venerdì 31 maggio 2013

Space cowboys

Regia: Clint Eastwood
Origine: USA
Anno: 2000
Durata: 130'




La trama (con parole mie): Frank Corvin, roccioso e testardo ingegnere in pensione con alle spalle una carriera intera costruita alla NASA, viene convocato dall'Agenzia a seguito del guasto ad un satellite che lui stesso ha progettato in modo da sovrintendere alle riparazioni. 
Corvin, però, non ci sta, ed intende riportare in orbita la sua vecchia squadra, composta, oltre che da lui, da Tank Sullivan, il marpione Jerry O'Neill ed il pilota Hawk Hawkins, che proprio con Frank ha un conto in sospeso che ha incrinato la loro amicizia.
La proposta è accolta con molto scetticismo dai vertici della NASA, che promettono di considerare la situazione solo a condizione che ognuno dei quattro si riveli ancora in grado di superare i test che permettono di ricevere l'autorizzazione per una missione nello spazio: ovviamente i vecchi leoni accettano di buon grado la sfida, sopperendo alle defezioni fisiche con ironia, intelligenza ed uno spirito praticamente indomabile.



Questa recensione prende parte alle celebrazioni per il Clint Eastwood Day.



Le iniziative legate ai compleanni di attori e registi, partite a gennaio grazie ad una geniale idea di Frank Manila, sono state un'occasione unica di aggregazione per noi bloggers cinefili, nonchè un modo per farci conoscere non solo come individualità, ma come squadra, in un modo o nell'altro: ovviamente, quando la scelta è ricaduta su Clint Eastwood, non ho potuto che gioire doppiamente di questo tipo di celebrazioni.
Non è un mistero, infatti, che qui al Saloon il grande uomo dalle due espressioni sia uno dei nomi di riferimento non soltanto del Cinema a stelle e strisce, ma mondiale, nonchè, a mio parere, il John Ford dei nostri giorni, l'interprete maggiore della cultura americana nella sua migliore accezione, un narratore che non ha mai smesso di mettersi in gioco come se si potesse - e, in effetti, è proprio così - continuare ad imparare anche quando si è finito per superare i propri Maestri: per festeggiare il suo ottantatreesimo compleanno, però, la mia scelta non è ricaduta su pietre miliari come Gli spietati o Million dollar baby - già passati da queste parti -, ma su uno dei successi commerciali maggiori del vecchio cowboy - quello vero -, una dramedy d'avventura in grado di esaltare il concetto di old school che qualche anno dopo il solido Clint avrà modo di fotografare al meglio con un altro dei suoi Capolavori - parlo, ovviamente, di Gran Torino -, Space cowboys.
Omaggio divertito e divertente ai tempi andati, questo curioso incrocio tra il drammone d'avventura a stelle e strisce e la commedia dolceamara quasi Sundance-style legata all'inesorabile scorrere della sabbia nella clessidra è un gioiellino dal primo all'ultimo minuto, sottovalutato da parte della critica illustre ai tempi della sua uscita perchè definito troppo commerciale eppure perfetto nell'andare a fondo di quello che è lo spirito indomabile non soltanto di chi si considera alla fine soltanto alla fine, e non nel percorso che porta ad essa, ma anche della parte buona dell'approccio made in USA, quello che permette a tutti di fare tutto, sempre che quei tutti siano disposti a dare e a fare quello stesso tutto.
Il gruppo di protagonisti è letteralmente perfetto, dal sempre granitico Clint alla sua eccezionale spalla/rivale, un Tommy Lee Jones mai così in forma, senza dimenticare James Garner ed il sempre mitico Donald Sutherland, che tra donne, vista offuscata e memoria di ferro - esilarante la gag dell'esame di controllo degli occhi - è senza dubbio l'uomo perla di questi fantastici quattro dello spazio: come sempre, comunque, nei film firmati da Eastwood, il meglio dell'esperienza si ha sempre nel percorso che porta al suo compimento - e torniamo al discorso legato alla fine -, da una prima parte decisamente divertente - il confronto tra i quattro pensionati e gli arrembanti piloti di nuova generazione è impagabile - ad un crescendo più teso ed un finale che, se non amaro, costituisce la prova della coscienza che Clint ha del fatto che nella vita difficilmente ci sarà spazio per una vittoria schiacciante.
Al massimo una rivincita, la prova che un segno può essere lasciato, ma che il prezzo di quello stesso segno sarà sempre un passo oltre la nostra portata di semplici uomini.
E così, dalla sequenza della rissa nel bar - il confronto Eastwood/Jones è uno dei pezzi di amicizia virile migliori insieme ai dialoghi tra Walt Kowalski ed il suo barbiere nel già citato Gran Torino che io possa ricordare sul grande schermo - a quel finale beffardo, ironico ed inesorabilmente amaro c'è tutto il percorso della poetica eastwoodiana, c'è quel "andata aereo, ritorno macchina" di Maggie, l'incredulità della madre della giovane donna che sposò William Munny, noto criminale ed assassino, c'è il riscatto al pari della fallibilità, la vittoria pronta a correre accanto all'inesorabile sconfitta che attende tutti noi, destinati al nulla e all'addio.
E se la Luna deve essere l'obiettivo, il sogno, la dichiarazione che non siamo domi neppure quando il Tempo ce lo impone, allora verso la Luna si volerà, incuranti del fatto che possa essere considerata un'impresa folle: in fondo, la Frontiera è solo una linea.
Sta ai cowboys cavalcare lungo la stessa, e decidere se rimanere in equilibrio, tornare sui propri passi o andare oltre.
Fortunatamente per noi, Clint è il numero uno di tutti gli uomini con due espressioni.
E dei cowboys.
Spazio oppure no.


MrFord


"Fly me to the moon
let me play among the stars
let me see what spring is like
on Jupiter and Mars."

