Penso che, senza ombra di dubbio, una delle rappresentazioni del Male più significative della Storia e della cultura popolare abbia il volto di Adolf Hitler.
Il responsabile dell'ascesa del Reich e di tutto quello che accadde tra gli anni trenta e quaranta in Germania ed in Europa, per quanto terrificante al pari di tanti altri dittatori assolutisti - da Pinochet a Duvalier, passando per i fin troppo numerosi casi in Africa ed in Oriente -, è divenuto un simbolo di quanto agghiacciante possa essere l'opera dell'Uomo a questo mondo, e rappresenta per la Germania una ferita ancora aperta, un personaggio pericolosissimo con il quale confrontarsi anche e forse soprattutto quando lo si fa in chiave grottesca o ironica.
Lui è tornato, giunto sugli schermi del Saloon in ritardo rispetto all'uscita in sala, rientra nel novero degli esperimenti coraggiosi tentati sul grande schermo a proposito della figura del Fuhrer, e senza dubbio finisce per rappresentare una visione "sul filo", a metà tra la genialità e la classica cagata fuori dal vaso, tra le risate e l'inquietudine che alcune riflessioni possano generare.
In tutta onestà, infatti, non solo non saprei dare una collocazione precisa ad un film come questo, che passa dalle suggestioni di critica sociale di uno dei Von Trier a mio parere più interessanti, Il grande capo, alla sfrontatezza nera di cult come Le mele di Adamo fino ad arrivare all'attualità sfrenata - per quanto folle possa suonare, se Hitler o uno come lui dovesse fare ritorno in un contesto storico delicato come quello in cui viviamo, rischierebbe davvero di fare molti proseliti, si veda ad esempio, pur se non comparabile, l'ascesa di Trump negli States come cartina tornasole per gli effetti del terrore sul mondo e la società -, ma anche nella mera valutazione, che si scontra con la bizzarra natura del prodotto, la sua apparente povertà tecnica associata ad idee metacinematografiche e profonde ed una sensazione di quasi disagio che giunge al termine della visione, legata a doppio filo alla presa di coscienza di quel "Hitler è dentro tutti noi" che rappresenta non tanto un'ammissione di colpa da parte della Germania, ma dell'Umanità intera, che quando guarda dentro l'abisso, spesso e volentieri non ricorda che l'abisso ricambia, ed influenza non poco.
E per quanto, dunque, mi sia divertito ad osservare le gesta dell'Hitler trapiantato nel nostro tempo mentre chiama i suoi seguaci "negri" imitando il gergo dei rappers che ribaltano l'appellativo dispregiativo per indicare i loro amici più stretti o manifesta la propria preferenza per il partito dei Verdi, d'altra parte sono rimasto agghiacciato rispetto alle risate che susciterebbe nelle vesti di "comico", o ai proseliti che raccoglierebbe soprattutto in strada, considerata la crescente psicosi da attentati, immigrazione, crimine e via discorrendo.
Una produzione, dunque, quella di Wnendt, che potrebbe essere considerata quasi horror, e che porta alla luce molti nervi scoperti della società anche a quasi un secolo dagli inizi dell'ascesa di Hitler: il terrore, la manipolazione, la strumentalizzazione sono mezzi usati allo stesso modo ancora oggi, pur se attraverso canali differenti.
E se dovesse arrivare, purtroppo per noi, un nuovo Hitler - o chi per lui - e sapesse usarli, allora ci sarebbe davvero ben poco da ridere.
MrFord
Very nice post
RispondiEliminaXyore
Thanks again!
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