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giovedì 7 gennaio 2016

Il ponte delle spie

Regia: Steven Spielberg
Origine: USA, Germania, India
Anno:
2015
Durata:
141'






La trama (con parole mie): siamo sul finire degli anni cinquanta quando a New York viene catturata dai servizi segreti statunitensi la spia russa Rudolf Abel, da anni al servizio dell'Unione Sovietica e legata alle informazioni trapelate dagli USA a proposito dei progressi nella corsa agli armamenti.
L'avvocato assicurativo con passato da penalista James B. Donovan viene assegnato alla Difesa dell'uomo in tribunale dai soci più anziani del suo studio, per dimostrare che negli Stati Uniti è garantito il rispetto legale anche a fronte di casi di spionaggio straniero: nel corso della preparazione al processo, Donovan stringe un legame particolare con Abel, e forte della sua ferma convinzione di fornire all'assistito la migliore assistenza possibile riesce ad ottenere una pena che non preveda l'esecuzione capitale.
Questo successo tornerà utile agli States quando, quasi contemporaneamente a questi eventi, un pilota della marina abbattuto in territorio sovietico ed un giovane studente di economia arrestato dalla polizia della Germania Est diverranno pedine di scambio per la restituzione a Mosca di Abel: per reggere le fila delle negoziazioni a Berlino sarà dunque chiamato proprio Donovan.










Avevo davvero non pochi timori della vigilia, rispetto a questo Il ponte delle spie, ultimo lavoro del mostro sacro Steven Spielberg uscito in sordina poco prima di natale nel pieno del fervore pubblicitario legato all'approdo in sala del capitolo sette della saga di Star Wars: del resto, considerati gli ultimi, pessimi War Horse e Lincoln, le quotazioni qui al Saloon del vecchio Steven avevano subito un sostenuto tracollo, e l'idea di una spy story dal sapore fin troppo classico suonava stonata anche ad un fan sfegatato del Cinema made in USA come il sottoscritto.
Fortunatamente, e nonostante un soggetto old school, una narrazione che più classica non si potrebbe immaginare, un approccio che ricorda i film dell'epoca dei grandi Studios, il risultato finale dell'ultima fatica dell'autore di cult come Duel e Lo squalo - solo per citarne un paio a caso - è senza ombra di dubbio più che discreto, tecnicamente impeccabile - come sempre quando si tratta di Spielberg, del resto -, dal ritmo sostenuto nonostante, di fatto, di tutto si tratti tranne che di un prodotto d'azione, dall'ottima e funzionale atmosfera e dalla sincera voglia di riflettere e colpire la pancia ed il cuore dell'audience da parte non solo del regista, ma anche degli autori - tra i quali si fanno notare anche i Coen, che pizzicano in almeno un paio di punti della sceneggiatura con i loro guizzi grotteschi -.
La vicenda - ispirata alla storia vera - dell'avvocato James B. Donovan pare una di quelle vecchie storie che avrebbero potuto raccontare i nostri nonni, intrisa fino al midollo di stelle e strisce eppure allo stesso tempo mai davvero sguaiatamente retorica o eccessiva in questo senso: la caccia alle streghe subita dallo stesso protagonista a causa della sua fermezza nel voler esercitare la professione al meglio per difendere la spia russa Abel - ottima spalla, tra l'altro - ed il rapporto che si evolve tra i due anche quando, di fatto, il focus della pellicola si sposta completamente sull'avvocato letteralmente gettato in pasto al mondo dello spionaggio nel cuore di una Berlino straziata dalla costruzione del Muro, come se non bastasse, mostrano in più di un punto le falle di un Sistema che senza dubbio ha al suo attivo più successi che scivoloni ma che cela - e neppure troppo bene - ben più di un'ombra - e ovviamente parlo di quello statunitense, considerato che, ormai, i deprecabili approcci della Stasi nella Germania Est e dell'URSS sono di fatto consegnati alla Storia -.
Ed è proprio sull'equilibrio tra volontà e rispetto - in una certa misura non solo politica - dei due motori della vicenda - Abel e Donovan, per l'appunto - che si giocano tutte le carte vincenti del film, soprattutto dal punto di vista emotivo: paradossalmente per una pellicola che trasuda States, si finisce per empatizzare molto più con il tranquillo e distaccato agente sovietico rispetto al pilota americano finito dall'altra parte della Cortina di ferro, così come per Donovan a confronto con una sfilza di agenti senza scrupoli, comandanti dell'Esercito pronti a sacrificare i propri uomini ma non le informazioni delle quali sono a conoscenza, burocrati ed avvocati dell'Est al soldo del Regime e via discorrendo.
Di fatto, Spielberg sceglie di premiare, ancora prima del patriottismo e dell'acqua al proprio mulino, l'integrità di uomini "tutti d'un pezzo" che vivono di un'etica - lavorativa ed umana - ormai purtroppo d'altri tempi - se mai tempi di questo tipo si sono vissuti, sulla Terra -, per una volta premiati proprio per questa qualità: un Cinema d'altri tempi fondato su valori d'altri tempi, dunque, che, senza dubbio, è sempre un piacere vedere ed ascoltare, un pò come capiterebbe con un nonno senza dubbio burbero ma saggio e consapevole di come gira il mondo.
Anche quando gira nel modo sbagliato.




MrFord





"In Europe and America, there's a growing feeling of hysteria
conditioned to respond to all the threats
in the rhetorical speeches of the Soviets
Mr. Krushchev said we will bury you
I don't subscribe to this point of view
it would be such an ignorant thing to do
if the Russians love their children too."

Sting - "Russians" - 







giovedì 15 ottobre 2015

Operazione U.N.C.L.E.