Frank Sinatra - "Fly me to the Moon" -




Partecipano con due espressioni ai festeggiamenti anche i blog:

50/50 Thriller - Fino a prova contraria
500 film insieme - I ponti di Madison County
Bette Davis Eyes - J. Edgar
Bollalmanacco di cinema - Mezzanotte nel giardino del bene e del male
Combinazione Casuale - Per un pugno di dollari
Director's cult - Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo
Era meglio il libro - Assassinio sull'Eiger
Ho voglia di cinema - Mystic River
Il cinema spiccio - La recluta
In central perk - Invictus
Montecristo - Cacciatore bianco cuore nero
Movies Maniac - Gran Torino
Pensieri Cannibali - Changeling
Scrivenny - Gli spietati
Triccotraccofobia - Un mondo perfetto

giovedì 30 maggio 2013

Thursday's child


La trama (con parole mie): il Festival di Cannes è alle spalle, e finalmente qualche proposta potenzialmente interessante comincia a fare capolino anche nelle nostre sale. Dopo La grande bellezza firmato da Sorrentino, infatti, è il turno, questa settimana, di Refn, che torna sul grande schermo dopo l'enorme successo dello splendido Drive.
Purtroppo non è tutto oro quello che luccica, e accanto a quella che potrebbe essere una delle uscite più importanti dell'anno giungono come di consueto le inutili proposte made in Italy così come gli inutili commenti del mio blogger antagonista per eccellenza Cannibal Kid.
Ma dato che io sono un cowboy vecchio e saggio, allargo le spalle e vado avanti a bottigliare: in fondo, se "only god forgives", io posso anche non preoccuparmi troppo di farlo.

"Hey Cannibal, sei pronto ad una notte da leoni in macchina con me e il vecchio Ford!? Guida lui!"

Solo Dio perdona - Only God Forgives di Nicolas Winding Refn


Il consiglio di Cannibal: Nemmeno Dio perdona Ford - Not Even God Fordgives

Solo Dio perdona potrebbe essere l’incognita dell’anno. D’altra parte Refn nella sua carriera ha fatto cose splendide come Drive e altre pessime come Valhalla Rising, quindi non si può mai sapere…

I fischi e le critiche ricevute da questo film all’ultimo Cannes possono contare però fino a un certo punto, visto che in platea spesso ci sono dei criticoni invidiosi come Ford, sempre pronti a buttare giù registi che poco tempo prima osannavano. A testimoniarlo c’è ad esempio l’accoglienza ricevuta a Venezia da To the Wonder di Terrence Malick, non un capolavoro assoluto come The Tree of Life, ma comunque niente da giustificare tante opinioni negative.

L’impressione, anche ascoltando la colonna sonora, è che Solo Dio perdona ce l’avrà dura a diventare un nuovo cult totale ai livelli di Drive, però le premesse per una visione notevole ci sono tutte. Se poi Refn & Gosling a questo giro non si sono ripetuti, Dio possa perdonarli. E possa anche perdonare Ford per tutte le castronerie che quotidianamente scrive.

O meglio ancora, lui può anche non perdonarlo, che ci godrei a vederlo bruciare tra le fiamme dell’Inferno buahahah!

Il consiglio di Ford: meglio regnare all'Inferno, che servire in Paradiso.
Refn, come tutti voi ormai sapete, è uno dei protetti fordiani più protetti degli ultimi anni. Dalla trilogia di Pusher a Bronson, da Valhalla rising al meraviglioso Drive, i suoi film sono riusciti tutti a ritagliarsi uno spazio importante nel cuore del sottoscritto.

Purtroppo quest'ultimo Festival di Cannes, che almeno sulla carta doveva vedere la consacrazione definitiva dell'autore danese, ha invece segnato, a quanto pare, un passo indietro con un film giudicato da molti tronfio e spocchioso, una sorta di manifesto del radicalchicchismo in pieno stile Cannibal, ovvero il peggiore.

Io cercherò di schiaffarmelo il giorno dell'uscita senza farmi influenzare, e spero davvero di non trovarmi ad essere costretto a bottigliare perfino uno dei nomi di punta della mia scuderia.


"Cannibal, mi spiace, ma Ford mi ha dato precise istruzioni di gonfiarti come una zampogna."
Una notte da leoni 3 di Todd Phillips


Il consiglio di Cannibal: ormai stanno diventando più notti da coglioni

Una notte da leoni era un film divertente, che gasava, che faceva venire una gran voglia di andare a Las Vegas. Il sequel era una robetta che riciclava l’originale, non proponendo manco mezza idea nuova. In pratica, un film del tutto inutile. Ahimé, questo terzo capitolo rischia di ripetere il secondo che ripeteva il primo. In pratica, si preannunciano sbadigli più che risate. Tranne per gli amanti delle copie anziché degli originali come Ford, lo Zucchero Sugar Fordaciari della blogosfera. LOL

Il consiglio di Ford: Vecchio cowboy leone, giovane coniglio coglione.
Personalmente, al brand di Una notte da leoni io voglio bene.
Sarà che il mio addio al celibato è stato piuttosto tumultuoso, sarà che come idea di film da riposo di neuroni funziona, ma il lavoro di Todd Phillips è riuscito a divertirmi da matti in entrambi i suoi capitoli, nonostante il secondo fosse chiaramente una copia sputata del primo.

Il trailer del terzo, poi, è riuscito subito a riportarmi sui binari di follia che, a volte, finiscono per caratterizzare certe serate passate con gli amici a meno che non siate il Cannibale, che fin troppo spesso e volentieri dedica le nottate a chiudersi ancora più a chiave nella sua cameretta sperando che un bel principe venga a prenderlo neanche fosse un novello Raperonzolo.

"Chi è quel morto che parla!?" "Un certo Marco Goi: pare che Gosling non ci sia andato piano, con lui!"

Akira di Katsuhiro Otomo


Il consiglio di Cannibal: aaaaah, aaah kiiira, sorriderò se non a Ford?

Akira è una bella botta. M’ha fatto esplodere la testa come poche altre visioni.
Un film notevole, ricco di spunti, visivamente grandioso. Io però non c’ho capito una mazza. Attendo quindi che Ford me lo spieghi per filo e per segno, sempre se è sopravvissuto alla visione. Cosa su cui non scommetterei.

Ancora una volta, vivi complimenti alla prontissima distribuzione italiana, che fa arrivare questo film del 1987 in sala ad appena 26 anni di distanza. Forse perché è questo il tempo che ci va per riuscire a comprendere in pieno Akira…

Il consiglio di Ford: Bottigliate a-ki? A quel bimbominkia di Cannibal Kid-ra(ck)!
Non spendo troppe parole per presentare quello che è uno dei cult dell'animazione e ancor prima del fumetto giapponese di tutti i tempi, film splendido che ha fatto la storia del genere e che inspiegabilmente viene distribuito in Italia dopo aver già conosciuto almeno un paio di edizioni in dvd e bluray.

