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giovedì 26 aprile 2018

Hannibal - Stagione 2 (NBC, USA, 2014)




E' curioso come alcuni titoli di serie televisive, pur colpendo positivamente gli occupanti del Saloon, finiscano per riposare in attesa neanche fossero single malt da far invecchiare: di recente abbiamo riscoperto Ray Donovan, che inaugurò la sua presenza in casa Ford anni fa con la prima stagione per poi restare in standby ed essere recuperato con la bellezza di quattro stagioni viste in un anno, e a seguito di quest'ultimo si è deciso di riprendere anche un altro paio di titoli che, nonostante il "favore della critica", erano rimasti impietosamente fermi ai box.
Uno di questi è Hannibal, ispirato dai romanzi di Thomas Harris che al Cinema hanno regalato perle del calibro di Manhunter e Il silenzio degli innocenti, incentrato sulla figura dello psichiatra cannibale Hannibal Lecter e su quella della sua nemesi, Will Graham, interpretati da Mads Mikkelsen - fordiano ad honorem - e Hugh Dancy, pronti a prestare volto e follia a due lati della stessa medaglia in un prodotto complesso e diverso dai classici crime da piccolo schermo, curatissimo esteticamente - fotografia e taglio sono maniacali almeno quanto la cucina di Lecter - e poco disposto a fare concessioni allo spettatore, ma ugualmente entusiasmante, oltre che a livello estetico, per la tensione ed i riferimenti ad episodi già raccontati, pur se in modo diverso dai due filmoni citati poco sopra - ricordo benissimo la sequenza della sedia a rotelle infuocata fatta scivolare sulla rampa del garage in Manhunter, o i disegni a memoria di Lecter nella cella della struttura coordinata da Chilton -.
Il duello a distanza tra Hannibal e Will, giocato sia a livello mentale che fisico, sul dubbio e l'illusione, rende alla perfezione il rapporto che si instaura tra rivali che si ammirano, odiano e, in una certa misura, amano, quasi fossero una versione da studio psichiatrico di Joker e Batman, e l'equilibrio dell'uno fosse dato, inevitabilmente ed inesorabilmente, da quello dell'altro.
Ottimo il cast dei comprimari, che vede partecipazioni importanti come quella di Lawrence Fishburne, Gillian Anderson e Michael Pitt, splendide le cornici e le ambientazioni così come le ricostruzioni dei delitti di Lecter, talmente artistici nella loro messa in scena da risultare quasi estranei all'efferatezza degli atti compiuti dal folle psichiatra: osservando l'incedere della storia e l'ottima chiusura di stagione, personalmente aumenta il rimpianto non solo di aver atteso così tanto per proseguire questa cavalcata, ma anche che un titolo con potenzialità di questo livello sia stato interrotto con il finire della terza stagione, per la quale ovviamente ora in casa Ford l'hype è alle stelle anche perchè vedrà i protagonisti incontrare Donahue, il "Dente di fata" del di nuovo citato Manhunter di Michael Mann, personaggio cardine del romanzo Red Dragon - ovviamente sempre di Harris - riproposto in tempi più recenti in una pellicola decisamente lontana dal livello dell'originale o di questo serial.
Nel frattempo, ripenserò ai piatti in stile Masterchef estremo di Lecter - portati in scena e realizzati interamente da Mikkelsen, allenatosi con uno chef per l'occasione - così come a tutto quello che porterà la caccia nella prossima serie: in fondo, quando due menti e personalità così complesse e problematiche si scontrano, una tempesta è il minimo che ci si possa aspettare.
Se poi si riflette a proposito del fatto che quelle stesse menti siano figlie di nature predatorie, il gioco è fatto: non c'è niente di più affascinante, accattivante, sanguinoso, di uno scontro tra creature assetate - mentalmente, oppure no - di sangue.



MrFord



sabato 21 gennaio 2017

Passengers (Morten Tyldum, USA, 2016, 116')




