invito, e non contento, cercherò di dare anche una motivazione per ognuno di loro, tanto per non sembrare uno che fa catene di Sant'Antonio a cazzo e rivolte a tutti.
Domande:
1) Quando le maestre, le prof e i parenti domandavano "E tu, cosa vorresti fare da grande?" cosa rispondevate? Cosa avete sognato più e più volte di fare? Quanti mestieri? Quanti sogni?
2) Quali erano i vostri cartoni animati preferiti da piccoli? Con quali giochi vi divertivate?
3) Indicate il vostro compleanno più bello e perchè.
4) Quali sono le cose che volevate fare e non avete ancora fatto.
5) Ai tempi quale fu la vostra prima passione sportiva e non?
6) La cosa più bella chiesta da piccini a Babbo Nachele.
7) Il vostro primo idolo musicale.
Fordrisposte:
1) La memoria, ormai, fa le bizze. Credo sicuramente il portiere - Ed Warner il mito totale -, il supereroe, il maestro di qualche arte marziale tanto fica da sapere che si poteva fare il culo a tutti, tutti lo sapevano ma non si diceva mai. Una specie di tacito accordo.
2) Tutti i robottoni, L'uomo tigre, Ken il guerriero, Carletto, I cavalieri dello zodiaco, ma anche cose insospettabili come Candy - anche qui, Terrence mito globale -.
3) Lo scorso anno. A sorpresa pomeriggio di wrestling - fatto, non visto - con Julez e mio fratello. Fantastico.
4) Avere due o tre bambini, finire di comprare casa, parecchi viaggi ai quattro angoli del globo, mantenermi scrivendo libri.
5) Il calcio, mi sembra.
6) Se la giocano il calcio balilla regalato dal nonno e il castello di Greyskull, mi sa.
7) Sono state due, le principali "nascite" musicali. I Queen tra la prima e seconda media, proprio in pieno periodo morte di Freddy Mercury, e i Kiss alla fine del liceo - ho certe foto truccato da Ace Frehley che ancora mostro in giro, nonostante le conseguenze! -.
Ed ecco i fortunati selezionati:
- Julez, perchè anche se ti conosco, mi piace conoscerti sempre una volta di più.
- Dembo, per il timone olandese e il deerstalker. E tutto quello che sarà ancora.
- Dae, che mi ha fatto un ritratto fantastico da wrestler con il cuore grande.
- Cannibale, perchè in fondo non posso fare a meno del mio radical chic preferito.
- Val, expendable onoraria.
- Suara, con Giastin hai creato un mito.
- Zoe, per rendere felice Mr. Wolf.
- Ginger, da greysiano a greysiana.
- Polly, per le bambine fantastiche, Sutivan e la futura trasferta dalle tue parti.
Ecco qui.
Palla vostra, ora dateci dentro.
MrFord
"Knowin' you can always count on me
for sure
that's what friends are for."
Stevie Wonder - "That's what friends are for" -
A seguito delle stesse e delle mie risposte indicherò un pò di compari di blog affinchè raccolgano a loro volta l'invito, e non contento, cercherò di dare anche una motivazione per ognuno di loro, tanto per non sembrare uno che fa catene di Sant'Antonio a cazzo e rivolte a tutti.
Domande:
1) Quando le maestre, le prof e i parenti domandavano "E tu, cosa vorresti fare da grande?" cosa rispondevate? Cosa avete sognato più e più volte di fare? Quanti mestieri? Quanti sogni?
2) Quali erano i vostri cartoni animati preferiti da piccoli? Con quali giochi vi divertivate?
3) Indicate il vostro compleanno più bello e perchè.
4) Quali sono le cose che volevate fare e non avete ancora fatto.
5) Ai tempi quale fu la vostra prima passione sportiva e non?
6) La cosa più bella chiesta da piccini a Babbo Nachele.
7) Il vostro primo idolo musicale.
Fordrisposte:
1) La memoria, ormai, fa le bizze. Credo sicuramente il portiere - Ed Warner il mito totale -, il supereroe, il maestro di qualche arte marziale tanto fica da sapere che si poteva fare il culo a tutti, tutti lo sapevano ma non si diceva mai. Una specie di tacito accordo.
2) Tutti i robottoni, L'uomo tigre, Ken il guerriero, Carletto, I cavalieri dello zodiaco, ma anche cose insospettabili come Candy - anche qui, Terrence mito globale -.
3) Lo scorso anno. A sorpresa pomeriggio di wrestling - fatto, non visto - con Julez e mio fratello. Fantastico.
4) Avere due o tre bambini, finire di comprare casa, parecchi viaggi ai quattro angoli del globo, mantenermi scrivendo libri.
5) Il calcio, mi sembra.
6) Se la giocano il calcio balilla regalato dal nonno e il castello di Greyskull, mi sa.
7) Sono state due, le principali "nascite" musicali. I Queen tra la prima e seconda media, proprio in pieno periodo morte di Freddy Mercury, e i Kiss alla fine del liceo - ho certe foto truccato da Ace Frehley che ancora mostro in giro, nonostante le conseguenze! -.
Ed ecco i fortunati selezionati:
- Julez, perchè anche se ti conosco, mi piace conoscerti sempre una volta di più.
- Dembo, per il timone olandese e il deerstalker. E tutto quello che sarà ancora.
- Dae, che mi ha fatto un ritratto fantastico da wrestler con il cuore grande.
- Cannibale, perchè in fondo non posso fare a meno del mio radical chic preferito.
- Val, expendable onoraria.
- Suara, con Giastin hai creato un mito.
- Zoe, per rendere felice Mr. Wolf.
- Ginger, da greysiano a greysiana.
- Polly, per le bambine fantastiche, Sutivan e la futura trasferta dalle tue parti.
Ecco qui.
Palla vostra, ora dateci dentro.
MrFord
"Knowin' you can always count on me
for sure
that's what friends are for."
Stevie Wonder - "That's what friends are for" -
domenica 17 ottobre 2010
No ordinary family
In questi giorni di impegni serali serrati e presenza ridotta di film nelle mie giornate - Julez sospirerà di sollievo, un pò di tregua ai miei bombardamenti di settima arte! -, ritaglio qualche momento per No ordinary family, che ha affiancato The event nelle nuove proposte "di grido" in arrivo dal piccolo schermo statunitense.
