Visualizzazione post con etichetta battaglie. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta battaglie. Mostra tutti i post

mercoledì 15 novembre 2017

Black Sails - Stagione 2 (Starz, Sud Africa/USA, 2015)




Il mondo dei pirati è da sempre una calamita per l'attenzione di questo vecchio cowboy, che pone galeoni, rum ed arrembaggi appena dietro le cavalcate nelle grandi pianure: da L'isola del tesoro a La vera storia del pirata Long John Silver, alcuni dei miei romanzi preferiti di sempre sono legati a questo tipo di cornice, ed anche su grande schermo le avventure marinare hanno sempre esercitato un fascino irresistibile.
Quando, anni fa, conobbi grazie al mio fratellino Dembo questa produzione Starz, incentrata proprio sui personaggi di John Silver e del suo capitano, Flint, non seppi resistere, incontrando una prima stagione molto interessante che, forse, venne penalizzata e non poco proprio dalla mia fresca lettura del già citato La vera storia del pirata Long John Silver, che si era rivelata troppo grande per non seppellire al confronto qualsiasi altra vicenda avesse come protagonista il mitico John.
Lasciate dunque calmare le acque, ho finito per tornare al timone e rimettermi sulle tracce di questi personaggi ad un tempo romantici e crudeli, attaccati alla vita e pronti ad aggredire ed aggredirla, e dal primo episodio di questa seconda stagione mi sono ritrovato immerso quanto e decisamente più rispetto alla season d'esordio, finendo travolto da un'escalation che non solo ha portato al racconto nella versione Black sails della perdita della gamba di John Silver - tratto distintivo del pirata nel già citato L'isola del tesoro -, ma anche ad una serie di colpi di scena dalla forza e dalle potenzialità per le due annate successive davvero enormi, in grado di mostrare senza eccessiva spettacolarizzazione le contraddizioni di questi uomini e donne che vissero ai margini e ben oltre della Legge e della Società per come veniva intesa allora - ed ancor di più oggi - ma che tra loro regolamentavano il tutto attraverso regole ancora più precise, per inseguire il miraggio di una società perfetta costruita sull'equilibrio di persone slegate da qualsiasi codice o regola per l'appunto sociale.
Una sconfitta in partenza che mantiene ed esercita un'attrazione difficilmente gestibile da persone inclini al caos come il sottoscritto, che nel modo di approcciare qualsiasi situazione in modo da trovare la soluzione migliore per sopravvivere ed avere il vantaggio migliore in pieno stile Ulisse di John Silver, nella determinazione furiosa di Flint, nella passionalità selvaggia di Charles Vane - il suo discorso di fronte alla gente della Carolina nel corso del processo a lui e Flint mi ha fatto quasi saltare in piedi sul divano -, trova un modo per assaporare la pelle d'oca scuotere fin nell'anima.
Segno, questo, pronto a dimostrare che proprio come Silver, in quel contesto avrei cercato di evitare con tutte le forze un'esistenza rischiosa e spesso grama come quella dei pirati ma mi ci sarei trovato dentro per indole, inclinazioni ed attitudine.
La proposta Starz, dunque, porta sullo schermo tutto lo sporco della vita dei predoni del mare dei tempi, la lotta per la sopravvivenza - anche se renderebbe decisamente meglio, in questo caso, l'inglese struggle -, il rispetto di alcune regole ed al contempo di nessuna, i richiami dell'ignoto, di sogni folli, di sbronze senza ritorno e sesso senza limiti, e lo fa con perizia nella realizzazione, ottime caratterizzazioni da parte dei protagonisti, scrittura molto interessante ed un'atmosfera che non cerca facili conquiste, ma punta i cannoni dritta al bersaglio grosso.
Una volta a bordo con gentaglia di questa risma, fidatevi, sarà davvero difficile pensare a fare vela verso la terraferma.
A meno che loro non vogliano offrirvi un viaggio senza ritorno nelle profondità dei mari.
O dei loro cuori.




MrFord




 

lunedì 27 febbraio 2017

The Great Wall (Zhang Yimou, Cina/USA, 2016, 103')





Quando penso a Zhang Yimou, la mente corre sempre ad uno dei titoli che hanno dato inizio alla grande scoperta del sottoscritto come spettatore rispetto al Cinema orientale, Lanterne rosse: erano gli anni a cavallo dell'inizio del Nuovo Millennio, ed alle spalle l'infanzia passata a macinare un film dopo l'altro con mio fratello cominciavo a cercare un'identità come spettatore partendo dalla scoperta dei Classici e dei film "d'autore", che avrebbero dominato le mie visioni per almeno cinque o sei anni.
Lanterne rosse, per l'appunto, oltre a rivelare al mondo la bellezza straordinaria di Gong Li, portava alla ribalta un autore tra i più influenti del panorama cinese, che nel corso delle stagioni riuscì a raccontare storie molto semplici - da Keep Cool a Mille miglia lontano - ed altre legate alla tradizione, alla magnificenza ed alla meraviglia visiva - Hero, La foresta dei pugnali volanti, La città proibita -: dunque era lecito, nonostante una certa discontinuità venuta a galla negli ultimi anni e malgrado una produzione imponente e senza dubbio "ingombrante", aspettarsi qualcosa di quantomeno interessante da questo The Great Wall, pubblicizzato, va detto, più per la presenza di Matt Damon - con Pedro Pascal a fargli da spalla - che non per quella del cineasta cinese.
Peccato che, visione alle spalle, questo non solo risulti il film peggiore di Zhang tra quelli che ho visto finora, ma anche uno dei più brutti del duemiladiciassette: un'accozzaglia priva di identità subordinata al desiderio - presumo sempre della produzione - di portare in sala un potenziale blockbuster che mostra quanto dannosa può essere l'impronta ammeregana rispetto ad un lavoro che dovrebbe attingere alla tradizione popolare di un altro paese - a prescindere da quale sia -, all'interno della quale un praticamente perfetto, invincibile, infallibile e finto cattivo Matt Damon mostra alla popolazione locale quanto è semplice per lui sgominare un'orda di mostri che paiono un incrocio di tutti i meno riusciti della categoria della Storia recente del Cinema, conquista il cuore - pur non consumando - della generalessa d'acciaio e rinuncia - SPOILER - al bottino per salvare il compagno ed amico.
Una porcata fatta e finita, dunque, dal primo all'ultimo minuto, recitata per piacere del portafoglio - Willem Defoe imbarazzante, ma non fanno tanto meglio i due protagonisti -, pessima dal punto di vista degli effetti e della ricostruzione, scritta da cagnacci maledetti e costruita per giustificare una scena d'azione - prevedibile - dopo l'altra fino ad una battaglia finale che mi ha ricordato World War Z - e non è un bel complimento -.
Sinceramente spero davvero che la responsabilità di questa robaccia sia tutta da imputare alla già citata e bistrattata produzione, perchè in caso contrario significherebbe aggiungere un altro nome alla purtroppo nutrita lista degli ex grandi registi finiti bolliti per scarsità di idee, passione e voglia, e se così fosse sarei davvero dispiaciuto, non fosse altro per l'amore che nutro per il Cinema orientale e per il grande merito che ha avuto Zhang Yimou nel processo che ha portato il suddetto sugli schermi e nel cuore di questo vecchio cowboy.
Nel frattempo, almeno in parte, posso consolarmi: se la Grande Muraglia, infatti, resta una delle opere architettoniche più impressionanti della Storia, destinata ad essere ricordata per sempre, questo The Great Wall finirà nel dimenticatoio in tempi brevissimi, per tornare a mostrarsi giusto in tempo per la classifica del peggio di quest'anno, per fare ritorno poi all'abisso di pochezza dal quale pare essere uscito.