Regia: Guy Ritchie
Origine: USA, UK
Anno:
2015
Durata:
116'






La trama (con parole mie): siamo nei primi anni sessanta e nel pieno della Guerra Fredda quando Napoleon Solo, agente della CIA costretto a lavorare per l'Agenzia a causa dei suoi trascorsi come criminale e ladro incallito ed Illya Kuryakin, uomo d'acciaio dell'intelligence russa, finiscono a dover seppellire l'ascia di guerra costretti dai loro superiori ad unirsi alla giovane Gaby, che fa il meccanico a Berlino Est, per rintracciare il padre scomparso di quest'ultima, ex tecnico del Reich che pare avere trovato rifugio forzato in Italia presso una famiglia che pare mostrarsi troppo nostalgica a proposito dei tempi del Fuhrer.
Riusciranno i due riluttanti agenti a mettere da parte la loro rivalità per scrivere la parola fine ad un piano ideato da qualcuno peggiore perfino dei governi che li manovrano? 
La ragazza che dovranno custodire finirà per gettare benzina sul fuoco rispetto al loro confronto? 
E in un mondo di spie, cimici e voltafaccia, ci si potrà davvero fidare fino in fondo di chi ci sta accanto ed è incaricato di coprirci le spalle?










Il fatto che Guy Ritchie abbia un grande stile è risaputo fin dai tempi di Lock&Stock, e ancor più di The snatch: il fatto che molto del suo lavoro si debba alla generazione del pulp e all'esplosione di Tarantino negli anni novanta, in fondo, poco importa, perchè l'anglosassone in questione è sempre riuscito, di fatto, a prendere la grana grossa figlia delle stelle e strisce e a trasformarla in un ibrido rock di gran classe, un pò come quando Iggy Pop incontrò David Bowie.
Personalmente, non sempre ho amato i suoi lavori, e l'ho sempre considerato un più che onesto artigiano, lontano sempre e comunque anni luce dal ragazzaccio Quentin, eppure qualcosa ha finito, anche a fronte delle delusioni peggiori - Rocknrolla su tutti, ma anche il secondo Sherlock Holmes non ha scherzato - per riportarmi sempre alla sua corte all'uscita di qualche nuovo titolo.
Questo Operazione U.N.C.L.E., che pare - o vorrebbe diventare - una versione hipster di Mission Impossible, ha di fatto finito per esercitare la consueta, irrefrenabile curiosità del sottoscritto rispetto al lavoro dell'ex signor Madonna, e, devo ammetterlo, si è difeso molto, molto meglio dei due scivoloni appena citati, finendo per intrattenermi piacevolmente per un paio d'ore - comunque onestamente troppe per un prodotto leggero ma non abbastanza come questo - principalmente grazie ad una messa in scena curatissima e davvero impeccabile - in alcuni passaggi l'impressione è quella di trovarsi all'interno di una versione dopata di Mad Men - ed i continui battibecchi dei due protagonisti, che saranno anche considerati spesso e volentieri inespressivi ma che ho trovato molto calzanti per i ruoli cuciti loro addosso, dalla sbruffonaggine guascona del Napoleon Solo di Henry Cavill - che sta decisamente meglio in questi panni che non in quelli di Superman - e dell'Illya Kuryakin di Armie Hammer, che continuo a considerare ben più capace di quanto non lasci intendere, spalleggiati alla grande all'affascinante Alicia Vikander già vista di recente in Ex machina.
Il resto, per quando ben palleggiato tra sequenze action interessanti come l'inseguimento in apertura ed intermezzi comici ottimamente riusciti - i due agenti che discutono di moda rispetto all'abbigliamento della loro protetta Gaby all'interno del negozio, o lo spuntino all'interno del camion di Solo con in lontananza l'inseguimento in barca con protagonista Illya, forse il pezzo pregiato della pellicola - finisce sempre per ricordare qualcos'altro, da Ocean's Eleven agli heist movies in genere, passando per 007 ed i vecchi film dell'epoca dei grandi studios: certo, tutto di grande effetto, ottimo intrattenimento intelligente, strizzate d'occhio e colpi di gomito a profusione, eppure l'impressione di non essere di fronte ad un grande film è netta ed insindacabile fin dal principio, quasi Operazione U.N.C.L.E. fosse uno di quei titoli "belli senz'anima" che non sono riusciti a trovare una propria dimensione ed un carattere abbastanza forte per poter sperare di lasciare davvero il segno.
Come se non bastasse gli incassi, per il momento, non paiono dare ragione a Ritchie ed alla palese volontà della produzione di porre le basi per un sequel o addirittura una serie - si veda il finale in una certa misura aperto -: non che al sottoscritto importi qualcosa a proposito dei dollaroni o delle sterline che finiranno nel già abbastanza gonfio portafogli del buon Guy e dei suoi soci, ma anche il risultato al botteghino finisce per essere un indicatore dell'impressione che un titolo finisce per comunicare al pubblico.
Quella che lascia questo film, per quanto cool, spigliato, stiloso e ben congeniato, è quella, purtroppo per lui, del "vorrei ma non posso": quantomeno, pensando alla sagacia di Solo e all'orgoglio di Kuryakin, resto dell'idea che i suoi protagonisti non l'abbiano presa troppo male, ed in qualche modo abbiano già trovato la strada per arrivare a noi.
In fondo, le spie sono come gli illusionisti: ti fanno credere di aver visto qualcosa che volevi vedere, ed hanno finito per mostrarti quello che volevano che vedessi.