Se il secondo aveva dalla sua un'attesa basata sulle aspettative della trama, No ordinary family giocava tutto - almeno per me, ad un primo impatto - sul fatto che i protagonisti sarebbero stati Julie Benz - l'indimenticata Rita dexteriana - nonchè Michael Chiklis, ovvero l'inossidabile Vic Mackie di The shield - di cui certamente mi deciderò a scrivere, prima o poi -, uno dei personaggi meglio scritti e riusciti degli ultimi anni di serie tv.
Il tutto filtrato da un'atmosfera che richiama Gli incredibili e i cari, vecchi telefilm a tematica famigliare che hanno avuto i loro momenti magici più alti a cavallo fra gli anni ottanta e novanta - da Genitori in blue jeans fino a Beverly Hills 90210 -: i Powell, alle prese con i tipici problemi di casa - lei donna in carriera, lui uomo insoddisfatto del lavoro ma padre sempre presente, due figli adolescenti con tutte le paturnie del caso - si ritrovano, dopo un viaggio in Brasile ed un incidente aereo, dotati di superpoteri senza avere la minima idea di come gestirli.
O meglio: qualche idea ce l'hanno anche, ma molto confusa.
Jim, che si scopre dotato di superforza e di una resistenza tale da permettergli di sopravvivere ai proiettili, decide, con l'amico procuratore George, di improvvisarsi supereroe e riscattare una vita passata, a suo modo di vedere, "in panchina".
Stephanie, divenuta una sorta di versione femminile di Flash, utilizza il proprio potere per ritagliarsi il tempo che, a causa della carriera, non ha mai avuto per gestire casa e famiglia.
Daphne, telepate, trova un ulteriore motivo di chiusura rispetto al mondo esterno, al fidanzato che va a letto con la sua migliore amica e alle menzogne che, a volte, gli adulti possono raccontare ai propri figli, pur se a fin di bene.
JJ, da sempre considerato un passo indietro alla sorella, per rendimento scolastico e capacità d'apprendimento, si ritrova con un super cervello capace di aprirgli il mondo del sapere tanto da permettergli di ribaltare il suo destino in aula e, al contempo, mantenere il segreto sulla sua abilità per vedere i suoi genitori finalmente orgogliosi dei suoi voti.
Il tutto, ovviamente, con i consueti "cattivi" - anch'essi dotati di poteri - pronti a comparire, gli equivoci ed i problemi da identità segrete e tutti i problemi di una famiglia normale - come recita anche lo slogan della serie - con abilità speciali.
Niente di nuovo sotto il sole, sia chiaro, ma una consistente dose di ironia ed un certo brio che conferiscono alle puntate un ritmo che il ben più scialbo The event per ora pare proprio sognarsi, e se di certo Julie Benz e Michael Chiklis non avranno tra le mani il loro nuovo Dexter o il nuovo The shield, è sicuro che le garanzie affinchè questa serie si consolidi e "viva" per almeno due o tre stagioni a buoni livelli ci sono tutte, se gli sceneggiatori non tradiranno troppo le attese.
E poi - pur se di parte, essendo stato per anni un grande lettore di fumetti -, chi non viene preso dal pensiero di cosa farebbe, o potrebbe fare, se investito di colpo di un potere "incredibile"?
Da quale preferirebbe, da cosa deciderebbe di fare con lo stesso.
"Da un grande potere derivano grandi responsabilità", è il motto dell'Uomo Ragno.
Quale sarebbe il mio? Quale il vostro?
Personalmente ho sempre avuto un debole per il volo, ma anche essere un quasi invulnerabile spaccaculi come Jim Powell non deve fare proprio schifo.
Per non parlare della supervelocità.
Facciamo così: io prendo tutto, giusto per godermela sempre al meglio.
MrFord
"Something's in the air,
something's in the air,
something's in the air."
Daft punk - "Superhero" -
Se il secondo aveva dalla sua un'attesa basata sulle aspettative della trama, No ordinary family giocava tutto - almeno per me, ad un primo impatto - sul fatto che i protagonisti sarebbero stati Julie Benz - l'indimenticata Rita dexteriana - nonchè Michael Chiklis, ovvero l'inossidabile Vic Mackie di The shield - di cui certamente mi deciderò a scrivere, prima o poi -, uno dei personaggi meglio scritti e riusciti degli ultimi anni di serie tv.
Il tutto filtrato da un'atmosfera che richiama Gli incredibili e i cari, vecchi telefilm a tematica famigliare che hanno avuto i loro momenti magici più alti a cavallo fra gli anni ottanta e novanta - da Genitori in blue jeans fino a Beverly Hills 90210 -: i Powell, alle prese con i tipici problemi di casa - lei donna in carriera, lui uomo insoddisfatto del lavoro ma padre sempre presente, due figli adolescenti con tutte le paturnie del caso - si ritrovano, dopo un viaggio in Brasile ed un incidente aereo, dotati di superpoteri senza avere la minima idea di come gestirli.
O meglio: qualche idea ce l'hanno anche, ma molto confusa.
Jim, che si scopre dotato di superforza e di una resistenza tale da permettergli di sopravvivere ai proiettili, decide, con l'amico procuratore George, di improvvisarsi supereroe e riscattare una vita passata, a suo modo di vedere, "in panchina".
Stephanie, divenuta una sorta di versione femminile di Flash, utilizza il proprio potere per ritagliarsi il tempo che, a causa della carriera, non ha mai avuto per gestire casa e famiglia.
Daphne, telepate, trova un ulteriore motivo di chiusura rispetto al mondo esterno, al fidanzato che va a letto con la sua migliore amica e alle menzogne che, a volte, gli adulti possono raccontare ai propri figli, pur se a fin di bene.
JJ, da sempre considerato un passo indietro alla sorella, per rendimento scolastico e capacità d'apprendimento, si ritrova con un super cervello capace di aprirgli il mondo del sapere tanto da permettergli di ribaltare il suo destino in aula e, al contempo, mantenere il segreto sulla sua abilità per vedere i suoi genitori finalmente orgogliosi dei suoi voti.
