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martedì 28 marzo 2017

Elle (Paul Verhoeven, Francia/Germania/Belgio, 2016, 130')




Come più volte mi è capitato di scrivere, da buon appassionato cinefilo che si rispetti e si è "fatto da solo" ho attraversato un periodo fortemente autoriale durato parecchi anni, nel corso dei quali, classici a parte, mi dedicavo esclusivamente a visioni impegnate, senza alcuno svago, e più apparivano impegnate o benviste dalla critica "illustre", meglio era.
E' stato così anche con la Letteratura, o la Musica, del resto.
Approfondire il proprio rapporto con un mezzo artistico prevede spesso e volentieri una sbornia "alta" prima di tornare sulla Terra: in fondo, a meno che non abbiate discreti fondi, quando uscite a bere difficilmente vi sbronzate a suon di Zacapa o Lagavulin, quanto più probabilmente con l'ultimo dei cocktails d'asporto a buon mercato, per la legge secondo me legata a vita ed esperienza che è sempre meglio un bicchiere mezzo pieno che mezzo vuoto, e perchè quell'una - o poche - eccezioni danno un senso a tutte quelle che non lo sono, e viceversa.
O forse, semplicemente, è giusto che nel corso di una vita ci siano alti e bassi, che poi non è mai detto che la pancia sia necessariamente peggio del cervello - Swiss Army Man, e ho detto tutto -.
Dunque, quando è giunto sugli schermi del Saloon uno dei film più celebrati dalla comunità cinefila "alta" dell'anno appena trascorso - in realtà visione e post sono datati novembre duemilasedici -, ho sperato che si trattasse di uno di quei casi in cui l'opera in questione finisce per essere talmente grande da mettere d'accordo perfino questo vecchio cowboy e Cannibal come erano ai bei tempi, tanto per dire.
Purtroppo, Elle non rientra in quel ristrettissimo novero.
Dico purtroppo perchè non parliamo di un film spocchioso, o mal realizzato.
Perchè al timone c'è Paul Verhoeven, uno a cui io voglio parecchio bene.
Perchè a reggere le fila dovrebbe esserci un mostro sacro come Isabelle Huppert, forse il vero volto della delusione - troppo tronfia, sopra le righe, per essere brava come senza dubbio è -.
Eppure, non ho davvero trovato un senso, se non quello di piacere ad un certo tipo di pubblico o di critica, a questo film.
Non è un thriller, non è un'indagine approfondita su qualcosa che possa sconvolgere, non è una critica alla società "borghese", o forse è tutte queste cose messe insieme.
Eppure manca dell'ironia nera del primo Almodovar, della genialità di Bunuel, dell'allucinazione di Lynch.
Elle è un "vorrei ma non posso", è l'essere profondamente stronza della sua protagonista ed il sesso vissuto solo ed esclusivamente attraverso la violenza con "l'antagonista".
Ma, almeno qui al Saloon, non amiamo il fumo negli occhi e le discussioni da analisti.
Io voglio la pancia, "sentire" la pellicola, voglio avere il brivido di Eyes Wide Shut, non osservare o subire una provocazione che, a conti fatti, non mi provoca perchè trasmessa poco o nulla perfino da chi la porta sullo schermo.
E, volendo proprio fare le pulci, non ho trovato granchè scrittura e logica.
Nel corso delle ultime stagioni, ci sono stati film d'autore che ho odiato profondamente - su tutti, Kynodontas - ma che in maniera oggettiva ho sempre considerato straordinari.
Elle, come scrivevo poco sopra, non fa parte del novero.
E non riesce neppure a rientrare nella categoria dei pipponi che fanno incazzare.
E' come una brutta scopata.
Quelle che servono per dare senso a quelle belle.
Ed in questo, quantomeno ha la sua utilità, come un cocktail d'asporto economico per una sbronza.
Curioso che sia un risultato agli antipodi rispetto a quella che doveva essere la volontà dei suoi autori.