MrFord




 

mercoledì 7 gennaio 2015

Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate

Regia: Peter Jackson
Origine: Nuova Zelanda, USA
Anno: 2014
Durata: 144'





La trama (con parole mie): alle pendici di Erebor si prepara uno scontro di proporzioni epiche. Smaug, il drago liberato dai nani guidati da Thorin Scudodiquercia, è finalmente libero e pronto ad assaltare gli uomini che diedero asilo proprio alla compagnia alla quale si è aggregato Bilbo Baggins, mentre gli orchi preparano un'offensiva da due fronti attratti dai tesori della montagna.
Gli elfi, dal canto loro, paiono pronti a tutto per avere una parte del bottino, mentre nell'ombra Sauron, l'Oscuro Signore, prepara il suo ritorno trovandosi opposto alle forze congiunte di Saruman, Gandalf e Galadriel.
La battaglia ai piedi della montagna sacra dei nani si concluderà con un massacro o Thorin rinsavirà in tempo dalla sua sete di ricchezze per salvare il proprio mondo, e forse la Terra di mezzo?
E quale sarà, in tutto questo, il ruolo di Bilbo?







Erano i primi anni novanta e facevo le medie quando conobbi Peter Jackson ed il suo Cinema oltre ogni misura grazie a quella chicca che è ancora oggi Splatters - Gli schizzacervelli.
Venne poi il tempo di Creature del cielo - forse, ad oggi, il suo film effettivamente più completo - dei primi ingaggi americani e de Il signore degli anelli, che in un primo momento osteggiai e dunque finii per considerare l'equivalente moderno di Star Wars: e quell'ex paffuto regista neozelandese divenne, di fatto, una stella.
L'operazione legata ad una seconda trilogia ispirata a Lo hobbit, fin dal principio giudicata come una sorta di maxi marchetta, invece, finì per istillare il dubbio - ancor prima che nel sottoscritto - nei fan più hardcore del buon Peter, contraddetti da un primo capitolo assolutamente all'altezza ed un secondo meno efficace ma comunque valido se non altro grazie al contributo fondamentale del charachter di Smaug, reso magistralmente.
Con La battaglia delle cinque armate Jackson era dunque chiamato a dimostrare che questo suo secondo e certo non fortunato esperimento - la regia era stata destinata, di fatto, a Guillermo Del Toro, che abbandonò il progetto in corso d'opera - non fosse una semplice operazione commerciale, ma un'opera magica e coinvolgente quanto quella che l'ha preceduta: da questo punto di vista, e purtroppo, il risultato è stato senza dubbio fallimentare, figlio di una prima parte troppo raffazzonata e confusionaria, con Smaug relegato ad una decina di minuti di soli effetti speciali ed una coesione non pervenuta, quasi come se la vicenda di Thorin e della compagnia, quella degli umani, di Galadriel e soci intenti a contenere Sauron, degli orchi e degli elfi fossero entità distinte, ed il loro rispondere all'appello del regista fosse solo un mero compitino da portare a casa per conquistare una pagnotta decisamente ricca e saporita.
Con l'evoluzione della vicenda e della battaglia le cose finiscono per migliorare, dando vita ad una parte finale intensa e coinvolgente come avrebbe dovuto essere l'intero film, senza pensare a dover forzare necessariamente un legame con la precedente trilogia - inutile, in questo senso, ad esempio, il riferimento ad Aragorn - e valorizzando sia i personaggi legati all'opera letteraria - Thorin su tutti -, sia quelli inventati a favore del pubblico - l'elfa Tauriel -: la parte dei leoni spetta, paradossalmente, agli orchi di Manu Bennet e soci e ad un Legolas in piena forma action anni ottanta, così come ad un finale in bilico tra malinconia e ricordo dell'ineguagliabile precedente trilogia.
Ma non basta una mezzora di fuoco a ribaltare le sorti di quello che è senza dubbio il capitolo meno soddisfacente dell'intero affresco tolkeniano di Jackson, un'opera che resta valida ed ottima per l'intrattenimento ma che, di fatto, continuerà a rappresentare il rimpianto di qualcosa rimasto di traverso al pubblico come ai suoi autori, un'entità scomoda, più che un veicolo pronto a trasportare audience e non solo in direzione della magia che solo il Cinema può regalare.
Un plauso va, invece, alla chiusura decisamente decisa e tagliata con l'accetta, pronta a creare un legame con il principio de La compagnia dell'anello, lontana dai "duecento finali" che resero noto il pur riuscitissimo Il ritorno del re: onestamente, superata una prima parte in grado di mettere a dura prova dopo una giornata di lavoro, ammetto di essermi comunque molto divertito, e di aver goduto quantomeno delle parti migliori di quello che resta un giocattolone ed uno sfizio - forse inutile, va ammesso - per gli amanti di Tolkien e del fantasy, ma anche della settima arte nella sua accezione più legata all'intrattenimento ed all'utilizzo delle nuove tecnologie.
L'importante è che l'avidità, come insegna Thorin, non entri in gioco.
Perchè in quel caso, si continuerà a perdere tutti, inesorabilmente.



MrFord



"I'll give you all I got to give if you say you'll love me too
I may not have a lot to give but what I got I'll give to you
I don't care too much for money, money can't buy me love."
The Beatles - "Can't buy me love" -



venerdì 26 settembre 2014

Red Cliff - La battaglia dei tre regni

Regia: John Woo
Origine: Cina, Hong Kong, Giappone, Taiwan, Corea del Sud
Anno: 2009
Durata: 146' (parte prima) e 142' (parte seconda)




La trama (con parole mie): siamo attorno al duecento dopo Cristo nell'antica Cina, quando il primo ministro Cao Cao, portata a termine con successo la campagna contro i signori della guerra e divenuto più temuto e rispettato dell'Imperatore, decide di manipolare quest'ultimo in modo che gli permetta di innescare un conflitto contro i due principali regni del Sud, retti da Liu Bei e Sun Quan, il primo di umili origini ed avanti con gli anni, il secondo giunto sul trono quasi per caso, giovane e senza esperienza. Quando la sconfitta pare inevitabile per il primo, lo stratega Zhuge Liang comincia a lavorare ad un'alleanza tra i regni del Sud che possa significare non solo salvezza, ma anche speranza di sconfiggere l'invincibile Cao Cao.
Stretta una forte amicizia con Zhou Yu, vicino a Sun Quan e considerato da quest'ultimo come un fratello, Liang sfrutterà tutte le sue conoscenze ed abilità per preparare il terreno ai suoi compagni in modo che gli stessi possano vincere la battaglia decisiva: ma sarà davvero una vittoria? 
E Cao Cao si limiterà a soccombere, o rivelerà la sua natura di vincente?