Il tutto, ovviamente, con i consueti "cattivi" - anch'essi dotati di poteri - pronti a comparire, gli equivoci ed i problemi da identità segrete e tutti i problemi di una famiglia normale - come recita anche lo slogan della serie - con abilità speciali.
Niente di nuovo sotto il sole, sia chiaro, ma una consistente dose di ironia ed un certo brio che conferiscono alle puntate un ritmo che il ben più scialbo The event per ora pare proprio sognarsi, e se di certo Julie Benz e Michael Chiklis non avranno tra le mani il loro nuovo Dexter o il nuovo The shield, è sicuro che le garanzie affinchè questa serie si consolidi e "viva" per almeno due o tre stagioni a buoni livelli ci sono tutte, se gli sceneggiatori non tradiranno troppo le attese.
E poi - pur se di parte, essendo stato per anni un grande lettore di fumetti -, chi non viene preso dal pensiero di cosa farebbe, o potrebbe fare, se investito di colpo di un potere "incredibile"?
Da quale preferirebbe, da cosa deciderebbe di fare con lo stesso.
"Da un grande potere derivano grandi responsabilità", è il motto dell'Uomo Ragno.
Quale sarebbe il mio? Quale il vostro?
Personalmente ho sempre avuto un debole per il volo, ma anche essere un quasi invulnerabile spaccaculi come Jim Powell non deve fare proprio schifo.
Per non parlare della supervelocità.
Facciamo così: io prendo tutto, giusto per godermela sempre al meglio.
MrFord
"Something's in the air,
something's in the air,
something's in the air."
Daft punk - "Superhero" -
venerdì 15 ottobre 2010
Devil red
Credo di essere stato in attesa di Devil red da quando iniziai a leggere il ciclo di Hap&Leonard.
Essendo giunto colpevolmente in ritardo, questo sarebbe stato il primo dei romanzi di Lansdale dedicati alla migliore coppia di avventurieri del noir recente e non solo che avrei acquistato e letto "in tempo reale".
L'emozione del giorno dell'uscita, congiunta ad un rincoglionimento crescente legato all'età che avanza - e che tra poco crescerà di nuovo, quasi in contemporanea con quella di Lansdale, nonostante solo pochi giorni fa mi sia stato chiesto se avessi già compiuto i diciott'anni - mi hanno addirittura fatto dimenticare il pin del bancomat, costringendomi ad utilizzare gli ultimi contanti rimasti nel portafoglio per non perdere neppure un secondo di tempo e lettura, oltre a dovermi forzatamente recare in banca per l'erogazione di una nuova tessera nel mio giorno libero e ad interrompere la lettura di un altro romanzo, cosa che non faccio praticamente mai.
Un vero e proprio evento, in poche parole, paragonabile, per quest'autunno, soltanto all'uscita di Inception.
E il vecchio Joe mi ha ripagato, pur se all'oscuro di tutto, dei sacrifici fatti, sfornando il miglior romanzo della serie dai tempi de Il mambo degli orsi, riuscendo a convogliare ironia, attesa, suspance, azione, i consueti morti ammazzati ed un nuovo, terribile nemico, nonchè una buona dose di sentimento legata ad un'ulteriore - e noi che pensavamo fosse impossibile - avvicinamento dei due protagonisti, mai come ora davvero "fratelli", se non di sangue, di fatto, in un vero e proprio concentrato di adrenalina su carta stampata.
Il primo, vero approccio da investigatori privati - o presunti tali - dei nostri riesce a regalare momenti pregni di perle e risate - l'incontro con gli esponenti della Dixie mafia su tutti -, nuovi, interessanti comprimari - lo scostante Carson -, vecchie conoscenze - Vanilla ride, della quale attendo con ansia, a questo punto, il romanzo che pare Lansdale dedicherà alla giovane, spietata killer - ed una trama dagli inaspettati sviluppi, che vede per la prima volta dai tempi della loro avventura d'esordio - il già citato Una stagione selvaggia - la coppia di detective improvvisati davvero ed inesorabilmente in difficoltà e di fronte alla concreta possibilità di lasciarci le penne.
Non che non fosse già accaduto, ma per la prima volta ho avuto la netta impressione che Lansdale volesse dare una nuova direzione alle storia di Hap e Leonard regalando ai lettori qualcosa di talmente grave, pesante ed inaspettato da risultare insostenibile con l'incedere della conclusione del romanzo: nulla può essere rivelato a priori, ma certo gli avvenimenti di questo Devil red avranno il "merito" - se di merito si può parlare, pensandola esattamente come Hap - di scuotere il suddetto dall'esaurimento che gli provocò il primo incontro con Vanilla ride e la Dixie mafia e con la sicuramente spiacevole abitudine all'uccisione presa dai due amici negli ultimi anni delle loro vite.
Difesa, diritto, giustizia, eppure sempre morte distribuita come se si fosse messaggeri di Dio.
Troppo, per il democratico Hap, che non esiterà comunque a lasciare libero il suo "lato oscuro" quando Devil red entrerà nella sua vita con la volontà di cancellare dalla propria strada chiunque si sia messo sulle tracce dei suoi omicidi, non lesinando il trattamento anche per amici, congiunti e familiari dei ficcanaso di turno.
Con Devil red non si scherza affatto.
Ma che dire, neanche con Hap e Leonard.
E per quanto riguarda Lansdale, non se ne parla neppure.
Un noir tesissimo, divertito, divertente, dal ritmo dilatato eppure incalzante, un inno alla voglia di fare la scelta giusta e di sbagliare per giungere a farla, nonchè all'amicizia che sconfina in qualcosa che non si può spiegare, se non si ha mai avuto un Fratello.
Sì, con la F maiuscola.
Tutto questo, e senza neppure citare il deerstalker.
Cazzo, lo voglio anch'io, adesso.
Non fosse per metterlo, almeno per cagarci dentro.
Deerstalker.
Sempre.
MrFord
"The devil's right hand,
the devil's right hand,
mama said the pistol
is the devil's right hand."
