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sabato 21 marzo 2015

La rivincita dei nerds

Regia: Jeff Kanew
Origine: USA
Anno: 1984
Durata: 90'





La trama (con parole mie): Lewis e Gilbert sono due nerd appassionati di informatica e computer pronti ad affrontare la loro nuova vita di studenti di college. Illusi di poter trascorrere gli anni che li attendono in tutta tranquillità nella nuova sistemazione, i due ragazzi si troveranno loro malgrado a guidare un gruppo di emarginati come loro per fare fronte alle angherie degli atleti, idoli delle ragazze e protagonisti assoluti del campus, fino a costituire un'associazione che possa rivaleggiare con quella dei rivali ai giochi che potrebbero ridefinire i ruoli all'interno dell'università.
Riusciranno i due imbranati studenti a mettere in difficoltà gli eroi del football giocando sul loro campo? Il mondo del college si rivelerà troppo duro per un gruppo male assortito di losers come quello che si ritrovano a guidare?







Tornando indietro con la memoria ai gloriosi anni ottanta, ricordo di essermi più volte immaginato come sarebbe stata la mia vita se fossi nato negli States e avessi dovuto affrontare la prova del college oltreoceano, con le sue confraternite, le feste e gli spring break, in un mondo che, allora come oggi, pare decisamente lontano anni luce da quello che offre la Terra dei cachi: onestamente, non ricordo come vivessi questa sorta di sogno allora, e senza dubbio l'essere invecchiato dando libero sfogo ai miei lati più selvatici non aiuta a mettere a fuoco la percezione che avevo di questa visione ai tempi in cui ero come il timido protagonista di Noi siamo infinito, ma la sensazione che mi davano le pellicole uscite a cavallo tra gli anni ottanta e novanta non ha mai lasciato davvero il mio cuore di cinefilo, valide oppure no che fossero.
Forse per questo, nonostante il valore decisamente limitato di questo La rivincita dei nerds, non sono proprio riuscito a voler male ad una pellicola pronta a raccogliere il testimone ed omaggiare cult come Animal house e, di fatto, ispirare prodotti completamente diversi per ambito e decisamente più recenti come Monsters University, intrattenendo in tutta tranquillità per la sua breve durata senza presentare pretese particolari, anzi, al contrario esibendo un dna pane e salame che quasi stona se accostato al fatto che la proposta giunge dal mio antagonista nonchè radical chic per antonomasia Cannibal Kid.
Senza dubbio il lavoro di Jeff Kanew - che ricorderò molto più volentieri per Toccato!, sempre con Anthony Edwards come protagonista - è ben lontano dai veri e propri cult di genere e del decennio in questione, eppure scorre liscio ancora oggi per una serata a neuroni spenti da divano, alcool e patatine, utile a rinverdire i fasti di John Belushi ai fan degli ambienti universitari e considerare che, ai tempi, anche i prodotti più scarsi risultavano piacevoli, al contrario di quanto accade oggi.
Personalmente è stato più interessante ricordare - oltre al già citato Edwards - i ruoli successivi di John Goodman - l'indimenticabile Walter de Il grande Lebowski, ma non credo di dovervelo presentare - e di Donald Gibb, che gli appassionati dei film di botte ricorderanno come spalla di Van Damme nel classico di genere Senza esclusione di colpi.
Archiviate queste curiosità, resta giusto il gusto della rivincita che da il titolo alla pellicola e che rappresenta il tema dell'outsider pronto a reclamare il suo spazio che furoreggiò ai tempi grazie a cult ben più importanti di questo titoletto d'intrattenimento come I Goonies, Voglia di vincere o Karate Kid - ma anche lo stesso e già citato Toccato! - ed un gusto per la risata tipico dei tempi, che i ragazzi oggi difficilmente comprenderanno ma che, di fatto, ha segnato almeno due generazioni di spettatori - in peggio o in meglio, solo il futuro lo dirà -.
Se siete dunque in vena di una serata vintage senza troppe pretese, un titolo come La rivincita dei nerds potrà regalarvi comunque qualche soddisfazione, ed avviare una macchina del tempo pronta a scaricarvi nel bel mezzo di una festa da confraternita che ora pare quasi persa nella memoria: certo, non sarà il toga party da bottiglia di Jack scolata al volo dal più noto e leggendario Belushi, ma a volte possiamo accontentarci anche di qualche innocuo rimpiazzo.




MrFord




"I've paid my dues
time after time.
I've done my sentence
but committed no crime.
And bad mistakes ‒
I've made a few.
I've had my share of sand kicked in my face
but I've come through."
The Queen - "We are the champions" - 




domenica 20 aprile 2014

I dischi con cui sono cresciuto

La trama (con parole mie): alle spalle la carrellata dei film che hanno rappresentato la mia crescita ed infanzia, eccoci giunti ai dischi, cronologicamente posti qualche anno dopo eppure altrettanto importanti, specie considerato che, negli anni della mia adolescenza ed appena di seguito, di fatto rappresentarono una realtà anche più d'impatto di quella della settima arte.
Proprio cercando di conservare quello spirito, ecco i dieci dischi della mia formazione in rigoroso ordine di "accadimento" per il sottoscritto.


BRYAN ADAMS - SO FAR, SO GOOD


Il mio primo disco "da adulto", ed il mio primo concerto in assoluto. 
Era la fine del '93 o qualcosa del genere, e al Forum di Assago assistetti alla meraviglia del rock dal vivo. Summer of '69 rimase, per anni, nel mio cuore, e ancora oggi, quando ascolto quell'attacco, ho un tuffo simile a quello che il buon Bryan cantava proprio con quel pezzo.

LIGABUE - BUON COMPLEANNO, ELVIS


Prima che Ligabue cominciasse a fare dischi fotocopia e diventasse l'idolo delle cinquantenni insoddisfatte che si credono rock, fu la colonna sonora della mia prima grande cotta al liceo, legata a doppio filo a Jack Frusciante è uscito dal gruppo e alle fantasie tutte adolescenziali di chi si crede unico e poi scopre che tutti lo sono, pur se in modo diverso. Ricordo il concerto a San Siro, l'estate in cui morì mio nonno. E i primi accordi imparati sulla chitarra. E Vivo, morto o X cantato mentre tornavo da scuola, gridato contro i professori.