Ricordo ancora quando vidi per la prima volta la versione cinematografica di Red Cliff, forse l'opera più ambiziosa, costosa e tecnicamente incredibile di John Woo, Maestro indiscusso del Cinema action d'Oriente e non solo: correva l'anno duemilanove, ed attendevo da tempo la trasposizione cinematografica di una delle epopee di guerra più note dellla Storia cinese, che paradossalmente, invece che a scuola - l'Oriente è purtroppo un snobbato ancora oggi - conobbi grazie alle interminabili partite a Dynasty Warriors, videogioco fracassone e di battaglie da ore passate davanti allo schermo grazie alla Playstation 2 di qualche anno fa.
Purtroppo si trattava della versione cinematografica di questo lavoro, ignobilmente tagliata a metà - in tutti i sensi - e così distribuita in tutto il mondo - per una volta, dunque, non fu colpa solo dei nostri distributori -: il risultato, quindi, fu una sorta di mezza delusione, anche perchè la complessità della trama, la varietà ed il numero dei personaggi nonchè la coesione del plot subirono dei pesanti condizionamenti di un montaggio assolutamente da macellai - destino che accomuna quest'opera enorme ad uno dei grandi Capolavori del Cinema tutto, I sette samurai, che ai tempi fu presentato a Venezia vincendo il Leone d'argento con la metà del minutaggio effettivo, portando lo stesso Kurosawa a dichiarare che la Giuria aveva visto, in realtà, solo tre samurai e mezzo -.
Fortunatamente, con l'uscita per home video è giunta anche dalle nostre parti la versione integrale di quello che è, forse, l'affresco più potente che l'autore di filmoni come The killer abbia mai prodotto in carriera: ed il risultato della visione è decisamente differente.
Red cliff, infatti, gustato nella sua interezza, rappresenta, di fatto, l'equivalente epico ed emozionante di quello che fu, da queste parti, Il ritorno del re, ovvero una grande fiera di emozioni e sentimenti da blockbuster orchestrati con mezzi e tecnica da fantascienza, filtrati però attraverso una sensibilità ed una profondità di temi da pellicola d'autore: per quanto, infatti, si tratti di fatto di un film che racconta una delle epopee belliche più note della sua terra - e quella che, di fatto, è l'Iliade cinese -, La battaglia dei tre regni è un accorato atto d'accusa contro la guerra come concetto, portato avanti principalmente dai personaggi dello stratega Liang - un ottimo Takeshi Kaneshiro - e da Zhou Yu - il mitico e decisamente fordiano Tony Leung - e la sua compagna, charachters dai molteplici interessi messi al servizio del conflitto ma dallo stesso clamorosamente lontani - la musica, la conoscenza del territorio, il rispetto della Natura, la cura della forma come della sostanza - e reso ancora più intenso da passaggi quasi bucolici - i generali di Liu Bei intenti ad insegnare ai bambini o ad intrecciare ciabatte di corda, gli intermezzi ironici legati alla figura di Sun Shangxiang ed il suo rapporto con gli uomini - ed altri profondamente commoventi e drammatici - il confronto nel finale tra la stessa Sun ed il giovane conosciuto durante il suo periodo da infiltrata tra le fila dell'esercito di Cao Cao -, concluso con il monito di Zhou Yu e con quel "nessuno ha vinto, oggi" che pare un macigno sul cuore.
Eppure, nonostante lo spirito profondamente antimilitarista che sostiene questa pellicola - sottolineato dalle continue dichiarazione degli alleati del Sud rispetto ad un futuro che potrebbe vederli, invece, avversari - Woo riesce al contempo a mostrare anche i lati più eroici ed onorevoli del combattimento, attraverso figure come i generali di Liu Bei o di Gan Xing, alimentando il coinvolgimento del pubblico - per quanto possa suonare cinico, infatti, difficilmente a smuoverci sono la tranquillità e la pace, ma la lotta ed il ribollire delle passioni -: Red Cliff, dunque, rappresenta in qualche modo lo Yin e lo Yang dell'Uomo, le sue contraddizioni, i suoi lati profondamente malvagi e quelli assolutamente eroici, le bassezze e i colpi d'ala che tutti noi che calpestiamo questa terra viviamo e facciamo vivere da millenni.
Proprio per questo, prima ancora che per i prodigi tecnici - pazzesca la battaglia della testuggine - e la meraviglia visiva, la capacità di avvincere e di narrare una storia lontana secoli e migliaia di chilometri da noi, Red Cliff è indiscutibilmente un titolo destinato a restare nel cuore e negli occhi di chiunque troverà il tempo e la voglia di approcciare il suo intero affresco: non lasciatevi spaventare, dunque, dalla durata, dai nomi o dalle diversità culturali.
Poco importa che sia il wuxia o qualche effetto mirabolante, a raccontare la passionalità umana ed i suoi eccessi: l'importante è che sia raccontata e trasmessa.
Ed è questo che riesce così bene a questa meraviglia.



MrFord



"Dark is the light,
the man you fight,
with all your prayers, incantations,
running away, a trivial day,
of judgement and deliverance,
to whom was sold, this bounty soul,
a gentile or a priest?"
System of a down - "War?" -




martedì 11 febbraio 2014

Hercules - La leggenda ha inizio

Regia: Renny Harlin
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 99'




La trama (con parole mie): Boyka, ormai dominatore incontrastato di tutta la Grecia e non solo, sfida e sconfigge un re dopo l'altro quasi annoiato per le poche difficoltà che gli si presentano. Quando la moglie riceve un'offerta che non può rifiutare da Zeus in persona e concepisce Hercules, che in realtà è un vampiro del clan dei Cullen, il re si infuria e finisce per ostacolare la vita del "suo" secondogenito in favore del sangue del suo sangue, il piuttosto codardo ed infido Ificle.
Mandato Hercules il vampiro a morire in un'imboscata spalla a spalla con Spartacus, Boyka si sente le spalle coperte: peccato che, quando si sottovalutano due eroi per antonomasia come loro, i nodi finiscono per venire presto al pettine, e nel giro di quattro lune l'insolita coppia di ribelli riesce non soltanto a scampare all'agguato letale, ma a fare carriera nel giro gladiatorio, tornare in Grecia ed organizzare un vero e proprio esercito per affrontare il re.





Fin da quando sono fortunatamente riuscito ad uscire dal pericolosissimo tunnel del radicalchicchismo cinematografico che colpisce, di solito, tutti gli aspiranti cinefili alle prime armi, i film clamorosamente trash ed altrettanto clamorosamente tamarri sono diventati uno dei guilty pleasures cui più difficilmente riesco a rinunciare, specie nei giorni in cui la stanchezza prende il sopravvento e la voglia di affrontare visioni impegnate ed impegnative latita.
Ho approcciato questo Hercules - La leggenda ha inizio con più di una perplessità, convinto principalmente da Julez - che pensava si trattasse dell'imminente Hercules: the Thracian Wars con protagonista The Rock, programmato per passare sugli schermi la prossima estate - poi addormentatasi attorno al trentesimo minuto, ed ho finito per godermi selvaggiamente uno dei titoli più terribili ed involontariamente divertenti passati al Saloon dai tempi dell'indimenticabile Sharknado.
Del resto, non avrei dovuto sottovalutare il veterano del trash dietro la macchina da presa Renny Harlin, già autore di chicche assolute come Cliffhanger, Driven, The covenant e Nightmare 4, così come un cast che, tolto l'assolutamente inespressivo Kellan Lutz - che le fan di Twilight ricorderanno piuttosto bene, dato che era l'unico ad apparire umanamente simpatico tra le fila del frigido clan Cullen - vede tra i protagonisti il vero erede di Van Damme - se solo lo sfruttassero un pò di più per qualche sano film di botte - Scott Adkins, il sempre presente, fordiano e mitico Rade Serbedzjia - che è passato da Kubrick a The Snatch, senza dimenticare Io sono Li e robaccia come questa, giusto per mostrare la sua anima vagabonda - nonchè l'indimenticato Spartacus Liam McEntyre, trovatosi anche in questo caso a recitare la parte del ribelle.
E devo ammetterlo: ho voluto bene, in qualche modo, a Hercules - La leggenda ha inizio.
Perchè se è vero che si sta parlando di un'assoluta vergogna cinematografica che pare la versione di serie b di un cocktail che mescola Braveheart, Il gladiatore e 300, che il mito di Eracle appare più semplificato e tagliato con l'accetta che nella serie che vide protagonista Kevin Sorbo all'inizio degli anni novanta, che le scene d'azione - pezzi forti di titoli non particolarmente "alti" come questo - sono girate ad uso e consumo del tanto odiato 3D e che negli States - e non solo - pare sia stato un floppone da record al botteghino - che esclude quasi categoricamente un ipotetico sequel -, il lavoro del buon Renny è onesto e senza davvero alcuna pretesa se non il becero ed ignorantissimo intrattenimento di grana grossa.
Niente a che vedere con Troy, dunque, tanto per citare un film che ho detestato con tutte le forze, pronto a riscrivere l'epica e la mitologia come se fossero robetta al servizio di una discutibile operazione commerciale, quanto più una cosa equiparabile al kebab o al panino con la salamella preso nel pieno della notte per esorcizzare i demoni della sbornia lungo la strada del ritorno a casa: una piacevole scoperta per questo vecchio cowboy, che di tanto in tanto sente davvero il bisogno di lasciare che sia solo la pancia - per non dire altro - a parlare, e che i bisogni primari ed i bassi istinti escano fuori a prendere una sana boccata d'aria.
Del resto, appena svegli o dopo un allenamento, di ritorno dal lavoro o a seguito di una prepotente mangiata, un giro in bagno risulta per essere un piacere che forse in molti giudicheranno più consono tenere sotterraneo - per l'appunto - ma senza dubbio godurioso: Hercules - La leggenda ha inizio è proprio così.
Un'onesta, consistente, rumorosa cagata.
Di quelle, però, capaci di farti tornare nel mondo con un'espressione più felice stampata in volto.