Johnny Cash - "Devil's right hand"-
Essendo giunto colpevolmente in ritardo, questo sarebbe stato il primo dei romanzi di Lansdale dedicati alla migliore coppia di avventurieri del noir recente e non solo che avrei acquistato e letto "in tempo reale".
L'emozione del giorno dell'uscita, congiunta ad un rincoglionimento crescente legato all'età che avanza - e che tra poco crescerà di nuovo, quasi in contemporanea con quella di Lansdale, nonostante solo pochi giorni fa mi sia stato chiesto se avessi già compiuto i diciott'anni - mi hanno addirittura fatto dimenticare il pin del bancomat, costringendomi ad utilizzare gli ultimi contanti rimasti nel portafoglio per non perdere neppure un secondo di tempo e lettura, oltre a dovermi forzatamente recare in banca per l'erogazione di una nuova tessera nel mio giorno libero e ad interrompere la lettura di un altro romanzo, cosa che non faccio praticamente mai.
Un vero e proprio evento, in poche parole, paragonabile, per quest'autunno, soltanto all'uscita di Inception.
E il vecchio Joe mi ha ripagato, pur se all'oscuro di tutto, dei sacrifici fatti, sfornando il miglior romanzo della serie dai tempi de Il mambo degli orsi, riuscendo a convogliare ironia, attesa, suspance, azione, i consueti morti ammazzati ed un nuovo, terribile nemico, nonchè una buona dose di sentimento legata ad un'ulteriore - e noi che pensavamo fosse impossibile - avvicinamento dei due protagonisti, mai come ora davvero "fratelli", se non di sangue, di fatto, in un vero e proprio concentrato di adrenalina su carta stampata.
Il primo, vero approccio da investigatori privati - o presunti tali - dei nostri riesce a regalare momenti pregni di perle e risate - l'incontro con gli esponenti della Dixie mafia su tutti -, nuovi, interessanti comprimari - lo scostante Carson -, vecchie conoscenze - Vanilla ride, della quale attendo con ansia, a questo punto, il romanzo che pare Lansdale dedicherà alla giovane, spietata killer - ed una trama dagli inaspettati sviluppi, che vede per la prima volta dai tempi della loro avventura d'esordio - il già citato Una stagione selvaggia - la coppia di detective improvvisati davvero ed inesorabilmente in difficoltà e di fronte alla concreta possibilità di lasciarci le penne.
Non che non fosse già accaduto, ma per la prima volta ho avuto la netta impressione che Lansdale volesse dare una nuova direzione alle storia di Hap e Leonard regalando ai lettori qualcosa di talmente grave, pesante ed inaspettato da risultare insostenibile con l'incedere della conclusione del romanzo: nulla può essere rivelato a priori, ma certo gli avvenimenti di questo Devil red avranno il "merito" - se di merito si può parlare, pensandola esattamente come Hap - di scuotere il suddetto dall'esaurimento che gli provocò il primo incontro con Vanilla ride e la Dixie mafia e con la sicuramente spiacevole abitudine all'uccisione presa dai due amici negli ultimi anni delle loro vite.
Difesa, diritto, giustizia, eppure sempre morte distribuita come se si fosse messaggeri di Dio.
Troppo, per il democratico Hap, che non esiterà comunque a lasciare libero il suo "lato oscuro" quando Devil red entrerà nella sua vita con la volontà di cancellare dalla propria strada chiunque si sia messo sulle tracce dei suoi omicidi, non lesinando il trattamento anche per amici, congiunti e familiari dei ficcanaso di turno.
Con Devil red non si scherza affatto.
Ma che dire, neanche con Hap e Leonard.
E per quanto riguarda Lansdale, non se ne parla neppure.
Un noir tesissimo, divertito, divertente, dal ritmo dilatato eppure incalzante, un inno alla voglia di fare la scelta giusta e di sbagliare per giungere a farla, nonchè all'amicizia che sconfina in qualcosa che non si può spiegare, se non si ha mai avuto un Fratello.
Sì, con la F maiuscola.
Tutto questo, e senza neppure citare il deerstalker.
Cazzo, lo voglio anch'io, adesso.
Non fosse per metterlo, almeno per cagarci dentro.
Deerstalker.
Sempre.
MrFord
"The devil's right hand,
the devil's right hand,
mama said the pistol
is the devil's right hand."
Johnny Cash - "Devil's right hand"-
giovedì 14 ottobre 2010
Il covo dei contrabbandieri
Di recente ammetto di stare riscoprendo il lato "avventuroso" di Fritz Lang, genio totale del Cinema che nel mio personale immaginario è associabile principalmente a M - Il mostro di Dusseldorf, uno di quei film che tutti sarebbero obbligati a vedere almeno una volta nella vita.
Grazie, infatti, alla riscoperta del dittico La tigre di Eschnapur/Il sepolcro indiano, ho potuto ammirare la maestria di uno dei pionieri della settima arte al servizio del puro e semplice Cinema d'avventura, quello che, decine d'anni dopo, avrebbe prodotto Indiana Jones e tutti quei film capaci di mettere quasi sostanzialmente d'accordo critica di nicchia e pubblico di massa.
Anche in questo caso, pur spostando il nucleo della vicenda dall'esotica India alla brumosa campagna inglese del tardo settecento, Lang imbastisce una storia avvincente dalla non da poco dote di poter essere guardata da due punti di vista: quello del giovane orfano John, una sorta di novello Oliver Twist alla ricerca di un amico, un punto di riferimento e di quello che potrebbe essere il suo futuro, e del carismatico Fox, avventuriero dal nobile lignaggio ma dalle abitudini certamente più sotterranee di contrabbandiere, ribelle ed arrogante, eppure da subito protettivo rispetto al piccolo John.
Un romanzo di formazione sviluppato in due direzioni, che spesso e volentieri diviene una delizia per gli occhi sia per le scenografie e la messa in scena - un gotico da fare invidia a Tim Burton - sia per la pulizia e la perizia della regia combinata alla linearità esemplare della sceneggiatura.