GREENDAY - DOOKIE


Più o meno nello stesso periodo, ricordo la gioia della primavera, in barba a tutte le stronzate e le paranoie, ritmata dalla cassetta di Dookie, che da Burnout a Basket case imperversò nel mio walkman dandomi una carica che non avevo mai provato prima. Quella dell'energia che sale, e ancora non si sa davvero bene come sfruttare.

ALANIS MORRISSETTE - JAGGED LITTLE PILL


Se non ci fossero state Viva! e Under the bridge, questo disco avrebbe rappresentato, per intero, la colonna sonora di quella prima, clamorosa, incredibile e mai davvero vissuta cotta del terzo anno. Ironic, canterebbe Alanis. Ironic, penso io ora, che sono quanto di più lontano da quella timidezza si potrebbe pensare.

STING - FIELDS OF GOLD


Così come fu per Bryan Adams, la raccolta di Sting rappresentò l'occasione per esplorare nuovi orizzonti che, qualche anno dopo, mi avrebbero condotto dalle parti del jazz e della fusion, fino ai miei amati Weather Report. Forse un pò troppo adulto rispetto a quando iniziai ad ascoltarlo, Sting fu l'inizio del mio periodo più cupo e di chiusura. Moon over Bourbon Street, in un certo senso.

R.E.M. - OUT OF TIME


L'abisso che si spalancò e portò ai due anni del Ford più stronzo che poteva esistere. Gli anni del "sono meglio degli altri", delle ragazze trattate di merda, delle amicizie tradite. Ma anche quelli che accesero la scintilla che mi portò ad iniziare a scrivere. Tutti qui, in un'altra cassetta letteralmente consumata.

THE OFFSPRING - AMERICANA


L'inizio della fine del tunnel in cui ero sprofondato, tra isolamento, lunghe camminate nei boschi, poesie e Letteratura. Il ritorno al mondo giunto con la fine del liceo, il primo grido di libertà dopo gli anni più duri dell'adolescenza. Peccato solo che si tradusse anche in uno dei concerti più deludenti della mia carriera di spettatore. 

KISS - LOVE GUN


Ad un periodo di cupa quiete, seguì uno di chiassosa tempesta: avrei potuto citare l'intera discografia del gruppo che mi ha cambiato la vita facendo di me il tamarro sguaiato che sono oggi, ma ho preferito limitarmi all'album che, per caso, trovai appoggiato alla mia scrivania, dimenticato da uno dei migliori amici di mio fratello.
Lo misi nello stereo, e tutto cambiò.

TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI - MOSTRI E NORMALI


L'avvicinamento al mondo del Fumetto da addetto ai lavori, la prima storia importante dopo anni di cazzatine, i viaggi tra Milano e Venezia, l'avvicinarsi di un'altra epoca della vita. Ora come ora, i TARM mi paiono come un esperimento finto alternativo imprigionato in una bolla, eppure hanno significato il primo, vero passaggio agli anni della post-adolescenza, dall'università al lavoro.

THERAPY? - TROUBLEGUM


I miei inizi da Virgin, l'impatto con il mondo del lavoro, l'essere il più piccolo del gruppo, il fratello minore, un rapporto incompleto che allora pareva il più completo immaginabile, i mezzi a fare da compagnia a viaggi da una parte all'altra di Milano.
Nel frattempo era arrivato il discman, e Troublegum fu uno dei primi inni a forzare al massimo il suo volume, da Knives a Screamager. Una bomba.




domenica 13 aprile 2014

Wrestlemania XXX

La trama (con parole mie): nel giro di una sola settimana, mi trovo per la seconda volta a parlare di wrestling, una delle mie più grandi passioni dai tempi dell'infanzia, quando ancora il Cinema era praticamente un passatempo. Esattamente una sette giorni fa si è tenuta, a New Orleans, la trentesima edizione del Superbowl dello Sport Entertainment, ventiquattro anni dopo il primo che vidi, esaltatissimo, da spettatore. Era il millenovecentonovanta, e nel corso del main event Ultimate Warrior sconfiggeva Hulk Hogan raccogliendo, almeno sulla carta, il suo testimone. Oggi, nel duemilaquattordici, si è assistito ad un altro evento altrettanto importante.




