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lunedì 21 maggio 2018

Rampage - Furia animale (Brad Peyton, USA, 2017, 107')







Ricordo più che bene - pur se velati da un alone misto di nostalgia, alcool ed età - i tempi in cui andavo in sala giochi con una scorta di monetine - che andavano dalle cinquanta alle duecento lire, a seconda della località - ed un amico - oppure mio fratello - per giocare a Rampage, divertendomi come un pazzo a distruggere palazzi ed ingoiare soldati utilizzando il gorilla in stile King Kong - a dire il vero il meno interessante dei tre personaggi a disposizione, per quanto mi riguarda -, il lupo gigante o il lucertolone.
Tempi semplici, lontani, in cui i videogiochi erano qualcosa di quasi incredibile e lontano dalla quotidianità e dalle case.
Tempi passati, ma che evidentemente sono rimasti nel cuore di chi, come me, li ha vissuti, ed ora si ritrova a tentare di riportarne i fasti in sala sfruttando la popolarità di quello che è l'action hero per definizione di questo secondo decennio degli Anni Zero - Dwayne Johnson, ovvero The Rock, uno dei wrestlers più importanti di sempre - e gli effettoni che, ai tempi, si sarebbero soltanto potuti sognare, sia sulle console da gioco che sul grande schermo.
Rampage - Furia animale, di fatto, non inventa assolutamente nulla di nuovo, pare una sorta di versione aggiornata di San Andreas che sostituisce l'impatto della Daddario con quello degli animali giganti - e non me ne vogliano i bestioni, non mi pare uno scambio equo - e presenta un The Rock come sempre in grado di fare tutto e anche di più, eppure, così come San Andreas, spassoso e divertente da vedere, in barba a prevedibilità e tamarraggine di questo tipo di proposte.
In effetti, quando questo tipo di titoli finiscono per non prendersi sul serio e fare il loro lavoro, è difficile non digerirli, soprattutto quando giunti alla conclusione di una giornata lavorativa - a casa e fuori - rimangono davvero poche energie per affrontare la visione del consueto film da divano: qui al Saloon, infatti, ci siamo goduti Rampage dal primo all'ultimo minuto e senza ritegno, indovinando tutte le scelte del suo protagonista e perfino quelle degli animaloni pronti a fargli da spalla - compreso il faccia a faccia finale con George il gorillone - ed apprezzando proprio questo tipo di prevedibilità neanche fossimo tornati i bambini che inserivano la moneta nel videogioco con nessun'altra aspettativa se non quella di distruggere più palazzi fosse possibile.
In questo senso il lavoro di Brad Peyton - già accanto al buon Dwayne nel già citato San Andreas e Viaggio nell'isola misteriosa - rende assolutamente onore al vecchio videogioco, portando sullo schermo il più classico dei popcorn movies da distruzione totale, senza pretese e logica, giocato scandalosamente a favore del main charachter ed incurante di qualsiasi regola anche in un contesto che regole non prevede: personalmente non avrei chiesto altro se non una Daddario in più ed un pedale premuto con decisione ancora maggiore sul trash volontario, ma ammetto di essermi piacevolmente accontentato e di essermi fatto intrattenere da questo giocattolone pronto a tenere lontano qualsiasi radical della blogosfera senza alcun pensiero neanche avessi deciso di farmi una sessione in più del solito in palestra, o quel cocktail pronto a regalare la sbronza durante un'uscita.
Anzi, personalmente avrei bisogno di un film come Rampage a settimana, che con The Rock, qualche esplosione e tanta implausibilità potrebbe portare allegria e spensieratezza e, chissà, anche convogliare il sonno dei giusti una volta terminata la visione.
Un pò come quando, da bambino, terminati i gettoni, si tornava a casa ridendo e ricordando le gesta più eclatanti della lotta tra gli animali giganti e l'esercito di piccoli umani che tentavano di fermarli.
Tempi semplici, lontani, che a volte - più spesso di quanto sembri - è davvero piacevole rievocare.




MrFord




venerdì 20 ottobre 2017

Guardians - Il risveglio dei Guardiani (Sarik Andreasyan, Russia, 2017, 89')




Speravo di godermi una tamarrata senza ritegno.
Non pensavo mi sarei trovato di fronte alla versione poraccia e da sabato pomeriggio su Italia Uno nel giorno del Gran Premio o della partita di calcio di turno degli Avengers.
Per di più, prodotta e confezionata in Russia.
Neanche fossimo tornati ai tempi della Guerra Fredda.
E se neppure un tamarro come me riesce a promuovere questa roba che pare lo Sharknado dei supereroi, è difficile che ci siano speranze.



MrFord



 

lunedì 1 maggio 2017

Power Rangers (Dean Israelite, USA/Hong Kong/Giappone/Messico/Canada/Nuova Zelanda, 2017, 124')





Ricordo bene, l'epoca d'oro dei Power Rangers: ai tempi ero già adolescente, e vedevo mio fratello seguire questa roba che pareva la copia sbiadita dei Cavalieri dello Zodiaco o dei Cinque samurai che faceva rimpiangere i bei tempi neanche fossero un action anni ottanta oggi.
Poi, come tutte le mode prive di un certo spessore, dall'oggi al domani i Power Rangers finirono nel dimenticatoio restandoci per quasi due decenni prima di essere riesumati, chissà poi perchè, per un nuovo film dal sapore di rilancio.
Personalmente credevo che, una volta approcciata la visione, la recensione conseguente sarebbe stata breve e spietata, del tipo "Power Rangers è una Power Merda" o robe simili, e nel corso di tutta la prima parte mi sono dovuto purtroppo ricredere trovandolo non interessante ma quantomeno simile a tutta un'altra serie di blockbuster inutili quanto innocui degli ultimi anni, Transformers su tutti.
Fortunatamente, ad abbattere qualsiasi possibile speranza, valutazione e altro che possiate immaginare è giunta una seconda parte fatta di eccessi, pupazzoni, retorica di grana grossa e tutto quello che ci si potrebbe aspettare da una produzione di questo tipo che ha rilanciato Power Rangers come uno tra i più inutili brand esistenti nonchè peggiori film di questo duemiladiciassette.
E sinceramente fa anche un pò tristezza vedere Elizabeth Banks imprigionata nel ruolo da truccatissima - in questo caso villain - dopo la serie di Hunger Games e ancor più Bryan Cranston che, alle spalle Breaking Bad, non ha quasi più azzeccato un film che sia uno.
A meno di non badare al portafoglio.
La cosa buona è data dal fatto che, una volta ancora - e forse dovrebbe cominciare ad essere preso come un monito - il risultato al botteghino non pare giustificare un sequel, e neppure il film in questione.
Questo a riprova del fatto che il pubblico, ormai, si sia abituato ad una certa standardizzazione delle proposte da pop corn e, dunque, cominci a richiedere una qualità minima anche per queste ultime.
E onestamente, credo sia giusto.
Un film "di serie b" non deve essere necessariamente e per forza brutto, o noioso, o uguale a mille altri: può avere benissimo la sua identità, la sua dignità, con tutti i limiti del caso.
Ed è indubbio che, anche quando scorrono via senza far incazzare, cose come questo Power Rangers non l'abbiano neppure nel più microscopico frammento della loro apparente armatura scintillante.
A prescindere dal colore che potete preferire in merito.