Un gioiellino che avvince e cattura, di quei "vecchi film" da guardare nel pomeriggio, come rapiti, senza poter effettivamente dare una spiegazione sul perchè, e ancor più sul come quelle immagini che sanno di antico o quelle storie soltanto all'apparenza così ingenue nella loro risoluzione riescano a costruire un vero e proprio alone di mito capace di ammaliare ogni spettatore, anche quello meno abituato a confrontarsi con un Cinema così classico.
Oserei quasi dire che, a confronto di capolavori inarrivabili come il succitato M - Il mostro di Dusseldorf, per un'audience poco avvezza alle opere dei Maestri come Lang, una cosa scorrevole, coinvolgente e piacevole come Il covo dei contrabbandieri potrebbe risultare una visione più fruibile e, senza dubbio, goduta al meglio.
Con questo non voglio dire di lasciare perdere le pellicole leggendarie e fondamentali del grande schermo, ma forse, se proprio non si è sicuri, di iniziare - nel caso del vecchio Fritz - da un film come questo, specchio di tutta la sua genialità visiva eppure prodotto capace di abbracciare praticamente ogni tipo di platea.
Del resto, che volete farci!? Ci sono registi davvero così incredibili da essere in grado di fare tutto, stupendo sempre.
MrFord
"He's got things to see on the spanish main,
he's gone away for a while,
he's gone skullduggering on the spanish main,
he's gone away far away."
Incredible string band - "Old buccaneer" -
Grazie, infatti, alla riscoperta del dittico La tigre di Eschnapur/Il sepolcro indiano, ho potuto ammirare la maestria di uno dei pionieri della settima arte al servizio del puro e semplice Cinema d'avventura, quello che, decine d'anni dopo, avrebbe prodotto Indiana Jones e tutti quei film capaci di mettere quasi sostanzialmente d'accordo critica di nicchia e pubblico di massa.
Anche in questo caso, pur spostando il nucleo della vicenda dall'esotica India alla brumosa campagna inglese del tardo settecento, Lang imbastisce una storia avvincente dalla non da poco dote di poter essere guardata da due punti di vista: quello del giovane orfano John, una sorta di novello Oliver Twist alla ricerca di un amico, un punto di riferimento e di quello che potrebbe essere il suo futuro, e del carismatico Fox, avventuriero dal nobile lignaggio ma dalle abitudini certamente più sotterranee di contrabbandiere, ribelle ed arrogante, eppure da subito protettivo rispetto al piccolo John.
Un romanzo di formazione sviluppato in due direzioni, che spesso e volentieri diviene una delizia per gli occhi sia per le scenografie e la messa in scena - un gotico da fare invidia a Tim Burton - sia per la pulizia e la perizia della regia combinata alla linearità esemplare della sceneggiatura.
Un gioiellino che avvince e cattura, di quei "vecchi film" da guardare nel pomeriggio, come rapiti, senza poter effettivamente dare una spiegazione sul perchè, e ancor più sul come quelle immagini che sanno di antico o quelle storie soltanto all'apparenza così ingenue nella loro risoluzione riescano a costruire un vero e proprio alone di mito capace di ammaliare ogni spettatore, anche quello meno abituato a confrontarsi con un Cinema così classico.
Oserei quasi dire che, a confronto di capolavori inarrivabili come il succitato M - Il mostro di Dusseldorf, per un'audience poco avvezza alle opere dei Maestri come Lang, una cosa scorrevole, coinvolgente e piacevole come Il covo dei contrabbandieri potrebbe risultare una visione più fruibile e, senza dubbio, goduta al meglio.
Con questo non voglio dire di lasciare perdere le pellicole leggendarie e fondamentali del grande schermo, ma forse, se proprio non si è sicuri, di iniziare - nel caso del vecchio Fritz - da un film come questo, specchio di tutta la sua genialità visiva eppure prodotto capace di abbracciare praticamente ogni tipo di platea.
Del resto, che volete farci!? Ci sono registi davvero così incredibili da essere in grado di fare tutto, stupendo sempre.
MrFord
"He's got things to see on the spanish main,
he's gone away for a while,
he's gone skullduggering on the spanish main,
he's gone away far away."
Incredible string band - "Old buccaneer" -
Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo
Prima premessa: da anni reputo Terry Gilliam, con tutta la stima per il suo lavoro passato e per aver fatto parte dei Monty Phyton, un regista in piena caduta libera.
Seconda premessa: ho trovato Tideland uno dei film più pretenzioni, vuoti e noiosi delle ultime stagioni cinematografiche.
Terza premessa: l'idea di approcciare Parnassus rischiava di provocarmi l'effetto del fuoco di Sant'Antonio, nonostante lo stesso Gilliam, quando ebbi occasione di incontrarlo al volo, mi disse di avere fiducia perchè l'avrei trovato simile alle sue prime opere.
Risultato parte prima: spinto da Julez, ieri sera ho finalmente trovato il coraggio di affrontare la visione.
Risultato parte seconda: Parnassus non solo mi ha sorpreso, ma pur non essendo all'altezza dei capolavori di Gilliam mi ha sfiziato assai.
Famoso più che altro per la morte in corso d'opera di Heath Ledger e per l'intervento di Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell a rendere possibile la conclusione delle riprese e la donazione del loro compenso alla figlia dello stesso Ledger, Parnassus partiva svantaggiato agli occhi del pubblico "hardcore" di Gilliam a causa dei passi falsi mostrati dal regista con il già citato Tideland ed il precedente I fratelli Grimm e l'incantevole strega, che avevano contribuito ad allontanare molti dei fan della prima ora dell'ex Monty Phyton.
Al contrario, in barba a tutti i pregiudizi che mi ero fatto, è stato invece in grado di stupirmi e rendere la visione piacevole ed interessante, scomodando sorprendentemente, nel trattare temi quali la verità e l'immaginario, anche un rimando ad Inception.