Per molti versi, la fantascienza al Cinema è un cliente anche peggiore dell'horror, considerato lo zoccolo duro dei suoi fan: se, infatti, in materia di mostri e paura tutto quello che serve è conservare una certa coerenza logica, per quanto riguarda il mondo sci-fi entrano in gioco fattori come la veridicità scientifica o presunta tale - ho sempre storto e non poco il naso a fronte delle critiche da professoroni, in fondo si tratta di storie di fantasia nate per l'intrattenimento, non di libri di testo - ed un certo background nerd che vede il romanticismo come fumo negli occhi a meno che non si tratti di qualcosa destinato a finire non troppo bene - Blade Runner - o a diventare in qualche modo mitico - Star Wars -.
La sfida di Passengers, diretto dal Morten Tyldum salito agli onori delle cronache hollywoodiane con il recente The imitation game, si presentava dunque piuttosto ardua, considerato che, a conti fatti, si tratta di una versione romcom drammatica dello splendido Moon, con due protagonisti - quasi tre, o quasi quattro - pronti a passare dall'idillio da isola deserta all'odio, per poi confrontarsi con il consueto rischio per la vita necessario non solo per giustificare il finale e le loro scelte ma anche per portare a casa la pagnotta, considerato che parliamo di un prodotto profondamente mainstream, la cui produzione, per evitare di mettersi proprio nella merda, si affida a due colpi sicuri pronti ad ipnotizzare il pubblico maschile e femminile, Chris Pratt e Jennifer Lawrence - che sinceramente penso qualunque uomo solo con novant'anni da passare a bordo di un'astronave in viaggio avrebbe svegliato nella speranza di poter trascorrere gli stessi molto, molto felicemente - nonostante, a conti fatti, quello destinato ad uscire meglio, in termini attoriali, dalla prova, è senza dubbio l'ottimo Michael Sheen in versione robotica, che in quanto barman era naturalmente destinato ad essere il mio preferito.
Nel complesso, comunque, Passengers non risulta particolarmente brutto, si lascia guardare ed è perfino scorrevole, nonostante rappresenti la pellicola ammeregana tipicamente massacrata dalla critica illustre, radical o europea, poco avvezza ai drammoni - specie se sentimentali - dal potenziale lieto fine a prescindere dalla salsa usata per cucinarli: io stesso, che sono un tamarro a stelle e strisce fatto e finito, me la sono schiaffata senza colpo ferire dall'inizio alla fine pur riconoscendone limiti e struttura piuttosto prevedibili, sperando in un colpo di scena che non è mai arrivato senza però uscire deluso o infastidito dalla visione.
Il lavoro di Tyldum è il menù a botta sicura del fast food in una serata in cui il vostro ristorante preferito ha dovuto tenere chiuso per l'esplosione della caldaia o la cantina allagata, o la pizza a domicilio tornati dal lavoro distrutti e per nulla desiderosi di mettersi ai fornelli: nessun piatto gourmet, o qualcosa destinato alle stelle Michelin, ma quanto basta per riempirsi la pancia e dormire di piombo.
Approcciare al viaggio dei due esuli protagonisti con questo spirito vi porterà ad una visione come tante altre per nulla dannosa e perfetta per riempire una serata senza troppe pretese, ma se al contrario farete l'errore di imbarcarvi sulla Avalon pensando di incontrare la nuova frontiera della sci-fi del Nuovo Millennio, allora con ogni probabilità vi parrà di essere a bordo di un Titanic interstellare sperando che giunga il più presto possibile il più grande degli iceberg galattici.
Alla peggio, per scacciare qualsiasi pensiero, almeno nella versione percepita dal sottoscritto, verrà sempre buona J-Law, accompagnata magari da un cocktail o due neanche volessimo fare uno sgarro al Kubrick di Shining.




MrFord



martedì 29 marzo 2016

Batman vs Superman - Dawn of justice

Regia: Zack Snyder
Origine: USA
Anno: 2016
Durata: 151'






La trama (con parole mie): a seguito della battaglia di Metropolis, che ha consacrato come un eroe planetario Superman e causato numerose vittime, tra le quali dipendenti di una delle proprietà del multimilionario Bruce Wayne, alias Batman, paladino oscuro di Gotham, quest'ultimo ed una parte dell'opinione pubblica guardano con sospetto il kryptoniano, inconsapevolmente guidato verso una rivalità non voluta dalle azioni del giovane e poco equilibrato Lex Luthor.
Quando, grazie alle macchinazioni del magnate, Superman e Batman si trovano in rotta di collisione e la battaglia tra i due pare favorire la Lex Corp, l'intervento di Lois Lane unito alle ricerche di Wayne cambiano le carte in tavola: stabilita una pur fragile alleanza, i due eroi affiancati da Wonder Woman si troveranno ad affrontare un ibrido chiamato Doomsday, scatenato proprio da Luthor.











Non avrei mai pensato, considerati i "nostri" trascorsi, di poter affermare che un film firmato da Zack Snyder potesse lasciarmi, di fatto, quasi completamente indifferente, o annoiato: in passato, dal riconoscimento di lavori come L'alba dei morti viventi o Watchmen fino alla completa bocciatura di porcatone come 300 o Sucker Punch, il tamarrissimo regista aveva quasi sempre suscitato una certa reazione, nel sottoscritto, tanto da alimentare, in un modo o nell'altro, la voglia di scrivere a proposito del suo lavoro.
Della serata che ha visto i Ford in "libera uscita" con il Fordino dai nonni, invece, mi resterà probabilmente soltanto il ricordo della monumentale cena al jappo all you can eat prima del film e dello spassoso gioco dell'Alfred e Bruce Wayne sfruttato nel parcheggio del Cinema a causa della recente installazione del seggiolino per la prossima nuova arrivata di casa Ford sul sedile del navigatore che pone di fatto il sottoscritto dietro accanto, per l'appunto, al Fordino, con tanto di portiera aperta e chiusa e gente a bocca aperta ad osservare la donna incinta che faceva scendere e salire un tamarro poco raccomandabile dalla macchina come se fosse la sua autista.
Del film, al contrario, se non due ore e mezza di pesantezza e grigiore abominevoli, resta davvero poco che possa rendere il titolo diverso da molti che l'hanno preceduto o far pensare che possa essere una base di partenza da urlo per l'imminente Justice League, risposta di casa DC agli Avengers targati Marvel: proprio rispetto al supergruppo della Casa delle Idee, le colonne Batman e Superman paiono privi dell'ironia necessaria per catturare anche il pubblico meno nerd o dei più piccoli - ho visto padri e figli giunti in sala giungere con grande fatica e molto sonno alla conclusione - ed allo stesso tempo anche della drammaticità autoriale della trilogia legata all'Uomo pipistrello firmata da Christopher Nolan - nonostante, occorre dirlo, Affleck non se la cavi affatto male nei panni di Wayne, e sia spalleggiato da un ottimo Alfred interpretato da Jeremy Irons -.
Usciti dalla sala, il pensiero - oltre al sollievo - era rivolto alla freschezza di una proposta pur diversa come Deadpool - che fa letteralmente polpette del lavoro di Snyder - ed ai paragoni impietosi di sequenze pur ben realizzate come quella della scazzottata tra Superman ed il Batman in versione "armatura pesante" - forse la migliore del film - e l'equivalente tra l'Iron Man "Hulkbuster" e, per l'appunto, Hulk del pur spento secondo Avengers, senza contare l'interpretazione fastidiosa e sempre priva di novità di Jesse Eisenberg, che pare aver esportato il suo Zuckerberg in qualsiasi altro film interpretato, oltre a tentare - fallendo miseramente - di ricordare l'indimenticabile Joker di Heath Ledger.
Poco importa, poi, della scarsa fedeltà a quelle che sono le vicende narrate sugli albi a fumetti - soprattutto riguardo al personaggio di Doomsday - o degli effettoni mirabolanti: Batman vs Superman resterà un videogiocone che avrebbe potuto regalare al suo pubblico tre quarti d'ora in meno - la storia ormai arcinota dell'infanzia di Bruce Wayne, gli inutili inserti onirici sempre legati all'Uomo Pipistrello - ed un tentativo di rendere, almeno in parte ed almeno in sala, cool anche eroi certamente meno interessanti di quelli Marvel i paladini della DC, che paiono divinità scese in terra incuranti della popolazione e degli effetti e conseguenze della loro presenza: in questo senso, il tentativo di sfida di Luthor ha quasi senso, così come la scelta del grande pubblico, che in sala come per le letture, ha sempre nettamente favorito i charachters creati da Stan Lee e soci, meno "divini" e pronti a portare in primo piano i loro problemi, e non i favolosi poteri.
Ma chissà, forse tutto nasce, per quanto mi riguarda, dal senso di appartenenza che provo rispetto all'essere Umani - in tutti i sensi, positivi e negativi, del termine - a fronte dell'algida distanza e spropositato ego dell'essere divini.