MrFord




 

venerdì 26 aprile 2013

Nella casa

Regia: Francois Ozon
Origine: Francia
Anno: 2012
Durata:
105'




La trama (con parole mie): Germain, professore insoddisfatto di letteratura dalle ambizioni di scrittore naufragate scopre di avere un potenziale talento letterario in classe, il sedicenne Claude.
Quest'ultimo, insinuatosi nella vita della famiglia apparentemente perfetta di un suo compagno di studi, finisce un passo dopo l'altro per entrare - in tutti i sensi - nella casa non solo degli Artole, queste le borghesi vittime bersaglio dei suoi scritti, ma dello stesso professore e di sua moglie, completamente sedotti dai racconti del giovane scrittore.
Il rapporto tra insegnante ed allievo e quello dello stesso allievo con i protagonisti del suo lavoro finirà per cambiare le vite di tutti, così come quello che, di fatto, da gioco al massacro della classe borghese diverrà uno specchio pronto a condurre ad un'analisi di se stessi rispetto alla società i suoi protagonisti.




Francois Ozon è decisamente un'eccezione, qui al Saloon.
Il regista francese classe 1967, infatti, rappresenta in tutto e per tutto la quintessenza del radicalchicchismo, dalle scelte stilistiche all'approccio, dal gusto alla messa in scena, eppure non c'è un solo titolo tra quelli della sua filmografia che abbia avuto modo di vedere fino ad ora che mi abbia deluso: una vera rarità, considerata la passione che continuo a coltivare per le bottigliate rifilate quanto più spesso e volentieri possibile ai cineasti snob ed amati da quella fetta di pubblico che di norma neppure troppo cordialmente detesto.
Eppure il tocco dell'autore parigino, tra i pochi nel panorama attuale della settima arte a riuscire a sposare alla perfezione Teatro e Cinema, ha il potere di superare ogni barriera pregiudiziale e, sfruttando una sempre sagace ironia di fondo, conquistare inesorabilmente a prescindere dal suo background: dallo splendido Sotto la sabbia al divertissement d'autore 8 donne e un mistero, passando per il toccante Ricky - Una storia d'amore e libertà, Ozon si è saputo confrontare, fin dagli inizi della sua carriera, con generi anche molto diversi tra loro riuscendo sempre a farli propri.
Non è da meno questo sorprendente Nella casa, uno dei titoli più interessanti tra quelli usciti in sala in questa prima parte dell'anno nonchè in grado di mettere d'accordo perfino due nemici giurati come il sottoscritto ed il Cannibale, entrambi pronti a riconoscere l'assoluto valore di questa intrigante favola nera dai risvolti di critica sociale: perfino Julez, normalmente più refrattaria all'autorialità fine a se stessa ancor più di questo vecchio cowboy, si è ritrovata completamente catturata da uno script ad orologeria che mescola l'analisi da palcoscenico del salotto borghese ad un incedere da thriller inchiodando alla poltrona l'audience tanto quanto il professor Germaine, passo dopo passo stregato dalla cronaca che il suo giovane allievo Claude porta su carta a testimoniare il progressivo insinuarsi di quest'ultimo nel cuore del nucleo della famiglia Artole, imponendosi dapprima su Rapha figlio, dunque su Rapha padre e completando l'opera con l'inizialmente scettica Esther - un'ottima Emmanuelle Seigner -.
L'alternanza del racconto e delle vicende ambientate nel presente di narrazione, inoltre, contribuisce a rendere ancora più appassionante l'evoluzione della storia, sfruttando almeno un paio di twist clamorosamente ad effetto che rendono benissimo l'idea del potere che lo scrittore ha rispetto ai suoi personaggi: come se non bastasse, l'anima nera e politica del lavoro di Ozon prende forma colpendo allo stesso modo sia le "vittime" di Claude che lo stesso giovane ed il suo professore, almeno sulla carta carnefici, sconvolgendo il primo dal punto di vista sentimentale ed il secondo minando lo status sociale che gli permette in qualche modo di sfruttare il potere della contestazione - come nel caso dell'istituzione scolastica e del preside del liceo in cui lavora, o rispetto alla questione dell'introduzione delle divise per gli alunni -.
Eppure, nonostante tutto, la carica voyeuristica del ruolo di deus ex machina di una storia non si ferma neppure di fronte al dramma e alla sconfitta, e per Germaine e Claude continua a pulsare nelle vene e nel cervello la passione per l'elaborazione ed il ruolo di interpreti delle "vite degli altri" - per citare l'ottima citazione di Poison - a comporre un quadro in movimento che chiude splendidamente la pellicola aprendone, almeno in potenza, centinaia di altre, in un gioco che strizza di nuovo l'occhio al Teatro e al concetto che fu la base di pietre miliari come La finestra sul cortile o della poetica di registi come Brian DePalma, da sempre influenzato dal suo lato "Peeping Tom", per usare un'ulteriore citazione cinematografica.
Un lavoro intelligente, funzionale, coinvolgente, teso tanto da sfiorare il thriller in più di un'occasione quanto divertente e noir sulla scia delle prime commedie targate Almodovar, teatrale nell'approccio eppure estremamente cinematografico nella resa conclusiva, profondamente francese e radical chic ma mai spocchioso o supponente, ben interpretato e soprattutto giocato su una sceneggiatura davvero esemplare: complimenti dunque ad Ozon, architetto di questo gioiellino destinato a risultare come uno dei titoli d'essai più interessanti di questo 2013 nonchè di una delle rarissime proposte in grado di unire gli alfieri del pane e salame ed i salottiani del radical chic.