L'unica cosa che posso affermare con certezza è che se ancora dovesse mancare alla vostra "collezione", una visione è praticamente obbligatoria, considerato che, insieme a Ghost in the shell, si potrebbe considerare il Blade runner del manga. E se volete un secondo consiglio, recuperate anche il fumetto, ancora più sconvolgente, ricco e profondo.

"Ford, non mandarmi mai più contro i tuoi amichetti palestrati, o scateno tutta la forza del mio ego!"

Tutti pazzi per Rose di Régis Roinsard


Il consiglio di Cannibal: Ford è pazzo, ma nessuno è pazzo per lui

Uh, una commedia francese con un ottimo cast ambientata negli anni ’50! Questo sembra un film davvero caruccio. Una pellicola vintage e leggera di quelle che il nostro cinema si può solo sognare.

Mi sa tanto di possibile sorpresa della settimana. Alla faccia di Ford e delle sue schifezze da tamarro di periferia come Fast & Furious 600!

Il consiglio di Ford: Peppa Kid è ormai pazzo di me!
Considerato che, di recente, Ozon ha riportato molto in alto le quotazioni del Cinema d'oltralpe - non che ce ne fosse bisogno -, questo film potrebbe anche risultare abbastanza interessante, divenendo, di fatto, la sorpresa della settimana, l'outsider di lusso che non ti aspetti.

Quello che mi aspetto, invece, sono le consuete sparate prive di senso del mio antagonista, che se non fosse per Gatsby e pochi altri titoli così grandi da metterlo d'accordo con il sottoscritto sarebbe già stato bandito dal mondo dei bloggers cinematografici.


"Voglio impegnarmi al massimo e diventare la ghost-writer di Katniss Kid!"
Benvenuti a Saint Tropez di Danièle Thompson


Il consiglio di Cannibal: a Saint Tropez, la gente si chiede perché, Ford balla il twist, portando un vestito in lamè

Per un film francese promettente come Tutti pazzi per Rose, ecco arrivarcene un altro che mi attira decisamente meno. Mi ispira comunque più delle classiche commedie italiane medie, però potrebbe essere un mezzo cinepanettone d’Oltralpe piuttosto evitabile. Non evitabile quanto il blog WhiteRussian, ma comunque piuttosto evitabile.

Il consiglio di Ford: Saint Tropez mi pare il posto giusto dove spedire in vacanza il Cannibale. Io, invece, me ne vado a Cannes, con tutti quelli che di Cinema se ne intendono.

Filmetto transalpino inutile sfruttato come riempitivo neanche fosse la classica commedia di pessima fattura made in Italy che mi guarderò bene dal recuperare, e che in un periodo piuttosto impegnato come quello di ogni genitore per tutta la vita finisce per risultare solo ed esclusivamente un furto di tempo ad altre esperienze decisamente più interessanti da fare nel corso della propria vita.

Meglio, dunque, che a sciropparselo sia il Cannibale, che tanto da fare non ha niente di particolare, se non andare su Youtube a guardarsi tutti i video degli One Direction.


"Vieni con noi, Ford, ti accompagnamo al ricovero, così la smetti di ammorbarci con i tuoi amici Expendables!"
Slow Food Story di Stefano Sardo


Il consiglio di Cannibal: I don’t eat Slow Food

Viva il fast food, abbasso lo slow food!
E abbasso ancora di più i documentari sullo slow food!
E abbasso ancora e ancora di più quel lentone di Mr. Slow Ford!

Il consiglio di Ford: slow che!?
Io mangio, parecchio.
Normalmente primo, secondo, formaggio, verdura, frutta, noci, gelato e alcolico.

Di slow non c'è nulla, dalle mie parti, se non la calma che mi prendo per gustare ogni portata. Di food, invece, parecchio.

Dunque credo che salterò questo film e mi dedicherò ad una bella cena corposa.

"Se non riesco a corrompere Ford con il cibo, ci proverò con l'alcool!"
Una notte agli Studios di Claudio Insegno


Il consiglio di Cannibal: meglio una notte all’Inferno con Ford
Questo film viene promosso come il primo fantasy italiano in 3D, cosa che da sola basterebbe per scappare a gambe levate, manco ci si trovasse alla presenza di Ford ignudo. Guardando poi il trailer, si viene presi da quegli sconforti esistenziali che ti fanno chiedere: “Peeerché? Cosa ho fatto di male, per meritarmi questo?”.

Più che una pellicola cinematografica, sembra una webserie di quelle amatoriali, molto amatoriali, di quelle che Ford con il suo Stupid Phone, volevo dire Smart Phone, mi sa che gira filmini migliori…

Il consiglio di Ford: una notte lontano dal Cinema.
Per favore, non provate neppure a guardare il trailer di questo film.
Dico davvero.
Non lo augurerei neppure al Cannibale.

"Ford, Cannibal, uscite da questa blogosfera!"

Ti ho cercata in tutti i necrologi di Giancarlo Giannini


Il consiglio di Cannibal: ti ho cercato in tutti i necrologi, Ford, ma mannaggia non ti ho ancora trovato

Giancarlo Giannini è un buon attore, un grande professionista, uno dei nostri interpreti più apprezzati e ricercati all’estero (forse anche dall’Interpol), non lo metto in dubbio. A me personalmente però non ha mai entusiasmato. Adesso torna a fare il regista per la seconda volta, a 26 anni dal suo esordio. Che tutto questo tempo l’abbia passato anche lui a meditare sul significato di Akira?

Può darsi, quello che è certo è che il suo film mi ispira tanto quanto leggere i necrologi. Cosa che ho cominciato a fare, guarda caso, da quando conosco Ford. Per ora purtroppo senza avere soddisfazioni…

Il consiglio di Ford: meglio leggere i necrologi, che dedicarsi al Cinema italiano!
Ad ogni settimana che passa, mi pare che la nostra(na) settima arte si stia scavando la fossa da sola neanche se la godesse, chiusa nella bara, più della Sposa in Kill Bill.
Come se non bastasse, a buttare qualche badilata di terra in più pensa perfino un professionista come Giancarlo Giannini.
Stiamo sprofondando così tanto che a breve, forse, proporranno perfino a me e Peppa di girare un film insieme.

"Peppa, Ford, siete proprio due stronzi: scordatevi che vi scritturi per il mio prossimo film!"