MrFord




 

mercoledì 18 gennaio 2017

Il GGG - Il grande gigante gentile (Steven Spielberg, USA/India, 2016, 117')




Voglio sia chiaro a tutti che, come molti della mia generazione, voglio un bene sconfinato a Steven Spielberg: grazie a lui e ad alcuni film come E.T., Indiana Jones, Incontri ravvicinati del terzo tipo ma anche Duel, Lo squalo, L'impero del sole ho avuto le prime esperienze sulla pelle della meraviglia del Cinema, consolidate, nonostante qualche scivolone, in tempi più recenti con Schindler's List, Munich o Prova a prendermi.
Ad oggi, posso contare davvero sulle dita di una mano le opere del regista che ancora non ho affrontato da spettatore.
Eppure, con il Nuovo Millennio, qualcosa tra me ed il vecchio Steven si è rotto: La guerra dei mondi, War Horse e Lincoln, nello specifico, hanno messo così a dura prova la pazienza da farmi dubitare di molto di quel bene, e soltanto il recente e più che discreto Il ponte delle spie aveva riacceso la speranza.
Ma evidentemente anche Spielberg non deve volermi troppo bene, perchè con questo Il GGG ce l'ha messa davvero tutta per farsi detestare come nei momenti peggiori delle tre rotture di coglioni quantomeno di ottavo livello - per dirla come Rocco Schiavone - citate poco sopra: a prescindere, infatti, dall'aspetto tecnico - come sempre curatissimo e lavorato ad uso e consumo dell'hd e del 3D neanche fossimo in un parco tematico da Universal Studios -, e dal romanzo per ragazzi che l'ha ispirato - e che, occorre ammetterlo, non ho mai particolarmente amato -, Il grande gigante gentile è la favoletta per bambini buonista e noiosa per eccellenza, una sorta di Hugo Cabret - altro titolo che avevo detestato con tutte le mie forze - all'ennesima potenza, resa ancora più insopportabile da una piccola protagonista saccente e fastidiosa - ed io adoro i bambini - ed un modo di parlare dei giganti - ma questa, va detto, non è certo colpa del regista - assolutamente insopportabile ed adattato neanche tutti gli spettatori fossero un pò indietro di cottura, per dirla in termini metaforici ed edulcorati.
In buona sostanza, Il GGG ha tutte le carte in regola per essere il tipico film da sabato pomeriggio su Italia Uno, di quelli che perfino i piccoli - ormai tutti troppo svegli ed esposti a molte delle visioni non solo degli adulti, ma anche più adulte dei film d'animazione di nuova generazione - snobbano vinti dalla noia dopo qualche minuto, figurarsi dopo un paio d'ore.
Non basta, dunque, la sola perizia tecnica o meraviglia di effetti - la sequenza della caccia ai sogni è sicuramente una gran cosa, visivamente parlando -, se le stesse mascherano semplicemente carenza di idee e coinvolgimento: in questo senso Spielberg dovrebbe imparare da se stesso, quando con Hook riuscì nell'impresa certo non facile - seppur confezionando un prodotto imperfetto - di unire la magia della favola con l'epicità del titolo ad ampio respiro, portando gli spettatori adulti a riscoprirsi bambini ed i bambini a sentirsi un pò più "grandi".
Nel caso del GGG, tutto pare, semplicemente, una presa per il culo.
Adulti o bambini, conta poco.
E sinceramente, dopo aver amato incondizionatamente Swiss Army Man, ho vissuto la sequenza dedicata alle scoregge verdi degna della volgarità del peggior Cinepanettone.
E del peggior Cinema.
Cinema di cui, tristemente, Il GGG fa senza dubbio parte.




MrFord



venerdì 25 novembre 2016

Aftershock (Xiaogang Feng, Cina, 2010, 135')





Dal recente terremoto che ha colpito l'Italia allo Tsunami che sconvolse il Sud-Est Asiatico qualche anno fa, le grandi tragedie naturali hanno da sempre significato, oltre al dramma, anche un momento in cui singoli o intere famiglie hanno finito per lottare con una forza miracolosa per vivere, ricominciare o rialzarsi.
Il ventotto luglio millenovecentosettantasei, a Tangshan, nel cuore della Cina che affrontava gli ultimi anni di Mao, ebbe luogo quello che è considerato uno dei terremoti più devastanti della Storia, non tanto per potenza quanto per numero di vittime - si parla di quasi seicentomila morti -: Xiaogang Feng, con un piglio classico che dall'altra parte del mondo si potrebbe considerare tipico dei drammoni da Oscar, racconta l'epopea di una famiglia spezzata dalla catastrofe e dalla stessa pronta a ripartire e vivere per i trent'anni successivi, in attesa della possibilità, un giorno, di potersi finalmente riunire.
Per quanto mi riguarda, Aftershock ha assunto una valenza importante già dalle prime sequenze, che a prescindere dagli effetti forse non all'altezza del Cinema americano cui tutti noi occidentali siamo abituati, riesce più che bene a trasmettere l'orrore che dev'essere trovarsi vicini all'epicentro di un sisma di questa portata, e vedere i propri cari lottare per la vita contro la Natura: come se non bastasse, la scelta forzata della madre dei piccoli Fang Deng e Fang Da impostale dai primi soccorritori rappresenta probabilmente l'incubo di qualsiasi genitore, quello di essere l'ago della bilancia della morte o della salvezza di uno soltanto dei suoi figli.
Proprio il personaggio della madre, segnato non solo dalla tragedia ma anche dalla responsabilità di una scelta da incubo come quella, rappresenta il metronomo di una pellicola intensa e drammatica, molto classica e rispettosa - probabilmente in Cina un lavoro di questo tipo finisce per essere molto ben accolto e poco scomodo - ma altrettanto genuina e coinvolgente, capace di raccontare la lotta della gente comune a fronte di eventi talmente grandi e devastanti da seppellire o in grado di far trovare la forza necessaria a compiere imprese straordinarie per quanto mascherate da assoluto ordinario - dalla scelta di non voler abbandonare il luogo del dramma e la prima casa abitata dopo il sisma a quella corriera fermata in tempo affinchè ad una donna non fosse tolto anche l'ultimo legame con la vita -.
Personalmente, in una situazione come quella mostrata dal regista, credo preferirei morire piuttosto che trovarmi a decidere quale dei miei figli salvare a scapito della vita dell'altro, magari proprio permettendo loro di sopravvivere: ma la Natura ha i suoi cicli e le sue regole, e noi che ne facciamo parte, possiamo solo lottare con tutte le nostre forze affinchè le persone che amiamo sentano la nostra presenza e possano sapere che, distanti o alla porta accanto, saremo sempre con loro.
Perchè quel tipo di legame, fatto di lacrime e sangue, ma anche di qualcosa che solo chi l'ha provato almeno una volta nella vita conosce, ha e da la possibilità di resistere a qualsiasi catastrofe, e che nessuna catastrofe è in grado di spezzare.
E biologico o no, dai parenti più prossimi agli amici più cari, personalmente adoro chiamare quel legame Famiglia.