MrFord


"I used to explode, I never let go
I let the tec go back because I said so
yeah I'm a hoodlum, but I'm a good one
so punks gunnin for my run I wish they would come."
Run DMC - "In the house" -


martedì 25 ottobre 2011

Melancholia

Regia: Lars Von Trier
Origine: Danimarca
Anno: 2011
Durata: 136'


La trama (con parole mie): Justine e Michael si sono appena sposati, felici e contenti e pronti a farsi due risate nonostante il loro ritardo al ricevimento del matrimonio a causa di una limo troppo ingombrante per i tornanti che portano al fiabesco eremo dove li attendono parenti ed amici.
Peccato che, appena arrivati, la sposa diventi una depressa completamente imprevedibile cui non frega più nulla di quello che ha attorno, più che altro perchè c'è qualcosa di molto più importante, ad attendere la Terra.
Qualcosa che si chiama Melancholia.
Un pianeta venuto da chissà dove che piove dritto dritto sulle nostre teste, pronto a seminare distruzione nella vita borghese e tutta certezze della sorella tutta d'un pezzo Claire, moglie del fu Jack Bauer, ex uomo d'acciaio improvvisamente convertito ad astronomia e cagasottismo.




Permettetemi di parafrasare L'attimo fuggente.
Escrementi.
Ecco cosa penso del Cinema attuale di Lars Von Trier.
Ho appena concluso la visione di quello che, da parte di molti, in questi giorni, ho letto essere considerato un Capolavoro.
Mi ci sono voluti un bel pò di patatine, altrettanta Coca Cola e molto, molto più Jack Daniels.
Non tanto perchè fosse noioso - e lo è stato, senza se e senza ma -, o perchè la tanto celebrata Dunst non sia stata minimamente all'altezza delle sue interpretazioni migliori.
Non tanto perchè il buon Lars passi le due ore e oltre della pellicola a smanettarsi di fronte al seno della suddetta.
Non tanto perchè pare quasi di avere di fronte un figlio di papà che più borghese non si potrebbe tentare - senza successo, peraltro - di disconoscere la sua natura.
Più che altro perchè Melancholia è l'ennesimo tentativo di riportare Kubrick in sala cercando di dimostrarsi l'erede ultimo di quello che è stato uno dei più grandi registi di tutti i tempi.
Ci aveva già provato, con risultati decisamente negativi, anche Malick, qualche mese fa, in occasione dello stesso Festival di Cannes che ha visto Von Trier cacciato per le sue inutili sparate da esibizionista dall'ego troppo grande perchè il talento possa sorreggerne le ambizioni.
E dove ha fallito Malick, dal sottoscritto sempre profondamente amato, cosa poteva fare il povero Lars, autore di uno degli scempi cinematografici più clamorosi di tutti i tempi - per chi non lo sapesse, Antichrist -?
Niente, è la risposta.
Tant'è che Melancholia si rivela pessimo fin dall'incipit, che cerca di ricalcare l'unico barlume di talento intravisto nel crimine contro il Cinema citato poco sopra: una sequenza terrificante di immagini random che vorrebbero sconvolgere lo spettatore - o creare aspettativa - di quello che si rivelerà poi la pellicola: un'interminabile attesa del momento in cui Melancholia metterà fine alle sofferenze dello spettatore, intrappolato in un incubo che rimanda - oltre a Kubrick - all'Altman di Un matrimonio e a Bergman, ovviamente senza raggiungere neanche per scherzo i livelli di Maestri che l'ex profeta del Dogma potrà solo e soltanto continuare a sognarsi, almeno quanto le tette della Dunst, che insegue per buona parte della pellicola e sfodera per il suo - e di numerosi spettatori - piacere in una scena che sfiora per ridicolo le peggiori della sua indecorosa opera precedente.