MrFord





"Justice is lost
Justice is raped
Justice is gone
pulling your strings
Justice is done
seeking no truth
winning is all
find it so grim
so true
so real."
Metallica - "And Justice for all" - 






domenica 9 novembre 2014

Hearts of darkness - Viaggio all'Inferno

Regia: Fax Bahr, George Hickenlooper, Eleanor Coppola
Origine: USA
Anno: 1991
Durata: 96'





La trama (con parole mie): fin dal 1969, in cima alla lista dei progetti di Francis Ford Coppola si poteva trovare quello di un adattamento del romanzo Cuore di tenebra trasposto nel Vietnam, un viaggio nel lato oscuro dell'American dream esportato a suon di proiettili. Soltanto dopo il successo dei primi due film della saga de Il padrino, però, Coppola ebbe le possibilità economiche e produttive per avviare il progetto più ambizioso, titanico e destabilizzante della sua carriera, un'impresa che costò fatica, energia, milioni di dollari messi di tasca propria ed integrità fisica non solo del regista, ma anche del protagonista Martin Sheen.
Attraverso le immagini dei dietro le quinte girate dalla moglie Eleanor, scopriamo la genesi di uno dei più grandi Capolavori della Storia del Cinema.







Non ho mai creduto troppo nelle classifiche e graduatorie, che si parlasse di Cinema, Musica o Letteratura: i gusti personali e le esperienze di vita, in fondo, segnano talmente tanto da rendere ogni approccio "assoluto" decisamente poco utile se non per dare una qualche indicazione a chi per la prima volta si avvicina ad una qualsiasi forma d'arte.
Eppure, se esistesse un baule dove chiudere dieci film fondamentali da salvare da una qualsiasi catastrofe, credo che nessuno avrebbe dubbi nell'inserire nel novero Apocalypse now, che si parli della sua versione originale o del Redux.
Un film monumentale, gigantesco, assoluto, apice emotivo ed artistico della carriera di uno dei più grandi cineasti statunitensi viventi - e non solo -, un monumento al viaggio nel cuore del lato oscuro dell'Uomo ispirato da uno dei romanzi più affascinanti della Letteratura degli ultimi due secoli, Cuore di tenebra di Joseph Conrad, perfetto sotto ogni punto di vista, dalla tecnica alla recitazione, dalla carne al cervello.
Ma quale fu la strada che Francis Ford Coppola percorse per arrivare a regalare al pubblico l'esperienza quasi mistica di questo affresco incredibile?
Grazie ai filmati di repertorio girati dalla moglie Eleanor durante la sfiancante sessione di riprese nel cuore delle Filippine e al contributo dei due registi Bahr e Hickenlooper ogni spettatore avrà modo di scoprire il viaggio dentro il viaggio, il percorso devastante - fisicamente, economicamente ed emotivamente - che Coppola per primo dovette intraprendere per giungere a quello che, ad oggi, può essere considerato uno dei trionfi più clamorosi della Storia della settima arte, dai due Oscar e tre Golden Globes vinti alla Palma d'oro a Cannes, passando per l'aura mitica che questo film si è giustamente conquistato nel corso dei decenni.
Veniamo dunque a scoprire che, prima ancora di passare alla Storia grazie a Quarto potere, Orson Welles cercò di portare in scena una sua versione di Cuore di tenebra - poi mai realizzata per questioni di costi di produzione -, che il primo attore selezionato per la parte di Willard fu Harvey Keitel, clamorosamente scartato da Coppola dopo solo una settimana di riprese, che il regista arrivò ad impegnare perfino la sua casa per poter garantire la fine delle riprese, che Marlon Brando, oltre a creare problemi sulle tempistiche ed avere una paga da capogiro per i tempi e non solo - un milione di dollari a settimana per tre settimane - si presentò sul set ignorando sia la lettura del Capolavoro di Conrad che le promesse fatte a Coppola di mettersi in forma, che Martin Sheen ebbe un infarto nel corso delle riprese, e che il cast dei main charachters passò la maggior parte del tempo sotto l'effetto di alcool, marijuana, acidi e speed, senza contare il tifone che distrusse gran parte dei set e gli accordi con il governo delle Filippine rispetto all'utilizzo degli elicotteri del loro esercito - gli USA non misero a disposizione alcun mezzo a causa della posizione critica della pellicola rispetto alla Guerra in Vietnam -.
Un documentario completo, teso e ben girato, che rimbalza dai tempi delle riprese ai primi anni novanta - curioso vedere un Lawrence Fishburne quattordicenne, dunque adulto ai tempi della realizzazione di questo Hearts of darkness, e rivederlo ora, da Mystic river alla recente serie Hannibal - e che riesce ad avvincere non solo i fan di questo enorme Capolavoro, ma chiunque possa manifestare anche solo un parziale interesse per la Storia del Cinema e per gli enormi sforzi produttivi che vengono compiuti affinchè il pubblico possa sognare in sala davanti al grande schermo: il finale, inoltre, con un Coppola pronto ad accogliere un futuro più maneggevole e ad uso e consumo di tutti gli appassionati - "Anche una ragazza sovrappeso dell'Ohio potrà essere Mozart, e a quel punto il Cinema sarà diventato solo arte, e non mestiere" - apre uno spiraglio oltre il vero e proprio "orrore" che fu riuscire a sopravvivere ad un viaggio come questo, che dal Cuore di tenebra letterario passa da quello cinematografico, per aprirsi completamente nel profondo dell'anima di chi lo sta vivendo sulla pelle.