Quest'anno il mio rapporto con il wrestling, da sempre disciplina amatissima al Saloon, è stato decisamente particolare.
A fine gennaio, infatti, con la Royal Rumble - evento tra i più amati dai fan e non solo - si è sancito l'abbandono forse definitivo di CM Punk, mio personale favorito nonchè primo wrestler a contrastare in tutto e per tutto - finendo perfino, almeno in senso strettamente lavorativo, dalla parte del torto - la volontà della Federazione più potente del mondo di continuare a lavorare indipendentemente da quello che era - ed è - il volere del pubblico, primo acquirente del prodotto.
Daniel Bryan, attuale campione, dovrebbe accendere più di un cero in segno di ringraziamento rispetto al suddetto Punk: se, infatti, la ribellione non fosse avvenuta, non avremmo avuto un finale di Wrestlemania come è stato.
Ma il ribattezzato "Yes movement" non ha di certo rappresentato la notizia della settimana, per chi, come il sottoscritto, suda e soffre anche solo osservando questi omaccioni seguire un copione simile a quello di un grande, unico spettacolo sul ring.
La morte di Ultimate Warrior, idolo della mia infanzia ed eroe della mia prima Wrestlemania da spettatore - ventiquattro anni fa, incredibile davvero - è riuscita infatti solo in parte ad eclissare la fine di uno dei più grandi miti del wrestling moderno: la Streak di Undetaker.
Leggenda assoluta del quadrato, possa piacere oppure no, il Deadman è riuscito a passare indenne attraverso ventuno edizioni di questo incredibile evento prima di cadere sotto i colpi di Brock Lesnar, che agli inizi degli Anni Zero era visto come una sorta di nuovo messia della disciplina, e dopo aver conquistato tutto il possibile, dieci anni fa esatti decise di abbandonare per tentare una carriera - fallimentare - nel football professionistico e dunque nelle MMA - decisamente migliore -, scatenando le reazioni dei fan ai tempi del suo per allora ultimo incontro, opposto a Goldberg, prima di tornare in pompa magna - pur se, di fatto, part time - due anni or sono.
Il Mercedes SuperDome di New Orleans ammutolito a quel conto di tre ha lasciato decisamente senza parole anche il sottoscritto, almeno al principio: la frase "the streak is over" ha risuonato pesante almeno quanto i rintocchi che da quasi un quarto di secolo accompagnano il "becchino" al quadrato, sollevando il dubbio rispetto alla scelta - senza dubbio dell'atleta stesso - di propendere per Lesnar - tra i più odiati dal pubblico - invece che per Shawn Michaels - una vera leggenda -, Triple H - una leggenda in fieri - o CM Punk - il best in the world, di nome e di fatto -, sue vittime nelle ultime edizioni.
Stupore provato a caldo a parte, la soluzione è infine parsa assolutamente giusta e sensata.
Nel corso dell'incontro tra Undertaker e Brock Lesnar, infatti, l'impressione è stata quella che il buon "Principe delle tenebre" della WWE non ce la faccia più, a sostenere il ritmo sul ring, neppure quando si tratta di portare a conclusione un match all'anno.
E che, dunque, fosse giunto il momento, e che la persona giusta per poterlo rendere reale fosse quella che, a quanto si dice, ha più ruggini - e parliamo di spogliatoio, non di finzione scenica - con il detentore del record, uno che il pubblico, sia pure per esigenze di spettacolo, odia.
"Per un bambino è una violenza molto maggiore vedere il cattivo vincere, che non vedere un pò di sangue", ha commentato Julez.
Ed è proprio vero. Ma la Realtà, almeno in questo caso, vince sulla Leggenda.
Il fiato, i colpi, gli infortuni e tutto quello che comporta una carriera di questo genere contano, così come gli anni che, inesorabilmente passano.
Tutto finisce, anche quello che pensavamo non sarebbe finito.
Ed è in quest'ottica che va letta la scelta di Mark Calloway - questo il vero nome di Undertaker - di rinunciare ad una delle vere istituzioni del wrestling di tutti i tempi, il suo record di imbattibilità nell'appuntamento più importante dell'anno.
Chapeau, quindi, a lui. 
E alla WWE, che tutta in piedi tributa un omaggio ad uno dei suoi più grandi interpreti di sempre.
Questa è stata una Wrestlemania amara, per il sottoscritto.
Nonostante Bryan, nonostante l'inevitabile reso epico dalla realtà. 
Nonostante il successo e la sconfitta.
E' stata la Wrestlemania in cui speravo di vedere trionfare il mio favorito, che ha deciso di mollare perchè stanco di non poter esprimere al massimo il suo talento. Posso capirlo. E penso possa farlo anche gran parte della gente che lavora.
E quella in cui, per la prima volta, non mi sentivo così sicuro di andare contro un'istituzione - la suddetta Streak - che ho sempre detestato.
E' andata male in entrambi i casi.
Ma come ogni lottatore che si rispetti, incasso e vado avanti, pronto a rialzarmi.
Perchè le regole del gioco, e della vita, prevedono anche, e soprattutto questo.



MrFord









giovedì 11 ottobre 2012

Dutch è molto meglio di papà

Regia: Peter Faiman
Origine: USA
Anno: 1991
Durata: 107'




La trama (con parole mie): Dutch Dooley, figlio di operai che ha fatto fortuna come costruttore, ha da poco stretto un legame sentimentale con Natalie, ex moglie di un borioso magnate della finanza dal quale ha avuto un figlio ormai adolescente snob, asociale e dall'ego decisamente troppo grande per un ragazzino. All'ennesima buca rifilata al giovane dal padre, Dutch si offre di andare a recuperare il ragazzo nella sua scuola privata in Georgia per riportarlo a Chicago in macchina, in modo da cercare di rompere il ghiaccio con Doyle - questo il nome del figlio di Natalie - e riavvicinarlo alla madre, che lo stesso vede come causa di tutti i problemi della famiglia.
Il panesalamismo di Dutch verrà messo a dura, durissima prova durante un road trip che si rivelerà ben più difficile di quanto l'uomo non potesse pensare.




Alla nutrita schiera di pellicole che fecero la storia delle visioni del piccolo Ford a cavallo tra la fine degli anni ottanta e l'inizio dei novanta passate dalle parti del Saloon mancava ancora uno dei titoli più consumati dal mio vecchio videoregistratore ai tempi della scuola media, un film decisamente troppo poco conosciuto eppure ancora oggi in grado di divertire il sottoscritto, oltre ad essere in grado di aprire l'ennesimo ponte con un passato più che mitico.
Dutch è molto meglio di papà, scritto dal John Hughes che tutti i fan della commedia ben conoscono e diretto dal Peter Faiman di Mr. Crocodile Dundee, è un ancora piacevolissimo film di formazione giocato sui rapporti tra padri e figli, un road movie dal ritmo sostenuto poggiato sulle spalle dell'Ed O'Neill tornato alla ribalta di recente con Modern family: il suo Dutch, pane e salame almeno quanto il vecchio Dundee, si accolla la "missione" di riportare su binari di sentimenti e vita vissuta Doyle, figlio della compagna Natalie viziato e cresciuto nel mito del ben poco sopportabile padre, che il ragazzo continua a vedere come una sorta di leggenda cui la madre ha fatto un torto dietro l'altro.
Ovviamente, come in tutti i film di questo genere, il rapporto tra i due protagonisti sarà burrascoso fin dal principio, dando libero sfogo alla mano di Hughes rispetto a gags molto fisiche - ricordiamo che il buon John fu padre, tra gli altri, anche di Mamma ho perso l'aereo - con protagonisti i due decisamente poco amichevoli compagni di viaggio, che cercheranno ad ogni occasione di rendere il tragitto dell'altro un vero e proprio inferno neanche io e il Cannibale decidessimo di intraprendere un coast to coast all'italiana per recarci ad un qualche premio ovviamente da conterderci all'ultimo sangue.
A questo punto inizia il tripudio di ricordi e risate in bilico tra i giorni in cui io e mio fratello rivedevamo questo film almeno un paio di volte la settimana ed il futuro, quando penso al momento in cui, chissà, avrò la possibilità di guardarlo insieme a mio figlio: dalla lotta nella camera dello studentato di Doyle ai fuochi d'artificio, dall'incontro con le prostitute - uno dei must dell'allora casa Ford, con le espressioni di Ed O'Neill dopo aver ingoiato la crema per le mani a piegarci dal ridere ad ogni visione - a quello con i guardiani, il rapporto tra Doyle e Dutch è una sorta di educazione da strada che porta il ragazzo a scoprire un mondo fino a quel momento distante anni luce dalla sua condizione di benestante viziato che già avevo amato in Over the top, e che allo stesso modo porta ad una presa di coscienza dell'adolescente protagonista rispetto all'essere uomo e alla crescita, al fare affidamento su se stessi e le proprie forze così come imparare a vedere i sacrifici che soprattutto le madri fanno per assicurarsi la felicità dei figli anche a scapito della loro.
Come in ogni prodotto per ragazzi made in USA che si rispetti, poi, c'è spazio anche per i buoni sentimenti, e ai tiri mancini di Doyle e Dutch si contrappone un crescendo finale decisamente meno casinaro e più votato al "film per tutti": eppure è un "per tutti" che funziona, rispolverando l'atmosfera dei titoli "da pomeriggio" che hanno caratterizzato la mia infanzia e regalando anche un finale impreziosito dall'anello di Dutch, inguardabile eppure assolutamente utile quando si tratta di chiudere questioni in sospeso con boriosi miliardari dalle tendenze megalomani.
Un altro piacevole ritorno, dunque, ai tempi magici in cui tutto pareva possibile, ed uno dei titoli che, in questo particolare momento della mia vita in cui la paternità comincia ad affacciarsi rispetto al quotidiano, mi fanno sognare il momento in cui potrò rivivere quei momenti di cui conservo ricordi così fantastici attraverso gli occhi del piccolo Ford, che forse mi prenderà anche a calci come Doyle fa con Dutch, ma al quale spero il viaggio al mio fianco servirà per capire che questo vecchio cowboy vuole solo insegnargli tutto quello che sa, e che ha amato.
 