MrFord



"Cause I'm strong enough to live without you
strong enough and I quit crying
long enough, now I'm strong enough
to know you gotta go
there's no more to say
so save your breath and walk away
no matter what I hear you say
I'm strong enough to know you gotta go."
Cher - "Strong enough" - 



sabato 21 dicembre 2013

Lo Hobbit - La desolazione di Smaug

Regia: Peter Jackson
Origine: USA, Nuova Zelanda
Anno: 2013
Durata: 161'




La trama (con parole mie): le peripezie di Bilbo Baggins e la compagnia guidata da Thorin Scudo di quercia proseguono attraverso le terre selvagge mentre nell'ombra il potere di Sauron monta spingendo sempre più per un ritorno del Signore Oscuro ed una nuova guerra.
Tallonati dagli orchi guidati da Azog, gli improvvisati avventurieri guidati da Gandalf il grigio giungono ai confini dei territori degli elfi delle foreste, più refrattari al contatto e governati da Thranduil, padre di Legolas: quando lo stregone si separerà da loro per indagare sul ritorno delle forze del male, i piccoli uomini dovranno dare fondo a tutte le loro forze per poter raggiungere Erebor superando insidie e lavorando duramente per mantenere alleanze decisamente instabili, affinchè la missione che si sono prefissati trovi la sua naturale conclusione nell'incontro tra Bilbo ed il drago Smaug, responsabile della rovina dei loro destini.
Riuscirà Bilbo a resistere agli impulsi dell'anello e sopravvivere al confronto con un essere leggendario, crudele e letale?





Passano gli anni, e la mia stima per il lavoro straordinario svolto da Peter Jackson rispetto al mondo tolkeniano de Il signore degli anelli - del quale non sono mai stato un fan letterario, lo ammetto - continua inesorabilmente ad aumentare, parallelamente al divertimento che l'autore neozelandese riesce a garantire con ogni suo lavoro, centrando il bersaglio dell'intrattenimento d'autore con una facilità estrema, a prescindere dai fotogrammi al secondo e dagli effetti speciali - sempre incredibili -, riportando di fatto in sala l'emozione che solo negli anni ottanta si aveva la possibilità di vivere attraverso un'incredibile avventura fatta di pellicola.
Già lo scorso anno, con Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato, Jackson era riuscito a lasciare a bocca aperta il sottoscritto confezionando una piccola perla di nostalgia, emozione e meraviglia, e nonostante - come fu, del resto, anche per Il signore degli anelli - con questo secondo capitolo si paghi, di fatto, la sensazione di trovarsi di fronte ad un unica, grande, sequenza di raccordo - pur se ottimamente realizzata - il risultato è una vera goduria per gli occhi, la testa ed il cuore, un viaggio senza respiro, piacevolmente imperfetto e divertente in grado di far passare in un lampo quasi tre ore, costruito prendendosi tutto il tempo necessario per chiudere lasciando di fatto deflagrare - in tutti i sensi - un climax da season finale di serie tv, nel pieno rispetto del meccanismo del "fiato sospeso" che i fan delle trilogie di vecchia data ricorderanno dai tempi de L'impero colpisce ancora.
E proprio a Star Wars si lega sempre più l'ex sovrappeso Jackson, che con il binomio Il signore degli anelli/Lo hobbit ha di fatto definito una volta per tutte il suo ruolo di George Lucas della settima arte contemporanea, in termini di impatto, qualità e trilogie, per l'appunto.
La cosa curiosa, di questo La desolazione di Smaug, è che si potrebbe parlare del confronto - con ovvie e sacrosante variazioni, in termini di esigenze di spettacolo - e delle variazioni rispetto all'opera letteraria originale, del comparto tecnico come sempre pazzesco, di Orlando Bloom ed Evangeline Lilly clamorosamente invecchiati - pur se truccati in modo da apparire come gli eternamente giovani elfi -, del già citato crescendo che chiude la pellicola lasciando a bocca aperta e completamente sconcertata l'audience, eppure la chiave è tutta ed assolutamente proprio nel drago che battezza l'opera: la creatura appena accennata nel primo capitolo diviene qui una presenza potente e carismatica, resa alla grande da un'animazione che la rende praticamente viva e perfetta interprete del Male rappresentato dall'anello, progressivamente sempre più importante - da qualsiasi punto di vista lo si guardi - per Bilbo, veicolo attraverso il quale si materializzano paure e sconforto di nani ed umani - dunque l'elemento drammatico della storia -, il sopraggiungere di Sauron e, non ultimo in termini d'importanza, lo straordinario lavoro al limite del comico realizzato da Martin Freeman con la sua interpretazione perfettamente hobbit, già cult per quanto riguarda i minuti iniziali del confronto con l'immenso essere sputafuoco.
Il coraggio dei mezzuomini tanto decantato nel corso dei tre film de Il signore degli anelli e ripreso in questa nuova trilogia assume, grazie a Bilbo, una dimensione più sfaccettata e complessa, che trova nell'interesse manifestato da Smaug la conferma di quanto possa provare lo stesso pubblico: senza dubbio la materia originale prevede un approccio meno epico e decisamente più fiabesco, eppure non mancano sentimenti, ombre, charachters per nulla positivi divenuti tali quasi più per dovere, che per indole.
E poi, l'anello.
I suoi semi ed il suo potere sono tutti qui, e più che nel primo confronto tra Gandalf e gli eserciti di Sauron si trovano nell'accettazione della sua presenza da parte degli elfi "neutrali" e pronti a difendere solo loro stessi così come nello stesso Smaug, così potente eppure così solo, distruttore eppure esiliato in un eremo d'oro che lui stesso ha creato.
Non svegliare il can che dorme, recita un vecchio detto.
Ma non è detto che il drago - ed il Male - abbiano bisogno di essere destati.
In fondo albergano già ampiamente dentro di noi.
Piccoli o grandi uomini.



MrFord



"If this is to end in fire
then we should burn together
watch the flames climb high into the night
calling out for the rope, stand by and we will
watch the flames burn over and oh
the mountains sigh."
Ed Sheeran - "I see fire" - 



domenica 15 dicembre 2013

Free birds - Tacchini in fuga

Regia: Jimmy Hayward
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 91'




La trama (con parole mie): Reggie è un tacchino più intelligente rispetto alla media dei tacchini, e da sempre è uno strenuo detrattore delle feste comandate, in particolare del Giorno del Ringraziamento, noto per i massacri di tacchini i tutto il Paese.
Quando, a causa della preferenza nientemeno che della figlia del Presidente degli States, viene graziato e si trasferisce a Camp David come animale di compagnia della bambina, scopre il piacere della sedentarietà accompagnata da ingenti quantitativi di pizza.
Una notte, però, è rapito da Jake, strambo e forzuto esemplare di tacchino fuggito da una batteria che dice di conoscerlo e di avere una missione da compiere con lui: viaggiare nel tempo, dirigersi nel passato e togliere il tacchino dal menu del Giorno del Ringraziamento prima ancora che lo stesso sia istituito. 
Riusciranno i due pennuti a compiere la loro missione?