MrFord




 

lunedì 7 novembre 2016

Doctor Strange (Scott Derrickson, USA, 2016, 115')





Ai tempi delle vette più alte della mia passione di lettore di fumetti - in particolare di supereroi - c'erano due categorie di personaggi che faticavo sempre a digerire: i cosiddetti "eroi cosmici" - troppo da fantascienza nerd, troppo potenti, troppo divini per i miei gusti - e quelli "magici" - a prescindere dal contesto in cui potevano muoversi, dalla Scarlet degli Avengers a Sciamano di Alpha Flight -.
Doctor Strange era parte assoluta - e forse simbolo - di quest'ultima categoria: ricordo infatti di aver letto ben poche storie con protagonista lo Stregone Supremo, e di averlo digerito a stento anche quando incrociava la strada di uno dei miei favoriti, Spider Man, che in più di un'occasione ha stretto alleanza con il mistico.
L'idea, dunque, che il Cinematic Universe della Casa delle Idee si potesse arricchire con un lungometraggio dedicato proprio al dottore mi entusiasmava ben poco, specie considerato che, ormai, le dimensioni di questo affresco stanno rischiando di divenire talmente grandi da saturare lo stesso: lo stesso trailer, incentrato sull'azione più che sul contesto dark dello stregone, aveva alimentato i timori nonostante la presenza di una certezza come Cumberbatch, che negli ultimi anni, tra Sherlock e Star Trek, è riuscito a convincermi anche nei casi in cui si è trovato al confronto con produzioni mainstream.
Ebbene, nel corso delle quasi due ore della visione, mi sono dovuto ricredere totalmente.
Non solo Scott Derrickson - che, del resto, mi aveva già molto convinto con il primo Sinister - e gli sceneggiatori sono riusciti a rendere il charachter attuale, ironico e molto piacevole - una sorta di versione "magica" del Tony Stark tutto raziocinio e tecnologia -, ma questo Doctor Strange è senza dubbio il miglior prodotto Marvel degli ultimi anni insieme a I Guardiani della Galassia e The Winter Soldier, funge da veicolo per il terzo capitolo di Thor - si veda la coda dei titoli di coda - e prepara il terreno per l'Infinity War che coinvolgerà non solo gli Avengers ma anche i succitati Guardiani nei prossimi anni quando collideranno con il terrificante Thanos - già intravisto in un paio di occasioni -, è un solidissimo intrattenimento intelligente e si presenta come un riuscito cocktail di Batman Begins, Inception, momenti ad alto contenuto nerd ed approccio da giungla d'asfalto.
L'evoluzione del charachter di Strange, come molti nati dalla penna di Stan Lee - che continua imperterrito ad apparire in ogni pellicola targata Marvel Studios, sempre in gran forma nonostante i novantatre anni -, è legata ad una rinascita dopo una caduta rovinosa, e per molti versi corre parallela a quella del già citato Tony Stark di Iron Man, ed è resa molto bene da un Cumberbatch senza dubbio credibile supportato da un cast di prim'ordine, che vede tra le sue fila Chiwetel Ejiofor, Rachel McAdams, Mads Mikkelsen e Tilda Swinton: come se non bastasse, l'equilibrio mostrato tra le parti "mistiche" e quelle action è davvero notevole, l'ironia piazzata alla grande in ogni passaggio che potrebbe annoiare il pubblico - bellissime le battute legate al "nome unico" di Wong o al "mantra" dato allo stesso Strange all'inizio dell'addestramento - ed i passaggi da viaggio cosmico realizzati splendidamente, quasi un omaggio alle inarrivabili immagini di 2001 così come al Cinema trash di gente come Mario Bava o ai paradossi temporali di Ritorno al futuro, Ricomincio da capo o il recente Edge of tomorrow - il confronto con Dormammu, nemesi di Strange, è uno dei più divertenti faccia a faccia buono contro cattivo che ricordi nel Cinema di genere e non solo -.
Certo, qualche sbavatura si può trovare - soprattutto nei raccordi di sceneggiatura -, ma poco importa: Doctor Strange diverte, intrattiene, a suo modo fa sognare e rappresenta senza dubbio il prototipo perfetto di come dovrebbe essere un film di supereroi in grado di far godere fan e non.
Da un punto di vista mistico, direi che ho trovato senza ombra di dubbio la mia reliquia di Casa Marvel.




MrFord




 

lunedì 31 agosto 2015

Ant-Man


Regia: Peyton Reed
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 117'





La trama (con parole mie): Scott Lang, informatico dal grande talento ma dall'inclinazione criminale, appena uscito dal carcere dopo tre anni di detenzione e con una figlia da riconquistare, con alcuni complici mette a segno un furto nella villa del dottor Hank Pym, che sul finire degli anni ottanta riuscì a sintetizzare speciali particelle in grado di mutare dimensioni e forma di chi vi è esposto, elaborando in parallelo un sistema per dialogare con gli insetti, in special modo le formiche.
Frodato dalle Stark Industries e messo alle strette dal suo ex allievo Darren Cross, il vecchio studioso si affida dunque alla figlia Hope ed al riluttante Scott per mettere a punto un piano che prevede il recupero dei suoi progetti originali prima che siano divulgati e sfruttati come armi da chi non ha a cuore la salvaguardia del mondo: il nuovo Ant-Man, però, affronterà la vicenda con un approccio decisamente diverso da quello del suo mentore.










Sono stato per anni - quasi venti, a dirla tutta - un assiduo lettore di fumetti, appassionato di tutta la produzione americana, europea, italiana, giapponese e chi più ne ha, più ne metta: proprio con la Marvel ed i suoi eroi colorati e dotati di superproblemi ebbe inizio, nel lontano novantuno, il mio percorso da fan delle nuvole parlanti, e per quanto assolutamente dedita al commercio ed alle vendite, sono rimasto legato alla grande M anche dopo aver abbandonato gli acquisti regolari.
Ai tempi, però, ricordo che il grosso degli eroi di respiro più ampio - come gli stessi Avengers - facevano fatica ad entrarmi nel cuore rispetto ai più "sfigati" Spider Man, Devil o X-Men, così come, tra i suddetti Vendicatori, consideravo assolutamente minori charachters come Ant-Man, che raggiungeva per il rotto della cuffia, ai miei occhi, lo status effettivo del supereroe.
Alla luce di questo, e dell'abbandono di Edgar Wright - autore della mitica Trilogia del Cornetto - in cabina di regia, mi aspettavo davvero poco o nulla dal lavoro di Peyton Reed, approcciato come fosse la più disastrata delle proposte da spiaggia in questa fine estate. 
Fortunatamente, ero in torto.
Ant-Man, infatti - per merito anche del lavoro dello stesso Wright sulla sceneggiatura e di effetti speciali assolutamente all'altezza -, non solo ha finito per superare l'esame con simpatia e cialtronaggine, ma di fatto è riuscito perfino a ricordare al sottoscritto il primo e decisamente valido Iron Man, creando un abile mix tra l'approccio fracassone dei Vendicatori - ottimo il crossover con la lotta tra Ant-Man e Falcon, preludio di quello che saranno i prossimi lavori legati al Marvel Cinematic Universe - e quello scanzonato eppure drammatico di Spider Man.
Come se non bastasse, le vicende di Scott Lang e della premiata ditta Hank Pym e figlia - un'affascinante Evangeline Lilly versione Valentina di Crepax -, per quanto decisamente lontane dalla reale storia del personaggio sulla pagina, richiamano e non poco le atmosfere dei gloriosi eighties e portano in scena senza prendersi troppo sul serio un eroe per caso in grado di tenere benissimo il palcoscenico alternando simpatia, faccia di culo e sentimenti - gestito alla grande il legame con la figlia - regalando al pubblico momenti in grado di intrattenere al meglio perfino i nerd che si sarebbero probabilmente aspettati un maggiore rispetto di quelle che sono state le vicende originali del charachter: in questo senso, perfino Michael Douglas nel ruolo del Pym mentore funziona alla grande, nonostante si discosti molto da quello che è il suo corrispettivo degli albi a fumetti, decisamente più controverso e meno paterno.
Perfino i comprimari come Michael Pena e soci, sfruttati come spalle comiche di Rudd/Lang prima e del gruppo Ant-Man poi, funzionano, così come il Calabrone nel ruolo di nemesi ed i richiami a tutto quello che, probabilmente, ha ai tempi affascinato Edgar Wright e Peyton Reed come Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi, più volte citato nelle prime recensioni di questo lavoro: nel complesso, dunque, assistiamo ad un viaggio divertito e divertente che non pretende di assurgere ai livelli dei Batman di Nolan ma che conferma l'altissima qualità media delle produzioni Marvel del mondo Avengers, conducendo gli spettatori un altro passo verso quella che sarà la tanto attesa "fase tre" del progetto degli Studios legati al mondo del Fumetto.
Nel frattempo, e nell'attesa, le formiche hanno detto, eccome, la loro.