MrFord


"I'd get it one piece at a time
and it wouldn't cost me a dime
you'll know it's me when I come through your town
I'm gonna ride around in style
I'm gonna drive everybody wild
'cause I'll have the only one there is a round."
Johnny Cash - "One piece at a time" -


sabato 29 settembre 2012

FBI - Operazione gatto

Regia: Robert Stevenson
Origine: USA
Anno: 1965
Durata: 112'




La trama (con parole mie): Patti Randall e sua sorella Ingrid vivono con un gatto furbo e poco incline a seguire le regole dettate dagli umani, padroni o no. Quando l'animale scopre in una delle sue quotidiane esplorazioni del vicinato il rifugio di due rapinatori che nel corso dell'ultimo colpo hanno preso in ostaggio una donna e viene usato dalla stessa come involontario messaggero per una richiesta di soccorso, diviene il testimone chiave di un'indagine dell'FBI coordinata dal giovane agente Kelso, assolutamente allergico al pelo del felino.
Aspiranti fidanzati delle due sorelle, vicine troppo curiose e l'energia del lesto quadrupede daranno inizio ad una serie di maldestri tentativi e malintesi che renderanno la caccia ai criminali ben più ardua di quanto Kelso potesse attendersi al principio.






Esistono alcune pellicole responsabili della storia dell'infanzia di ben più di una generazione di spettatori, divenenute di fatto dei cult non fosse altro che per il valore emotivo e di amarcord assunto nel cuore dei loro spettatori: senza alcun dubbio, FBI operazione gatto è tra queste.
Clamorosamente ignorato dal sottoscritto ai tempi in cui questo vecchio cowboy era solo un ragazzetto pelle e ossa timido e bassino perchè troppo "da vecchi" rispetto ai cartoni animati e ai film d'avventura - e d'azione - figli degli anni ottanta e recuperato solo di recente grazie all'intervento di Julez sempre nell'ottica del futuro abitante di casa Ford in arrivo, questo film è riuscito a sorprendermi in positivo proprio quando mi sarei aspettato una visione tutto sommato trascurabile, rivelandosi al contrario divertente e ben strutturato, ricordandomi addirittura titoli memorabili come La congiura degli innocenti di Hitchcock ed il meraviglioso Arsenico e vecchi merletti targato Capra, un Capolavoro che consiglio a tutti di recuperare pressochè all'istante.
Il tocco leggero e magico di Mamma Disney unito ad un gusto estetico e ad un ritmo tipici dell'epoca dei grandi studios rendono il lavoro di Stevenson piacevole e fuori dal tempo anche ora, a quasi cinquant'anni dalla sua uscita e all'interno di un mondo - cinematografico e non - che appare come qualcosa lontano anni ed anni luce da un prodotto come questo: come se non bastasse, considerati i due membri felini della famiglia Ford, perdersi nelle esibizioni del protagonista a quattro zampre è stato davvero un piacere - anche perchè quei due storditi dei miei Diego e Mia difficilmente potrebbero giocare tiri mancini come quelli subiti da Kelso e dai suoi uomini ad opera del gatto di casa Randall -, mentre i protagonisti umani - per la maggior parte caratteristi esperti del periodo -, dal canto loro, riescono nell'intento di costruire una sorta di thriller comico che intreccia un plot crime con i tratti più esilaranti della commedia degli equivoci a partire dai due aspiranti fidanzati di Patti ed Ingrid, queste ultime perfette nel ruolo della sorella sbarazzina e coraggiosa - la prima - e di quella sofisticata e composta - la seconda -.
E se i tentativi di pedinamento degli agenti del Bureau all'indirizzo del testimone felino non bastassero a rendere divertente l'evoluzione della trama, elementi come la vicina ficcanaso ed il marito sono pronti a spingere ulteriormente sul pedale del divertimento contribuendo alla costruzione di un film per famiglie in grado di apparire piacevole a grandi e piccini, intelligente ed ironico, strutturato come una pellicola per adulti ma perfettamente comprensibile anche dai bambini.
Come se tutto questo non bastasse, la tensione romantica che coinvolge Patti ed il suo impacciato amico Canoa - curioso l'adattamento italiano dei tempi, che traduceva surfare con scivolare - e, in parallelo, l'agente Kelso ed Ingrid, è quasi una lezione per tutti gli scialbi titoli attuali spacciati dai distributori per commedie da coppia schiaffati in sala nei periodi più redditizi - San Valentino docet -: un gioco orchestrato sotto le righe pronto a crescere ad ogni singola battuta senza alcun bisogno di allusioni ed in grado di arrivare a qualsiasi tipo di pubblico.
Insomma, per quanto a suo modo smielato, assolutamente standard e privo di elevati exploit artistici o tocchi di genio, FBI operazione gatto si inserisce a pieno titolo tra i film di quelli che "non se ne fanno più così", che probabilmente continueranno ad essere trasmessi per le feste natalizie o mostrati ai più piccoli ancora per i decenni a venire, finendo per ricoprire, nel cuore di molti di quei bambini una volta cresciuti, il ruolo di madeleine di un'epoca in cui tutto era e poteva essere come una fiaba, o il ricordo di un particolare che ci riporti alla brillantina del nonno o alle mani della nonna.
In questo caso, farsi cullare da un classico non potrà che essere sempre un piacere.
 