Il duemilatredici non passerà certo alla Storia come l'anno dei film d'animazione.
Se si escludono, infatti, il discreto I Croods e l'ottimo Wolf children, sul grande schermo è passato davvero ben poco che possa essere considerato degno di nota negli ultimi dodici mesi, Free birds - Tacchini in fuga compreso: senza dubbio il lavoro del semisconosciuto Jimmy Hayward - che, alle spalle una carriera da animatore, diresse l'agghiacciante Jonah Hex ed il più interessante Ortone nel mondo dei Chi - soddisfa e diverte più del recente ed inutile Planes targato Disney, eppure finisce per rientrare senza troppi sforzi nella categoria delle pellicole facilmente dimenticabili fin dalle prime ore dopo la visione.
Pescando da un immaginario che passa dall'approccio quasi videoludico e fumettoso di Men in black - soprattutto nella prima parte, dedicata alla messa a punto del piano per viaggiare nel tempo ordito dallo strambo tacchino Jake - a quello epico di Avatar - nella seconda metà, incentrata sulla scoperta dei tacchini di quasi quattro secoli or sono e sulla loro battaglia per "l'indipendenza" dagli umani e dal futuro Giorno del Ringraziamento -, l'ora e mezza scarsa scorre via piuttosto velocemente, venendo incontro soprattutto in termini cromatici ai gusti dei più piccoli cercando al contempo di piazzare qualche battuta in grado di tenere viva l'attenzione dei genitori presenti, pagando però il dazio di una scarsa originalità in termini di script ed un'animazione senza dubbio lontana dagli standard pixariani o nipponici - del resto anche il bugdet non è lo stesso messo a disposizione della costola di Mamma Disney -.
Siamo dunque lontani - malgrado l'adattamento italiano avrebbe voluto farlo credere - dall'approccio praticamente autoriale di Galline in fuga o dalle grandi produzioni di genere, ma tutto sommato Reggie e Jake funzionano, così come - almeno per quanto riguarda il sottoscritto - la seconda parte ambientata nel pieno di un setting in stile Balla coi lupi in grado di solleticare corde ben precise della mia sensibilità di spettatore: peccato per una fase centrale noiosetta ed una mancanza di carattere di fondo che rende difficile considerare Free birds come un titolo davvero degno di nota o per il quale possano sembrare ben spesi i soldi per la benzina, il biglietto del Cinema, popcorn e bibita e lo stress di un pomeriggio da baby sitter magari anche degli amichetti dei propri figli.
Da parte mia, ho semplicemente lasciato scorrere le immagini accompagnando un pomeriggio di gioco sul tappeto con il Fordino, che di tanto in tanto si è lasciato andare a qualche grido all'indirizzo di quel buffo pennuto blu che compariva con il suo faccione nel pieno della potenza del tv al plasma - o almeno la potenza che permette una qualità video non proprio eccelsa - rimpiangendo non poco le stagioni che videro passare sul grande schermo proposte decisamente autoriali - Valzer con Bashir, Persepolis - o pietre miliari in grado di aprire gli occhi al grande pubblico rispetto al dato di fatto che non si trattava di semplici "cartoni animati", come troppo spesso i distributori italiani tendono a considerarli, ma di opere fatte e finite in grado di battersi ad armi pari con i film di fiction interpretati da attori - si vedano La città incantata o il già citato Wolf children -.
In tempi di crisi come questo, del resto, ci siamo abituati quasi senza farci più caso a tirare la cinghia: non sarà dunque difficile archiviare lavori trascurabili come Free birds con un sorriso accondiscendente e sperare per il meglio, in attesa che il futuro cambi le carte in tavola per quanto riguarda l'animazione - e non solo -.



MrFord



"Ohohohohohhhhh
and the bird you cannot change
and this bird you cannot change
lord knows I can't change
lord help me I can't change
lord I can't change,
won't you fly high, Free Bird, yeah."
Lynyrd Skynyrd - "Free bird" - 



lunedì 25 novembre 2013

Thor - The dark world

Regia: Alan Taylor, James Gunn
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 112'




La trama (con parole mie): archiviati i fatti legati all'invasione aliena di New York, Thor si sta occupando di ripristinare l'ordine e la pace nei nove regni che Odino, dal trono di Asgard, si impegna ad amministrare come sovrano. Nel frattempo, dall'ombra, sorge la minaccia degli elfi oscuri guidati da Malekith, che da millenni attendono di rimettere le mani su un potentissimo artefatto che potrebbe mettere a rischio la vita dell'intero universo conosciuto.
Nel frattempo Loki, imprigionato nelle segrete di Asgard, si troverà ad allearsi con l'odiato fratello per fare fronte alla comune minaccia ed avere la possibilità di vendicarsi non soltanto dei nemici di Asgard, ma anche di Asgard stessa, proprio mentre Thor sarà troppo impegnato a ricostruire il rapporto con Jane Foster.






Occorre ammettere, senza dubbio alcuno, quanto ormai Mamma Marvel comprenda la portata dei suoi poteri e delle sue responsabilità - per sfruttare il motto di uno dei suoi eroi più famosi ed amati - quando si tratta di portare sul grande schermo le gesta dei personaggi che hanno fatto la sua fortuna: negli ultimi anni, grazie anche al complesso mosaico del progetto che ruota attorno agli Avengers, la qualità delle proposte dell'editore di fumetti più importante del mondo si è notevolmente alzata, gestendo alla grande l'unione delle tre componenti più importanti di questo tipo di prodotto: spettacolarità, azione ed ironia.
E' proprio quest'ultima, malgrado nel corso della visione si incappi in almeno due momenti drammatici, l'ingrediente più importante di Thor - The dark world, secondo capitolo delle avventure del Dio del tuono che diverte ed intrattiene il pubblico a prescindere dall'età dello stesso e riesce a migliorare il risultato portato a casa dal già discreto prodotto firmato Kenneth Branagh: mescolando scenari che paiono pescare a piene mani da Star Wars e Il signore degli anelli, Taylor e Gunn portano il Dio del tuono ad una dimensione più simile a quella dei film d'avventura anni ottanta fatta di battute pronte a stemperare anche i momenti più bui delle vicende narrate, sviluppando parallelamente a sequenze a dir poco esilaranti - l'arrivo di Thor sulla Terra e l'incontro con Eric Selvig, astrofisico che aveva incrociato il cammino dell'eroe già nel primo capitolo e comparso anche nel già citato The Avengers - tematiche decisamente profonde come quella del rapporto tra fratelli, sfruttato alla grande per approfondire le figure di Thor stesso e di Loki, gettare le fondamenta per un eventuale terzo capitolo - davvero niente male la prima delle due "code" al finale - e presentare i due nella veste di insoliti alleati, sfruttando la loro fuga da Asgard per regalare all'audience il pezzo migliore - tecnicamente parlando - della pellicola, un ottimo crescendo costruito sul montaggio alternato e le narrazioni su piani temporali separati che pare uscita da un classico heist movie più che da una pellicola di supereroi.
Un risultato, dunque, sorprendentemente positivo che fa ben sperare sia nella realizzazione de I Guardiani della galassia - in uscita la prossima estate ed anticipato dalla seconda "coda" della conclusione, con un Benicio Del Toro più che gigioneggiante nel ruolo del Collezionista - che sarà a sua volta il traino per The Avengers 2, senza contare Capitan America: soldato d'inverno, pronto ad accogliere tutti i fan delle creature di Stan Lee tra qualche mese - un Cap con valori annessi e connessi sbeffeggiato clamorosamente da Loki proprio in uno dei primi passaggi della succitata fuga da Asgard -.
Certo, tutto appare fin troppo lineare, e Malekith con il suo sgherro Kurse avrebbero potuto essere resi decisamente più carismatici, ma siamo pur sempre dalle parti dei giocattoloni ad uso e consumo dei bambini grandi e piccoli pronti ad esaltarsi in sala assaporando tutta la magia del grande schermo: in fondo, per i più esigenti, si può sempre contare su un più che convincente Tom Hiddleston, ormai sempre più calato nel ruolo di Loki, uno dei villains più sfaccettati ed interessanti dell'Universo Marvel, non a caso ormai co-protagonista quasi fisso dell'universo degli Avengers cinematografici.
E se i risultati continueranno ad essere questi, allora ben venga un futuro (?) regno del Dio dell'inganno.
Qui al Saloon saremo tutti dalla sua parte.