MrFord




"Walk down the street
I'm thinking:
look at all the ants in a farm
I've got a sad-hearted feeling
to harm."
Eels - "Ant farm" - 







mercoledì 17 giugno 2015

San Andreas

Regia: Brad Peyton
Origine: USA, Australia
Anno:
2015
Durata: 114'





La trama (con parole mie): Ray, veterano pilota di elicottero protagonista di centinaia di missioni di soccorso, si trova ad affrontare le conseguenze di un terremoto devastante che colpisce tutta la linea della faglia di San Andreas, tra le più note zone a rischio di cataclismi sismici del mondo.
Sull'orlo del divorzio e legato principalmente al suo lavoro, l'uomo avrà modo di trasformare l'improvvisata missione di soccorso della quasi ex moglie in una vera e propria riconciliazione, oltre che in una sfida nella ricerca della figlia, che rappresenterebbe una sorta di riscatto rispetto alla ferita provocata dalla morte per annegamento della sorella di quest'ultima, che proprio Ray non riuscì a riportare a casa viva.
Riuscirà il pilota a portare in salvo le donne che ama chiudendo i conti con il passato nel bel mezzo di un cataclisma di proporzioni bibliche?








In tutta onestà, nonostante il mio amore per il Cinema continui a farmi apprezzare le opere "alte", una delle cose che mi hanno più reso felice negli ultimi anni è stata il progressivo superamento della fase esclusivamente autoriale della mia vita di spettatore, con il conseguente sdoganamento di tutto quello che è considerato il "basso" della settima arte, dai miei adorati action anni ottanta alle meraviglie trash in stile Sharknado.
Se fossi rimasto lo stesso di una decina d'anni or sono, infatti, non mi sarei mai potuto godere una porcatona come San Andreas senza rimanere sconvolto da retorica, effettoni da blockbuster, scene altamente improbabili ed un copione cucito addosso al consueto eroe tutto d'un pezzo all'americana - in questo caso il sempre mitico The Rock, uno degli idoli dei primi anni zero di ogni fan di wrestling - con tanto di finalone schifosamente a stelle e strisce, giustificando un'eventuale visione solo grazie alla presenza di Alexandra Daddario, che al progressivo spogliarsi a seguito della catastrofe regala momenti decisamente interessanti, anche se si sarebbe potuto osare certamente di più, in barba ad effetti speciali e simili.
Fortunatamente, ora che il mio lato tamarro convive felicemente con quello più legato a scelte di qualità e cultura, il lavoro di Brad Payton ha rappresentato un ottimo opener per la stagione estiva, che ultimamente mi vede spesso e volentieri cercare un impegno minimo sia dal punto di vista degli ascolti che delle visioni, in linea con la leggerezza, il caldo e la voglia di vacanze fisica e mentale: scene altamente spettacolari, effetti notevoli a metà tra 2012 e rimandi ad Independence Day, una componente fracassona ed una legata ai buoni sentimenti da famiglia pronta a riunirsi nel momento della difficoltà in barba al patrigno fighetto e codardo - che poi, come giustamente Julez faceva notare, quando avrebbe per le mani un The Rock, quando mai una donna sana di mente opterebbe per un Ioan Grufudd!? -, una certa ironia di fondo che permette all'operazione di non prendersi troppo sul serio - la sequenza dello sciacallo intento ad accatastare tv in macchina, che, altro appunto metacinematografico, commette la sciocchezza di minacciare il buon The Rock proprio nel bel mezzo di una pellicola costruita completamente su di lui, povero ragazzo - e portare a casa la pagnotta alternando passaggi chiaramente giocati tutti sull'estetica del 3D e dell'impressione visiva - lo tsunami su San Francisco fa davvero la sua porca figura, così come il crollo della diga alle prime scosse del cataclisma - con il classico drammone scontato a stelle e strisce incentrato principalmente sulla volontà di sopravvivere e tornare gli uni accanto agli altri dei membri della famiglia al centro della vicenda.
Certo, San Andreas resta una proposta indigeribile per chiunque non sia avvezzo ai neuroni spenti o ad un pò di sano intrattenimento made in USA, ma per tutto il resto del pubblico finirà per rivelarsi un gran bel giocattolone - riferendoci al genere, ovviamente - in grado di stimolare riflessioni assolutamente profonde - in casa Ford ci si è interrogati, ad un certo punto, sul fatto che la mano di The Rock potrebbe forse riuscire a contenere una tetta di Julez, sottolineando il forse - ed allontanare quantomeno in testa il caldo soffocante che giustamente l'estate ci riserva.
Per il Saloon, dunque, potrebbe equivalere ad una bella birra gelata - altro sdoganamento operato negli ultimi mesi - per evitare di appesantirsi troppo con un superalcolico sotto il sole cocente.
Leggero con brio, dunque.
Che a volte, è proprio quello che serve.
Con qualche esplosione a fare da cornice ed un pò di tamarraggine, che sono un pò come le bollicine.




MrFord




"All across the nation, such a strange vibration
people in motion
there's a whole generation with a new explanation
people in motion, people in motion."
Scott McKenzie - "San Francisco" - 





lunedì 15 giugno 2015

Jurassic World

Regia: Colin Trevorrow
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 124'





La trama (con parole mie): a ventidue anni di distanza dagli eventi che videro sconvolta l'esistenza del primo Jurassic Park, Jurassic World è divenuto un parco tematico in grado di funzionare alla grande ed a pieno regime sulla stessa isola che ospitò il suo ispiratore, finanziato dal miliardario Masrani ed orientato in modo da stupire sempre di più il visitatore.
Proprio per questo motivo, affidandosi al genetista Wu, il direttivo del parco decide di operare in modo da creare nuovi ibridi coltivati in laboratorio in grado di regalare brividi mai provati prima al pubblico: la nuova attrazione, ribattezzata Indomitus Rex, nata da una selezione di DNA di dinosauro ed animali presenti in natura, però, finirà per risultare un osso troppo duro per gli organizzatori.
Claire, dirigente della struttura con i due nipoti come ospiti ed Owen, ex operativo della marina che si è occupato dell'addestramento di una squadra di quattro velociraptor, dovranno fare fronte al panico che seguirà l'evasione dell'ultimo ospite del parco.
Come finirà la lotta?