24 - Stagione 6

 Produzione: Fox
Origine: USA
Anno: 2007
Episodi: 24



La trama (con parole mie): gli Stati Uniti, sotto la guida di Wayne Palmer, fratello del compianto ex Presidente David, sono da settimane sotto attacco. Una misteriosa organizzazione terroristica, infatti, ha preso di mira le principali città del Paese seminando vittime e panico, ed una delle richieste del suo leader, Abu Fayed, è che Jack Bauer sia liberato dalla prigionia in Cina per essergli consegnato personalmente.
Il ritorno sul suolo americano dell'agente più spaccaculi del piccolo schermo innescherà una serie di vicende che porteranno all'esplosione di un ordigno nucleare nella periferia di Los Angeles, ad un avvicendamento alla guida degli USA e al confronto finale tra lo stesso Jack ed una serie di suoi vecchi nemici, dallo stesso Fayed al generale russo Gredenko, passando per i cinesi prima di finire con il suo stesso padre.
Ma non abbiate dubbi. Bauer sistemerà tutti come solo lui sa fare.




Nel corso degli ultimi anni poche serie sono state in grado di incarnare l'idea di action meglio di 24: prodotto in bilico tra la tamarrata selvaggia e lo specchio delle paure figlie degli States negli anni del "bushismo", poggiato sulle spalle di un Kiefer Sutherland monoespressivo e di stagione in stagione sempre più reazionario, girato sempre "in tempo reale" ed ambientato nell'arco di una giornata, le soddisfazioni regalate dallo stesso agli occupanti di casa Ford sono state molteplici, in particolare con le stagioni quattro e cinque, vere e proprie chicche del genere e non solo.
La sesta annata, chiamata a mantenere un livello ugualmente alto, ha rappresentato al contrario il primo passo indietro qualitativo - e soprattutto di idee - della serie, con una catena di situazioni già affrontate da Jack Bauer - e dagli spettatori - nel corso delle stagioni precedenti riciclate o amplificate in modo da sopperire, di fatto, alla mancanza di un plot che fosse legato a doppio filo ad un unico villain di rilievo - come fu l'indimenticabile Abib Marwan della season four - o ad una situazione nuova che coinvolgesse il granitico protagonista: personalmente l'idea di vedere Jack alle prese con l'evasione dal carcere cinese all'interno del quale era stato rinchiuso nel finale del suo quinto giro di giostra avrebbe regalato un appeal decisamente più alto rispetto all'ennesimo gruppo terroristico di matrice islamica intento a complottare con i russi in modo da destabilizzare gli equilibri mondiali di potere minacciando gli States ed il loro Presidente destinato ad essere ovviamente sgominato dal buon Bauer, che pronti via, dopo essere stato scarcerato su richiesta proprio dei terroristi riprende in mano il suo (sporco) lavoro di agente come se non fosse passato un solo giorno dei due anni in cui i cinesi paiono essersi divertiti un mondo ad infliggergli una tortura dietro l'altra.
Sicuramente l'inserimento della vicenda legata al fratello e al padre di Jack dona un pò di spessore umano ad un personaggio certo non noto per i suoi sentimenti - per quanto ad ogni stagione continui ad essere presente ben più di una donna pronta a dare la vita, volente o nolente, per l'agente più tosto ed insubordinato del CTU -, ed il confronto finale con il vecchio, spietato genitore - un ottimo James Cromwell - funziona alla grande, eppure l'impressione è quella di un deja-vù di ventiquattro episodi, all'interno dei quali anche i tipici twist e colpi di scena cui gli spettatori della serie erano ormai abituati tendono a latitare.
Il risultato è e resta, comunque, profondamente godibile, e rimbalzando tra l'ormai storico suono del telefono del CTU e l'ironia a proposito delle scelte dei nemici di Bauer - in casa Ford ci si è chiesto, almeno un paio di volte a puntata, per quale misterioso motivo nessuno di quelli che potrebbero volere Jack morto non riesce a decidersi a piantargli una pallottola dritta nel cervello, invece che insistere per catturarlo, finendo ovviamente per essere ripagato con un trattamento spesso peggiore dal Nostro -, anche questa volta si è assistito al tiratissimo e consueto ripasso da parte del protagonista di tutti i potenziali nemici degli USA, da Abu Fayed al generale ribelle Gredenko, dai carcerieri cinesi fino al padre e al fratello - l'interrogatorio di Jack a quest'ultimo, ancora più duro del solito per gli standard già piuttosto convincenti dell'agente è senza dubbio uno dei pezzi cult dell'annata -, senza risparmiare anche colleghi incautamente disposti ad intralciare ordini - o insubordinazioni - del suddetto Bauer - è il caso di Curtis, uomo d'assalto che resisteva già da qualche anno accanto all'alter ego di Kiefer Sutherland, impresa davvero titanica, considerate le defezioni di ogni genere e le morti che puntualmente colpiscono tutti quelli che hanno a che fare con lui -.
Molto del divertimento del sottoscritto e di Julez è stato legato anche alla continua mancanza di fiducia che colleghi, superiori e Presidenti vari continuano a riporre nel protagonista, che per sei stagioni non ha fatto nient'altro che continuare a togliere le castagne dal fuoco a tutti agendo sempre e comunque come voleva, sbattendosene di regole, restrizioni e quant'altro quando queste gli impedivano di fare qualsiasi cosa desiderasse: fossi in un casuale direttore del CTU, infatti, lascerei fare a Bauer esattamente tutto quello che vuole, e senza dubbio troverei il tempo di uscire a cena, schiacciare un pisolino, farmi qualche robusto drink e forse anche prenotare un bel weekend alle terme senza avere il minimo dubbio che l'operazione, alla fine, possa riuscire.
L'ipotesi di Julez è che in realtà Jack Bauer, decisivo in un giorno su trecentosessantacinque, passi in realtà i restanti trecentosessantaquattro a collezionare fallimenti colossali e plateali figure di merda, e proprio per questo motivo tendenzialmente i suoi capi finiscono per non essere mai sicuri delle sue scelte: questo, purtroppo, resterà un mistero.
Quello che mistero, invece, non è, è che nonostante una stagione leggermente sottotono rispetto alle precedenti al Saloon attenderemo fiduciosi le ultime due annate - precedute da un film che ovviamente verrà recuperato - di quello che è stato uno dei titoli di riferimento del piccolo schermo in questo inizio di Nuovo Millennio, confidando che Jack Bauer possa regalarci numerose altre perle e che la prossima volta il cattivo di turno sia di nuovo di una sostanza adeguata a questo insolito, spigoloso eroe "buono".