MrFord


"Angel girl
in a cold dark world
I'm gonna be your man
angel girl
in a cold dark world
I'll make you understand."

Weezer - "Cold dark world" -




mercoledì 5 giugno 2013

Epic - Il mondo segreto

Regia: Chris Wedge
Origine: USA
Anno: 2013
Durata:
102'




La trama (con parole mie): M. K., una diciassettenne da poco rimasta orfana di madre, si ritrova a vivere con un padre perso da sempre in una ricerca scientifica che lo trova convinto dell'esistenza di una razza di piccoli esseri nascosti nella foresta cui abita accanto.
Sconvolta dalla recente perdita e dall'incapacità del genitore di rapportarsi a lei come vorrebbe, la ragazza decide di abbandonare la speranza di poter costruire un rapporto con il suddetto e partire: una casualità, però, la conduce nel luogo in cui la regina del piccolo - e realmente esistente - popolo sta per morire, consegnando proprio a lei il destino di un baccello che potrebbe significare il destino della foresta stessa.
Rimpicciolita e alla scoperta di un nuovo mondo, M. K. troverà il tempo per rivalutare non solo la ricerca del padre, ma anche una sorta di nuova famiglia prima di salvare il salvabile e tornare alla sua vita di tutti i giorni.




Ricordo quando, non troppo tempo fa, in occasione di una delle uscite in sala rese possibili dalla disponibilità della Ford-suocera pronta ad accudire il Fordino per un paio d'ore, mi capitò di incrociare il trailer di Epic, ultima fatica di Chris Wedge, creatore del fortunatissimo - anche se spompato già dal secondo capitolo - franchise de L'era glaciale.
Il risultato fu un'espressione di disgusto dipintasi in stereo sui volti del sottoscritto e di Julez, convinti entrambi di trovarsi di fronte all'ennesima schifezza d'animazione buona giusto per l'incasso al botteghino che di recente pare sia diventata un'alternativa profondamente ben voluta dai distributori, consci del fatto che gli spettatori occasionali - specie se famiglie - nei weekend da trionfo dei multisala finiscono per vivere praticamente di prodotti usa e getta di questo genere.
Fortunatamente, il buon Chris è riuscito nella non facile impresa di ribaltare almeno in parte le aspettative riuscendo a farmi dimenticare la delusione enorme che fu Robots, presentando un film d'avventura nella sua accezione più classica scomodando addirittura l'approccio hollywoodiano da emozioni forti e commozione stuzzicata che di recente - pur se, ovviamente, con un impatto decisamente maggiore - ha reso Avatar uno dei titoli più discussi ed importanti della settima arte e del concetto di blockbuster globale.
Forte dell'influenza di titoli clamorosamente eighties ed ingenui come Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi e degli spunti legati ai film di formazione e al rapporto tra genitori e figli - Ronin e Nod così come M. K. e suo padre - Wedge confeziona un prodotto d'intrattenimento scorrevole e per nulla irritante, per una volta sminuito da un trailer che pareva la solita compilation di gag inutili che da qualche anno a questa parte troppo spesso finiscono per essere la ben poco solida spina dorsale delle proposte made in USA di Cinema d'animazione che non sia firmato Pixar: proprio questa componente, costituita dalle due lumache a guarda del baccello indicato dalla morente regina come fulcro di un nuovo regno a protezione della foresta e dal "saggio" consigliere della stessa rappresenta il punto debole effettivo del prodotto, che finisce per acquisire uno spessore decisamente più consistente sia nella sua componente action - le battaglie così come le sequenze "a volo di colibrì" create ad uso e consumo del 3D - che in quella sentimentale, dall'elemento legato a doppio filo al superamento del dolore dei due protagonisti - M. K. ha perso la madre, Nod il padre - alla presa di coscienza di se stessi e del proprio percorso, reso decisamente più credibile da un finale ovviamente lieto ma non eccessivamente zuccheroso - parlo della storia tra i due ragazzi, gestita in modo equilibrato e non eccessivamente ruffiano -.
Dunque, e clamorosamente a sorpresa, devo ammettere di essermi gustato Epic quanto e più di quello che mi sarei aspettato, pensando che, un giorno o l'altro, un titolo di questo genere sarà in grado di intrattenere lasciando un insegnamento - nella migliore tradizione dei cartoni animati classici, soprattutto Disney - rispetto al Fordino, che spero di tenere lontano dalle proposte ipnotizzatrici di bambini a suon di colori e movimenti di macchina roboanti ma prive dello spessore - almeno minimo - necessario affinchè al termine della visione si possa considerare di parlare di quello che si è appena visto invece di sperare che il piccolo - o i piccoli - possano dimenticarlo in fretta.
Unica, vera, grande nota negativa l'agghiacciante doppiaggio italiano, che da Lillo e Greg a Maria Grazia Cucinotta - Maria Grazia Cucinotta, santi numi, una che, come giustamente dice Julez, riesce a malapena a parlare l'italiano, e che qui finisce addirittura a prestare la voce, compresa di pessima dizione, alla regina! - fa vergognare rispetto all'originale, che vede all'interno del cast nomi illusti come quelli di Colin Farrell, Amanda Seyfried e Christoph Waltz, senza contare ospiti del calibro di Steve Tyler, Beyoncè ed il tamarrissimo Pitbull - anche se quest'ultimo non dovrebbe poi essere chissà quale motivo di vanto -.
Senza dubbio, comunque, una proposta insospettabilmente valida ed in grado di andare incontro al pubblico più e meno giovane incontrando in qualche modo i gusti di entrambi, che pur non presentandosi certo come un riferimento del genere riesce nell'intento di regalare un momento di magica coesione tra genitori e figli, proprio come accadeva ai tempi d'oro che furono gli eighties già citati.
E per qualcosa che, dal trailer, avrei destinato al cestino senza pensarci due volte, direi che è davvero un risultato niente male.


MrFord


"You opened the door,
I let myself in.
Between you and me,
I only believe
what I want to believe.
I guess it's because I'm
greener than green.
Only because I'm green."
Dandy Warhols - "Green" - 


giovedì 11 aprile 2013

Alessandro il grande

Autore: Georges Radet
Origine: Francia
Anno: 1931
Editore: BUR




La trama (con parole mie): la vita di uno dei più grandi conquistatori dell'antichità - se non il più grande - raccontata attraverso le parole degli storici che per primi narrarono le sue gesta e le ricerche svolte sulla sua figura nel corso dei secoli.
Dall'infanzia a Pella all'influenza di Filippo ed Olimpiade, dall'educazione ricevuta da Aristotele all'ascesa al trono, dalla sfida all'impero persiano alla conquista del mondo, la leggendaria epopea del giovane sovrano, in bilico tra realtà e leggenda, mito e coscienza politica, una visione moderna e cosmopolita ed eccessi d'ira e passione degni del più dissoluto tra gli uomini.
Amato o odiato, illuminato o despota, un personaggio destinato a cambiare il destino del mondo ed essere ricordato come uno dei più temerari esploratori dell'esistenza mai vissuti.





