sabato 12 novembre 2016

Post mortem (Pablo Larraìn, Cile/Germania/Messico, 2010, 98')




Quando, di recente, spinto dalle recensioni entusiastiche ottenute da Neruda e Jackie, ho deciso di recuperare i titoli che mancavano al sottoscritto della filmografia di Pablo Larraìn prima di affrontare le sue ultime due fatiche, ho temuto davvero il peggio in termini di incazzature e bottigliate: ai tempi, infatti, quando colleghi ed amici mi consigliavano Tony Manero neanche si trattasse di un Capolavorone, rimasi sconvolto dalla delusione allo scoprire quanto mi infastidì quella visione.
Dunque, approcciare questo Post mortem ed il successivo El club non è stata certo un impresa facile, per il vecchio cowboy: inoltre, se da un lato El club ha finito per colpirmi a fondo fin dalle prime battute, questo Post mortem è partito neanche avessi ripreso il discorso interrotto con il già citato Tony Manero.
Un discorso al limite dell'irritazione data dall'autore che vuole essere autore a tutti i costi che occupa pesantemente una buona metà della pellicola, e che ha finito per mettermi alle corde - fortunatamente sostenuto dall'idea di un minutaggio non eccessivo - in più di un'occasione, spolverando le bottiglie pronte ad abbattersi tra capo e collo del regista cileno.
Poi, come un miracolo, è successo.
E' successo che in un paio di sequenze assolutamente clamorose - di quelle che si incontrano soltanto nei grandi film - lo scomodissimo Pablo ribalta completamente le sorti del suo lavoro e lo trasforma non solo in un ritratto sconvolgente del Cile nei primi giorni della dittatura di Pinochet, ma anche e soprattutto in quello che poi si consoliderà nei suoi lavori successivi, ovvero una potenza smisurata non più condizionata dall'esigenza di mostrare il proprio valore tecnico a tutti i costi.
Del resto, a prescindere da tutto, sono sempre rimasto molto sensibile rispetto all'argomento dittature, specialmente in America Latina, dove tra Cile, Argentina e via discorrendo - inserirei anche Haiti, anche se si tratta di Caraibi - tra gli anni sessanta e gli ottanta vennero commessi alcuni dei crimini contro l'umanità più atroci di tutti i tempi: uno di questi, simbolicamente forse il più importante, è legato alla morte di Salvador Allende, uomo del popolo per eccellenza e speranza dei poveri, l'equivalente sudamericano del Kennedy statunitense, travolto dal golpe - sostenuto, tra le altre cose, dagli USA e culminato con un undici settembre altrettanto doloroso rispetto a quello del duemilauno ancora da venire - di Pinochet e costretto a lasciare il suo popolo in mano alle violenze dei militari.
Proprio attorno alla morte di Allende si sviluppa una delle sequenze citate, quando al protagonista - funzionario addetto alla registrazione dei referti delle autopsie - ed ai suoi colleghi viene chiesto di analizzare il cadavere del Presidente di fronte ad una delegazione di militari, e vedere il dolore di uomini e donne che per quell'uomo steso su un tavolo avevano una vera e propria adorazione in bilico tra il disgusto, la volontà di ribellione e la paura per le proprie vite.
Il secondo passaggio, al contrario, mostra quanto, come e forse perchè, in questi casi, l'abisso finisce per inghiottire ogni uomo, in misura esponenziale a seconda di quanto le sue paure, la sua rabbia e quello che si porta dentro finiscono per divorarne il cuore.
E' un passaggio terribile, da togliere il fiato, che lascia il pubblico con il cuore in gola al termine della visione, e racconta come pochi altri perchè in alcuni momenti storici ed in alcuni luoghi siano possibili scempi come quello vissuto dal Cile all'epoca.
Scempi che è giusto ricordare e non dimenticare, che si tratti di un'autopsia, di una presa di posizione, della voglia di gridare che la Libertà è la cosa più importante che possa caratterizzare la vita di ognuno e della voglia di stare in silenzio quando si comprende che senza la vita perde di significato anche la Libertà stessa.




MrFord




 

12 commenti:

  1. Questo è ancora il Larraìn che mi respinge, con un protagonista troppo viscido per essere giustificato.
    Come detto, lo preferisco nei suoi lavori più commerciali, più nei canoni.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ti capisco, ma rispetto a Tony Manero qui c'è davvero un salto di intensità incredibile.

      Elimina
  2. Ho ancora un sacco di lavori di Larraìn da recuperare e questo è quello che mi attira di meno. Soprattutto dopo il tuo parere positivo... ;)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Continuo a pensare che Larraìn non sia il regista per te: troppo bravo. Ahahahahah! ;)

      Elimina
  3. Decisamente non roba per il Khalasar ;)

    RispondiElimina
  4. vero, in un paio di scene si soffre molto, senza effetti speciali.
    qui di immaginava cosa stesse succedendo, lì succedeva davvero, è il film è finzione e documento insieme.

    http://whiterussiancinema.blogspot.it/2016/11/post-mortem-pablo-larrain.html

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Verissimo: un dramma che Larraìn rende davvero con una potenza inaudita.

      Elimina
  5. Adoro tutto Larraìn, come sai, ma capisco che queste prime opere un po' "acerbe" possano creare disagio allo spettatore... o forse è un disagio voluto, chi può dirlo?
    In ogni caso, in questo credo concorderai, l'interminabile sequenza finale è una delle più sconvolgenti e insostenibili che abbia visto in vita mia.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Verissimo: una sequenza straziante, pazzesca.
      Non ricordo nel passato recente un passaggio così doloroso. Terribile.
      Senza dubbio, anche rispetto ai film che amo meno, Larraìn resta uno dei registi più importanti del panorama attuale.

      Elimina
  6. Dipende in che momento me lo chiedi.
    Ma a volte potresti sentirmi dire che questo è il miglior Larrain.

    sicuramente avanti Neruda e No per me, credo anche a El Club. Siamo lì

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Senza dubbio supera No, mentre Neruda ancora mi manca.
      Rispetto a El club, invece, per me è un paio di passi indietro.

      Elimina

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...