L'idea di uno spettacolo itinerante giocato sulla fuga di Parnassus dal Diavolo e dalle scommesse che da millenni legano a doppio filo questi due impenitenti giocatori pare da subito vincente, sia nelle parentesi grottesche - il primo confronto con i tipici sbronzi da weekend anglosassone - che nei momenti capaci, effettivamente, di ricordare Munchausen e Brazil, più che per l'originalità di trama e soluzioni, per la meraviglia che scenografie ed effetti provocano nello spettatore, specie se filtrati dalla vicenda che lega i due antagonisti e il loro ago della bilancia, impersonato, più che dalla figlia di Parnassus, personaggio ugualmente cardine, dal molteplice Tony di Ledger/Depp/Law/Farrell.
Da un lato - quello del Diavolo, per intenderci - la voglia di continuare a giocare senza requie, avendo trovato lo sfidante perfetto, anche quando ci sarebbero tutte le condizioni per una vittoria, dall'altro - quello di Parnassus, ma si potrebbe tranquillamente dire dell'Uomo - l'attrattiva della vita eterna scippata ai propri desideri dalla nascita di una figlia, dall'amore che genera amore e diviene una ragione di vita anche più forte della vanità.
Una sorta, a ben guardare, di analisi della crescita e dei cambiamenti che, prima o poi, toccano e riguardano ogni uomo: che non ha un giusto o uno sbagliato, un inizio o una fine, ma che è frutto di una continua lotta e degli immaginari che ne prendono parte, capaci di deformare paesaggi e colori a seconda della loro percezione, dei sogni, delle idee, della vita stessa.
Il tutto senza rischiare un finale consolatorio, ma sacrificando i suoi protagonisti sull'altare della solitudine e dei debiti pagati a loro stessi, più che ai loro avversari, e ad una felicità che corre di pari passo con la purezza dei sentimenti.
Detto così potrà suonare quasi disneyano, ma anche la Pixar è di quella parrocchia, quindi non fate troppo gli schizzinosi.
Ad ogni modo, l'impressione è che la lotta continuerà, pur se in campi di battaglia differenti, ma non per questo sarà meno sentita o profonda.
Semplicemente, chi avrà rinunciato a qualcosa pensando al guadagno puro e semplice, scoprirà, al contrario, che qualcosa sarà andato perduto.
Complimenti, Terry.
Mi hai fatto proprio ricredere.
Dovessimo rivederci, te ne darò atto.
MrFord
"If they were right, I'd agree,
but it's them they know, not me,
now there's a way, and I know,
that I have to go away."
Cat Stevens - "Father and son" -
Seconda premessa: ho trovato Tideland uno dei film più pretenzioni, vuoti e noiosi delle ultime stagioni cinematografiche.
Terza premessa: l'idea di approcciare Parnassus rischiava di provocarmi l'effetto del fuoco di Sant'Antonio, nonostante lo stesso Gilliam, quando ebbi occasione di incontrarlo al volo, mi disse di avere fiducia perchè l'avrei trovato simile alle sue prime opere.
Risultato parte prima: spinto da Julez, ieri sera ho finalmente trovato il coraggio di affrontare la visione.
Risultato parte seconda: Parnassus non solo mi ha sorpreso, ma pur non essendo all'altezza dei capolavori di Gilliam mi ha sfiziato assai.
Famoso più che altro per la morte in corso d'opera di Heath Ledger e per l'intervento di Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell a rendere possibile la conclusione delle riprese e la donazione del loro compenso alla figlia dello stesso Ledger, Parnassus partiva svantaggiato agli occhi del pubblico "hardcore" di Gilliam a causa dei passi falsi mostrati dal regista con il già citato Tideland ed il precedente I fratelli Grimm e l'incantevole strega, che avevano contribuito ad allontanare molti dei fan della prima ora dell'ex Monty Phyton.
Al contrario, in barba a tutti i pregiudizi che mi ero fatto, è stato invece in grado di stupirmi e rendere la visione piacevole ed interessante, scomodando sorprendentemente, nel trattare temi quali la verità e l'immaginario, anche un rimando ad Inception.
L'idea di uno spettacolo itinerante giocato sulla fuga di Parnassus dal Diavolo e dalle scommesse che da millenni legano a doppio filo questi due impenitenti giocatori pare da subito vincente, sia nelle parentesi grottesche - il primo confronto con i tipici sbronzi da weekend anglosassone - che nei momenti capaci, effettivamente, di ricordare Munchausen e Brazil, più che per l'originalità di trama e soluzioni, per la meraviglia che scenografie ed effetti provocano nello spettatore, specie se filtrati dalla vicenda che lega i due antagonisti e il loro ago della bilancia, impersonato, più che dalla figlia di Parnassus, personaggio ugualmente cardine, dal molteplice Tony di Ledger/Depp/Law/Farrell.
Da un lato - quello del Diavolo, per intenderci - la voglia di continuare a giocare senza requie, avendo trovato lo sfidante perfetto, anche quando ci sarebbero tutte le condizioni per una vittoria, dall'altro - quello di Parnassus, ma si potrebbe tranquillamente dire dell'Uomo - l'attrattiva della vita eterna scippata ai propri desideri dalla nascita di una figlia, dall'amore che genera amore e diviene una ragione di vita anche più forte della vanità.
Una sorta, a ben guardare, di analisi della crescita e dei cambiamenti che, prima o poi, toccano e riguardano ogni uomo: che non ha un giusto o uno sbagliato, un inizio o una fine, ma che è frutto di una continua lotta e degli immaginari che ne prendono parte, capaci di deformare paesaggi e colori a seconda della loro percezione, dei sogni, delle idee, della vita stessa.
Il tutto senza rischiare un finale consolatorio, ma sacrificando i suoi protagonisti sull'altare della solitudine e dei debiti pagati a loro stessi, più che ai loro avversari, e ad una felicità che corre di pari passo con la purezza dei sentimenti.
Detto così potrà suonare quasi disneyano, ma anche la Pixar è di quella parrocchia, quindi non fate troppo gli schizzinosi.
Ad ogni modo, l'impressione è che la lotta continuerà, pur se in campi di battaglia differenti, ma non per questo sarà meno sentita o profonda.
Semplicemente, chi avrà rinunciato a qualcosa pensando al guadagno puro e semplice, scoprirà, al contrario, che qualcosa sarà andato perduto.
Complimenti, Terry.
Mi hai fatto proprio ricredere.