Spinto dalla nascita del Fordino, di recente ho riscoperto il mio antico interesse per una delle figure che considero più importanti della Storia antica, Alessandro Magno.
Così, dopo aver rispolverato il film di Oliver Stone, mi sono lanciato su uno dei due testi che da troppi anni sonnecchiavano nella libreria di casa Ford venendo sfogliati soltanto con il pensiero: il rapporto con il lavoro di Radet - studioso dalla fama indubbia -, primo dei suddetti, si è rivelato in realtà molto più complicato di quanto potessi credere, scoprendosi almeno parzialmente una delusione.
Se, infatti, dal punto di vista della ricostruzione degli eventi che portarono il giovane sovrano cresciuto a Pella a dare inizio ad una delle imprese più incredibili della Storia ed al suo tentativo di conquista - ed unione sotto un'unica guida - del mondo allora conosciuto e del recupero di materiale proveniente dagli scritti che molti storiografi di allora dedicarono proprio al figlio di Filippo il macedone non si può certo rimanere delusi dalla lettura, l'approccio di Radet - fazioso al limite del sopportabile, neanche si trattasse di uno degli attendenti del buon Alessandro - appare pomposo ed estremamente pesante, ed il linguaggio decisamente datato - parliamo di un testo del 1931, del resto - non aiuta a rendere fluido lo scorrere dei capitoli.
Questo aspetto, tuttavia, non riesce a togliere fascino ad alcuni episodi dell'epopea del conquistatore macedone come l'arrivo a Babilonia, il confronto con l'oracolo di Ammone, la spedizione in India ed il periplo di Nearco, uno dei fedelissimi tra i suoi comandanti che il sovrano inviò in una spedizione che prevedeva la circumnavigazione del continente indiano risalendo verso la penisola arabica: immaginare quello che sono state città e società ormai sepolte, infatti, permette di provare un brivido addirittura superiore rispetto a quello che potrebbe offrire il grande schermo, senza contare che, obiettivamente, il grande viaggio del cosiddetto "nuovo Achille" fu qualcosa di talmente straordinario da eclissare le più recenti imprese dei grandi esploratori di terra e di mare, ed ispirarle almeno quanto fece con quelle di altri illustri condottieri come Giulio Cesare o Napoleone.
Per gli appassionati della figura del re che unì - o almeno, tentò di farlo - Oriente ed Occidente sotto un unica, grande bandiera portando avanti idee cosmopolite ed avveniristiche - come i matrimoni misti tra i suoi generali e le donne provenienti dai Paesi conquistati, o la formazione di giovani non ellenici in modo da poter contare su una nuova generazione ed un continuo ricambio per l'esercito, o la fusione dei culti religiosi - risulterà comunque un'interessante digressione sulla complessità di quello che fu il suo disegno globale.
Certo non si tratta di una lettura da pendolarismo facile e scorrimento veloce, e rispetto ad un romanzo - o ad una biografia resa allo stesso modo - apparirà in più di un'occasione paurosamente simile ad un testo scolastico da bombardamento di date e nomi fino alla perdizione, senza lasciare da parte riferimenti geografici o mitologici: tutte cose estremamente interessanti, ma che decisamente poco si prestano alla narrazione, e che fanno di Radet un esempio di professore esimio durante le lezioni del quale nove studenti su dieci finiscono per schiacciare un sonoro pisolino aprendo gli occhi di tanto in tanto giusto per buttare l'occhio all'ora, sognando nel frattempo l'incredibile avventura di questo indimenticabile protagonista della Storia in un modo certamente più avvincente.


MrFord


"And I want to conquer the world,
give all the idiots a brand new religion,
put an end to poverty, uncleanliness and toil,
promote equality in all my decisions
with a quick wink of the eye.

And a "God you must be joking!"
Bad religion - "I want to conquer the world" -





martedì 9 aprile 2013

Alexander

Regia: Oliver Stone
Origine: USA
Anno: 2004
Durata:
175'




La trama (con parole mie): formato da un'educazione seguita da Aristotele e dall'incontro tra la cultura sanguigna e violenta del padre Filippo e quella cospiratrice e mistica della madre Olimpiade, Alessandro fu uno dei più grandi conquistatori della Storia.
Unificata la Grecia sotto il suo comando, partì per un'impresa al limite dell'impossibile più di trecento anni prima di Cristo: sconfiggere l'immenso impero persiano e spingersi oltre ogni confine, giungendo ai limiti del mondo conosciuto per trovarsi alla testa di un regno talmente vasto da intimidire perfino gli Dei che l'avrebbero benedetto.
Il viaggio, le battaglie, la vita e la morte di uno dei più grandi geni militari e politici di tutti i tempi specchiate attraverso la sua lotta più dura: quella con se stesso.





Ammetto, forse, di essere di parte, quando parlo di qualcosa che riguarda Alessandro Magno, uno dei miei personaggi storici favoriti di tutti i tempi: il giovane conquistatore macedone, con le sue imprese ed il coraggio, l'ego di dimensioni divine e gli squilibri passionali dei più scombinati degli uomini è da anni una delle mie "fisse", tanto da essere almeno parzialmente responsabile del fatto che uno dei due nomi del Fordino sia proprio Alessandro.
Il film di Stone, che ai tempi attendevo con un hype pazzesco, massacrato spesso e volentieri dalla critica e sicuramente traboccante di difetti è e resta, infatti, uno dei miei guilty pleasures nell'ambito del Cinema epico - che, comunque, finisce sempre per conquistarmi, da Braveheart a Il gladiatore, passando per Il signore degli anelli -, e non ho contato una sua visione senza che l'emozione mi abbia travolto in un crescendo che bilancia la decisamente poco interessante prima parte con una seconda visivamente splendida ed emotivamente larger than life, legata al progressivo allontanarsi di Alessandro dai concetti ellenici che l'avevano formato per una visione cosmopolita ed avveniristica del mondo, nonchè al desiderio sempre più impellente del sovrano di continuare a trovare confini da valicare, in un'eterna lotta con la Terra e le sue Colonne d'Ercole, se stesso e gli dei che avevano creato entrambi.
Proprio il delirio di conquista del giovane guerriero alimenta ad ogni visione la capacità del sottoscritto di andare oltre le parti dedicate alla sua giovinezza - abbozzate e quasi televisive - e alla Grecia per concentrarsi sul grande viaggio che condusse il suo "regno in movimento" da Babilonia fino alle pendici dell'Himalaya, e poi a Sud, nel cuore dell'India, inseguendo un sogno che molti dei luogotenenti dell'irrequieto monarca giudicavano folle ed incomprensibile: probabilmente lo stesso Stone ha subito la fascinazione del processo di "imbarbarimento" di Alessandro, partendo da una messa in scena nitida e dai colori pastello ad una filtrata da un velo rosso come il sangue e la passione, che finisce per tingere la splendida battaglia che vede l'ormai stremato - nella mente, oltre che nel corpo - esercito macedone opporsi agli elefanti guidati dai misteriosi sovrani delle tribù della Valle dell'Indo, un mondo che, ai tempi, era l'equivalente di un pianeta remoto da piena fantascienza oggi.
La realizzazione di un progetto indubbiamente enorme, dunque, vive una sorta di doppia natura - e risultato - raccordata dalla narrazione esterna di un invecchiato Tolomeo, tra i luogotenenti più fidati di Alessandro che si divisero il regno alla sua morte, avvenuta a Babilonia, quando il grande condottiero, appena trentatreenne, progettava una nuova campagna che avrebbe condotto i suoi eserciti in Arabia, di nuovo alla ricerca di limiti del mondo da valicare: in questo senso il regista è senza dubbio stato in grado di inquadrare alla grande il carattere votato alla grandiosità di Alessandro Magno, pronto a sacrificare tutto - dalla sua vita a quella dei suoi uomini, come nel celebre episodio che lo vide uccidere il fedelissimo Clito, già braccio destro del padre Filippo, in un impeto d'ira - pur di realizzare quello che mai prima d'allora era stato compiuto - e neppure in seguito, oserei dire -, raccogliendo l'eredità dei due più grandi imperi dei tempi e trasformandoli in un'unica realtà di sangue e cultura mescolate in un calderone che, millenni dopo, avrebbe assunto le sembianze di un "melting pot" ai giorni nostri globalizzato.
Forse l'idea di Alessandro è giunta troppo presto, e forse anche Stone ha finito per forzare la mano finendo per trasformare quello che poteva essere il suo Capolavoro in un un abbozzato carrozzone dalle ambizioni assolutamente più alte dell'effettiva loro portata.
Io, comunque, continuo a considerare questo lavoro straordinariamente affascinante anche nelle sue parti meno riuscite, e a preferire alla Grecia patinata della Jolie e di Farrell ossigenato e sbarbato il grande Oriente dei capelli lunghi e zozzi e di una Rosario Dawson di una bellezza straripante.
Forse perchè anche io non ho mai amato i confini, o forse perchè dentro posso capire il desiderio che animava i folli sogni di questo personaggio così oltre: il vecchio Tolomeo di Hopkins afferma che Alessandro è stato il più grande, anche negli errori, essi stessi in grado di superare i successi più incredibili di chi gli stava accanto.
Oliver Stone ha commesso parecchi errori, realizzando questo film.
Ma ha centrato lo spirito del suo indiscusso ed indiscutibile protagonista.
E questo insuccesso è senza dubbio preferibile ad una più convenzionale approvazione "accademica".