MrFord




"Oh, se
non m’avessero detto mai
che le fiabe son storie non vere,
ora là io sarei.
D’un regno
con un solo soldato,
che cercava le streghe
voleva cacciarle a sassate."
Luigi Tenco - "Il mio regno" -




domenica 2 giugno 2013

Red scorpion

Regia: Joseph Zito
Origine: Sud Africa, USA, Namibia
Anno: 1988
Durata:
105'




La trama (con parole mie): Nikolai Rachenko, agente speciale del KGB, macchina da guerra e soldato professionista, viene inviato dai vertici dello Stato Maggiore in Africa per avvicinare ed uccidere un leader locale supportando gli alleati cubani.
Giunto sul posto ed iniziata la sua missione, Rachenko scoprirà che c'è del marcio sotto le operazioni gestite dal suo Paese e dagli uomini centroamericani, e passo dopo passo le sicurezze di anni di addestramento verranno incrinate, complice anche l'alleanza improbabile con lo sboccato giornalista americano Dewey e l'amicizia nata con il ribelle locale Kallunda.
L'ex uomo d'acciaio sovietico, all'ennesimo villaggio massacrato, diverrà dunque il simbolo di un'improbabile insurrezione degli indigeni sotto il segno totemico dello scorpione: ed ovviamente finirà per spaccare ancora e sempre più culi.





Nel corso della Storia del Cinema nessun decennio è stato sboccato, trash e sopra le righe come quello che ha accompagnato il sottoscritto nel passaggio tra l'infanzia e l'adolescenza: sto parlando, ovviamente, dei gloriosi eighties, epoca magica fatta di illusioni e tamarrate dallo spirito leggero come - tranne qualche illuminata eccezione - in seguito nessun regista sarebbe più riuscito a riportare sullo schermo.
Le suddette tamarrate, di norma, ai tempi erano suddivise in due generi ben distinti che finivano per avere sostenitori accesissimi rispetto al primato di uno o dell'altro: parlo dei film di botte e di quelli di guerra - o presunti tali -.
Da una parte si potevano ammirare calci rotanti e cazzotti come se piovesse, dall'altra esplosioni e sparatorie improbabili in cui il protagonista finiva a malapena scalfito anche sotto una pioggia di proiettili mentre gli avversari carne da cannone esplodevano in mille pezzi ovunque sullo schermo - vedasi uno dei capistipite del genere, Commando -: personalmente sono sempre stato lievemente a favore dei primi, complice l'ispirazione venuta dalla saga di Rocky, Karate Kid ed i vari Van Damme della situazione, ma non mi sono d'altro canto mai neppure lamentato quando ad un ring si sostituiva una bella missione in qualche parte del mondo sconosciuta con tanto di cattivi da Guerra Fredda da sistemare a dovere.
Un esempio perfetto di questo tipo di atmosfere è Red scorpion, film di fattura a dir poco pessima da qualsiasi punto di vista lo si guardi eppure clamorosamente divertente ancora oggi, in bilico tra i rimandi ad un tempo in cui i sovietici facevano la parte dello spauracchio in tutti film action - e non solo - occidentali e le guerre combattute lontano dalla civiltà "per bene" passavano ancora tendenzialmente sotto silenzio così come gli interessi delle Nazioni che le caldeggiavano occultamente.
Sulla scia del successo della saga di Rambo - che, con il già citato Rocky, consegnò di fatto Stallone alla fama imperitura - venne confezionata questa versione minore del mitico John sfruttando la notorietà del momento di Dolph Lundgren, che aveva fronteggiato Sly in Rocky IV proprio nella parte della macchina da guerra - sul ring - sovietica in tempi di progressivo avvicinamento delle due superpotenze a quello che si sarebbe concretizzato con la caduta del muro di Berlino: l'ex Drago non si tira indietro, e sfodera un personaggio memorabile per il genere, dalla spettacolare entrata da finto sbronzo nel bar ad inizio pellicola fino alla battaglia conclusiva a petto nudo con tanto di scorpione marchiato a definire il suo nuovo status di ribelle combattente ed il fantastico "in culo a tutti" rubato allo sboccato giornalista americano Dewey in chiusura, dopo averne avute sia per i suoi superiori che per i loro amichetti cubani, visti ai tempi come fumo negli occhi almeno quanto gli alti papaveri di Mosca.
Curioso come la vittoria della Libertà e della Democrazia - e, dunque, del modello occidentale, come spererebbero loro - passi attraverso il progressivo passaggio ai "buoni" di Rachenko, sconvolto dagli spietati raid organizzati dall'alleanza URSS/Cuba che mietono vittime su vittime tra la popolazione civile già disastrata del centro Africa: pellicole di questo tipo, ovviamente da guardare come prodotti d'intrattenimento puro e giocattoloni per bambini troppo cresciuti, sono state lo specchio di un'epoca in cui si tendeva effettivamente a screditare gli avversari dall'altra parte della Cortina - e da entrambe le parti - quasi si fosse nel pieno di una sorta di campagna elettorale per la supremazia del globo, fortunatamente conclusasi senza conseguenze disastrose per la nostra vecchia palla di fango - o almeno, meno disastrose di quanto avrebbero potuto essere -.
Tornando al clamorosamente divertente ed altrettanto scarso Red scorpion, caldeggio una prima visione per chi se lo fosse perso ai tempi o un recupero per tutti quelli che, invece, con titoli di questo genere sono cresciuti: la sorpresa sarà più piacevole e rilassante del previsto, e verrà allietata da un crescendo finale con tanto di battaglia degna davvero delle migliori tamarrate mai passate sullo schermo, perfetta per staccare il cervello e gustarsi un ritratto di tempi sicuramente più traballanti di questi - almeno dal punto di vista della politica internazionale - ma senza dubbio in grado di regalare al pubblico prodotti creati solo ed esclusivamente per il piacere dei neuroni mandati senza troppi patemi in ferie, per una vacanza che, considerata la caratura del titolo, avrà il sapore di una crociera da sogno ai Caraibi.