MrFord




"Fear of the dark, fear of the dark
I have constant fear that something's
always near
fear of the dark, fear of the dark
I have a phobia that someone's
always there."
Iron Maiden - "Fear of the dark" - 




sabato 29 marzo 2014

Hannibal - Stagione 1

Produzione: NBC
Origine: USA
Anno: 2013
Episodi: 13




La trama (con parole mie): Will Graham è il più talentuoso profiler a disposizione dell'FBI, lo strumento fondamentale nella caccia ai serial killer, l'unico in grado di esplorare la mente degli assassini quasi fosse uno di loro. Peccato che lo stesso Graham preferisca insegnare ai futuri agenti del Bureau piuttosto che mettersi in gioco in prima persona: quando, però, un killer di adolescenti soprannominato "L'averla del Minnesota" sale agli onori della cronaca, il veterano Jack Crawford riesce a convincere il riluttante Will a scendere in campo, supportato psicologicamente dall'esperto Hannibal Lecter, ex medico reinventatosi psichiatra, uomo dai mille talenti e dall'incredibile olfatto e abilità culinaria.
Inizia così la partita a scacchi giocata sul confine di amicizia e rivalità tra Graham e Lecter, che porterà il primo sull'orlo della follia ed il secondo alla rivelazione della sua vera Natura.








In casa Ford, il genere "morti ammazzati" ha da sempre un posto speciale nella graduatoria delle visioni da piccolo schermo, dalle proposte mainstream come Criminal minds ai cult come Twin Peaks: da tempo, in rete, sentivo parlare di Hannibal, serial nuovo di zecca interpretato nientemeno che da Mads Mikkelsen, uno dei fordiani per eccellenza degli ultimi anni, volto di cult del sottoscritto come Le mele di Adamo e Valhalla rising ed ispirato dai romanzi di Thomas Harris, che nel corso degli ultimi tre decenni hanno dato origine a due Capolavori del genere - Manhunter di Michael Mann e Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme - nonchè elevato allo status di personaggio cult Hannibal Lecter, psichiatra e serial killer cannibale divenuto una sorta di icona pop.
L'esperienza della visione, iniziata con più di una riserva dopo il deludente The following, è stata una sorpresa sotto molti aspetti, pur tradendo un calo nel climax che ha condotto al season finale dovuto, principalmente, alla troppa carne al fuoco messa nell'escalation del disagio espresso dal protagonista Will Graham rispetto all'ottima gestione dei tempi dilatati dei primi otto episodi, che sono riusciti a stupire il sottoscritto in più di un loro momento, suggerendo addirittura l'ipotesi di un voto anche più alto di quello alla fine attribuito.
Se, dunque, dal punto di vista del cast - ottimi, oltre al già citato Mikkelsen, anche Lawrence Fishburne e Hugh Dancy - e del comparto tecnico la serie si mantiere su livelli decisamente molto alti - fotografia e scenografia risultano indubbiamente da urlo -, la sceneggiatura - probabilmente anche in base ad esigenze di produzione - non mantiene le buone premesse della costruzione iniziale finendo per pesare troppo sulle spalle di un Will Graham/Hugh Dancy costretto, nella parte conclusiva della stagione, a barcollare neanche fosse Frodo Baggins in preda al potere dell'anello in bilico tra vuoti di memoria ed il cerchio stretto attorno a lui da Lecter, elegantissimo e glaciale, composto ed "educato" anche nell'atto dell'uccisione, quasi offeso dalla violenza dell'aggressione senza controllo.
Fortunatamente per gli spettatori proprio il buon dottore regala momenti da grande thriller di classe riuscendo a trasmettere ad un tempo la sensazione di sicurezza e confidenza tipica dello psichiatra così come quella dell'ospite da manuale, sempre pronto a stupire i suoi commensali con piatti elaborati ed una presentazione d'eccezione.
Il risultato, per quanto non perfetto, lascia ben sperare per la confermata seconda annata, che se verrà giocata con la stessa pazienza nella costruzione della prima metà di questo esordio molto probabilmente presenterà ulteriori miglioramenti portando il già ben noto Lecter a diventare protagonista di un altro titolo di riferimento per quanto riguarda i "morti ammazzati" e non solo.
Resta inoltre la curiosità di scoprire, da conoscitore del destino dei due protagonisti, come si evolverà il loro strano rapporto di amicizia/rivalità/medico-paziente in vista dell'inevitabile conclusione, che vedrà Graham riuscire finalmente a catturare ed identificare il ruolo di serial killer del dottore: considerato quanto possa essere difficile avvincere spettatori già ben consci di quello che sarà l'epilogo di una vicenda, trasformando la stessa in un prodotto ad alta tensione, direi proprio che ci si trova già su una buona strada.
Che poi la stessa sia lastricata di organi e sangue, è tutta un'altra storia.