Infarcito di terrificanti prese di posizione - siamo soli nell'universo perchè io lo so - e da una spocchia che vorrebbe tanto, ma proprio tanto, sconvolgere quelli che sono i dogmi - per l'appunto - della più "buona" società di cui il regista è il primo e più importante esponente - un pò come il suo irritante cast, Rampling e Hurt su tutti -, a Melancholia non basta l'attesa, ma desidera ardentemente che noi martiri in sala si vada fino in fondo: in questo senso, diviene agghiacciante ed involontariamente ridicola tutta la prima parte dedicata alla festa del matrimonio, preludio di una ancora più terribile seconda metà completamente dedicata all'apocalittico arrivo del pianeta "nascosto" pronto a cancellare la nostra esistenza dall'universo - e se non c'è nessuno a parte noi, chi se ne fregherà mai, dico io!? - nel corso della quale le due sorelle protagoniste danno libero sfogo all'agghiacciante approccio del regista, neppure per un istante sincero o sentito.
Tutto, in questo film povero e traboccante ego, è vuoto ed assolutamente lontano a quello che dovrebbe essere il grande Cinema.
Le uniche cose azzeccate paiono essere il "bacio" tra i due pianeti nel delirio dell'incipit e la presenza di Antares e del "mio" scorpione.
Ne avevo già parlato, in occasione di Drive.
Lo scorpione non perdona.
E adora pungere le sue rane.
Specialmente quelle che pensano che il loro saper nuotare implichi, in qualche modo, il fatto di essere prescelte.
E a voi anfibi insignificanti dico: la vostra grotta magica non vi servirà.
Se questo mondo cattivo di cui tanto avete paura dovesse essere schiacciato da questo piccolo pianeta melanconico, finirete in polvere come tutti noi.
A proposito della grotta magica: ancora rido, cazzo.
La grotta magica.
E di nuovo ho Antichrist davanti agli occhi.
Fortunatamente solo per un istante.
Perchè poi penso alle tette della Dunst.
E al fatto che Von Trier deve averle desiderate oltre ogni limite. 
Ma c'è un ma.
Von Trier, per loro, l'avrà sempre davvero molto, molto piccolo.
E puzzolente.
E la macchina da presa - mi spiace per te, Lars -, non potrà mai essere un surrogato valido.

MrFord


"La noia è come il blues ti fa pensare a dio
leggera come un gas che penetra il tuo io
la noia è nostalgia di un posto che non c'è
è voglia di andar via da tutti e anche da te
è la malinconoia che uccide a questa età
è il cuore che si scuoia cercando quel che ha già
e il cielo cade giù con la sua tenda buia
e non esisti più nella malinconoia."
Marco Masini - "Malinconoia" -




lunedì 10 ottobre 2011

Carnage

Regia: Roman Polanski
Origine: Polonia/Usa
Anno: 2011
Durata: 79'



La trama (con parole mie): i Longstreet e i Cowan, due coppie della borghesia medio/alta di New York, si incontrano nell'appartamento dei primi per discutere delle conseguenze dello scontro tra i loro figli pre-adolescenti.
Il rampollo dei secondi, infatti, a seguito di una lite ha colpito il coetaneo con un bastone provocandogli la rottura degli incisivi anteriori ed un trauma fisico che ha lasciato sconvolti i suoi genitori.
Il dialogo, nato come una pacifica analisi del problema, degenera inesorabilmente scoprendo tutti i nervi di una società inevitabilmente basata sull'ipocrisia e sulla menzogna, scatenando le neppure troppo sottili cattiverie degli adulti nel profondo completamente disinteressati alle vicende che hanno coinvolto i loro stessi figli.