MrFord


"As I climb onto your back, I will promise not to sting
I will, tell you what you want to hear and not mean anything
then I, treat you like a dog, as I shoot my venom in
you pretend you didn't know, that I am a scorpion, oh."
Megadeth - "The scorpion" -


martedì 12 marzo 2013

Il Dottor Stranamore: ovvero come imparai a non preoccuparmi ed amare la bomba

Regia: Stanley Kubrick
Origine: USA
Anno: 1964
Durata: 95'




La trama (con parole mie): il generale Jack D. Ripper, convinto che i comunisti stiano per avviare un piano di offensiva e conquista dell'Occidente, avvia la procedura d'attacco dell'aviazione statunitense che prevede lo sganciamento di ordigni nucleari sugli obiettivi strategici in Unione Sovietica.
Asserragliato nel suo ufficio e contrastato senza troppo successo dall'ufficiale anglosassone Mandrake, il guerrafondaio Ripper scatena così una serie di eventi che arriveranno a coinvolgere i Presidenti di USA e URSS, impegnati ad interrompere il raid prima che lo stesso scateni la letale controffensiva da oltre cortina.
Quando tutto pare essersi sistemato ed i bombardieri si avviano al rientro, a causa di un guasto tecnico il velivolo comandato da T. J. "King" Kong si dirige senza guardarsi indietro sul suo bersaglio, lasciando i leader delle due più grandi potenze inermi ad attendere la fine della civiltà conosciuta.
Ma il Dottor Stranamore, consigliere del Presidente USA ed ex nazista, ha già un piano in mente...



Ho sempre considerato Il Dottor Stranamore come uno degli esperimenti più arditi e clamorosi del Kubrick sceneggiatore, più che regista, nonchè uno degli esempi più fulgidi di antimilitarismo reso satira e pellicola al vetriolo talmente avanti con i tempi da risultare attuale ancora oggi, con le geografie e geometrie politiche mondiali radicalmente cambiate - almeno sulla carta - dai tempi dei favolosi sixties.
Allo stesso modo considero questa pellicola anche una delle più ostiche del Maestro, vuoi per una sua presenza meno "invadente" dietro la macchina da presa, vuoi per tematiche affrontate in modo certo poco convenzionale, vuoi perchè la modernità dei temi affrontati non viaggia di pari passo con la sensazione di avere di fronte la fotografia di un'epoca ormai inesorabilmente al tramonto, protagonista dei libri di Storia ma decisamente lontana dal pubblico attuale, ormai non più avvezzo - fortunatamente - a sentir parlare di minaccia di guerra atomica e di grandi potenze a confronto come poteva essere fino alla caduta del blocco sovietico - anche se, senza dubbio, si potrebbero trovare problematiche gemelle, pur se differenti sulla carta, anche nel nostro presente -.
Senza dubbio, il risultato è e resta un caposaldo assoluto del genere e del Cinema in toto, esempio di pellicola militante e contro - a tutto e a tutti gli effetti - che seppur non agli stessi livelli del Capolavoro Orizzonti di gloria ne raccoglie in qualche modo l'eredità mostrando un aspetto più "leggero" dello stesso senza risparmiarsi di colpire nel segno una certa "casta" di guerrafondai e uomini politici dal pulsante facile che nel corso dei decenni avranno cambiato volto e motivazioni - dalle armi si è passati al denaro, principalmente, e dall'olocausto nucleare a quello dei mercati - ma certo non hanno abbandonato le loro poltrone, ancorati saldamente ad un Potere contro il quale il buon Stanley si è sempre battuto con tutta la potenza del suo incredibile Cinema.
Esempio e modello di questa categoria di personaggi, ancor più dell'arcigno Jack D. Ripper - un fantastico Sterling Hayden - o dell'uomo d'azione tutto fatti e niente domande T. J. "King" Kong, il mefistofelico Dottor Stranamore, interpretato con una verve unica da Peter Sellers - che presta volto anche all'ufficiale anglosassone Mandrake ed al Presidente USA -, residuato del mondo che i nazisti si erano prefigurati ed ancora una volta nelle sale che contano delle nazioni che contano, incapace, nonostante tutti gli sforzi, di celare una Natura che neppure un braccio meccanico è in grado di tenere nascosta all'anima - celebre il passaggio della lotta tra il Dottore ed il tentativo della sua mano destra di elevarsi in piena posa da saluto nazista -.
Il resto è un affascinante mosaico di sequenze d'azione che rimandano ai primi lavori del regista, riprese dei velivoli diretti agli obiettivi strategici che anticipano le danze delle future odissee nello spazio e straordinari scambi di battute - indimenticabile la telefonata tra il capo di stato USA e quello sovietico -, impreziositi da un bianco e nero perfetto e scenografie da urlo - la sala ovale fulcro delle attività di guerra a stelle e strisce è un vero e proprio gioiellino -.
Un altro tassello ed un altro grande prodotto della carriera di uno dei più grandi cineasti di tutti i tempi, che di fatto chiuse un'epoca - per lui e per il mondo della settima arte - e si preparò ad aprirne un'altra non soltanto nuova ed oltre ogni confine, ma densa e traboccante Capolavori anche e più di quanto non fosse stata quella precedente, della quale Il Dottor Stranamore rappresenta senza dubbio uno dei vertici più innovativi e clamorosi.
Come se non bastasse, a quasi cinquant'anni dalla sua realizzazione, questo film riesce ancora a mostrare e dimostrare quanto la stupidità umana si sia resa - e si renda, non crediate - responsabile di molte delle tragedie più grandi che abbiano colpito la nostra civiltà ed il pianeta stesso, e riesce nell'impresa prendendosene gioco senza alzare neppure la voce, mettendo alla gogna l'ignoranza e la sete di potere, due delle piaghe più grandi con le quali siamo costretti a fare i conti ogni giorno e ad ogni livello di questa nostra società tanto stratificata quanto stupidamente semplice.
E non lo dico come fosse un complimento.