MrFord




"The world is fucked
and so am i
maybe it's the other way round
I can't seem to decide
domestic refugees
sink in the same boat as me
we suffer alone
and these days I don't wanna go home
idiot pschology Promising equality
so where is the land of the free?
Stop it you're killing me."
Therapy? - "Stop it you're killing me" -  


lunedì 23 settembre 2013

Mystic river

Regia: Clint Eastwood
Origine: USA
Anno: 2003
Durata:
138'




La trama (con parole mie): Jimmy, Sean e Dave sono tre amici figli della Boston dei quartieri popolari. Un brutto giorno, mentre giocano per strada, vengono approcciati da due finti poliziotti che si portano via Dave, che per quattro giorni attraversa l'Inferno prima di riuscire a fuggire e mettersi in salvo.
Passano vent'anni, e le vite dei tre sono quanto di più diverso possa esserci: Jimmy, boss in erba finito in carcere e rimessosi in riga per doveri da padre, è il gestore di un negozio; Sean è un detective della Polizia di Stato che spera nel ritorno della moglie che lo chiama senza parlare ogni giorno, fuggita da lui e da una vita che non le piaceva; Dave è padre di un figlio che spera possa diventare, come lui, una promessa del baseball, è semidisoccupato e non ha mai superato il trauma che lo segnò da giovane.
Quando la figlia maggiore di Jimmy, Kathy, viene brutalmente uccisa, i destini dei tre vecchi amici tornano ad incrociarsi: e mentre il Mystic grida vendetta per il sangue versato ed il passato torna a chiamare i protagonisti della storia, per quei ragazzini divenuti uomini non resterà che fare i conti con il Destino.




"Non amerò mai nessun'altra così. Certe cose capitano soltanto una volta nella vita."
"Per alcuni neppure quella."
Così il detective Sean Devine risponde a Brendan Harris, sconvolto dalla morte della sua fidanzata e promessa sposa Kathy Markum, figlia di Jimmy, suo amico d'infanzia.
"Quando hai visto per l'ultima volta Dave Boyle?"
"E' stato venticinque anni fa, in questa strada, sul sedile posteriore di quella macchina."
Questo, invece, è l'epitaffio che si scrive per una vicenda drammatica e terribile, che per i protagonisti di questa storia ha inizio in un pomeriggio come gli altri, nel pieno di quello che dovrebbe essere il periodo con meno pensieri della nostra vita, l'infanzia.
E' una storia di padri e di figli, Mystic river, di vittime, di vampiri e lupi mannari.
Ci sono Sean, con una figlia che non ha mai conosciuto, ed una moglie che è fuggita, un senso della Giustizia che possa portarlo lontano dai quartieri popolari della Boston in cui o sei un operaio o un delinquente, Dave, che a mezza voce sostiene un figlio con poca fiducia in se stesso e continua ad avere paura, e Jimmy, il duro del gruppo, che ha rinunciato alla sua corona di re del quartiere per amore della stessa bambina che finisce per essergli portata via, neanche avesse un conto in sospeso con i piani alti.
Gli stessi che devono aver spedito all'Inferno chi stava sul sedile davanti a Dave, il giorno in cui lo rapirono.
Ci sono i padri e i figli. Le vittime, i vampiri e i lupi mannari.
E tre nomi scritti nel cemento fresco, che possano rimanere per sempre.
Peccato che quella formula da finale perfetto non si applichi a questo mondo fatto di ombre e fiumi testimoni silenziosi: sul fondo, quasi fosse una voce spezzata, uno degli stessi rimane a metà.
Incompiuto, violato, destinato a non farcela.
"Se fossi salito io su quella macchina, non avrei mai potuto corteggiare Marita, e Kathy non sarebbe mai nata, e nessuno l'avrebbe ammazzata", ammette Jimmy di fronte a Sean.
A volte il Destino che ci salva, è lo stesso che ci toglie il bene più prezioso.
E' difficile guardare Mystic river e rimanere indifferenti: questo perchè dietro la potenza clamorosa di questo lavoro pressochè perfetto c'è talmente tanta umanità da rimanerne quasi disgustati.
E' difficile guardare Jimmy e pensare che, nella sua stessa situazione, non si sarebbe disposti ad uccidere chi ha tolto la vita - o chi pensiamo possa averlo fatto - a nostra figlia.
E' difficile guardare Sean e pensare che, nella sua stessa situazione, non si sarebbe disposti a fare un passo indietro, per poter pareggiare - o pensare di farlo - il conto con tutto quello che ci viene tolto ogni giorno.
E' difficile guardare Dave e pensare che, nella sua stessa situazione, non si sarebbe disposti a sconfiggere quei lupi mannari pronti a divorare gli innocenti.
"E voi quando avete intenzione di smettere?"
"Intendi diventare onesti!? Noi!? Siamo pipistrelli, Dave, abituati alla notte. Il giorno è fatto per dormire."
Così i temibili fratelli Savage intrattengono proprio Dave, in attesa di un confronto decisivo voluto dal loro vecchio capo ritrovato nonchè suo amico d'infanzia, Jimmy.
Mystic river è il fiume pronto a mondarci da tutti i nostri peccati, o almeno a provarci.
Il vecchio Clint l'aveva già raccontata, la miseria umana - e americana -, in un modo semplice e terribile che il titolo rendeva chiarificatore: Unforgiven, senza perdono - Gli spietati, qui da noi, ma non rende abbastanza l'idea -.
E quel finale durante la parata è quanto di più devastante si possa pensare, in materia di uomini.
Padri e figli.
Vittime.
Vampiri e lupi mannari.
Jimmy, Sean e Dave sono tutti padri. E tutti finiscono per perdere qualcosa.
Ma non sono tutti vittime. Non sono tutti Kathy. Tranne Dave.
E poi ci sono i vampiri, e i lupi mannari.
Di quelli è pieno il mondo, anche quando non riusciamo ad accorgerci della loro presenza.
Anche quando vivono accanto a noi.
Anche quando si mascherano da agnelli.
Non c'è una parte da cui stare: una moglie disperata, la felicità che ci fa voltare le spalle, la presa di coscienza di una Natura che un amore troppo grande - da "uniche persone al mondo" - aveva tenuto lontana.
Ognuna di esse nasconde dei peccati.
Come il Mystic, pronto a lavarli via.
Ma è difficile, impossibile cancellare il sangue.
Quello del legame tra un padre ed un figlio.
Quello versato dalle vittime.
Quello bevuto dai vampiri e dai lupi mannari.
Il sangue è per sempre.
Come quei nomi scritti nel cemento.
Jimmy, Sean, Dave.
Fino a quando il Destino ha voluto che uno rimanesse a metà.