MrFord


"China decorates our table
funny how the cracks don't seem to show
pour the wine dear
you say we'll take a holiday
but we never can agree on where to go."

Tori Amos - "China" -




mercoledì 29 maggio 2013

Snitch - L'infiltrato

Regia: Ric Roman Waugh
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 112'




La trama (con parole mie): John Matthews è un professionista nel campo dei trasporti edili, un tipo all'antica che si è fatto il culo e ha creato la sua impresa dalle fondamenta, che non rifiuta mai di rimboccarsi le maniche e dare una mano ai suoi lavoratori.
Suo figlio Jason, invece, non vede il padre così di buon occhio: lui e sua madre, infatti, lo hanno avuto al college, molto giovani, si sono separati ed hanno preso strade diverse, tanto che John ha finito addirittura per costruirsi una nuova famiglia.
Quando un amico di Jason dedito allo spaccio di anfetamine finisce per farsi beccare, incastra il giovane per avere uno sconto di pena seguendo quello che è il testo di una legge decisamente curiosa made in USA, mettendo il figlio di Matthews nella stessa situazione: per poterlo aiutare John si offrirà di trovare una pista che lo possa condurre a spacciatori più importanti barattando di fatto la loro consegna con la libertà del figlio.




Come tutti gli avventori del Saloon ben sanno, difficilmente riesco a stare troppo tempo senza dedicare almeno una visione al piacere del mio lato tamarro, e dunque approfitto delle serate di stanca in cui disintossicarmi dal lavoro e dagli impegni per abbandonare i propositi d'autore e lasciare spento il cervello con una bella pellicola che di norma mi aspetto ricca di esplosioni, botte da orbi e situazioni ben oltre il limite dell'assurdo: di recente, escludendo gli Expendables old school e la certezza - o quasi - Jason Statham, quando considero una scelta di questo genere mi affido spesso e volentieri a The Rock, mito del wrestling dei primi anni zero nonchè erede della grande tradizione degli action heroes che nel corso degli eighties è stata una delle basi del mio amore per il Cinema.
Così, dopo essermi dilettato con Il re scorpione e G. I. Joe - La vendetta, ho deciso che non potevo certo risparmiarmi Snitch - L'infiltrato, che sulla carta mi suonava come una cosa estremamente tamarra e potenzialmente in grado di regalarmi perle degne di rimanere impresse nella memoria: è invece cosa accade? 
Non solo scopro che The Rock, nel corso dell'intera pellicola, praticamente non muove un muscolo se non per guidare un articolato e prova a recitare la parte dell'uomo comune certamente non avvezzo alle armi o agli scontri - nonostante la stazza -, ma finisce per passarsela decisamente male anche in un paio di sequenze che lo vedono addirittura incassare una buona dose di legnate, in completa contraddizione con la realtà del mondo e del Cinema action tutto.
Se avessi considerato solo questo aspetto, Snitch avrebbe meritato bottigliate pesantissime, anche perchè far picchiare The Rock - e dico, The Rock - da dei semplici spacciatori di strada equivale a bestemmiare contro l'intero Pantheon delle divinità d'azione, scatenando l'ira di tutti gli Expendables provocando una tempesta devastante di calci rotanti, colpi sulla nuca, pallottole come se piovesse e chi più ne ha, più ne metta: il lavoro di Ric Roman Waugh - un artigiano e nulla più, sia chiaro - si salva solo ed esclusivamente per una trama che, seppur ovviamente non sviluppata nel migliore dei modi, finisce per trovare un suo senso come una sorta di thriller poliziesco di grana grossa di quelli da passaggio in tv il sabato sera, che senza infamia e senza lode scorre dritto verso la sua naturale conclusione offrendo, di contro, una riflessione davvero importante su una delle leggi più assurde che mi sia mai capitato di scoprire in vigore - eccetto, ovviamente, quelle da leggenda metropolitana anch'esse figlie della curiosa realtà sociale a stelle e strisce -.
Perchè la base della vicenda narrata, infatti, è data dall'assurda posizione che lo stato americano assume rispetto a chi viene arrestato per un reato legato allo spaccio di droga: oltre a considerare lo stesso, infatti, alla stregua di stupri, omicidi, rapine ed abusi di vario genere, l'unico modo per scampare ad una condanna - che, spesso e volentieri, è pesante - è quello di incastrare un altro spacciatore o presunto tale per una quantità di roba pari ad un minimo di mezzo chilo, creando in questo modo una sorta di catena di Sant'Antonio in cui amici, soci o, perchè no, illustri sconosciuti, passano il tempo a scaricare la patata bollente uno sull'altro.
Ora, senza dubbio gli strumenti di controllo - anche decisi - sono importanti, ma in tutta onestà ho trovato decisamente anticostituzionale questa disposizione del governo USA, pronto a fare della spiata - che sia giustificata, oppure no - una sorta di leva per il monitoraggio del traffico di stupefacenti, anche quando tutti noi sappiamo bene che non viviamo in un film con The Rock in cui tutto alla fine si sistema e la catena di scarico di responsabilità finisce per condurre dritti dritti al superboss del Cartello vero burattinaio dell'Organizzazione di turno.
Uno spunto, dunque, decisamente interessante per una pellicola assolutamente mediocre, all'interno della quale non trovano una performance convincente neppure due attori decisamente di livello come Susan Sarandon e Barry Pepper, che negli ultimi anni pare sparito ancor più di Edward Norton, suo compagno in quella che è stata una delle pellicole migliori per entrambi, La 25ma ora di Spike Lee.
Detto questo, e lasciato Snitch alle spalle, lancio un appello ufficiale a tutti i registi intenzionati a scritturare The Rock: una volta che il buon Dwayne è della partita, non buttatelo a capofitto in una parte drammatica e solo recitata.
Facciamoli lavorare, quei muscoli.
E soprattutto, non esiste davvero che The Rock si prenda una manica di botte senza restituire neanche un People's Elbow.
E ho detto tutto. La prossima volta che non vedo The Rock menare le mani, partono le bottigliate.
Siete avvisati.