Dovessimo rivederci, te ne darò atto.
MrFord
"If they were right, I'd agree,
but it's them they know, not me,
now there's a way, and I know,
that I have to go away."
Cat Stevens - "Father and son" -
mercoledì 13 ottobre 2010
La vita di O-Haru, donna galante
A volte si esce intimoriti dal confronto con quelli che sono normalmente definiti "mostri sacri".
Onestamente, forse un pò fuori allenamento date le visioni sicuramente più "ricreative" degli ultimi tempi, ho concluso il mio incontro con uno dei capisaldi del Cinema giapponese - e non solo - quasi esausto.
Allo stesso tempo, occorre ammetterlo, anche meravigliato di quanto, tecnicamente ed emotivamente, Mizoguchi è stato in grado di fare quasi ottant'anni fa raccontando una storia ambientata in pieno seicento eppure senza tempo, che se fosse stata un film italiano, di certo sarebbe stata raccontata dal Maestro Fellini, a mio parere il miglior regista nostrano di tutti i tempi.
La sobrietà e lo statuario incedere della pellicola, uniti alla leggerezza nel tocco di Mizoguchi, rendono le immagini assolutamente ipnotiche, nonostante la materia estremamente realistica della vicenda ed il pessimo stato del master da cui è stata tratta l'edizione in dvd, che, in questo caso, è associabile alla parola "restaurata" almeno quanto i film di Moccia al Cinema.
L'incredibile levità di alcuni piani sequenza girati prevalentemente grazie a carrelli laterali lascia davvero a bocca aperta, e fa subito venire alla mente l'Ozu dei tempi migliori - e da venire, ragionando rispetto all'epoca -, ma è con la delicatezza che il regista dedica alla sua protagonista che lo spettatore viene effettivamente conquistato: la giovane O-Haru, figlia di samurai, è espulsa con la sua famiglia dalla corte in cui risiede per aver ceduto al corteggiamento di un ragazzo dalle umili origini - un irriconoscibile, e davvero imberbe, Toshiro Mifune, uno dei miei personali miti cinematografici di tutti i tempi -, e solo dal caso - e dalla sua bellezza - è salvata da un destino di povera e scelta come concubina per un nobile alla ricerca di un erede a causa della sterilità della moglie.
Avuto il bimbo, ancora una volta O-Haru sarà allontanata e lasciata senza nulla, iniziando la sua età adulta percorrendo una via che la porterà alla separazione dai genitori, alla prostituzione, a uomini che la tradiranno o ameranno, e ad una bellezza che rimarrà attorno a lei come una sorta di aura anche quando il tempo avrà fatto il suo corso, e l'immagine del primo amato tornerà a chiamarla come il ricordo di un tempo perduto, così come quella del figlio continuerà a fuggirle, inesorabilmente, nonostante i suoi disperati sforzi.
Una pellicola socialmente più che avanti nei tempi, capace di trattare senza demagogia e con assoluta immediatezza e semplicità tematiche che, allora, quasi risultavano essere solo immaginate, sia sulla posizione della donna che sulla concezione del matrimonio.
Come Gertrud di Dreyer, Cabiria di Fellini o la Contessa Olenska di Scorsese, anche O-Haru porta con se tutta la forza delle grandi dame del Cinema, vessate ed offese dall'amore, e dall'amore stesso innalzate come Muse in grado di affrontare ogni prova della vita.
Se paragonate alle loro controparti maschili - il Casanova, sempre di Fellini, o il Barry Lyndon di Kubrick, tanto per citarne due protagonisti di capolavori inarrivabili - appare evitente quanto ancora noi tentati, violenti, incerti figli del "sesso forte" abbiamo da imparare dalle nostre metà per poterci giocare la partita con la vita ad armi pari.
MrFord
"No woman, no cry
no woman, no cry
Oh! Little darlin', don't shed no tears,
no woman, no cry."
Bob Marley - "No woman no cry"-
Onestamente, forse un pò fuori allenamento date le visioni sicuramente più "ricreative" degli ultimi tempi, ho concluso il mio incontro con uno dei capisaldi del Cinema giapponese - e non solo - quasi esausto.
Allo stesso tempo, occorre ammetterlo, anche meravigliato di quanto, tecnicamente ed emotivamente, Mizoguchi è stato in grado di fare quasi ottant'anni fa raccontando una storia ambientata in pieno seicento eppure senza tempo, che se fosse stata un film italiano, di certo sarebbe stata raccontata dal Maestro Fellini, a mio parere il miglior regista nostrano di tutti i tempi.
La sobrietà e lo statuario incedere della pellicola, uniti alla leggerezza nel tocco di Mizoguchi, rendono le immagini assolutamente ipnotiche, nonostante la materia estremamente realistica della vicenda ed il pessimo stato del master da cui è stata tratta l'edizione in dvd, che, in questo caso, è associabile alla parola "restaurata" almeno quanto i film di Moccia al Cinema.
L'incredibile levità di alcuni piani sequenza girati prevalentemente grazie a carrelli laterali lascia davvero a bocca aperta, e fa subito venire alla mente l'Ozu dei tempi migliori - e da venire, ragionando rispetto all'epoca -, ma è con la delicatezza che il regista dedica alla sua protagonista che lo spettatore viene effettivamente conquistato: la giovane O-Haru, figlia di samurai, è espulsa con la sua famiglia dalla corte in cui risiede per aver ceduto al corteggiamento di un ragazzo dalle umili origini - un irriconoscibile, e davvero imberbe, Toshiro Mifune, uno dei miei personali miti cinematografici di tutti i tempi -, e solo dal caso - e dalla sua bellezza - è salvata da un destino di povera e scelta come concubina per un nobile alla ricerca di un erede a causa della sterilità della moglie.
Avuto il bimbo, ancora una volta O-Haru sarà allontanata e lasciata senza nulla, iniziando la sua età adulta percorrendo una via che la porterà alla separazione dai genitori, alla prostituzione, a uomini che la tradiranno o ameranno, e ad una bellezza che rimarrà attorno a lei come una sorta di aura anche quando il tempo avrà fatto il suo corso, e l'immagine del primo amato tornerà a chiamarla come il ricordo di un tempo perduto, così come quella del figlio continuerà a fuggirle, inesorabilmente, nonostante i suoi disperati sforzi.