MrFord


"I'm shipping up to boston whoa
I'm shipping up to boston whoa
I'm shipping up to boston whoa
I'm shipping off... To find my wooden leg."
Dropkick Murphys - "I'm shipping up to Boston" -


 

mercoledì 3 luglio 2013

L'uomo d'acciaio

Regia: Zack Snyder
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 143'




La trama (con parole mie): il nascituro Kal-El, figlio di Jor-El del pianeta Krypton, è lanciato dalla madre Lara nello spazio in direzione della Terra proprio mentre il suo mondo natale è sull'orlo del collasso, ed il temibile generale Zod minaccia una guerra civile che dovrebbe portare ad una sorta di selezione molto poco naturale.
Trentatre anni dopo, Clark Kent, cresciuto da due contadini del Kansas, vaga tenendo un profilo basso attraverso gli States cercando di aiutare il prossimo spostandosi sempre nel momento in cui i suoi straordinari poteri rischiano di portarlo allo scoperto.
Proprio quando, a seguito di un'indagine condotta dalla giornalista Lois Lane all'interno di quella che pare un'astronave aliena, il giovane Clark scopre le sue origini, Zod riemerge dall'abisso in cui era stato esiliato insieme ai suoi uomini per imporsi sulla Terra costruendo, di fatto, un nuovo Krypton.
Toccherà al ribattezzato Superman fermarlo.




Per molti anni sono stato un avido lettore di fumetti, e per qualcuno meno uno tra i tanti sceneggiatori pronti a dibattersi nel sottobosco delle produzioni indipendenti per un posto al sole - che non è mai arrivato -.
E per molti anni ho sempre preferito gli eroi di casa Marvel a quelli targati DC Comics: troppa la differenza tra i primi - molti dei quali outsiders per definizione - ed i secondi - sgargianti, performanti, potenti -, da una squadra con Spider Man, Devil, Wolverine, gli X-Men, i Vendicatori, Hulk, Thor e chi più ne ha, più ne metta ad un'altra con Flash, Lanterna verde, Freccia verde, Batman - l'unico a salvarsi - e Superman.
Ed eccoci al punto focale: ho sempre detestato Superman.
Troppo buono, troppo forte, troppo perfetto per essere davvero un personaggio carismatico ed interessante: tolto il suo destino di orfano strappato al suo mondo d'origine allevato da una coppia di brave persone non più giovani e mai riuscite ad avere un figlio, il resto ha spesso e volentieri rasentato la noia, per il sottoscritto.
In fondo, è difficile immedesimarsi in una sorta di semidio quasi impossibilitato a sbagliare.
Sul grande schermo, il charachter dell'Uomo d'acciaio è passato dalle rappresentazioni praticamente fiabesche della saga interpretata da Christopher Reeves al pessimo e più recente Superman returns senza mai riuscire davvero a divenire un cult del genere: Zack Snyder, dopo aver affrontato con successo l'esperimento di Watchmen - Capolavoro di Alan Moore e Dave Gibbons -, ritenta cercando di modellare l'ascesa di Supes sulla scia di quello che fu l'inizio di una delle trilogie più entusiasmanti del blockbuster contemporaneo, il Batman targato Christopher Nolan.
Le similitudini tra Batman begins e questo Man of steel, infatti, sono molte, prima fra tutte la volontà di raccontare quello che è "l'uomo dietro la maschera", aprendo le porte ad una sorta di "origine" in grado di andare incontro agli appassionati così come agli spettatori occasionali: peccato che Zack Snyder non sia Christopher Nolan almeno quanto Superman non è Batman.
Il cast all stars, gli effettoni, le esplosioni e le evoluzioni della macchina da presa, infatti, non riescono a supplire ad una mancanza di carattere di fondo che non permette al film di decollare quanto il regista vorrebbe, quasi assegnando al giovane Kal-El una sorta di aura messianica che potrebbe essere facilmente contestabile e di cattivo gusto perfino per un anticlericale totalmente lontano dalla religione come il sottoscritto.
Fortunatamente, però, siamo in ben altri territori rispetto a roba agghiacciante come Sucker punch, e tutto sommato questo L'uomo d'acciaio altro non si rivela altro se non un giocattolone per bambini soprattutto grandi che nel cuore dell'estate traboccano di voglia di distrazione per una serata in sala con gli amici, di quelle che in genere restano impresse non tanto per il film visto, ma per la cornice e la compagnia.
I riferimenti sono molti, dal telefilm di Hulk con il suo Bruce Banner peregrino alla saga originale - si notano mescolanze tra il primo ed il secondo capitolo della stessa -, dalla fantascienza classica alle frontiere del Nuovo Millennio di Avatar e del 3D, eppure manca il carattere in grado di differenziare una visione qualsiasi dal titolo che piace sempre ricordare, o rivedere: niente zampata d'autore nel segno del già citato Nolan ma neppure ironia fracassona sulla scia del rinnovato e divertentissimo Marvel-style.
Grande, grosso, ciula e balosso, direbbe Julez.
Del resto, Superman è proprio così.