MrFord


"He's a sly old codger, an artful dodger 
a scrounger unsurpassed a ball of fire, 
a nine live wire 
who just can't be outclassed 
yeah, this midnight rover, he lives in clover 
it's an art he's got down pat 
never was a greater smooth operator than 
that ummmmm darn, that darn cat."
Bobby Darin - "That darn cat" -


domenica 29 aprile 2012

Uccellacci e uccellini

Regia: Pier Paolo Pasolini
Origine: Italia
Anno: 1966
Durata: 89'



La trama (con parole mie): Totò e Ninetto, padre e figlio, camminano lungo le strade della periferia ancora spoglia di Roma, incrociando le loro esistenze con quella di un corvo parlante professore di filosofia che espone ai due uomini teorie e fiabe che possano portarli alla riflessione rispetto alla politica, alla religione e al futuro.
Così, tra un racconto ed una rocambolesca sosta forzata in mancanza di un bagno, i tre viaggiano attraverso il tempo e lo spazio confrontando l'approccio terreno dei due umani e quello "alto" del volatile, convinto assertore del comunismo precedente alla morte di Togliatti.
Passati dalla riscossione presso poveri contadini nei propri terreni al pagamento nella casa di un architetto facoltoso, Totò e Ninetto, stanchi del ciarlare del corvo, finiranno per dire l'ultima parola di questa neppure troppo voluta seduta di discussione.




So cosa state pensando.
Due bicchieri e mezzo ad uno dei film universalmente più incensati di uno dei nostri registi più importanti, quel Pier Paolo Pasolini che ha regalato, nel corso della sua carriera, pellicole straordinarie e poesia agli spettatori di tutto il mondo, sono una bella sfida.
Ebbene sì. Quando ci vuole, ci vuole. Anche se si tratta di grandissimi.
Ma occorre fare un passo indietro, per spiegare questa scelta che, di fondo, altro non è se non una media: perchè Uccellacci e uccellini, rivoluzionario e clamoroso alla sua uscita - ormai quasi cinquanta primavere fa -, ricco di riflessioni che toccano vita e morte, politica e religione, costume e società, ora, nel pieno di questi anni zero ancora senza identità, risulta vecchio e verboso, a tratti perfino ammorbante, e finisce per trasformare la meraviglia del colpo di genio dei titoli cantati da Domenico Modugno in una reazione che è simile a quella di Totò e Ninetto Davoli con il finale, assumendo, di fatto, il ruolo del corvo saccente rispetto a noi poveri cristi in cammino sulla strada della vita.
Un peccato, effettivamente, che il lavoro assolutamente unico di Pasolini abbia inesorabilmente perso smalto con il passare del tempo, eppure non sono riuscito - neppure, a tratti, forzandomi - a trovare una possibile chiave di lettura più moderna che svecchiasse i temi così eloquentemente esposti dal pennuto, finendo per trovarmi - senza riuscire minimamente ad empatizzare con loro - spesso e volentieri in accordo con i protagonisti umani, finale compreso.
Certo, alcuni passaggi paiono non aver subito l'erosione del tempo - in particolare le riflessioni di natura religiosa, ancora assolutamente attuali e simili a quelle proposte nella musica da un signore chiamato Fabrizio De Andrè -, eppure Capolavori come Il Vangelo secondo Matteo o Accattone appaiono lontani anni luce da quello che assume le connotazioni di un esperimento di solo cuore - con tutti i limiti del caso - e che non riesce a tirare fuori il meglio neppure da Totò, interprete che è parte integrante della nostra cultura e del nostro Cinema ma che sicuramente appare troppo imprigionato in se stesso per poter esprimere al meglio quello che il suo personaggio sulla carta avrebbe potuto dare.
Resta invece inalterato il fascino incredibile della periferia romana ancora in fieri di allora, fatto di campagna e miserie umane e sociali da brividi, ritratto al crocevia di neorealismo e surrealismo, quasi l'eredità dei De Sica e dei Rossellini andasse ad incontrare la visionarietà di Bunuel: anche in questo caso, però, basta pensare al meraviglioso Le notti di Cabiria firmato Fellini per cogliere il senso di incompiutezza di questa pellicola, uno sfoggio affascinante e magico della poetica intellettuale di Pasolini tuttavia incapace di lasciare a bocca aperta come i più grandi Capolavori di un Autore e un Artista scomparso troppo presto da un mondo, senza dubbio, troppo crudele per lui.
Un mondo in cui i corvi vengono mangiati per davvero.
Specie se gay, comunisti e dalla risposta pronta.
E in questo, non c'è Tempo che tenga: la nostra società è rimasta uguale.


MrFord


"Like a bird on a wire
like a drunk in a midnight choir
I have tried in my way to be free.
Like a fish on a hook
like a knight in some old fashioned book
I have saved all my ribbons for thee."
Leonard Cohen - "Bird on a wire" -


venerdì 27 aprile 2012

I Muppet

Regia: James Bobin
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 103'



La trama (con parole mie): Walter è un muppet alla nascita, proprio come i pupazzi eroi della sua infanzia, ed insieme al fratello umano Gary ha mantenuto, negli anni, un'ammirazione sconfinata per Kermit e soci.
Quando, nel corso del viaggio di Gary e della sua fidanzata Mary per il loro decimo anniversario in California, a Los Angeles Walter visita gli studi ormai in rovina della vecchia serie dei Muppets, scopre che un magnate del petrolio vuole mettere le mani sul terreno per demolire un pezzo della storia della televisione.
Inizia così un viaggio della speranza in modo che la vecchia banda si riunisca ed allestisca uno spettacolo in grado di portare nelle casse del gruppo i dieci milioni di dollari che serviranno ad estromettere il minaccioso nuovo acquirente dalla proprietà.
Il tutto con tanta, troppa Disney e tanto, troppo miele.