Una pellicola socialmente più che avanti nei tempi, capace di trattare senza demagogia e con assoluta immediatezza e semplicità tematiche che, allora, quasi risultavano essere solo immaginate, sia sulla posizione della donna che sulla concezione del matrimonio.
Come Gertrud di Dreyer, Cabiria di Fellini o la Contessa Olenska di Scorsese, anche O-Haru porta con se tutta la forza delle grandi dame del Cinema, vessate ed offese dall'amore, e dall'amore stesso innalzate come Muse in grado di affrontare ogni prova della vita.
Se paragonate alle loro controparti maschili - il Casanova, sempre di Fellini, o il Barry Lyndon di Kubrick, tanto per citarne due protagonisti di capolavori inarrivabili - appare evitente quanto ancora noi tentati, violenti, incerti figli del "sesso forte" abbiamo da imparare dalle nostre metà per poterci giocare la partita con la vita ad armi pari.
MrFord
"No woman, no cry
no woman, no cry
Oh! Little darlin', don't shed no tears,
no woman, no cry."
Bob Marley - "No woman no cry"-
martedì 12 ottobre 2010
The event
In casa Ford, ieri sera, oltre ai consueti Dexter e Glee - di cui parlerò più diffusamente alla fine delle rispettive stagioni - si è affrontata la prima puntata del serial che, sulla carta, dovrebbe andare a sostituire e - nell'ottica dei produttori - moltiplicare il successo del prematuramente scomparso Flashforward: The Event.
Da quello che si evince dalla visione di questi primi quaranta minuti pare che tutto giri attorno ad una sorta di complotto che riguarda il presidente degli Stati Uniti raccontato attraverso flashback legati ai vari personaggi e ad un aereo misteriosamente scomparso.
Così, a occhio e croce, tolta l'isola e aggiunto il presidente afroamericano in pieno stile primo 24, mi viene in mente una sola parola: Lost.
Purtroppo, però - e l'esempio di Flashforward dovrebbe essere lampante, in questi casi -, per quanto televisioni private, produttori, sceneggiatori e registi possano pensare, di Lost ce n'è stato uno, ed uno solo resterà.
L'esempio e lo scossone che la creazione di Abrams ha dato al panorama del piccolo schermo in questo inizio millennio è qualcosa di incredibile, se vogliamo anche maggiore di quello che diede Twin peaks alla tv degli anni novanta: pretendere e pensare che un'altra serie possa palesemente ispirarvisi senza correre rischi enormi di banalità e incongruenze galoppanti è davvero altissimo, e può portare a fallimenti di prodotti sulla carta neppure così scadenti - di nuovo Flashforward, che trovò la sua puntata migliore in "Believe", a mio parere il capitolo più "personale" e meno debitore ai Lost di turno della serie - o potenziali tali, dato che, in tutta onestà, non credo che The event possa fare una fine tanto migliore di quella del suo predecessore.
Troppe cose e troppo in fretta, personaggi con spessore minimo, tecniche non più innovative - l'uso dei flashback per creare interesse e mistero attorno ai protagonisti - ed una volontà di stupire dagli effetti praticamente nulli sullo spettatore.
Peccato davvero, perchè la campagna pubblicitaria e l'interesse che correva attorno a questo nuovo prodotto avevano alimentato una più che discreta aspettativa, mentre ora pare proprio che si dovrà assistere ai prossimi episodi sperando nel meno peggio.
Che possiamo farci, del resto!?
Prendere il posto di Lost sarà davvero un'impresa degna della più lunga Odissea di un Desmond alla ricerca della sua Penny.
MrFord
"Maybe it's a change of plan
now that your dreams has left me behind
or is it another man
who didn't care that you were mine."
Mat Kearney - "Crashing down" -
Da quello che si evince dalla visione di questi primi quaranta minuti pare che tutto giri attorno ad una sorta di complotto che riguarda il presidente degli Stati Uniti raccontato attraverso flashback legati ai vari personaggi e ad un aereo misteriosamente scomparso.
Così, a occhio e croce, tolta l'isola e aggiunto il presidente afroamericano in pieno stile primo 24, mi viene in mente una sola parola: Lost.
Purtroppo, però - e l'esempio di Flashforward dovrebbe essere lampante, in questi casi -, per quanto televisioni private, produttori, sceneggiatori e registi possano pensare, di Lost ce n'è stato uno, ed uno solo resterà.
L'esempio e lo scossone che la creazione di Abrams ha dato al panorama del piccolo schermo in questo inizio millennio è qualcosa di incredibile, se vogliamo anche maggiore di quello che diede Twin peaks alla tv degli anni novanta: pretendere e pensare che un'altra serie possa palesemente ispirarvisi senza correre rischi enormi di banalità e incongruenze galoppanti è davvero altissimo, e può portare a fallimenti di prodotti sulla carta neppure così scadenti - di nuovo Flashforward, che trovò la sua puntata migliore in "Believe", a mio parere il capitolo più "personale" e meno debitore ai Lost di turno della serie - o potenziali tali, dato che, in tutta onestà, non credo che The event possa fare una fine tanto migliore di quella del suo predecessore.
Troppe cose e troppo in fretta, personaggi con spessore minimo, tecniche non più innovative - l'uso dei flashback per creare interesse e mistero attorno ai protagonisti - ed una volontà di stupire dagli effetti praticamente nulli sullo spettatore.
Peccato davvero, perchè la campagna pubblicitaria e l'interesse che correva attorno a questo nuovo prodotto avevano alimentato una più che discreta aspettativa, mentre ora pare proprio che si dovrà assistere ai prossimi episodi sperando nel meno peggio.
Che possiamo farci, del resto!?
Prendere il posto di Lost sarà davvero un'impresa degna della più lunga Odissea di un Desmond alla ricerca della sua Penny.
MrFord
"Maybe it's a change of plan
now that your dreams has left me behind
or is it another man
who didn't care that you were mine."
Mat Kearney - "Crashing down" -
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