MrFord


"I'm gonna brag about it
I'm not gonna stay in school
I'm gonna rob and steal
gonna break every rule
I'm a time bomb, baby
I'm a time bomb, baby
I'm a time bomb, baby
I'm a time bomb, baby."
Ramones -  "Time bomb" -


sabato 12 gennaio 2013

Danko

Regia: Walter Hill
Origine: USA
Anno:
1988
Durata: 104'




La trama (con parole mie): il capitano Ivan Danko, della milizia di Mosca, è costretto a volare negli States, a Chicago, per inseguire un bandito georgiano noto trafficante di droga che il suo governo vorrebbe seppellire senza troppo clamore, colpevole, tra le altre cose, di aver ucciso il compagno del poliziotto.
Giunto negli USA, Danko dovrà fare i conti con il sistema americano capitalista tanto estraneo al suo, le gerarchie della polizia locale, la legge Miranda ed i modi ruvidi del suo improvvisato compagno, il sergente Ritzik: in una corsa contro il tempo che possa evitargli un rientro in patria disonorevole e di finire ammazzato da una gang leader del giro della droga locale, il granitico sovietico sarà costretto a stringere alleanza con lo scombinato collega a stelle e strisce in modo da mettere finalmente le mani sulla sua nemesi e chiudere un cerchio che va ben oltre le questioni di politica e nazionalità.





Come direbbe certamente il vecchio - si fa per dire, dato che in confronto al sottoscritto è praticamente un ragazzino - Frank Manila, Danko è un film spiccio nelle accezioni migliori del termine.
Supercult diretto dal grandissimo Walter Hill nonchè primo film made in USA ad essere girato - in parte, ovviamente - nella Piazza Rossa di Mosca a Guerra fredda ormai finita, questo solidissimo poliziesco è stato un classico di Casa Ford fin dalla mia infanzia, e dal primo passaggio su questi schermi meritevole di trovare il punto d'incontro pressochè perfetto tra la tamarrata guascona ed ironica tutta amicizia virile e battutacce ed il poliziesco tosto come piace a noi vecchi lupi di mare, fatto di sparatorie, morti ammazzati, un sacco di botte e spericolati inseguimenti alla guida di autobus di linea - spettacolare la sequenza finale, citata alla perfezione nel recente Bad ass -.
A seguito delle innumerevoli visioni, credo potrei tranquillamente prendere parte ad un remake di questo film senza neppure avere bisogno di studiarne il copione - e presumibilmente vorrei essere scritturato per la parte di Ritzik, o all'occorrenza del cattivissimo Victor Rosta -, ed allo stesso modo ammetto che, a più di vent'anni dal suo esordio nell'allora non ancora Saloon, la vicenda che vede il capitano della milizia moscovita Danko inseguire la sua nemesi nel cuore della Chicago della tradizione gangsteristica americana ancora funziona alla grande, regalando grandi momenti rispetto al suo genere così come una serie invidiabile di sequenze e battute memorabili principalmente legate alla figura dell'appena citato Ritzik - interpretato da James Belushi, che negli anni successivi ha di fatto continuato a riproporre lo stesso tipo di personaggio casinaro e sboccato -: impossibile restare indifferenti al primo confronto del poliziotto statunitense con Rosta, o al dialogo in materia di pappagallini, o all'indimenticabile passaggio del "caffè bollente sull'uccello".
Quello che, però, in questi casi spesso passa inosservato a causa del fattore nostalgia, è il valore effettivo di una pellicola che è ancora oggi un esempio fulgido non soltanto di action movie, ma di poliziesco hard boiled, ennesima prova di un regista forse non sempre costante rispetto alla qualità della sua produzione eppure tra i più influenti e importanti che la tradizione americana abbia portato alla ribalta tra gli anni settanta e gli ottanta - ricordiamo che la sua firma è dietro due pietre miliari quali I guerrieri della notte e I guerrieri della palude silenziosa, assolutamente indimenticabili -: l'ironia e la sguaiatezza di Belushi e la staticità quasi ridicola di Schwarzenegger - in una delle sue interpretazioni peggiori, il che è tutto dire - assumono un'aura assolutamente mitica anche grazie alla mano di un Maestro capace di non prendersi sul serio neppure per un secondo eppure in grado di confezionare un signor titolo, dando lustro anche e soprattutto ai suoi stessi limiti.
Poi, certo, dovrei smettere di parlare di Danko dal punto di vista cinematografico e cercare di trasmettervi il godimento provocato dall'ennesima visione, fatta di battute recitate all'unisono con i personaggi - chi non ha mai pronunciato almeno una volta nella vita "Danko, nato stanco!" dovrebbe prendersi a bottigliate da solo per penitenza - e dalla serenità che soltanto alcuni film "cuscinetto" sono in grado di darci proprio quando ne abbiamo bisogno per evitare di essere sommersi dalle cazzate di tutti i giorni.
Ma non credo ce ne sarà bisogno: in fondo penso che tutti - perfino certi scellerati snob come il Cannibale - capiscano l'importanza che il Cinema ha in alcuni momenti della nostra vita - o giornata, se come me cercate di ritagliarvi sempre lo spazio per almeno una visione quotidiana - e che i cult che lo stesso produce - soprattutto quelli personali - restano indubbiamente una delle migliori medicine contro "il male di vivere".
E quando vedo Danko stendere il cazzone sceso apposta da casa per minacciarlo a proposito del suo teorico posto auto riservato con quel "conosci Miranda?", anche se fosse solo per un secondo, il mondo mi pare un posto decisamente migliore.