MrFord



"It's the long arm, it's the strong arm
it's the long arm of the law
it's the long arm, it's the strong arm
it's the long arm of the law."
Warren Zevon - "The long arm of the law" -


martedì 28 maggio 2013

Scoprendo Forrester

Regia: Gus Van Sant
Origine: USA
Anno: 2000
Durata: 136'




La trama (con parole mie): Jamal Wallace, un sedicenne afroamericano cresciuto nel Bronx, ha due grandi talenti: il basket e la scrittura. Nella sua scuola e nel quartiere, però, nessuno è al corrente al di fuori della famiglia della passione segreta del ragazzo per autori e poeti fino a quando un test non lo porta all'attenzione degli scout di un prestigioso istituto privato che offre a Jamal una borsa di studio per completare il liceo in un ambiente esclusivo ed altolocato.
Intanto il giovane aspirante scrittore conosce William Forrester, autore leggendario con all'attivo un solo romanzo diventato un cult assoluto quasi cinquant'anni prima che vive da recluso a poca distanza da lui: tra i due nascerà un'amicizia che porterà il primo a farsi le ossa e a porre le basi per il suo futuro sulla pagina e nella vita e al secondo una nuova occasione di mettersi in gioco.
Perchè non è mai troppo tardi per ricominciare, e non è mai troppo presto per buttarsi.





Gus Van Sant è tra i pochi registi figli del panorama statunitense a mostrare una doppia anima, all'interno della quale riescono a coesistere pacificamente autorialità sfrenata e necessità di dialogare con un pubblico d'ampio respiro: un esempio perfetto è la sua filmografia, all'interno della quale brillano perle come Elephant, Restless o Drugstore Cowboy ed emozionano lavori sinceri e pane e salame come Will Hunting, il recente Promised Land o questo Scoprendo Forrester, fino a poco tempo fa tra i pochi a mancare ancora all'appello della visione fordiana.
Proprio con Will Hunting - di tre anni precedente - questo film pare avere un legame profondo, inserendosi alla perfezione nello stesso discorso di formazione e rapporto tra i protagonisti simile a quello che intercorre tra un padre ed un figlio: costruito sulle ottime interpretazioni del sempre mitico Sean Connery e dell'allora esordiente Rob Brown e su uno script che ricorda i crescendo emotivi di titoli più che noti come L'attimo fuggente o Scent of a woman, Scoprendo Forrester gioca le sue carte migliori sull'attesa e il non detto, mostrando la costruzione di un legame e la spinta a confrontarsi con il mondo esterno senza mai alzare la voce - si potrebbe addirittura definire un approccio eastwoodiano, quello del regista di Portland in questo caso - e da due angolazioni differenti, quella del giovane e talentuoso allievo per la prima volta faccia a faccia con un mondo che non sia il suo quartiere - e all'interno del quale non debba celare la sua attitudine per la scrittura dietro quella per il basket - e del vecchio maestro ormai lontano dal mondo stesso e dalle sue dinamiche giudicate inutili e sciocche, poco meritevoli di un qualsiasi sforzo della sua penna e, soprattutto, di un cuore che nasconde già troppe cicatrici.
Le scelte di Van Sant, solo apparentemente conformi a quello che è un genere ormai consolidato e senza dubbio figlio del gusto da grande pubblico, conducono in realtà ad un risultato più vicino a quello delle pellicole indie, dosando alla perfezione la componente retorica - la rivalità con il professore frustrato interpretato da Murray Abraham, le competizioni sul parquet dei campi di pallacanestro e quella legata alla scrittura ed al concorso scolastico - e portando colpi decisamente ben riusciti - e per nulla consolatori - come il rapporto sentimentale non esploso tra Jamal e Claire, il ruolo positivo del fratello del ragazzo Terrell - interpretato dal rapper Busta Rhymes - e l'ottimo finale, reso famoso ai tempi dell'uscita dalla ormai mitica versione di Over the rainbow cantata da Israel Kamakawiwo'ole, che rese la colonna sonora del film un disco da classifica.
Una di quelle pellicole da godersi a fondo e con lo stomaco, proprio come il vecchio Forrester consiglia di fare a Jamal rispetto alla scrittura: "La prima stesura è di getto, con il cuore, la seconda con la testa", afferma infatti il burbero romanziere, che regala perle come la sua opinione a proposito dei reading - "Servono solo per trovare da scopare" - e pone lo spettatore di fronte alla questione legata all'importanza di un'opera artistica e del suo ruolo.
Dove, infatti, l'autore oltrepassa il confine che distingue la necessità di creare qualcosa per se stessi dal bisogno di comunicare con gli altri? Ed esiste davvero, questo confine?
Personalmente - e da supposto scribacchino -, penso che le due cose non esistano singolarmente: di solito, quando uno scrittore afferma di buttare energie e sentimenti sulla carta solo ed esclusivamente per se stesso è troppo scarso, vigliacco o falsamente modesto per affermare che, al contrario, l'arte in genere nasce come un linguaggio, e da buoni - o cattivi - animali sociali quali siamo il bisogno quasi fisico di esternare anche le più basilari e selvagge emozioni raggiungendo quante più persone possibili è paragonabile ad un istinto innato.
In questo senso trova una dimensione l'educazione che i due protagonisti regalano l'uno all'altro, in modo che il mondo non sia più un luogo soltanto da combattere - come per Jamal - o da cui scappare - come per William -: e se un insegnante frustrato può essere "utile come estremamente dannoso" per i suoi studenti, pellicole come questa mostrano il lato migliore e più importante dell'insegnamento stesso, di fatto un'eredità che ogni professore, maestro, mentore o genitore lascia a chi viene dopo di lui, e che dovrebbe sempre girare attorno alla questione secondo la quale l'allievo ha il diritto ed il dovere di superare il maestro. Sempre.
Peccato che di norma, a scuola e fuori, esempi di questo genere siano rari, e che l'ego - o la rivalsa - prendano troppo spesso il sopravvento sul vero valore dell'insegnamento: quello dato dalle possibilità passate come un testimone alle generazioni oltre la nostra.
Il testimone che è il romanzo di William, quello giunto cinquant'anni dopo il titolo che lo rese leggenda.
Il romanzo nato nel momento in cui Jamal, per scommessa con gli amici del campetto, decide di entrare di soppiatto in casa dell'anziano autore.
Il romanzo che solo il ragazzo potrà portare a termine.
Quello della vita, che passa da una penna, e da una mano all'altra.
E non ha bisogno di fermarsi dalle parti di chi è troppo scarso, vigliacco o falsamente modesto.
Perchè è meglio "sbagliare", che sbagliare.