Io ce l'ho messa proprio tutta.
Ricordo quanto, da piccolo, adorassi i Muppets, con le loro curiose canzoni e le strane movenze, quell'ironia che non sempre riuscivo a cogliere e le follie dei miei due preferiti in assoluto, Animal e Gonzo.
Quando venne annunciata l'uscita del film, in testa ad un'operazione amarcord come spesso e volentieri è capitato negli ultimi anni, ricordo rimasi con più di una perplessità di fronte all'idea di riesumare Kermit e soci negli anni zero, con tutta la loro mancanza d'innocenza e gusti ormai completamente diversi rispetto a quei fantastici primi anni ottanta: poi, recensione dopo recensione, finii per risultare molto incuriosito dal lavoro di James Bobin, definito splendido da molti, omaggio perfetto allo spirito che animava i pupazzi più popolari del piccolo schermo di trent'anni fa.
Così, ho finalmente dato fuoco alle polveri e I Muppet è approdato in casa Ford.
Risultato: un'ecatombe dei miei bellissimi ricordi di questi pupazzi pazzi.
Dagli anni ottanta ad oggi sarò stato io a cambiare fino a divenire un vero e proprio bruto, oppure Bobin e soci sono riusciti nella non facile impresa di rendere gli acutissimi Muppets un prodotto per una massa di utenti degni di Teletubbies ubriachi di melassa?
Purtroppo per me e per il pubblico, la seconda che ho detto.
Tolte, infatti, un paio di idee metacinematografiche non disprezzabili ed il rap del malvagio Tex Richman - per il quale si finisce a fare il tifo dall'inizio alla fine -, il resto è qualcosa di così indigesto e sdolcinato, retorico e squinternato da far apparire operazioni meglio riuscite ma dello stesso stampo - su tutte, il recente Come d'incanto - praticamente dei pulp dal taglio nerissimo e senza speranza.
Irritanti all'inverosimile i due protagonisti umani Gary e Mary - interpretata da Amy Adams, già protagonista dell'appena citato Come d'incanto -, che avrei preso a bottigliate selvagge fin dalla prima sequenza per le strade di Smalltown, pessimo il pupazzoWalter, che pare la versione Mickey Mouse di Casa Muppet, letteralmente agghiaccianti gli adattamenti italiani delle canzoni - ma per quale motivo non sottotitolare le parti cantate!? -, per nulla divertenti le scenette, fuori luogo i riferimenti cinematografici "cool" - tutta la cestinabile parte in Il diavolo veste Prada style di Miss Piggy a Parigi -, Muppets importantissimi lasciati ai margini - Gonzo su tutti -, per non parlare delle apparizioni di personaggi dello spettacolo allo sbando come Selena Gomez, Whoopi Goldberg e soprattutto Jack Black - che ormai pare sempre più simile alla caricatura di se stesso - letteralmente uno più ridicolo dell'altro.
Una pellicola in grado di appiattire l'originalità che fu marchio di fabbrica dei Muppets, svilire il loro mito e presentarsi come un irritante quadretto ad alto tasso retorico che neppure sotto tortura proporrei a dei bambini - ma neppure ai nostalgici del periodo nonchè fan della prima ora -: fortunatamente esiste ancora lo Studio Ghibli, che anno dopo anno continua a produrre favole dallo spirito magico in grado di toccare i cuori di grandi e piccini senza far sentire in imbarazzo gli uni o gli altri - si veda il recente, e splendido, Arrietty -, perchè se dovessimo fare affidamento a queste discutibili operazioni commerciali, finiremmo davvero a rimpiangere i tempi in cui la meraviglia pareva davvero una realtà possibile.
Un pò come i mondi che i veri Muppets sarebbero stati in grado di farci esplorare.


MrFord


"But now its getting started
why don't you get things started?
Its time to get things started
on the most sensantional
inspirational
celebrational
muppet-ational
this is what we call The Muppet Show!"
Muppets - "The Muppets theme" -


lunedì 2 aprile 2012

La storia fantastica

Regia: Rob Reiner
Origine: Usa
Anno: 1987
Durata: 98'



La trama (con parole mie): un ragazzino malato e costretto a letto riceve la visita del nonno, che ripetendo una tradizione che prosegue da generazioni nella famiglia, legge al nipote una storia incredibile incentrata sull'amore che lega il temerario Westley e Bottondoro, nato quando il primo era soltanto il garzone della giovane e proseguito a distanza di anni, in grado di superare traversie, intrighi, contendenti, vendette, duelli, giganti, sfide di ogni genere e addirittura la morte.
La favola, inizialmente accolta con freddezza dal piccolo ascoltatore, diverrà sempre più coinvolgente, finendo per rendere le parole del nonno una realtà magica e vivida come mai alcun videogioco potrà essere.