Se, una decina d'anni or sono o poco più, qualcuno mi avesse predetto che avrei ricoperto la posizione di sostenitore indefesso del Cinema d'intrattenimento selvaggio e dei popcorn movies, o che avrei ripescato i cari, vecchi action che mi avevano cresciuto nella seconda metà degli anni ottanta e nei primi novanta, avrei riso forte, convinto della mia posizione legata esclusivamente al Cinema d'autore, quello di nicchia, "alto", lontano da tutte le logiche commerciali e di comodo.
Nel corso del tempo trascorso da allora ad oggi, non trovo affatto sminuito il valore delle proposte d'essai, e la necessità di averle accanto in modo da poter stimolare cervello e cuore: eppure, parallelamente, mi sento come avessi avuto un'epifania a proposito della pancia, delle viscere, di tutto quello che è istinto, divertimento, bisogno di una leggerezza che la vita di tutti i giorni, spesso e volentieri, ci toglie con gusto.
Questo duemilaquindici, povero di soddisfazioni in termini assoluti, sta portando alla ribalta tutte proposte legate al Cinema "basso", da Fast 7 a Mad Max: Fury Road, passando per Kung Fury per giungere qui, come se il bisogno di bocche spalancate, goduria e divertimento stia tornando lo stesso dei favolosi eighties, in barba alla crisi e a tutti i problemi che ognuno di noi si trova ad affrontare al giorno d'oggi.
In effetti, tuffarsi - senza pretese di logica e seriosità, ovviamente - nella visione del lavoro di Colin Trevorrow - autore del bellissimo Safety not guaranteed, qui imbrigliato in parte dalle logiche delle major e dalla produzione made in Spielberg - conduce proprio a questo: una distensione totale delle cellule cerebrali, un tripudio di emozioni ed effetti che solo la grande avventura senza pretese fornisce, brividi legati alla sensazione da ottovolante di trovarsi proiettati accanto ai protagonisti in un parco alle prese con predatori che, citando l'inquietante genetista responsabile della creazione dell'Indomitus Rex - bellissima la battuta di Owen/Pratt sul nome - vedono noi umani così come noi vediamo un gatto, o un topo.
Punti di vista, di fatto.
Del resto, se una formica o uno scarafaggio fossero grandi quando un'automobile, probabilmente la nostra percezione della loro forza e del pericolo sarebbero decisamente differenti, e così le loro: di certo, in bilico tra citazioni del primo film - ed unico parzialmente valido della trilogia precedente -, sequenze ad alta tensione - l'incontro tra i due giovani fratelli "fuggiaschi" e l'Indomitus, altrettanto fuggitivo -, altre a metà strada tra la commedia brillante e la romcom - i duetti tra Pratt e Bryce Dallas Howard -, Jurassic World risulta indiscutibilmente un successo, in grado di allentare la tensione degli spettatori più smaliziati e disposti a rilassarsi come si conviene, e nutrire quelli occasionali con la materia migliore che la settima arte possa fornire: la meraviglia.
Personalmente, l'esaltazione - mia e di Julez, caricata a molla dopo il trailer di Terminator: Genesys e tornata bambina grazie al lavoro di Trevorrow - culminata con il confronto tra l'Indomitus, il T-Rex, il Velociraptor e l'enorme dinosauro marino in stile coccodrillo del quale non ricordo il nome scientifico che regala esplosioni di sopra le righe nel finale vanno oltre qualsiasi critica, dai tacchi della Dallas Howard alle concessioni ed ingenuità della sceneggiatura, facendo dono alla platea di un giocattolone di quelli che, nel corso della mia infanzia, emozionavano e permettevano di uscire dalla sala con la pelle d'oca ed un senso d'onnipotenza neanche si fosse noi, i protagonisti di quella meravigliosa avventura che era appena finita sullo schermo.
Se questo, un pò di seriosità gettata alle ortiche per lasciare spazio a mandibole grondanti bava da fame predatoria, qualche strizzata d'occhio ai grandi distributori ed alla logica, ed un pò di riposo concesso alla parte del cervello affamata di Cinema d'essai sono il prezzo da pagare per un ritorno al senso di meraviglia che pareva perso da oltre vent'anni - poco prima dei tempi dell'esordio sul grande schermo di questo brand -, ben vengano questi lucertoloni assetati di sangue.
Sarò lieto di affrontarli - o meglio, cercare di sopravvivere loro - dal primo all'ultimo.
E non mi importerà del concetto dei "più denti", quanto dell'utilizzo di quelli che si avranno.
Chiedetelo al ruggito del Tirannosauro.



MrFord



"I'D EAT YOU ALIVE!!!! I'd eat you alive..... 
I'D EAT YOU ALIVE!!!! I'd eat you alive..... 
I'm sorry. So sorry (damn, you're so hot!!) 
Your beauty is so vain (damn, you're so hot!!) 
It drives me, yes it drives me (damn your so hot) absolutely insane."
Limp Bizkit - "Eat you alive" -




sabato 21 dicembre 2013

Lo Hobbit - La desolazione di Smaug

Regia: Peter Jackson
Origine: USA, Nuova Zelanda
Anno: 2013
Durata: 161'




La trama (con parole mie): le peripezie di Bilbo Baggins e la compagnia guidata da Thorin Scudo di quercia proseguono attraverso le terre selvagge mentre nell'ombra il potere di Sauron monta spingendo sempre più per un ritorno del Signore Oscuro ed una nuova guerra.
Tallonati dagli orchi guidati da Azog, gli improvvisati avventurieri guidati da Gandalf il grigio giungono ai confini dei territori degli elfi delle foreste, più refrattari al contatto e governati da Thranduil, padre di Legolas: quando lo stregone si separerà da loro per indagare sul ritorno delle forze del male, i piccoli uomini dovranno dare fondo a tutte le loro forze per poter raggiungere Erebor superando insidie e lavorando duramente per mantenere alleanze decisamente instabili, affinchè la missione che si sono prefissati trovi la sua naturale conclusione nell'incontro tra Bilbo ed il drago Smaug, responsabile della rovina dei loro destini.
Riuscirà Bilbo a resistere agli impulsi dell'anello e sopravvivere al confronto con un essere leggendario, crudele e letale?





Passano gli anni, e la mia stima per il lavoro straordinario svolto da Peter Jackson rispetto al mondo tolkeniano de Il signore degli anelli - del quale non sono mai stato un fan letterario, lo ammetto - continua inesorabilmente ad aumentare, parallelamente al divertimento che l'autore neozelandese riesce a garantire con ogni suo lavoro, centrando il bersaglio dell'intrattenimento d'autore con una facilità estrema, a prescindere dai fotogrammi al secondo e dagli effetti speciali - sempre incredibili -, riportando di fatto in sala l'emozione che solo negli anni ottanta si aveva la possibilità di vivere attraverso un'incredibile avventura fatta di pellicola.
Già lo scorso anno, con Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato, Jackson era riuscito a lasciare a bocca aperta il sottoscritto confezionando una piccola perla di nostalgia, emozione e meraviglia, e nonostante - come fu, del resto, anche per Il signore degli anelli - con questo secondo capitolo si paghi, di fatto, la sensazione di trovarsi di fronte ad un unica, grande, sequenza di raccordo - pur se ottimamente realizzata - il risultato è una vera goduria per gli occhi, la testa ed il cuore, un viaggio senza respiro, piacevolmente imperfetto e divertente in grado di far passare in un lampo quasi tre ore, costruito prendendosi tutto il tempo necessario per chiudere lasciando di fatto deflagrare - in tutti i sensi - un climax da season finale di serie tv, nel pieno rispetto del meccanismo del "fiato sospeso" che i fan delle trilogie di vecchia data ricorderanno dai tempi de L'impero colpisce ancora.
E proprio a Star Wars si lega sempre più l'ex sovrappeso Jackson, che con il binomio Il signore degli anelli/Lo hobbit ha di fatto definito una volta per tutte il suo ruolo di George Lucas della settima arte contemporanea, in termini di impatto, qualità e trilogie, per l'appunto.
La cosa curiosa, di questo La desolazione di Smaug, è che si potrebbe parlare del confronto - con ovvie e sacrosante variazioni, in termini di esigenze di spettacolo - e delle variazioni rispetto all'opera letteraria originale, del comparto tecnico come sempre pazzesco, di Orlando Bloom ed Evangeline Lilly clamorosamente invecchiati - pur se truccati in modo da apparire come gli eternamente giovani elfi -, del già citato crescendo che chiude la pellicola lasciando a bocca aperta e completamente sconcertata l'audience, eppure la chiave è tutta ed assolutamente proprio nel drago che battezza l'opera: la creatura appena accennata nel primo capitolo diviene qui una presenza potente e carismatica, resa alla grande da un'animazione che la rende praticamente viva e perfetta interprete del Male rappresentato dall'anello, progressivamente sempre più importante - da qualsiasi punto di vista lo si guardi - per Bilbo, veicolo attraverso il quale si materializzano paure e sconforto di nani ed umani - dunque l'elemento drammatico della storia -, il sopraggiungere di Sauron e, non ultimo in termini d'importanza, lo straordinario lavoro al limite del comico realizzato da Martin Freeman con la sua interpretazione perfettamente hobbit, già cult per quanto riguarda i minuti iniziali del confronto con l'immenso essere sputafuoco.
Il coraggio dei mezzuomini tanto decantato nel corso dei tre film de Il signore degli anelli e ripreso in questa nuova trilogia assume, grazie a Bilbo, una dimensione più sfaccettata e complessa, che trova nell'interesse manifestato da Smaug la conferma di quanto possa provare lo stesso pubblico: senza dubbio la materia originale prevede un approccio meno epico e decisamente più fiabesco, eppure non mancano sentimenti, ombre, charachters per nulla positivi divenuti tali quasi più per dovere, che per indole.
E poi, l'anello.
I suoi semi ed il suo potere sono tutti qui, e più che nel primo confronto tra Gandalf e gli eserciti di Sauron si trovano nell'accettazione della sua presenza da parte degli elfi "neutrali" e pronti a difendere solo loro stessi così come nello stesso Smaug, così potente eppure così solo, distruttore eppure esiliato in un eremo d'oro che lui stesso ha creato.
Non svegliare il can che dorme, recita un vecchio detto.
Ma non è detto che il drago - ed il Male - abbiano bisogno di essere destati.
In fondo albergano già ampiamente dentro di noi.
Piccoli o grandi uomini.