MrFord


"Somewhere over the rainbow
way up high
and the dreams that you dream of
once in a lullaby
Somewhere over the rainbow
bluebirds fly
and the dreams that you dream of
dreams really do come true."
Israel Kamakawiwo'ole - "Over the rainbow" -


lunedì 27 maggio 2013

Cannes 2013

La trama (con parole mie): questa sera si è conclusa la sessantaseiesima edizione di quello che è considerato il Festival più importante del Cinema, appuntamento imperdibile per gli appassionati di tutto il mondo della settima arte e parata di stelle del mainstream così come dell'indie.
Nell'anno del ritorno in Italia - e alle origini - di Sorrentino e del Refn post-Drive la Palma d'oro è rimasta invece oltralpe, a premiare un regista che non ha, di fatto, mai deluso e che pare abbia colpito più di ogni altro la giuria: Abdellatif Kechice.
Ecco la lista dei vincitori e, come al solito, qualche commento del sottoscritto.



- Palma d'oro: La vie d'Adéle di Abdellatif Kechiche

Non posso che essere contento della vittoria di Kechiche, regista che ho seguito fin dal suo primo lavoro - Tutta colpa di Voltaire - e che avrebbe meritato anche il Leone d'oro a Venezia con il meraviglioso Cous cous, uno dei film corali più belli degli ultimi dieci anni.
La vie d'Adéle, costruito attorno alla storia d'amore di due ragazze, è stato fin da subito uno dei titoli più apprezzati sulla Croisette: a questo punto non vedo l'ora di poterlo ospitare anche qui al Saloon.




- Grand Prix: Inside Llewyn Davis di Ethan e Joel Coen

Secondo premio ed altri due protetti fordiani: i fratelli Coen.
Il loro Inside Llewyn Davis pare sia qualcosa di decisamente interessante: ambientato nella New York degli anni sessanta, racconta una settimana della vita un giovane folk singer nel pieno del fermento dei tempi. Il cast promette bene, l'argomento anche.
Certo, non mi stupirei se il premio fosse arrivato principalmente per l'intercessione di Spielberg, ma me lo faccio andare bene comunque.


- Regia: Amat Escalante per Heli


Di questa produzione affidata al giovane regista di Barcellona non so praticamente nulla, dunque non mi pronuncio rispetto alle polemiche insorte sui nostri quotidiani a proposito dei mancati riconoscimenti a Sorrentino per il suo La grande bellezza, almeno fino a quando non avrò visto entrambi i titoli e potrò confrontarli come si deve.


- Giuria: Tale padre, tale figlio di Hirokazu Koreeda


Il premio della Giuria è andato ad un autore giapponese tra i meno conosciuti oltre i suoi confini - almeno per quanto riguarda quelli di respiro internazionale - che ha presentato una storia che, sulla carta, mette in gioco sentimenti e sensazioni che in questo periodo della mia vita mi toccano particolarmente: quelli della paternità.
Non so se e quando verrà distribuito in Italia, ma senza dubbio con l'arrivo del Fordino e questo nuovo mondo da esplorare giorno per giorno non intendo certo perdermi questa visione.


- Migliore attore: Bruce Dern per Nebraska di Alexander Payne


L'anziano caratterista americano Dern mi è sempre passato sotto gli occhi senza rimanermi particolarmente impresso, ed il suo premio è fondamentalmente stato uno di quelli di cui non mi preoccupo più di tanto, sia in positivo che in negativo.
Sono però molto curioso di affrontare la visione del nuovo lavoro di Payne, un regista simbolo della parte buona del Sundance-style che fino ad ora non mi ha mai deluso.


- Migliore attrice: Berenice Bejo per Il Passato di Asghar Farhadi


Berenice Bejo, salita agli onori della cronaca con il magnifico The artist, incassa il premio per la migliore interpretazione femminile grazie ad uno dei registi che più attendo - sempre che la distribuzione nostrana non giochi brutti scherzi -,  Asghar Farhadi, autore di chicce come About Elly e dello splendido Una separazione.
Avrà giocato anche in casa, ma trovo che la Bejo abbia ottime carte da giocarsi, dunque approvata anche questa scelta dei giurati.







- Sceneggiatura: Jia Zhangke per A touch of Sin


Il premio per la migliore sceneggiatura è andato invece ad un'altra vecchia conoscenza del Saloon, Jia Zhangke, che non troppi anni fa mi lasciò a bocca aperta con il film che gli valse il Leone d'oro, Still life, un'opera struggente legata al nuovo e al vecchio corso della Cina.
Di questa sua più recente fatica non so nulla, ma di sicuro non mi lamenterò a cercare di recuperarla - impresa ardua, considerato che tra i premiati questo è senza dubbio il titolo che incontrerà più difficoltà di distribuzione qui nella Terra dei cachi -.


- Palma d'oro per il miglior cortometraggio: Safe di Byong-Gon
- Menzione speciale a 37/o 4S dell'italiano Adriano Valerio e a Le fjord des baleines di Gudmundur Arnar Gudmundsson
- Camera d'or (migliore opera prima): Ilo Ilo di Anthony Chen (dalla Quinzaine)

domenica 26 maggio 2013

Fight club

Regia: David Fincher
Origine: USA
Anno: 1999
Durata: 139'




La trama (con parole mie): cosa ti potrà mai succedere nel momento in cui la consapevolezza di avere la vita incasellata tra le pagine di un catalogo Ikea, un lavoro che odi ed una routine che porta all'insonnia comincia a schiacciarti? Potrebbe finire tutto, continuare come se nulla fosse, o tramutarsi nel principio di una rivoluzione iniziata in un volo accanto al compagno di viaggio monodose più incredibile mai esistito: Tyler Durden.
Ed è così che scatta la scintilla.
Una scintilla fatta di una scazzottata per la strada, dopo qualche birra, per approfondire in amicizia anche il concetto molto fisico dello scontro e portare il tutto ad un altro livello: addio alla scrivania, all'appartamento su misura, a quello che la gente si aspetta che tutti noi si faccia per apparire come dovremmo apparire. Fanculo.
Botte, lacrime e sangue. E tanto, tanto sapone.
E d'un tratto, forse ci si troverà di fronte alla fine di tutto. O all'inizio.




Questa recensione "da combattimento" partecipa all'Helena Bonham Carter Day con ogni singola nocca sbucciata.