MrFord


"I'm breaking through
I'm bending spoons
I'm keeping flowers in full bloom
I'm looking for answers from the great beyond."
R. E. M. - "The great beyond" -


domenica 10 marzo 2013

Spartacus

Regia: Stanley Kubrick
Origine: USA
Anno: 1960
Durata: 184'




La trama (con parole mie): il trace Spartacus, schiavo fin dalla nascita, viene venduto a Batiatus allo scopo di diventare un gladiatore. Dopo essere stato addestrato, l'uomo finisce a capo di una ribellione che sconvolge la vita politica di Roma, nel cuore della quale è da tempo accesa la rivalità tra il senatore di origine plebea Gracco ed il patrizio Crasso, che si contendono i favori del giovane Giulio Cesare in ascesa.
La rivolta, partita da Capua, scuote tutta la parte meridionale dell'Italia, e pare non avere rivali fino a quando i pirati Cilici, corrotti dal governo romano, negano l'aiuto promesso ai ribelli, costringendoli a tornare sui loro passi ed affrontare in campo aperto l'esercito della "Caput mundi" al completo.
Tutto finirà nel sangue, con Spartacus crocefisso con i suoi fedelissimi lungo la Via Appia: eppure la sua donna Varinia ed il figlio appena nato conquisteranno l'agognata libertà, e l'esempio fornito da questa lotta varrà per generazioni e generazioni che verranno.





Nella purtroppo non numericamente consistente filmografia di Stanley Kubrick il caso di Spartacus appare quasi come un'eccezione, la mosca bianca del percorso artistico di un regista votato ad un'autorialità sfrenata lontana anni luce da quello che era - e significava - il kolossal dell'epoca d'oro dei grandi Studios.
Frutto di una realizzazione conflittuale che portò all'abbandono del primo regista scelto per il progetto - Anthony Mann, un altro grandissimo - e che conobbe fasi di scontro tra il protagonista e produttore Kirk Douglas e lo sceneggiatore Dalton Trumbo - che proprio grazie a Douglas e Kubrick tornò al lavoro su un grande progetto dopo gli anni di galera e di esilio dal mondo hollywoodiano proprio per la sua fama di dissidente a seguito dell'esplosione del maccartismo -, quello che è senza dubbio il kolossal più autoriale mai realizzato - neppure Ridley Scott e Oliver Stone, con i loro Il gladiatore e Alexander, riuscirono altrettanto bene nell'impresa - rivisto a distanza di anni è riuscito a colpirmi anche più di quanto già non fece quando lo affrontai per la prima volta, quando decisi che non potevo limitare la mia conoscenza di Kubrick ai vertici della sua arte.
La vicenda dello schiavo trace di recente ripresa anche dall'ottima - e decisamente più tamarra - serie televisiva, già di suo estremamente coinvolgente per tutti quelli abituati a confrontarsi con il Potere ed il suo esercizio dalla parte sbagliata della barricata - quella di chi lo subisce, per intenderci - è resa dalla sceneggiatura di Trumbo straordinariamente attuale, ironica e pungente e con molti riferimenti ai drammi personali vissuti dallo scrittore/sceneggiatore, che sfrutta il personaggio di Gracco - un sempre magnifico Charles Laughton, attore di razza e regista del Capolavoro La morte corre sul fiume - per denunciare i disagi che lui stesso dovette vivere nell'esilio che gli costò "l'essere contro" così come nel mostrare i risvolti più drammatici e "scabrosi" del Potere in quella che, allora, era la città - e la civiltà - di riferimento di tutto il mondo conosciuto, Roma - geniale la sequenza del confronto tra il patrizio Crasso, un elegantissimo Laurence Olivier, e lo schiavo Antonino, un giovanissimo Tony Curtis, a proposito delle preferenze sessuali presentate come scelte culinarie, e la questione degli appetiti che la morale non è in grado di saziare -.
Come se tutto questo non bastasse, un cast di prim'ordine per i tempi - oltre agli attori già citati e ovviamente a Kirk Douglas, ricordiamo anche Peter Ustinov, che vinse un Oscar come migliore attore non protagonista nei panni di Batiatus -, una fotografia spettacolare - premiata anch'essa dall'Academy -, i titoli di testa e parte delle coreografie in battaglia realizzate dal geniale Saul Bass ed ovviamente tutta la tecnica di Stanley Kubrick contribuirono - e contribuiscono ancora oggi - a fare di Spartacus la produzione di riferimento del suo genere, superando anche pietre miliari come Ben Hur o I dieci comandamenti.
La lotta di Spartacus e degli schiavi ribelli attraverso l'Italia dei tempi contro un Impero che ancora doveva conoscere il suo inesorabile declino assume contorni epici coinvolgenti dalle sequenze d'introspezione a quelle di battaglia - che influenzarono decine di film successivi, dai Capolavori di Kurosawa Ran e Kagemusha fino al più recente Braveheart -, e nel finale assume contorni struggenti con la resa "all'unisono" degli schiavi tutti autoproclamatisi Spartacus ed il confronto finale tra lo stesso trace e Crasso, incapace di comprendere il potere che il ribelle esercita sulla donna della quale anch'egli ha finito per innamorarsi.
Un'epopea che non sarà forse quello che ci si aspetterebbe da Kubrick - che continuerà anche in seguito a prendere le distanze da questo progetto -, ma che dimostra una volta ancora quanto una mano come quella del Maestro era in grado di fare anche a partire da un genere quasi per definizione blockbusteriano: certo, alle sue spalle hanno avuto fondamentale importanza la determinazione di Douglas quanto la penna di Trumbo, eppure il regista newyorkese non avrebbe avuto assolutamente nulla da rimproverarsi rispetto alla realizzazione di quello che, probabilmente, è uno dei film epici definitivi della Storia del Cinema.
Stanley Kubrick è lo Spartacus della settima arte.
E grazie a lui, lo siamo un pò anche noi.


MrFord


"Tu ti lamenti ma chi ti lamenti
pigghia lu bastuni e tira fora li denti.
E Cristu ci rispunni di la cruci: 
chi forsi su spizzati li to' vrazza
cu voli la giustizia si la fazza
ca tantu nuddu la farà ppi tia."
Domenico Modugno - "Malarazza" -



Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...