MrFord



"If this is to end in fire
then we should burn together
watch the flames climb high into the night
calling out for the rope, stand by and we will
watch the flames burn over and oh
the mountains sigh."
Ed Sheeran - "I see fire" - 



martedì 22 ottobre 2013

Gravity

Regia: Alfonso Cuaron
Origine: USA, Messico
Anno: 2013
Durata: 91'
 



La trama (con parole mie): Matti Kowalski e Ryan Stone sono due membri dell'equipaggio di una missione in orbita attorno alla Terra con l'intento di effettuare alcune riparazioni su un'istallazione. Quando l'esplosione di un satellite porta su di loro una pioggia di detriti e lo shuttle viene distrutto, i due si ritroveranno ad affrontare, legati l'uno all'altra, una deriva che dovranno pilotare verso una stazione orbitante russa in modo da raggiungere un modulo di salvataggio e fare ritorno sulla Terra.
Il tentativo, però, risulterà ben più arduo di quanto non potessero già immaginare, ed il rientro sul pianeta comincerà ad assumere i connotati di un'utopia, più che di una speranza.





Alfonso Cuaron ha una storia strana, qui al Saloon.
Partito discretamente bene con il piacevole road movie stile Sundance Y tu mama tambien agli inizi del nuovo millennio, il regista di Città del Messico finì per perdere parecchie quotazioni con Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, a mio parere uno degli episodi meno riusciti della saga cinematografica del maghetto più famoso della letteratura: giunse poi I figli degli uomini a lasciare a bocca aperta il sottoscritto e rilanciare il buon Alfonso come riferimento della settima arte messicana pronto a soppiantare l'inaridito Inarritu.
L'hype per Gravity, dunque, accolto anche decisamente bene all'ultimo Festival di Venezia, era clamorosamente alto, considerate anche le opinioni di molti blogger cinefili pronti a spendere grandi parole per quest'epopea umana più che sci-fi come se fosse la cosa più naturale del mondo: onestamente, e non credo per colpa delle aspettative, devo dire che l'attesa è stata almeno parzialmente delusa.
Certo, è d'obbligo ammettere che a livello tecnico e visivo ci troviamo di fronte, con ogni probabilità, ad una delle opere più incredibili del passato recente - almeno per quanto riguarda il genere -, roba da avere l'impressione di precipitare nello schermo e perdere gli occhi per la meraviglia tra effetti speciali da togliere il fiato, piani sequenza da brivido ed evoluzioni della macchina da presa che probabilmente avrebbero lasciato a bocca aperta anche i pionieri dei "Viaggi nella Luna": un'esperienza da spettatori assolutamente incredibile, che vale la pena di vivere al pieno delle possibilità tecnologiche attuali - tanto odiato dal sottoscritto 3D compreso - e dal primo all'ultimo minuto, sostenuta da un'ottima idea rispetto al titolo - il riferimento alla gravità sulla Terra, e non alla sua assenza nello spazio - e da una Sandra Bullock in grandissimo spolvero, ma che, dal punto di vista emozionale e dell'originalità nella scrittura difetta come l'ultimo dei blockbusteroni hollywoodiani.
Non so se la produzione, lo stardom presente o chissà quale imposizione dall'alto abbiano influenzato il lavoro di Alfonso e Jonas Cuaron nel corso della stesura dello script, ma l'impressione è che tutto quello che è finito nella parte squisitamente tecnica e "meravigliosa" della pellicola abbia finito per succhiare il midollo della vita alla sceneggiatura, molto scontata e a tratti davvero al limite dello scivolone - il dialogo tra Ryan ed il miracolosamente rientrante Kowalski nella stazione orbitante russa -.
Per nulla una delusione da bottigliate, ma classico esempio di "bello senz'anima", dunque, questo Gravity trascinato con i piedi per terra si attesta, di fatto, ben lontano dall'Olimpo cinematografico cui certamente aspirava: un peccato, perchè quella che è una delle più incredibili avventure visive dell'anno finisce per essere associata ad un titolo destinato a transitare in un'orbita ben lontana dai primi posti della classifica dedicata al meglio del duemilatredici.


MrFord


"Oh twice as much ain't twice as good
and can't sustain like a one half could
it's wanting more
that's gonna send me to my knees."
John Mayer - "Gravity" - 


lunedì 22 luglio 2013

Pacific Rim

Regia: Guillermo Del Toro
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 131'




La trama (con parole mie): siamo in un prossimo futuro, e troviamo gli abitanti della Terra impegnati in una guerra senza esclusione di colpi contro i Kaiji, mostruose e gigantesche creature giunte dalle profondità degli abissi nel nostro mondo grazie ad una falla che garantisce il passaggio delle stesse dalla loro dimensione d'origine alla nostra.
Per poterli fronteggiare, il genere umano ha sviluppato delle armi chiamate Jager, robot giganteschi e potentissimi che soltanto l'unione di due piloti collegati tra loro attraverso menti e ricordi permette di manovrare: quando il giovane e promettente Raleigh Becket perde il fratello in uno scontro abbandona per cinque anni la battaglia dedicandosi come operaio alla costruzione di un muro che dovrebbe tenere lontani i Kaiji senza doverli necessariamente combattere.
Alla scoperta che la struttura non sarà in grado di adempiere allo scopo e che le creature preparano in realtà un'invasione del nostro pianeta, Becket verrà richiamato in servizio dal suo ex comandante per tentare un'ultima, disperata missione pensata per chiudere definitivamente la breccia tra i due mondi. 
I pochi Jager rimasti ed i loro piloti, dunque, si troveranno a tentare di scrivere la parola fine alla guerra.