Fight club è stato tante cose, per il pubblico e la critica, in questi anni, nonchè uno dei primi, veri supercult usciti in sala a cavallo tra il vecchio ed il nuovo millennio e destinati ad assurgere da subito a ruolo di nuovo classico così come era stato qualche anno prima per Pulp fiction o Il silenzio degli innocenti: onestamente, non ho mai fatto mistero di non amare particolarmente lo stile Palaniuk, scrittore troppo alternativo - o pseudo tale - per solleticare le corde più sensibili della mia anima di lettore, eccezion fatta per Rabbia, suo romanzo a mio parere migliore.
Ma non siamo qui per parlare della carriera dietro la macchina da scrivere dello scombinato Chuck, quando della trasposizione cinematografica che David Fincher, regista già allora noto per cose pregevoli come Se7en, offrì di un romanzo che inaugurò la stagione del disagio mentale usato per descrivere il disagio sociale in cui stiamo inesorabilmente sprofondando, in bilico tra lavori che non ci appagano ed uno stile di vita sempre più incasellato, anche quando a noi pare proprio di no.
Appoggiandosi sulle spalle di Edward Norton - come sempre ai tempi in spolvero totale - ed uno dei migliori Brad Pitt di sempre, il regista di Denver porta in scena l'ascesa di Tyler Durden e la sua guerra con il mondo con un piglio che mescola il videoclip e l'indagine interiore ad impatto, pronta ad esplodere in scontri fisici e non solo sempre più devastanti, che hanno il loro culmine nel drammatico match che vede Norton affrontare un allora giovanissimo Jared Leto.
Le celebrazioni di questo giorno, però, impongono la menzione - peraltro meritatissima - di Helena Bonham Carter, che con la sua Marla Singer non soltanto centra uno dei ruoli migliori della sua carriera prima di finire burtonizzata, ma riesce ad apparire bella come non è mai stata e, probabilmente, non sarà mai: il binomio Singer/Durden, dall'incontro tra Norton ed Helena nel corso di uno dei gruppi di sostegno per malattie terminali che costituiscono l'anticamera del Fight Club alla casa occupata dalla premiata ditta di combattenti e paladini del sapone, fino all'esplosivo - in tutti i sensi - finale funziona che è una meraviglia, e sfrutta un'alchimia tra gli interpreti come raramente se ne sono viste sul grande schermo, finendo per coinvolgere perfino i personaggi secondari interpretati dal già citato Leto e da un Meat Loaf mai così convincente dai tempi del suo Eddie nel Rocky Horror.
Ora che ho finito di incensare le qualità di Fight club, comunque, è giunta l'ora anche di qualche sano colpo ben assestato che giustifichi un voto solo discreto per una pellicola che, ancora oggi, continua a portare sotto le insegne delle ormai notissime regole del Fight club nuovi adepti ad ogni passaggio sul piccolo schermo: considero infatti il lavoro di Fincher - e di Palaniuk prima - decisamente interessante ma clamorosamente paraculo, in grado di convogliare un'estetica ed un approccio da ribelli cool che in più di un'occasione pare forzato almeno quanto le pose dei suoi protagonisti, dall'incontenibile Durden alla darkissima Singer.
Perfino la sua feroce critica verso il mondo ed il sistema sociale ed economico all'interno del quale viviamo continua ad apparirmi almeno in parte di comodo, così come non riuscì ad entusiasmarmi ai tempi, quando uscito dalla sala guardai i due amici che erano con me piuttosto perplesso, molto più soddisfatto della colonna sonora e della parte tecnica che non della forza del contenuto.
Fight club è come un'adolescenza ribelle, o un approccio da poseur: potrà fare una grande impressione a prima vista, ma la realtà dei fatti è che nasconde sotto un look da capogiro fin troppi limiti che, visione dopo visione, continuano inesorabilmente a venire a galla.


MrFord


Ma che cazzo va scrivendo in giro, questo MrFord?
Chi pensa di essere? Un eroe senza macchia della bella società con giardino, famiglia felice, tv a cinquanta pollici e la sera sul divano? Comodo, lui.
E poi ci beve sopra.
La realtà è un'altra: Fight club è Fight club.
Una bomba scoppiata in faccia a tutti voi poveri stronzi nelle mani del sistema. Ed è inutile che vi opponiate.
E' vero, e siete stati voi a scegliere, razza di cazzoni.
Ogni giorno scegliete.
Guardate come siete vestiti, cosa comprate, come volete apparire, con i vostri smartphone e le vostre marche ed i vostri aperitivi: patetici.
E tutti, in questo tripudio di deflagrande critica, sono così fighi che voi non potreste neppure da lontano pensare di mettervi a confronto: è superfigo Brad Pitt, che nelle vesti sgargianti di Durden riesce a beccare anche più di se stesso nella versione selvaggia di Vento di passioni, è superfiga Helena Bonham Carter, che con la sua Marla Singer ha definito un'epoca, uno stile, un personaggio che tantissime di voi stronzette là fuori prendono a modello affermando di essere uniche ed originali, è superfigo perfino Edward Norton in giacca e cravatta da impiegatucolo.
Entri al Fight club è sei superfigo. Punto.
L'importante è che si accettino le regole del Fight club. Dalla prima all'ultima.
E non fatevi troppe domande, anzi, non fatevene affatto.
Andrà tutto bene, anche se dovessimo ribaltare il mondo intero.
Dov'è che l'avevo già sentita, questa? Già, L'odio. Più o meno.
Fin qui tutto bene, fin qui tutto bene.
L'importante non è la caduta, ma l'atterraggio.
Splash.
E in un attimo sei diventato un sapone.


FordMr

Partecipano colpo su colpo all'Helena Bonham Carter Day: 
Il Bollalmanacco di Cinema - Grandi Speranze
In Central Perk - La Dea dell'Amore 
La Fabbrica dei Sogni - La Fabbrica di Cioccolato  
Montecristo - Novocaine  
Movies Maniac - Alice in Wonderland  
Scrivenny - Il Discorso del Re  
The Obsidian Mirror - Sweeney Todd  
Triccotraccofobia - Frankenstein di Mary Shelley


"In Fight Club Edward Norton ha le turbe,
non esiste nessun Tyler Durden,
in Shutter Island Di Caprio è un malato
mentale capace di architettare trame assurde.
Nel Sesto Senso Bruce Willis è un morto,
nelle 12 Scimmie è il morto.
'Hey ragazzi ma che fine ha fatto Bruce Willis?
Sapete se un film è in porto?'"
CapaRezza - "Kevin Spacey" -


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