MrFord


"We share the same biology
regardless of ideology
believe me when I say to you
I hope the Russians love their children too."
Sting - "Russians" -


giovedì 30 agosto 2012

Toccato!

Regia: Jeff Kanew
Origine: Usa
Anno: 1985
Durata: 101'




La trama (con parole mie): Jonathan, studente di veterinaria dedito al gioco chiamato "Toccato!" che imperversa in tutto il campus, approfittando delle vacanze di primavera parte per l'Europa accanto al suo amico Manolo, sognando di visitare la Spagna e di riuscire finalmente a portarsi a letto una ragazza.
Giunti a Parigi, prima tappa del loro viaggio, i due amici si separano a causa delle conquiste continue di Manolo, e Jonathan, solo ed impacciato, conosce per caso Sasha, una donna affascinante proveniente dalla fu Cecoslovacchia, che lo seduce e si dedica a lui in tutto e per tutto.
Quando arriva il momento della partenza per la penisola iberica, però, il ragazzo è convinto ad abbandonare il progetto iniziale per partire insieme a Sasha alla volta di Berlino in modo da starle accanto durante un incarico di lavoro: ma appena giunti in Germania le cose cominceranno a farsi pericolose, e Jonathan si troverà coinvolto in un affare di spionaggio che da oltre cortina finirà per seguirlo - con tutti i guai che ne conseguono - fino al suo ritorno a Los Angeles.





Approfittando dell'estate, continuo senza ritegno a cavalcare l'onda del passato e dei film che, ormai qualche secolo fa, ero solito guardare a ripetizione in compagnia di mio fratello, ai bei tempi in cui si facevano tre mesi di vacanza e non c'erano pensieri che non fossero "cosa mangio come snack davanti allo schermo" o "chissà quali ragazze ci saranno stasera al parchetto": Toccato!, scoperto per caso grazie alla videoteca dell'ormai leggendario Paolo - personaggio cardine della mia giovinezza di spettatore -, fu per anni nella top five dei titoli più passati nel videoregistratore dell'allora casa Ford, complici la trama totalmente inverosimile ed il gioco che da il titolo al film, che sognavo di poter praticare anche io una volta giunto il momento dell'Università, ignorando di fatto che i campus in stile americano qui ce li sognamo e che in realtà gli anni di lettere - perlomeno quelli che ho fatto - furono anche discretamente noiosi.
A metà strada tra il paintball attuale e le pistole ad aria compressa che impazzavano ai tempi - ricordo che i miei mi proibirono espressamente di comprarne una, così finivo spesso e volentieri a casa di un compagno di scuola che nel giardino organizzava vere e proprie battaglie con il fratello maggiore ed i suoi amici -, il "Toccato" è stato uno dei cult di tutto il periodo che intercorse tra la fine delle elementari e l'inizio delle medie, quando ancora l'idea di viaggiare da solo per l'Europa sognando la prima volta era praticamente fantascienza - ma più che altro, non ci si pensava neppure -.
Le vicende di Jonathan, comunque, mi conquistarono da subito sia nella loro componente scanzonata - il confronto con lo spocchioso cameriere parigino a proposito del Pernod, impagabile, e che sarebbe divenuto un anticipo del mio primo viaggio in solitaria a Parigi, qualche anno dopo, o la rocambolesca caccia degli agenti della CIA alla ricerca del protagonista protetto dall'amico Manolo e la sua gang - sia nella parte più drammatica ed action - ricordo con quale timore assistevo alle disavventure del ragazzo nella Berlino Est ancora oltre la cortina, e tenevo il fiato sospeso ogni volta che facevano la loro comparsa i terribili agenti del KGB -: tipico prodotto anni ottanta figlio della Guerra Fredda girato per mostrare quanto cool e pieni di risorse erano gli States ed i suoi figli rispetto ai grigi emissari della Madre Russia, Toccato! si pone a metà strada tra il film action tamarro e la pellicola dal gusto teen, azzeccando il protagonista - un Anthony Edwards ancora con i capelli e lontano dal Green di E. R. - e la sua partner - Linda Fiorentino, che ai tempi risvegliò parecchie fantasie nel sottoscritto, specie nel suo ruolo di "nave scuola" per l'inesperto Jonathan - ed una serie di sequenze assolutamente improbabili eppure divertenti ed ancora oggi piacevoli da vedere, specie se figlie di un amarcord selvaggio come quello che in periodi di stanca in sala come questo finisce per attanagliarmi.
Sicuramente, tra le pellicole anni ottanta divenute oggetto di culto per gli spettatori giovanissimi di allora ormai cresciuti, questo lavoro di Jeff Kanew ha conosciuto un successo decisamente minore, ed anche qui in Italia sono in pochi ad aver potuto approfittare di una visione cui si resta inevitabilmente legati, un pò come per perle del quasi trash come Howard e il destino del mondo o Weekend con il morto.
Non saprei davvero come potrebbe apparire agli occhi di qualcuno che non l'abbia visto da bambino, e le reazioni potrebbero passare dallo stupore divertito all'incazzatura da bidone, eppure mi è praticamente impossibile non voler bene a questo film, così come non consigliarvi una visione se non l'avete mai visto o un recupero se non vi ricordavate di averlo passato sui vostri schermi.
Sarà una gioia dal sapore fanciullesco poter affermare con fare sicuro da pseudo agente segreto: "Toccato!".