Ebbene sì, avete visto bene.
Lo dico chiaro e tondo, tanto per non creare equivoci di sorta: credo che Carnage, opera ultima del grandissimo - e resta tale, sia chiaro - Polanski sia inequivocabilmente, inesorabilmente, assolutamente sopravvalutata.
Certo, resta un film ben fatto, portato in scena con la mano fatata di un grande regista e pervaso da tutta la magia della teatralità, interpretato discretamente - e non, come è stato scritto quasi ovunque, in maniera magistrale: Waltz e la Winslet ci hanno abituati a ben altro -, reso tagliente da tutta la forza di una sceneggiatura legata a doppio filo ai limiti e alle miserie che, in quanto appartenenti all'umanità "civilizzata", ci vede coinvolti in prima persona a prescindere dal nostro grado di "bontà".
Eppure, nel corso di questi ottanta minuti scarsi di apparente - ma neppure troppo - violenza pare quasi di assistere ad una messa in scena simile a quella che i protagonisti portano nei loro salotti finto cortesi da the pomeridiano, tanto da farmi pensare che, nella stessa situazione e con la stessa materia tra le mani, Haneke o ancor più il Maestro Bunuel avrebbero potuto davvero portare sul grande schermo un'opera terrificante in grado di incidere così tanto il cuore dello spettatore da non poter più essere dimenticata.
Polanski - che nello stesso genere aveva fatto sicuramente molto meglio con La morte e la fanciulla -, pare inesorabilmente accecato più dal suo stesso mestiere che non dalla voglia di comunicare il disagio che dovrebbe portare il cosiddetto "dio del massacro" nei cuori degli spettatori, e finisce per perdersi in citazioni evidenti del suo collega austriaco - l'apertura ed il finale, soprattutto - e nella libertà d'azione fornita al grande cast, così grande da smarrirsi in gigionerie di classe che, senza se e senza ma, restano gigionerie.
Non so se, rispetto a questo mio giudizio, sia stata l'aspettativa altissima a lasciare l'amaro in bocca a fine visione, ma ammetto di essermi anche tendenzialmente annoiato a tratti di fronte ai fiumi di parole che i protagonisti riversano sull'audience senza, tutto sommato, sconvolgere quanto vorrebbero mostrando una cattiveria che, a mio parere, è già ben evidente nella realtà che ognuno di noi vive quotidianamente all'interno dell'intricata matassa di relazioni sociali che intratteniamo con vicini, colleghi, capi e quant'altro.
Dunque, il cinismo irritante di Waltz - l'uso del cellulare, pur non essendo originalissimo, mi è parso come uno degli spunti più interessanti dell'intero lavoro nella contrapposizione tra l'irritazione degli altri personaggi e le risate suscitate negli spettatori ad ogni nuovo squillo -, la presunzione democratica della Foster - sicuramente la più ispirata del quartetto, oltre che, decisamente, la più clamorosamente irritante -, i tentativi di cortesia di grana grossa di John Reilly - che meriterebbe molto più del consueto ruolo da spalla - e la nevrosi galoppante della Winslet, più che stupire o sconvolgere, diventano lo specchio rassegnato di una società che ha già passato, purtroppo, il momento dello stupore a fronte dei suoi nervi scoperti, e che rischia di non reagire di fronte ad un'opera come questa, che vorrebbe essere geniale e sconvolgente, e risulta soltanto come un tentativo già vecchio di abbattere mura che sono ormai troppo fortificate per assalti come questo.
Per quanto mi suoni strano, anche considerato il fatto che Carnage è stata una visione certamente più interessante e goduta dal sottoscritto, a fronte di qualcosa come Kynodontas questo lavoro di Polanski perde tutta la potenza devastatrice cui ambirebbe, e finisce per restare imprigionato nel troppo poco soddisfacente campo degli esercizi di stile fini a se stessi.
Un pò come i suoi protagonisti, che piangono sul giorno "più infelice delle proprie vite" e finiscono per ridursi come criceti proprio mentre il roditore che speravano di avere eliminato - il tarlo della società? - riconquista la libertà, proprio di fronte ad un tacito accordo che i figli paiono aver ricevuto in eredità dai propri genitori - e futuri se stessi -.

MrFord

"Your cruel device
your blood, like ice
one look could kill
my pain, your thrill."
Alice Cooper - "Poison" -
 
 
 
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