Alcuni titoli, non ci sono decenni che passano o nuove visioni che tengano, sono destinati a restare nel cuore di chi li ha vissuti in tempi in cui tutto appariva come magico, i mesi duravano anni e tutto pareva un semplice gioco che avrebbe assunto dimensioni sempre più considerevoli: mi tornano in mente i Goonies, la saga di Karate Kid, Gremlins, le epopee di Stallone e Schwarzy, La storia infinita e, ovviamente, La storia fantastica.
Musicato da Mark Knopfler e diretto da un signor mestierante come Rob Reiner, il salto indietro nel tempo che questo film - realizzato come una pellicola low budget eppure ancora in grado di lasciare a bocca aperta - offre ai suoi spettatori toglie il fiato ad ogni visione, proiettando l'audience in un mondo che allora sognavo con il cuore in gola, tra l'Uomo in nero e l'enorme Fezzik - il compianto Andre the giant, amato da tutti i piccoli fruitori di wrestling dell'epoca -, il duello d'intelligenza con Vizzini e l'impareggiabile Inigo Montoya, idolo assoluto di casa Ford dai tempi dei tempi, per non parlare dell'assalto al castello e dell'eccezionale confronto finale tra Westley ed il principe Humperdinck.
Anche più de La storia infinita, la pellicola di Reiner incarna per il sottoscritto tutta l'innocenza e la magia che solo il fantasy riusciva a regalare - e riesce tuttora -, la capacità di sognare e vivere mondi, lotte all'ultimo sangue e amori, rendendoli veri soltanto grazie alla forza dell'immaginazione: nelle rime di Fezzik o nel quasi grottesco "inconcepibile" di Vizzini, ma soprattutto in quel "Hola, mi nombre es Inigo Montoya, tu hai ucciso mi padre, preparate a morir!" c'è un brivido che non riesco a controllare neppure oggi, a più di vent'anni dalla prima volta in cui lo sentii pronunciare dallo spadaccino avversario del protagonista.
Recentemente, inoltre, riscoprendo nello stesso Inigo - per me vero mattatore della pellicola - quel Mandy Patinkin vissuto negli ultimi anni sul piccolo schermo - da Criminal minds a Homeland - mi è quasi parso di rompere un incantesimo che non credevo fosse possibile vedere trasportato all'interno del normale corso del tempo, quello stesso corso che ha visto Robin Wright, allora debuttante, diventare la moglie di Sean Penn, nonchè sua musa ispiratrice, Andre the giant morire come molti wrestlers della sua generazione, Rob Reiner perdersi, proprio con l'inizio degli anni novanta - appena dopo Misery, per intenderci - in produzioni sempre meno interessanti, così come Cary Elwes, passato da un cult come Top gun ad una robetta trash come Saw.
Il tempo e la realtà, quelli di tutti i giorni, non hanno remore, e ci ricordano ogni giorno che passa che sono pronti a presentare il conto. Senza guardare in faccia nessuno.
Fortunatamente esistono piccole meraviglie come questa, che ci permettono di uscire da tutto e vivere qualcosa di unico e magico, che tornerà ad aiutarci quando saremo bambini malati a letto o nonni premurosi pronti a dimostrare ai nipoti che a volte, basta una lettura per scoprire il valore dell'immaginazione.
Fortunatamente esiste il Cinema, pronto a portare sui suoi schermi fiabe in grado di conquistarci come un "amore vero".
Fortunatamente esistono i miracoli. E chi li sa compiere.
Dal vecchio, scorbutico Max a Rob Reiner.
E fortunatamente esiste chi crede, fermamente e a fondo, che possano compiersi: Westley, il pirata Roberts, Fezzik, Inigo, Bottondoro.
Anche quando la loro realizzazione è soltanto un trucco, un'illusione, una magia.
O quando, più semplicemente, sono veri come la carne ed il sangue.
E' bello poter credere nella magia.
E nel Cinema.
La benzina che muove i nostri motori, che spinge tutti gli Inigo ad andare avanti, senza smettere di cercare l'uomo che uccise il padre, vent'anni prima.
L'uomo a cui recitare una frase divenuta un mantra: "Hola, mi nombre es Inigo Montoya, tu hai ucciso mi padre, preparate a morir."


MrFord


"Come my love I'll tell you a tale
of a boy and girl and their love story
and how he loved her oh so much
and all the charms she did possess
now this did happen once upon a time
when things were not so complex
how he worshipped the ground she walked
and when he looked in her eyes he became obsessed."
Mark Knopfler - "Storybook love" -


lunedì 26 marzo 2012

Young adult

Regia: Jason Reitman
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 94'



La trama (con parole mie): Mavis Gary, ghost writer di una saga di successo per adolescenti giunta alla sua conclusione, fresca di divorzio e stabilitasi con la sua vita disordinata a Minneapolis, torna al paese natale - un piccolo centro di provincia - in occasione del battesimo della figlia di Buddy, ex fidanzato dei tempi del liceo.
La donna, fingendosi in visita per una transazione immobiliare, cerca in realtà di tornare ai tempi in cui lei era la reginetta della scuola ed il futuro sembrava migliore di quanto la vita le abbia riservato, dal matrimonio fallito all'alcolismo incombente, e la strada perchè ciò accada, ai suoi occhi, è legata alla (ri)conquista del vecchio amore.
Peccato che il Destino - ed il paese - abbiano piani diversi per Mavis.




Crescere non è facile. No davvero.
Ancor di più scoprire di essere diventati adulti, in quel decennio tra i trenta e i quaranta  in cui ci si trova a dover mettere a confronto sogni, aspettative e desideri ancora vivi con responsabilità e cambiamenti che paiono pesare come macigni. Uno stato che si potrebbe definire di consapevolezza ed esperienza cui manca, però, l'equilibrio che soltanto la maturità - e solo a volte - è in grado di dare con il sopraggiungere della vecchiaia.
Mavis Gary questo non l'ha ancora imparato sulla pelle - e chissà, forse non lo imparerà mai -, così, armi e bagagli alla mano, muove guerra al suo vecchio paese di provincia e ad una vita che ad un tempo la porta in palmo di mano e la riduce all'ombra del ricordo che ha di se stessa, concentrandosi sulla conquista della vecchia fiamma Buddy, amore mai dimenticato degli anni del liceo, nel pieno dei nineties che tanto ricordano Giovani, carini e disoccupati.
Diablo Cody - classe 1978 - quel periodo deve ricordarlo davvero bene, un pò come il sottoscritto e tutti quelli che, ai tempi, sognavano Wynona Rider o Ethan Hawke: deve esserci molto, di lei, in Mavis, o almeno i fantasmi che gli inquieti si portano dietro anche quando la loro vita prende una direzione definita o di successo.
Ma la cosa che più mi ha colpito della sceneggiatura della diabolica Cody e di Young adult è la capacità dello script di mostrare il meglio - ma soprattutto ed impietosamente il peggio - dei due lati della barricata: se, infatti, Mavis maschera dietro l'aura del successo cittadino una natura fragile e meschina, il fantasma dell'alcolismo ed un'immaturità imbarazzante - terribili le sequenze dei confronti con l'ex compagno di liceo Matt ed il suddetto Buddy - portati in scena da una stratosferica Charlize Theron, la geografia umana del paese cui fa ritorno appare clamorosamente arida, fatta di ignoranza e banalità, pregiudizi e visioni limitate - se non peggio, come nel caso dei genitori di Mavis o della sorella di Matt -.
Nessuno pare salvarsi, da questo ritratto impietoso che deve la sua efficacia più alla penna della sceneggiatrice che non a Jason Reitman, che continua fondalmentalmente il discorso già iniziato con i lavori precedenti riscattandosi comunque senza dubbio dello scialbo Tra le nuvole, e dai personaggi - quasi tutti in qualche modo perdenti - al pubblico non si esce senza una qualche ferita dalla lotta che ingaggia Mavis rispetto allo status quo del suo passato, e perfino quando la presa di coscienza della protagonista - nella già citata sequenza da brividi della festa per il battesimo della figlia di Buddy - pare dare una qualche speranza rispetto al futuro tutto cambia completamente prospettiva al primo - limitatissimo - riconoscimento del vecchio io della stessa Mavis.
Una fotografia terribile che potrebbe vestire meglio un dramma, più che una commedia, e che ricorda i momenti più oscuri di un altro road movie dell'anima da crisi di mezza età come fu Broken flowers, senza però la stessa carica imprevedibile e sbarazzina in grado di lasciar intravedere una luce in fondo al tunnel.
La partenza di Mavis, infatti, suona come una vittoria di Pirro da entrambe le parti, e la sensazione di essere coccolati e liberi eppure inesorabilmente prigionieri crea un legame quasi empatico con il piccolo cane completamente in balìa di questa scrittrice fantasma non più così giovane come vorrebbe.
Un pò come volere, e non potere.
Niente di più simile ai dolori della crescita.
A qualsiasi età decidano di bussare alla nostra porta.