MrFord


"Your eyes pierce my heart
let's play spies in the dark
I want you now, more than ever boy
and it's not my style to wait for long
Gotcha!
Gotcha where I want
just too late to talk right now!
Gotcha!
And you getcha, getcha, got me."
Theresa Bazar - "Gotcha!" -


domenica 11 marzo 2012

Rambo III

Regia: Peter MacDonald
Origine: Usa
Anno: 1988
Durata: 102'


La trama (con parole mie): Rambo, ormai lontano dal mondo occidentale, passa il tempo nei dintorni di Bangkok ospitato da una comunità di monaci per i quali svolge lavori manuali tenendosi come attività extra il combattimento clandestino.
Rintracciato dal Colonnello Trautman, suo vecchio istruttore e comandante in Vietnam, verrà invitato a partecipare ad una missione in Afghanistan volta a liberare il paese dalle truppe sovietiche: da principio John rifiuterà, ma quando lo stesso Trautman cadrà in mano ai russi, il Nostro sarà immediatamente pronto a partire per scatenare un altro dei suoi memorabili conflitti.
A farne le spese, ovviamente, saranno tutti i suoi avversari.




Ormai è ufficiale: ho completamente, pienamente, inesorabilmente rivalutato Rambo e la sua saga come trash di culto assoluto.
Nonostante la tamarraggine che ormai mi contraddistingue, ammetto infatti che all'appello fordiano mancavano ancora le ultime due pellicole dedicate al reduce più famoso della settima arte - o almeno della settima meno artistica -: riscoprire questa terza è stato un vero e proprio tripudio in salsa eighties condita da guerra fredda, russi malvagi fatti fuori a dozzine, scenari politici d'altri tempi, inquadrature e scelte "artistiche" completamente al servizio dell'ego stalloniano nonchè una certa ironia di fondo e riflessioni che allora sarebbero state inutili ed ora divengono addirittura profetiche.
Passata, infatti, una prima parte che è un vero e proprio inno del trash dalla bruttezza inenarrabile e proprio per questo immediatamente giunta al livello dei maggiori cult del genere - le prime inquadrature di Sly che si prepara al combattimento clandestino con il montaggio alternato rispetto all'arrivo di Trautman sono da antologia della serie b cinematografica, andatevi a rivedere la sequenza -, si parte con una vera e propria epopea che all'epoca poteva considerarsi il classico action d'avventura con incasso certo al botteghino e schiere di fan in delirio che ora diviene uno specchio distorto di quello che, soprattutto nel nuovo millennio, è stata la Storia: vedere, infatti, Rambo ascoltare e prendere parte alla lotta per la libertà dei mujaheddin contro i russi invasori è praticamente un paradosso, considerate le vicende che hanno visto gli States passare dall'essere fornitori d'armi dei ribelli locali nel corso della Guerra Fredda ad avviare le campagne che hanno segnato una lotta senza quartiere contro gli stessi prima e soprattutto dopo l'undici settembre.
A volte è davvero curioso quanto un film di bassa lega e prospettive come questo possa, pur se involontariamente, diventare una cartina tornasole per un ben preciso periodo storico, arrivando all'essere addirittura oltre il tempo - come nella spiegazione della conformazione del territorio oltre il confine pakistano, tutto grotte da sfruttare per i combattimenti, o nell'elogio del popolo afghano dipinto come un manipolo di uomini e donne incapaci di arrendersi e pronti a lottare fino alla morte contro qualsiasi invasore - e stimolare pensieri che, di sicuro, sono ben lontani dalla filosofia tutta esplosioni e buoni contro cattivi di Rambo.
Un Rambo come al solito in grande spolvero, che dopo aver sperimentato la spalla femminile nel secondo capitolo passa a quella del bambino - cui verrà infine regalato proprio il portafortuna che fu della sua bella - neanche fosse Indiana Jones, che da solo si introduce in un forte russo impenetrabile per liberare il suo vecchio comandante ovviamente riuscendo nell'impresa spedendo all'altro mondo un numero indefinito di soldati sovietici, in grado di superare perfino il momento mitico dell'autosuturazione cauterizzando una ferita - dopo aver estratto con le dita il corpo estraneo dal fianco - con la polvere da sparo. Una vera bomba.
Il tutto senza contare un paio di momenti addirittura ironici del personaggio, che ormai pare avere definitivamente lasciato alle spalle il charachter "serio" del primo capitolo per diventare un eroe action in tutto e per tutto, regalando al pubblico anche una battuta finale degna delle chiusure dei film precedenti, nonchè richiamo al suo progressivo "ammorbidimento" legato alla vecchiaia, curioso soprattutto se constatato dopo l'ennesimo massacro compiuto da questa macchina da guerra su gambe.
Un film d'altri tempi nella migliore tradizione possibile del suo genere, divertente, fracassone e scandalosamente brutto, tanto brutto da essere irresistibile.
"Rambo is a pussy!", dichiarava Sly in Tango&Cash.
Sarà pure così, ma io vorrei sempre averlo dalla mia parte della barricata.