E' davvero dura, sedersi qui a scrivere un post a proposito di Pacific Rim.
In qualche modo, per poter cominciare decentemente dovrei partire dai tempi della mia infanzia, in cui ai cartoni animati di genere sportivo - su tutti Holly&Benji  e L'Uomo Tigre - si alternavano le visioni legate ai cosiddetti robottoni, da Jeeg a Mazinga, passando per Daltanious, Gordian, Voltron ed il mio personale favorito Daitarn III: erano tempi magici, in cui bastavano venti minuti di giocattoloni a cartoni per sognare mondi infiniti e battaglie intergalattiche contro gli alieni cattivi di turno. In quel periodo fiorirono non soltanto pupazzoni e modellini dei suddetti robot, ma anche videogames come Rampage o King of the monsters targato Neo Geo, classiconi del periodo almeno per il sottoscritto, soprattutto quando d'estate, al mare, si passava buona parte della serata in sala giochi ad inserire un gettone dietro l'altro.
Quando vidi per la prima volta il trailer di Pacific Rim mi parve di vivere il sogno ad occhi aperti di quel bambino magro e piccoletto, un film dagli effetti pazzeschi con protagonisti proprio quei robottoni che per anni - se non decenni - si erano potuti ben rappresentare soltanto nei cartoni animati: se, a questo, si aggiungeva il fatto che dietro la macchina da presa stava un certo Guillermo Del Toro, autore di tamarrate goduriosissime come Blade II, ottimi film da fumetto come i due Hellboy o lo splendido Il labirinto del fauno, il gioco era fatto.
L'hype, dunque, era altissimo, alimentato dal fatto che in questi giorni, in tutta la blogosfera, si sono letti pareri entusiastici e stroncature eccellenti di questo lavoro: il risultato è stato un vero e proprio conflitto interiore che ha portato ad una media purtroppo non esaltante anche nel voto, incontro dell'apparato tecnico e visivo assolutamente spettacolare - roba da far sembrare Cloverfield un filmetto amatoriale - ed un impatto emotivo al contrario piuttosto anonimo, specie per chi ha vissuto gli anni d'oro dei cartoni animati citati in apertura di post con il cuore e gli occhi spalancati che solo i bambini possono avere.
Parliamoci chiaro: Pacific Rim, forte di effetti da capogiro e sequenze da esaltazione totale - al primo ingresso dei fratelli Becket nel loro Jager ho avuto un brivido simile a quello che provavo la sera della vigilia di Natale da piccolo, quando non vedevo l'ora di scartare i pacchi -, manca del cuore in grado di rendere una visione memorabile a livello emozionale così come - purtroppo - dell'ironia perchè la stessa non risulti quel pochino pretenziosa perfino per un tipo pane e salame come il sottoscritto.
Rispetto all'opera di Del Toro, da un lato, mancano dunque sia la profondità e la drammaticità de Il labirinto del fauno, sia la scanzonata guasconeria di Hellboy, mentre allargando il campo al Cinema d'intrattenimento in generale - è impossibile non considerare che la sceneggiatura e la storia, quando si tratta questo genere, finiscono per avere il sapore della minestra riscaldata - non troviamo il pathos di Avatar, l'aura autoriale di District 9 o la fracassoneria di The Avengers.
Per quanto suoni quasi una bestemmia, artisticamente parlando, personalmente mi sono divertito di più a spegnere i neuroni con Battleship che ad attendere il momento della definitiva consacrazione di Pacific Rim, che continuerà ad essere un prodotto di riferimento per il genere - e che già voglio in bluray - ma che non mostra il carattere necessario a soddisfare le aspettative dei fan che, da prima ancora che potesse essere sviluppato il progetto, sognavano con tutto il loro amore di bambini un'intera pellicola dedicata ai robottoni che non fosse lo scempio che Michael Bay operò rispetto ai Transformers.
Certo, in tutto questo ammetto che nel momento in cui nel pieno della battaglia con un terrificante Kaiji lo Jager estrae la spada dal braccio per fare a fette il nemico è stato come se il cervello avesse avuto un orgasmo in bilico tra l'amarcord e le potenzialità del futuro, Charlie Hunnam è un fordiano fatto e finito - oltre che volto di Sons of anarchy -, la lotta nel pieno dell'oceano e quella nella baia di Hong Kong sono da antologia, eppure con tutto questo clamore, a Pacific Rim è mancata proprio quella scintilla.
Quella che, ai tempi, sul grande schermo seppe infiammare Spielberg.
E che, a questo punto, solletica il dubbio che, forse, se questo film fosse finito nelle mani di un certo J. J. Abrams ora penseremmo di essere tutti negli anni ottanta e saremmo qui a gridare a squarciagola: "E ora, con l'aiuto del sole, vincerò! Attacco solare: energia!".


MrFord



"Voi della mia generazione,
che siete cresciuti coi cartoni
GIAPPONESI!
Voi mi dovete spiegare
perché in quei cartoni non si vede mai
TROMBARE!
Solo robot che fan la guerra
GUERRA! 
Ai nemici della terra
TERRA!"
Gem Boy - "Orgia cartoon" -

venerdì 1 marzo 2013

Upside down

Regia: Juan Solanas
Origine: Canada, Francia, Argentina
Anno: 2012
Durata: 107'




La trama (con parole mie): nel profondo dell'universo esiste un sistema solare unico nel suo genere, all'interno del quale esistono due pianeti gemelli a gravità invertite che ruotano attorno ad un unico Sole.
Adam e Eden, appartenenti il primo al mondo più basso - quello povero e operaio - e la seconda a quello più alto - tecnologicamente più avanzato, ricco ed impeccabile - si incontano per caso osservandosi dagli estremi dei due mondi, ancora adolescenti: la loro storia d'amore subisce però una brusca interruzione quando Eden perde la memoria a seguito di uno dei loro incontri clandestini.
Dieci anni dopo Adam, mai rassegnatosi all'idea di avere perso l'amore della sua vita, scopre che Eden lavora per la multinazionale che coordina gli scambi energetici tra i due mondi e decide di fare tutto il possibile per riconquistarla.





A volte il mondo della blogosfera riserva sorprese a dir poco curiose.
Seguendo la programmazione dei post ed avendo un grosso anticipo - di oltre un mese, giorno più, giorno meno - capita spesso che pubblichi quando ormai il film visto - ed il post scritto - sono solo un appannato ricordo sepolto negli archivi della mente obnubilata dall'età che avanza e dall'alcool: una cosa, però, della quale sono certo, è di avere preparato una recensione - anche abbastanza lunga - a proposito di Upside down, descrivendone l'indubbio fascino visivo così come l'inutilità dello script, banalotto e scontato.
Dunque, ieri sera, Blogger deve aver deciso di giocarmi uno scherzetto - probabilmente su suggerimento del mio antagonista Peppa Kid - ignorando bellamente le mie precedenti disposizioni e andando a postare la bozza che preparo sempre prima di scrivere il pezzo vero e proprio.
Come se non bastasse, essendo uscito con mio fratello ed avendo finito per ubriacarmi come una merda, ho scoperto solo a mattina inoltrata dell'inconveniente.
La cosa divertente è che la non recensione sia passata per una specie di genialata provocatoria rispetto ad una pellicola inutile come quella di Juan Solanas, che effettivamente non aggiunge praticamente nulla alla storia delle visioni dello spettatore, e anzi, a tratti riesce perfino ad annoiare un pò.
Dunque faccio outing con questo pippone sicuramente più palloso e meno divertente del fhdjkfhdfsjkhsdfkjs che era prima e dichiaro pubblicamente di non averlo fatto di proposito, anche se, alla fine, non mi metterò di certo a recuperare quel poco che è rimasto della visione dal mio cervellino per schiaffarlo da queste parti, ora che il danno è fatto.
Sappiate solo che, effetti speciali a parte - davvero notevoli -, Upside down offre davvero poco, e non rappresenta di certo una delle visioni imperdibili di questo 2013 che ha riservato, anche nel genere, sorprese ben più gradite e consistenti - come giustamente sottolineava sempre il Cucciolo, Cloud Atlas -.
Comunque, sappiate che ho molto gradito il vostro apprezzamento per la non recensione che non ho scritto.
Ora vi voglio un pò più bene.