MrFord


"I remember how it used to be
making love to you all night long
I used to take you in my arms
and hold you there until all my strength was gone
I used to be a man of steel
I used to be a man of steel."
Meat Loaf - "Man of steel" - 


sabato 12 gennaio 2013

Danko

Regia: Walter Hill
Origine: USA
Anno:
1988
Durata: 104'




La trama (con parole mie): il capitano Ivan Danko, della milizia di Mosca, è costretto a volare negli States, a Chicago, per inseguire un bandito georgiano noto trafficante di droga che il suo governo vorrebbe seppellire senza troppo clamore, colpevole, tra le altre cose, di aver ucciso il compagno del poliziotto.
Giunto negli USA, Danko dovrà fare i conti con il sistema americano capitalista tanto estraneo al suo, le gerarchie della polizia locale, la legge Miranda ed i modi ruvidi del suo improvvisato compagno, il sergente Ritzik: in una corsa contro il tempo che possa evitargli un rientro in patria disonorevole e di finire ammazzato da una gang leader del giro della droga locale, il granitico sovietico sarà costretto a stringere alleanza con lo scombinato collega a stelle e strisce in modo da mettere finalmente le mani sulla sua nemesi e chiudere un cerchio che va ben oltre le questioni di politica e nazionalità.





Come direbbe certamente il vecchio - si fa per dire, dato che in confronto al sottoscritto è praticamente un ragazzino - Frank Manila, Danko è un film spiccio nelle accezioni migliori del termine.
Supercult diretto dal grandissimo Walter Hill nonchè primo film made in USA ad essere girato - in parte, ovviamente - nella Piazza Rossa di Mosca a Guerra fredda ormai finita, questo solidissimo poliziesco è stato un classico di Casa Ford fin dalla mia infanzia, e dal primo passaggio su questi schermi meritevole di trovare il punto d'incontro pressochè perfetto tra la tamarrata guascona ed ironica tutta amicizia virile e battutacce ed il poliziesco tosto come piace a noi vecchi lupi di mare, fatto di sparatorie, morti ammazzati, un sacco di botte e spericolati inseguimenti alla guida di autobus di linea - spettacolare la sequenza finale, citata alla perfezione nel recente Bad ass -.
A seguito delle innumerevoli visioni, credo potrei tranquillamente prendere parte ad un remake di questo film senza neppure avere bisogno di studiarne il copione - e presumibilmente vorrei essere scritturato per la parte di Ritzik, o all'occorrenza del cattivissimo Victor Rosta -, ed allo stesso modo ammetto che, a più di vent'anni dal suo esordio nell'allora non ancora Saloon, la vicenda che vede il capitano della milizia moscovita Danko inseguire la sua nemesi nel cuore della Chicago della tradizione gangsteristica americana ancora funziona alla grande, regalando grandi momenti rispetto al suo genere così come una serie invidiabile di sequenze e battute memorabili principalmente legate alla figura dell'appena citato Ritzik - interpretato da James Belushi, che negli anni successivi ha di fatto continuato a riproporre lo stesso tipo di personaggio casinaro e sboccato -: impossibile restare indifferenti al primo confronto del poliziotto statunitense con Rosta, o al dialogo in materia di pappagallini, o all'indimenticabile passaggio del "caffè bollente sull'uccello".
Quello che, però, in questi casi spesso passa inosservato a causa del fattore nostalgia, è il valore effettivo di una pellicola che è ancora oggi un esempio fulgido non soltanto di action movie, ma di poliziesco hard boiled, ennesima prova di un regista forse non sempre costante rispetto alla qualità della sua produzione eppure tra i più influenti e importanti che la tradizione americana abbia portato alla ribalta tra gli anni settanta e gli ottanta - ricordiamo che la sua firma è dietro due pietre miliari quali I guerrieri della notte e I guerrieri della palude silenziosa, assolutamente indimenticabili -: l'ironia e la sguaiatezza di Belushi e la staticità quasi ridicola di Schwarzenegger - in una delle sue interpretazioni peggiori, il che è tutto dire - assumono un'aura assolutamente mitica anche grazie alla mano di un Maestro capace di non prendersi sul serio neppure per un secondo eppure in grado di confezionare un signor titolo, dando lustro anche e soprattutto ai suoi stessi limiti.
Poi, certo, dovrei smettere di parlare di Danko dal punto di vista cinematografico e cercare di trasmettervi il godimento provocato dall'ennesima visione, fatta di battute recitate all'unisono con i personaggi - chi non ha mai pronunciato almeno una volta nella vita "Danko, nato stanco!" dovrebbe prendersi a bottigliate da solo per penitenza - e dalla serenità che soltanto alcuni film "cuscinetto" sono in grado di darci proprio quando ne abbiamo bisogno per evitare di essere sommersi dalle cazzate di tutti i giorni.
Ma non credo ce ne sarà bisogno: in fondo penso che tutti - perfino certi scellerati snob come il Cannibale - capiscano l'importanza che il Cinema ha in alcuni momenti della nostra vita - o giornata, se come me cercate di ritagliarvi sempre lo spazio per almeno una visione quotidiana - e che i cult che lo stesso produce - soprattutto quelli personali - restano indubbiamente una delle migliori medicine contro "il male di vivere".
E quando vedo Danko stendere il cazzone sceso apposta da casa per minacciarlo a proposito del suo teorico posto auto riservato con quel "conosci Miranda?", anche se fosse solo per un secondo, il mondo mi pare un posto decisamente migliore.