MrFord


"And so I cry sometimes when I'm lying in bed
just to get it all out, what's in my head
and I, I'm feeling a little peculiar
and so I wake in the morning and I step
outside and I take deep breath
and I get real high
and I scream to the top of my lungs
what's goin' on?"
4 Non Blondes - "What's up" -


giovedì 6 ottobre 2011

Chi non salta bianco è

Regia: Ron Shelton
Origine: Usa
Anno: 1992
Durata: 115'



La trama (con parole mie): Billy è un ottimo giocatore di basket che ha fallito la grande occasione e si diverte a girare di città in città scommettendo sulle partite di strada in attesa che la sua donna possa avere la grande occasione in tv e diventare campionessa di un gioco a premi.
Arrivato a Los Angeles si imbatte in Sidney, figlio delle realtà delle periferie, sbruffone dall'ego smisurato, e vince con lui una sfida giocando sul suo apparente svantaggio di "uomo bianco": sarà l'inizio di un'amicizia che porterà i due ad iscriversi ad un torneo in coppia per poter guadagnare la cifra utile ad entrambi per far riprendere una direzione sensata alla propria vita.
Ovviamente, le cose non andranno proprio da copione.


Personalmente, ho avuto un rapporto davvero curioso con il basket.
Fino ai quattordici anni, essendo alto praticamente un metro e un bluray a fronte di compagni di scuola in diretta dalle periferie dai connotati - e probabilmente anche dalle fedine penali - di quarantenni, il mio rapporto con la pallacanestro è sempre stato piuttosto conflittuale, tanto da lasciarmi ben ancorato al calcio e ai ricordi di quando, da bambino, con le mie scivolate in pieno stile Holly e Benji da terzino destro un pò bastardo facevo volare anche avversari due o tre volte più grossi di me.
Poi arrivò Slam dunk - il fumetto, non il cartone animato -, che, unito ad una crescita vertiginosa nel giro di un'estate - una ventina di centimetri almeno - tra i quindici e i sedici anni, portò una rivoluzione nel mio rapporto con lo sport in quegli anni dominato in lungo e in largo dagli inarrestabili Bulls di Michael Jordan.
Nel fumetto di Takehiko Inoue trovai il consueto riferimento di "cattivo" preferito in Mitsui, che divenne un modello per il mio modo di giocare basato principalmente sui tiri da tre - anche perchè, nonostante l'altezza non fosse più quella di un lillipuziano, con il mio metro e settantacinque non potevo certo pensare di fare della schiacciata il mio punto di forza -, e fu l'inizio di un triennio di campetti di cemento, pesi alle caviglie, tre contro tre selvaggi, un sacco di fatica e altrettanto divertimento.
Ma per quale motivo, starete pensando, mi sono dilungato in questo sproloquio da tempi andati legato al basket "di periferia"?
Semplicemente perchè, pur non essendo affatto un film memorabile, credo che Chi non salta bianco è sia indubbiamente il miglior prodotto legato a questo sport assolutamente entusiasmante nella sua accezione da strada, quella lontana dai parquet e dalle grandi stelle, giocata a suon di provocazioni e qualche spinta di troppo di fronte ad un anello dalla rete metallica - in genere, quelle normali vengono irrimediabilmente strappate a tempi di record, spesso da gente che non gioca e non coglie l'importanza delle stesse per chi le usa come un mirino quando fa partire il tiro - e sempre e comunque fino all'ultimo punto - in questo caso, difficile parlare di secondi -.
Se, infatti, Space Jam si concentra sull'aspetto ludico di questo sport e Voglia di vincere sui sogni di gloria di qualsiasi giovane giocatore, Chi non salta bianco è ci trasporta nell'atmosfera street di quei primi anni novanta a metà tra il "Fight the power" dei Public Enemy e le spacconate in pieno stile amicizia virile che tanto piacciono a noi maschietti sempre in cerca di un buddy con cui aggirarci per i bassifondi a fare culi a strisce a destra e a manca.
Divertente e ben realizzato nelle fasi di gioco, il film si concentra anche sull'aspetto - tipicamente anni novanta anche questo - da commedia romantica destinata a non finire così bene del periodo, risultando tutto sommato abbastanza credibile ed attuale anche ora, nonostante quella  che è stata l'epoca della mia adolescenza risulti oggi una scheggia impazzita di un'altra epoca a tratti apparentemente più distante dei precedenti ed incredibili eighties.
Ottima la colonna sonora, che passa da Hendrix ai Cypress Hill, discreti sia Harrelson che Snipes - che risulta più credibile come cazzone in stile Eddie Murphy piuttosto che come duro spaccaculi da film action -, godibile al massimo la vicenda: insomma, un filmetto che intrattiene da scoprire o riscoprire con gli amici più stretti in una serata da sbronza o, perchè no, prima o dopo una bella partita, pensando quasi di essere di fronte ad un fratellino - molto, molto minore, sia chiaro - di Point break.

MrFord

"L. a. Lakers fast break makers
kings of the court shake and bake all takers
back to back is a bad ass fact a claim that remains in tact
m-a-g-i-c see you on the court
buck has come to play his way and his way is to thwart
m-a-g-i-c magic of the buck."
Red Hot Chili Peppers - "Magic Johnson" -



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