MrFord


"Uptown girl
she's been living in her uptown world
I bet she never had an back street guy
I bet her mama never told her why."
Billy Joel - "Uptown girl" -



venerdì 11 gennaio 2013

Cloud Atlas

Regia: Tom Tykwer, Lana Wachowski, Andy Wachowski
Origine: Germania, USA, Hong Kong, Singapore
Anno: 2012
Durata: 172'
 



La trama (con parole mie): attraverso il Tempo e lo Spazio, assistiamo all'incrocio tra esistenze che si snodano dall'ottocento delle colonizzazioni e dello schiavismo ad un futuro remoto in cui le cose paiono non essere poi cambiate di molto, dal nostro presente agli anni trenta del Regno Unito, passando attraverso la Seoul del prossimo secolo e la San Francisco degli anni settanta.
Vite, morti, amori, imprese e fallimenti che passano attraverso una voglia che ricorda una cometa e l'eterna disputa che vede il Potere opposto alla Resistenza: c'è chi cade e chi riesce ad abbracciare il successo, chi combatte e chi tradisce, chi allarga le spalle affinchè la speranza divampi e chi, al contrario, porterà sempre e solo acqua al suo mulino.
E chi, più semplicemente, non sarà solo.
Questa è la grande giostra delle esistenze. Buttatevi, se avete coraggio.




Dovessi giudicare questo inizio 2013 cinematografico, penso che la mente correrebbe al volo all’idea di meraviglia: ancora stupito dal miracolo di Ang Lee con il suo Vita di Pi ecco che mi ritrovo sbigottito di fronte al lavoro a sei mani di Tom Tykwer, Andy e Lana Wachowski.
Perché Cloud Atlas – che a giudicare dai trailer che avevo avuto modo di vedere in rete ed il sala mi pareva un polpettone di quelli che avrei letteralmente affossato a bottigliate – ha ribaltato completamente i pronostici funerei della vigilia incantando casa Ford per le quasi tre ore della sua durata nonostante un Tom Hanks che io avrei rispedito sull’isola di Cast away a calci in culo ed un piglio generale che paga più di un tributo alla retorica hollywoodiana come grande tradizione – e distribuzione – vuole.
Eppure l’affresco di questo mosaico di esistenze che si snodano attraverso una manciata di secoli di Storia passata, presente e futura funziona a meraviglia, emoziona ed arriva dritto al cuore dell’audience come soltanto i grandi film di genere riescono a fare, riuscendo nel contempo a mescolare avventura, dramma, sci-fi, fantasy, commedia, amore e morte tirando le fila di uno script ottimo – la cura nei raccordi tra le epoche è quasi maniacale, e da ex sceneggiatore, pur se di fumetti, non ho potuto che apprezzare la cosa – che sequenza dopo sequenza finisce per regalare allo spettatore inizialmente disorientato un climax conclusivo in cui il dialogo a più livelli temporali pare muoversi con una tale sincronia da annullare ogni piano di narrazione per presentarsi come un unico, grande coro ad una voce.
Dalle vicende di Ewing – idealista avvocato ai tempi degli imperi coloniali – a quelle di Sonmi – destinata ad una vita ed una morte da lavoratrice nella nuova Seoul del futuro – la cometa che segna la pelle di alcuni tra i protagonisti mostra particelle delle singole gocce che compongono un oceano immenso ed affascinante, magico e complesso nelle sue espressioni positive o negative – perfetta la scelta di affidare più ruoli agli attori attraverso le epoche finendo per ritagliare addosso agli stessi anche un background ben definito, da quelli controversi di Tom Hanks a quelli oscuri di Hugo Weaving, passando per i sognatori positivi di Jim Sturgess e Halle Berry neanche ci trovassimo in una versione blockbuster del magnifico Holy motors -.
Quando, ormai più di due anni fa, Christopher Nolan stupì il mondo con il suo Inception, ricordo di aver scritto che il regista della trilogia del Cavaliere oscuro aveva raccolto il testimone di Matrix rendendo possibile quello che lo stesso Matrix non era stato in grado di essere e diventare.
Con le immagini di Cloud Atlas ancora negli occhi, la sua sinfonia di esistenze ed epoche, le pulsioni che lo rendono, di fatto, un film legato a doppio filo ai concetti di Libertà ed espressione di se stessi – tanto da ricordare, a tratti, anche V per vendetta, realizzato dall’allievo prediletto dei registi James McTeigue – e che passa attraverso la prova di forza di Sonmi – “Quando ad un uomo togli tutto, non hai più alcun potere su di lui” – e quella di Ewing – “Un oceano non è che l’insieme di un’infinità di singole gocce” -, i Wachowski hanno finalmente realizzato il loro personalissimo Inception, di fatto chiudendo un cerchio ed affermando a gran voce tutto il visionario talento mostrato fino ad ora soltanto in parte.
Sicuramente rispetto al cerebrale e chirurgico Nolan un lavoro come Cloud Atlas risulta indubbiamente larger than life e di grana più grossa, ma non siamo certo qui a contestare lo stile, quando il risultato è così coinvolgente e di ampio respiro: e dai toni da commedia nera della vicenda dell’editore interpretato da Jim Broadbent nel nostro presente al futuro remoto in stile a metà tra Apocalypto ed Avatar riusciamo a trovare scintille di magia come solo la settima arte sa produrre, brividi legati al dramma sentimentale del giovane compositore di quella che diverrà la composizione Cloud Atlas così come al vintage della San Francisco anni settanta che strizza l’occhio al Cinema impegnato dei tempi, la danza tra gli alberi della nave dello schiavo liberatosi con le sue sole forze e la “defenestrazione” del critico radical chic – una sequenza già cult dalle parti del Saloon -, per esplodere letteralmente nella Seoul di Sonmi, che ha riportato alla mente e soprattutto al cuore di questo vecchio cowboy tutta la poesia per immagini di 2046. Mica roba da poco.
Tutto questo senza dimenticare che, mascherata da spettacolone giocato su effetti e trucco, troviamo una riflessione profonda sul valore del “tutto scorre”, una sorta di respiro cosmico all’interno del quale ci muoviamo senza mai finire, in un modo o nell’altro, di farne parte – e in questo senso si torna a ricordare il già citato Vita di Pi -.
Può anche essere che con l’imminente arrivo del Fordino io mi sia rammollito, ed abbia subito una regressione che permetta di fare breccia nel mio cuore anche a pellicole inevitabilmente ad ampio raggio come questa, eppure quello che ho provato dall’inizio alla fine del suddetto film è stato pura, piena, clamorosa gioia.
Gioia nata dall’amore per la settima arte, e gratitudine per ogni momento magico che la stessa riesce a regalarmi.
E se lo scopo ultimo di questa “lanterna magica” è quello di lasciare a bocca aperta, allora Cloud Atlas ne è un’espressione potente come poche.


MrFord


"If you're lost you can look and you will find me
time after time
if you fall I will catch you I'll be waiting
time after time."
Cindy Lauper - "Time after time" -


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