MrFord


"We share the same biology
regardless of ideology
believe me when I say to you
I hope the Russians love their children too."
Sting - "Russians" -


venerdì 30 settembre 2011

Contagion

Regia: Steven Soderbergh
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 106'


La trama (con parole mie): Beth Emhoff, in viaggio in oriente per affari - mescolandoli senza troppi patemi con il piacere - torna a casa in Minnesota portando con se un misterioso, aggressivo virus ad altissimo potenziale che è il principio di una pandemia su larghissima scala in grado di uccidere una persona ogni dodici contagiate.
In tutto il mondo scoppiano focolai dell'infezione, le organizzazioni per la sanità si muovono, le aziende farmaceutiche sperimentano i possibili vaccini sperando di accaparrarsi fatturati milionari, internet e stampa sono in subbuglio, e intanto chi è più informato cerca di fare il possibile per mettere al sicuro i propri cari.
Fondamentalmente, un ritratto tendenzialmente abbastanza fedele dell'umanità in caso di calamità di questo genere.



Soderbergh è davvero un regista in grado di sorprendermi spesso e volentieri: dall'autorialità del suo esordio con Sesso, bugie e videotape vincitore a Cannes ai blockbusteroni con gli amiconi Clooney e Pitt, dalle sperimentazioni di Bubble al Cinema finto autoriale d'impatto e un pò ruffiano come questo.
Perchè, volendo dirla proprio tutta, Contagion non è così brutto come lo aveva dipinto una buona parte della critica, soprattutto web: è un prodotto valido, girato in modo da mascherare la sua palese ruffianeria dietro una facciata da fittizia docufiction, infarcito di star di grosso calibro pronte a ritagliarsi anche parti decisamente minori, in grado di turbare almeno i più ipocondriaci e timorosi degli spettatori e tutto sommato scorrevole dall'inizio alla fine.
Eppure, con altrettanta sicurezza, è impossibile affermare che si possa trattare di una pellicola dalle potenzialità d'impatto pari a quelle del virus che mostra all'opera o dell'incredibile campagna pubblicitaria che l'ha vista protagonista: la sceneggiatura, pur se non malvagia, risulta assolutamente accademica ed influenzata dalle storie dei singoli personaggi - alcune decisamente meno riuscite di altre -, molti degli attori reclutati giocano al ribasso e fanno tutto il possibile per non strafare - Matt Damon pare la copia sbiadita del protagonista del meraviglioso Hereafter, e la stessa, normalmente fenomenale Kate Winslet pare fondamentalmente portarsi solo la pagnotta da contratto a casa - ed i tentativi di sperimentazione sono lasciati dal regista nello stesso piccolo angolo in cui si rifugia quando decide di produrre cose assolutamente interessanti come il già citato Bubble.
Certo, l'approccio politico dell'autore si fa comunque sentire, ed appare più che chiara la posizione critica rispetto alle grandi istituzioni e corporazioni al vertice della catena "alimentare" del pianeta e della società così come agli squali, a prescindere dal livello in cui essi nuotano - il personaggio dell'ottimo Jude Law è un esempio perfetto della categoria, ed il regista non risparmia una discreta dose di ironia nei suoi confronti -, eppure non bastano poche intuizioni per rendere Contagion un appuntamento imperdibile di questo inizio autunno, soprattutto considerato che del genere catastrofico, nel mondo post-undici settembre in cui viviamo, la settima arte pare avere clamorosamente abusato rischiando ad ogni nuova pellicola di sconfinare nel terrificante campo dello studioapertismo da allarme globale che tanto facilmente scatena nel sottoscritto la voglia di distribuire bottigliate come se piovesse.
La stessa idea di sciogliere il mistero del cosiddetto "paziente zero" solo nel finale perde molta della sua potenza non tanto per la soluzione scelta, quanto per la tensione progressivamente calata a seguito dell'accelerazione che subisce il tempo di narrazione a partire dalla fine della prima parte, dedicata al propagarsi del contagio, e la seconda, quando l'elaborazione del vaccino e la sua distribuzione rubano la scena alle singole storie a scapito del consueto tentativo di spettacolarizzazione all'ammmeregana di cui tanto spesso ho parlato - e mai con accezione positiva - in questi ultimi post.
Peccato per Soderbergh e anche per la materia trattata, assolutamente attuale e potenzialmente di grande impatto: a volte un pò di coraggio e di sperimentazione sono necessari per raggiungere il risultato.
Un pò come scoprire un vaccino rivoluzionario.

MrFord

"You and me have a disease,
you affect me, you infect me,
I'm afflicted, you're addicted,
you and me, you and me."
Bad Religion - "Infected" -

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