MrFord


"Fate will take control of your heart and your soul
it'll never let you go
don't you know the feelings are real that you show?
I'll never let you go."
Bill Medley - "It is our destiny"- 


martedì 24 gennaio 2012

La talpa

Regia: Tomas Alfredson
Origine: Francia/Uk/Germania/Svezia
Anno: 2011
Durata: 127'


La trama (con parole mie): Smiley, con l'uscita di scena del suo capo all'intelligence britannica Control, si ritrova di nuovo nel pieno dell'azione richiamato dalla pensione per snidare una talpa che da anni si muove ai vertici dell'organizzazione, lo stesso uomo che era costato un'importante missione in Ungheria e l'apparente dipartita di un agente, Jim Prideaux.
Muovendosi nell'ombra all'interno degli ambienti in cui ha passato la sua vita, Smiley si ritroverà a dover scegliere gli alleati e le pedine migliori per una partita a scacchi con gli avversari russi, il destino e la nemesi che si cela alle sue spalle, responsabile di molti degli eventi in grado di mettere alle strette Control, il governo britannico e lui stesso.





Ne ho sentite davvero di tutte, a proposito di questo lavoro di Tomas Alfredson.
Dal Capolavoro alla noia mortale, senza dubbio pare si sia guadagnato l'appellativo di pellicola più dibattuta - almeno online - dai tempi di Melancholia.
Personalmente, l'opera precedente del regista - l'osannatissimo Lasciami entrare - tolte un paio di scene clou ha rappresentato uno dei film più sopravvalutati degli ultimi anni, nonchè uno dei pochi che, proprio per noia, riuscii a portare a termine soltanto in due visioni distinte, una cosa più unica che rara in casa Ford.
La talpa pare essere, in questo senso, una conferma: una grande prova di regia e comparti tecnici assolutamente priva dell'anima e del mordente necessari per avvincere il pubblico ed affermarsi come cult, perlomeno di genere.
Dunque, per quale motivo ho scelto di dare una valutazione discreta ad una pellicola che, a quanto pare, meriterebbe soltanto sonore bottigliate?
Perchè La talpa - così come, forse, il suo predecessore nella filmografia di Alfredson - è una di quelle pellicole da sedimento, che al principio irritano o annoiano per essere poi rivalutate nel tempo, o valere almeno un ulteriore tentativo affinchè questo fenomeno certo raro possa compiersi: personalmente, a fare da riferimento per questa schiera ho un precedente più che illustre, The heat di Michael Mann, visto quando ancora non ero pronto per un'opera di quella portata e rivalutato negli anni ad ogni visione successiva.
Rispetto a questo film, dunque, resto tutto sommato fiducioso, e pronto ad affidarmi ad una seconda - rivelatrice? - visione in futuro: per ora resta una confezione impeccabile - regia ottima, fotografia da urlo, richiamo ai capisaldi del genere in pieno stile seventies riuscito alla perfezione - al servizio di una storia macchinosa e bolsa, non tanto incomprensibile - come molti hanno scritto - quanto priva di anima, come la quasi totalità dello stellare cast, compreso il comunque ottimo Gary Oldman, troppo impegnato ad immergersi - in tutti i sensi -  nel suo algido Smiley per scoprire che, di cuore, questo protagonista comunque sulla carta straordinario risulta assolutamente privo.
Spiccano soltanto Mark Strong - che a questo punto potrebbe cimentarsi davvero in qualcosa di più dei consueti film action cui ci ha abituati - ed un superlativo - ma questo già si sapeva - Tom Hardy, mentre il resto dei grossi nomi, a parte portare a casa la pagnotta, fa poco per staccarsi dall'atmosfera di stanca trasmessa dalla pellicola: su tutti, il pessimo Colin Firth, sempre uguale a se stesso - come giustamente sottolineato da Julez - e decisamente svogliato nel portare sullo schermo uno dei personaggi al contrario più interessanti dello script, fornendone quasi un'involontaria caricatura.
Riallacciandomi proprio all'appena citato Firth, potrei quasi sbilanciarmi affermando che La talpa rappresenta, per il genere spionistico, quello che il terribilmente vuoto Il discorso del re fu per l'autorialità da grande pubblico lo scorso anno: non, dunque, un film brutto nel senso realizzativo del termine, quanto fiacco.
Ai tempi ricordo che usai il termine di "sala da the" per il lavoro di Tom Hooper: rispetto a quello Alfredson fa certo di meglio, eppure il suo lavoro sa tanto di un gin tonic annacquato rispetto al Tanqueray liscio che mi sarei aspettato.
Resta comunque chiaro il fatto che si stia parlando di un film profondamente autoriale, e decisamente di valore - tecnicamente parlando, almeno -, e non di un'immondizia galattica come quelle proposte spesso e volentieri nelle nostre sale, eppure l'impressione, soprattutto rispetto ai suoi lati positivi, è quella di un'enorme occasione sprecata dal regista per compiere il salto di qualità che i suoi fan più fedeli si sarebbero aspettati dopo il suo esordio ed i detrattori - come il sottoscritto - si erano auspicati di fronte ad un'abilità dietro la macchina da presa certamente invidiabile.
Chissà, forse il tempo darà ragione a lui: eppure fino ad ora quello che resta è un piatto insipido e totalmente privo della passione necessaria a renderlo un must senza se e senza ma.
Di noia, dunque, non si tratta - la lentezza soporifera è ben altra, fidatevi -, ma allo stesso modo i Capolavori di genere, quelli veri, come La conversazione, I tre giorni del condor e Tutti gli uomini del Presidente sono ad un livello che questa talpa da merendina si può solo sognare.


MrFord


"I'm a spy in the house of love
I know the dream, that you're dreamin' of
I know the word that you long to hear
I know your deepest, secret fear
I'm a spy in the house of love
I know the dream, that you're dreamin' of
I know the word that you long to hear
I know your deepest, secret fear
I know everything
everything you do
everywhere you go
everyone you know."
The Doors - "The spy" -



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